IL MEDICO: SACERDOZIO – ARTE – PROFESSIONE – MESTIERE – Dr. Luigi Oreste Speciani

Minerva Medica, 1960

Il materiale documentario per questo saggio, nato da un’inchiesta apparsa sul quindicinale “Il Carroccio Medico”, è stato raccolto di prima mano dall’autore nella sua multiforme attività medica, che va dalla ricerca scientifica alla libera professione, dallo studio dei problemi sociali al giornalismo.

Grazie a questa inconsueta ampiezza di informazione vissuta il libro riesce ad offrire un panorama spesso imprevedibile, anticonformista, talora spregiudicato, ma sempre affascinante e soprattutto vero, della controversa realtà medica attuale, la cui crisi evolutiva interessa non solo i medici e gli studenti, ma anche i pazienti e la comunità sociale nel suo complesso.

Prefazione

trascrizione di Mila Speciani

Lessicalmente «mestiere», nonostante la nobile origine dal vocabolo latino «ministerium», significa arte manuale esercitata per vivere e, nelle arti liberali, «quella che si esercita non con anima e ingegno, ma quasi meccanicamente e per solo lucro».

Nessuno dunque desidererebbe avere al suo fianco nel momento della sofferenza e nell’angoscia di una minacciosa malattia, un medico che della propria arte abbia fatto «mestiere»: e nessun vero medico accetterebbe per la propria professione, abbracciata con giovanile purezza di propositi, una così cruda ed avvilente definizione.

Ma a chi fosse turbato dal titolo che il dott. Speciani ha voluto scegliere per questo suo, saggio appassionato e coraggioso, con l’intento di stigmatizzare un pericolo in atto più che di introdurre un discorso polemico, non posso che consigliare la pensosa lettura di queste pagine dalle quali scaturisce un serio grido di allarme contro il declinare dell’arte medica verso un tecnicismo sperso­nalizzato e socialmente pernicioso.

La problematica che l’A. affronta va tuttavia al di là del generico avvertimento e tende a cogliere con minuta analisi tutti gli aspetti che nella nostra società e nel momento attuale della nostra cultura insidiano il processo formativo tecnico-professionale e morale del medico e lo sviluppo della struttura di una assistenza sanitaria

INTRODUZIONE

Sacerdozio, arte, professione, mestiere: così, per tappe successive raggiunte in lento volger di secoli, salvo l’ultima recentissima e illecita, è decaduta la Medicina nell’opinione del mondo.

Il mestiere di medico, oggi, è un nodo gordiano di controverse opinioni e di pratici paradossi. Sui diversi piani dell’economia, della scienza, dell’etica, della deontologia, del prestigio sociale, della preparazione professionale, sul loro stesso numero, persino sul loro titolo qualificante, si può dire dei medici (e quasi solo dei medici) una cosa e il suo perfetto contrario, con la certezza di essere sempre nel vero, almeno in Italia.

Vogliamo degli esempi? Si dice che i loro guadagni sono iperbolici e scandalosi, ed ecco i concorsi pubblici d’ospedale a posti che offrono mensilmente un po’ meno di quel che la legge Conci impone per le “lavoratrici di case private”. Sono onorati come i salvatori del mondo, e insieme insultati dai pazienti con la discussione delle diagnosi e delle ricette. Sono considerati dei santi, ma anche degli sporchi arrivisti da trascinare nei tribunali. Istituiscono società deontologiche ed escogitano nuove formule di giuramento, mentre in realtà manca ai loro Ordini Professionali qualunque potere, non solo di coercizione ma di persuasione. Ricevono dai grandi della Terra i supremi onori, e sono nello stesso momento considerati come loro servi dai più bassi livelli umani. Escono dagli Atenei tutti quanti onusti di un titolo che in altre parti del mondo è privilegio di pochissimi eletti, e sono praticamente umiliati da un qualsiasi infermiere che sa fare meglio di loro un’iniezione o una fasciatura, solo perché a lui hanno insegnato a farle e agli studenti di medicina no.

Si dice che siano pletora e in Italia esistono oltre tremila centri abitati senza medico residente. Sono per definizione medici chirurghi, padroni per legge della vita dei loro simili, e capaci per decreto di laurea di indicare (se non personalmente di esperire) i modi medici o chirurgici di terapia e fra breve, se si insisterà nel distinguere rigidamente, in sede sia accademica sia applicativa, le infinite specializzazioni e superspecializzazioni che il progresso tecnico ha reso possibili, tutti i medici si vedranno retrocessi di colpo nella scala sociale.

Dalla dignità attuale, confusa ma ancora viva, scadranno al semplice ruolo di “tecnici della salute”, ciascuno con un campo di lavoro strettamente limitato e angusto; condizione non solo insoddisfacente ma, alla lunga, sicuramente dannosa per la corretta esplicazione di una buona Medicina.

L’arte medica, da sempre considerata, e giustamente,  come una felice sintesi mentale e operativa propria a individui singoli dotati di superiori capacità, finirà così con lo smembrarsi in una polverizzazione di albi chiusi professionali, simili a quelli degli engineers americani, che almeno sanno di essere solo degli operai specializzati, anche se guadagnano il doppio della media dei medici italiani.

Cos’è, infine, questa “professione medica” così contradditoria da spaventare, e che vede invece ogni anno nuove valanghe di adepti, attirati probabilmente da chissà quale antico miraggio e ai quali nessuno ha il coraggio di chiarire la situazione presente, nella sua realtà, evitando gli interessati pessimismi e le avveniristiche illusioni? Neppure la legge ci illumina. Infatti, secondo la giurisprudenza (Corte di Cassazione, Sez. III, 16-4-1953, in «Giust. Pen.», 1953, II, 700) essa “è caratterizzata dallo scopo cui è diretta, e cioè dal fine di curare gli infermi, con qualsiasi metodo e con qualunque mezzo che ciascun medico, avvalendosi delle proprie cognizioni culturali, ritenga opportune adottare nei singoli casi”. Ciò che significa, in parole povere, che neppure il Legislatore riesce a coagulare per essa un concetto ben definito, né, tanto meno, univoco.

La cosa può anche non stupire: significa tuttavia che il Legislatore non dispone in questo momento di elementi sicuri e stabili sui quali appoggiare il suo giudizio.

In verità, la Medicina (e la professione ne è solo una fugace espressione ambientale) sta ora attraversando una delle crisi più gravi della sua esistenza; il travaglio di questa crisi, che può dar vita a un fenomeno superiore oppure a un mostro teratologico (e fino ad ora le probabilità sono uguali, forse addirittura a vantaggio del mostro) interessa contemporaneamente l’interno della Medicina, e anche l’esterno.

Nell’intimo c’è crisi tra l’arte tradizionale e la tecnica ingigantita, crisi di equilibrio tra le funzioni, crisi di fiducia, di verità e di vocazione. All’esterno la crisi di rapporto rivela infiniti problemi piccoli e grossi, che tutti insieme possono essere riassunti in uno solo, fondamentale e di principio, che riguarda il modo di seguire senza troppe sofferenze e disastri e soprattutto conservando all’arte del guarire il suo significato, la fatale evoluzione della medicina da fenomeno di carattere individuale e di natura privata in un altro di carattere collettivo e di interesse pubblico.

Così, per capirci finalmente qualcosa, non resta che scegliere una strada diversa: studiare la professione nella sua esplicazione pratica, vedere come funziona e perché, e come si adatta all’ambiente o ne viene condizionata.

La sintesi ultima ci potrà dare, se non un universale, per lo meno le caratteristiche attuali d’uso o di funzione e potrà servire a delineare le esigenze minime che il mestiere, nella sua proiezione sul mondo moderno, richiede a quelli che intendono seguirlo.

Ciò comporta, di necessità, una ricerca analitica dei fattori interagenti, che sono l’ambiente comune al medico e a tutti gli altri uomini (il mondo indifferenziato dei sani); il malato; la medicina; il medico; l’atto medico; il rapporto professionale.

Queste varie “categorie” non sono fisse, ma variabili nel tempo. Negli ultimi cinquant’anni quasi tutte hanno assunto, per ragioni intime o d’ambiente, caratteri, forme, metodiche ed espressioni profondamente diverse dall’antico.

Sarebbe piuttosto facile, ma fors’anche intinto di faciloneria, sostenere che la crisi della medicina, e in particolare della professione medica, sia qual è, cioè grave e apparentemente insolubile, proprio perché essa vuole applicare, a una mutata realtà presente, schemi teorici e funzionali sorpassati o logorati dal tempo.

Probabilmente invece la realtà è alquanto diversa, e come sempre molto più difficile da interpretare. Gran parte della evoluzione che la Medicina ha subìto nell’ultimo cinquantennio, e che comprende il progresso tecnico in tutti i suoi settori, la conseguente impossibilità per un uomo singolo a dominarne le infinite espressioni particolari, il suo costo in progressivo aumento, e infine l’esigenza sociale della difesa della salute a spese della comunità, è in realtà solo forma ambientale e non sostanza. La sua sostanza è sempre l’uomo, l’uomo singolo, individuale e non ripetibile, nella sua duplice caratteristica di numero statistico sulla carta, ma insieme di sofferta umanità privata quando si ammala, guarisce o muore.

Il disagio moderno della medicina, e probabilmente il suo più serio peccato sociale, sta nel dimenticare troppo spesso questa realtà. Dentro la capsula spaziale non c’è solo la tecnica perfezionata, ma l’uomo che la condiziona per il successo o per la sconfitta; anche nel fondo della “medicina collettiva” o della “medicina strumentale” esiste l’uomo, sintesi di corpo e d’anima che come tale va inteso e avvicinato, e rispettato, sotto pena di insuccesso e di insoddisfazione privata e pubblica.

Per questa ragione è possibile che la crisi sia intervenuta, in medicina, non dal contrasto sostanziale tra la sua essenza tradizionale e quella “moderna”, ma dall’aver trascurato la necessità di approfondire sempre di più il lato interiore e metafisico dell’arte e i rapporti con l’uomo totale, man mano che la sua espressione esteriore si allargava. Al momento attuale esiste comunque uno squilibrio, ed è piuttosto urgente  riconoscerlo e mettervi rimedio. Per poter disporre degli elementi indispensabili al giudizio diventa così necessario, anche se faticoso, rivedere analiticamente la realtà moderna, almeno nei suoi rapporti con la medicina nelle sue varie forme e modalità.

Solo alla fine dell’analisi sarà lecito trarre delle conclusioni, interpretando con rigore sperimentale gli elementi raccolti, e soprattutto il loro significato. Ma, già in questo momento è possibile - e indubbiamente lecito - stabilire che le conclusioni dovranno concernere esclusivamente le modalità operative della medicina, e non la sua sostanza intangibile, di rapporto intimo e insostituibile dell’uomo con l’uomo.

La “medicina collettiva”, sia essa di gruppo privato o statale, ha edificato nel corso di alcuni decenni un corpus ormai quasi perfetto di schemi e regole e tabelle attuariali. Alla raggiunta perfezione sul piano organizzativo non corrisponde però, al momento attuale, una soddisfacente “erogazione” del bene per il quale gli Enti collettivi sono stati istituiti; il fenomeno non è locale, ma si estende senza eccezioni a tutti gli esperimenti finora compiuti nel mondo; dunque l’errore - se c’è - dev’essere radicale e profondo. E c’è: consiste nel dimenticare l’uomo, o nel considerarlo artificiosamente solo numero economico o statistico.

È stato recentemente scritto che “una buona Medicina (collettiva) è fatta per un terzo da buone medicine e per due terzi da buone leggi”; dov’è dunque l’uomo, in essa? L’uomo medico e l’uomo malato, intendiamo, in quale ulteriore inesistente “terzo” vengono confinati?

Proprio per questo spirito di soddisfatto formalismo esteriore, che rifiuta di scendere alla radice dei fenomeni, la Medicina è malata. Sia quella collettiva per lo schermo dei numeri e degli inquadramenti, sia quella “strumentale”, per l’ingombro eccessivo e maldigerito della tecnicizzazione ipertrofica.

Dunque sarà questione di studiare, e al caso di modificare, le presenti metodiche applicative, per adeguarle all’essenza antica della Medicina. E non, mai, il contrario.

Perché, se accadesse questo, la Medicina puramente nominale finirebbe con l’usurpare, nel suo intimo, una delle più importanti conquiste dell’umanità: cioè quello stimolo affettivo primordiale che sospinge a chinarsi sul proprio simile sofferente, ed è la sola caratteristica sociale che distingue l’uomo dagli animali.

LA MEDICINA

Il progresso è scomodo

La storia della Medicina dimostra che l’arte medica ha prodotto le figure più brillanti di clinici e di diagnosti nei periodi di relativa stasi scientifica. A rifletterci bene, non stupisce affatto che l’epoca aurea dei dottissimi consulti a quattro, cinque o dieci fosse proprio quella in cui, dopo interminabili discussioni infarcite di latino, di greco e di arabo, la cura consigliata, vincessero gli iatrochimici, o gli iatromeccanici o i vitalisti, era in ogni caso unica: salasso e purga.

Ma vi è di più, cioè, per quanto possa sembrare paradossale, lo stesso paziente ne ricavava un vantaggio.

Infatti, solidamente ancorato a teorie ritenute esatte in lungo volger di secoli, e sicuro in ogni caso della terapia che avrebbe in seguito applicata col consenso unanime dei colleghi e dei pazienti, il medico poteva dedicare quasi tutto il suo tempo allo studio personale e individualizzato del suo particolare malato, contribuendo in larga misura, durante il decorso della malattia, ad aiutarlo spiritualmente conferendogli la sua stessa tranquilla fiducia nei poteri di guarigione. La suddetta fiducia, pur nella scarsezza e nell’inadeguatezza dei mezzi di cura, veniva puntualmente confermata nella maggioranza dei casi, soprattutto perché, quando non sia disturbato nella sua ripresa da erronei interventi esterni, è statisticamente accertato che l’organismo umano supera, assolutamente da solo, almeno due terzi delle malattie che lo possono colpire (non per nulla è ancor oggi valido, e lo sarà sempre, l’aforisma ippocratico del «Primum non nocere».

Infine, considerando le poche e spuntate armi di cui disponeva, nonché l’intimo convincimento che la sua «scienza» (nella quale il malato riponeva totale fiducia) era in realtà una massa di tradizioni e di teorie spesso contraddittorie, il medico antico si sentiva sospinto al fianco del paziente e sul suo medesimo piano, nella lotta contro il mistero del male, che veniva perciò condotta in umiltà ed era permeata di dedizione. Dal che nasceva immediatamente un sentimento profondo di solidarietà umana assai favorevole, comunque andassero le cose, al mantenimento di una fiducia basata sulla mutua comprensione, sulla considerazione e la gratitudine verso il curante, sul rispetto e l’amore verso il sofferente.

In grazia di questo atteggiamento spirituale, mantenutosi di necessità quasi universale fino all’inizio dei tempi veramente «scientifici», la Medicina aveva conservato il riflesso, sia pure sempre più pallido nei secoli, della investitura semideistica propria dello stregone e dello sciamano, cioè all’unico uomo di tutta la tribù che aveva il coraggio di avvicinarsi al malato per opporsi, con le sue sole forze, alla «collera degli Dei» mentre gli altri, capo compreso, si allontanavano presi dal terrore.

L’antica dignità

Ne deriva logicamente, in caso di guarigione, l’attributo allo stregone di una potenza uguale a quella degli Dei sconfitti, e una dignità preter-umana o almeno sacerdotale, assai spesso superiore, sebbene su un piano diverso, a quella strettamente naturale del capo tribù.

Con la fondazione della scienza, questo carattere è stato progressivamente perduto dalla Medicina, e sostituito, man mano che le conoscenze mediche si organizzavano in teorie sempre più logiche e generali, da un continuo accrescersi della «coscienza scientifica». Questo fenomeno ha conferito una nuova e tutta umana superiorità al medico nei confronti del malato, ma come fatale contropartita ha reso sempre più difficile l’immediato contatto spirituale tra i due, per la progressiva scomparsa di quell’amore che il grande e controverso Paracelo poneva invece, definendolo «charitas et pietas» alla base stessa della professione medica.

La carenza di amore nell’atto medico è ormai divenuta quasi una necessità, mentre la sua importanza non è così trascurabile come si crede: le statistiche dei brefotrofi, dove l’igiene e l’assistenza sono ineccepibili, segnano quote di complicanze e di mortalità, nelle malattie infantili, assai più alte di quelle domiciliari per gli stessi casi. Ciò che manca nei brefotrofi, ed è invece offerto dalle madri in tale quantità da compensare eventuali inefficienze igieniche non è altro, appunto, che l’amore dato e ricevuto.

Ed oggi finalmente, in colpa della troppo orgogliosa scienza e della troppo poca umanità, il ciclo sta per chiudersi su se stesso: i tempi moderni e gli ultimi anni in specie hanno recato una massa tale di conquiste chimiche, biochimiche, chemioterapiche, ormonali e psicosomatiche da mantenere allo stato perennemente fluido gli stessi concetti basilari della Medicina, creduti immutabili per decine di secoli. Ne risulta che persino di fronte ai fondamenti della sua arte, ogni medico meno che superficiale si trova in condizioni di insicurezza e bisognoso di un continuo aggiornamento, che non può tuttavia concedersi in misura sufficiente, distratto com’è dal convulso «surmenage» della pratica professionale.

Medicina facile

Inoltre i potentissimi medicamenti moderni, che sembravano aprire le porte ad un’era di medicina «facile» dove la terapia, in ogni caso efficace, avrebbe potuto precedere lo sforzo diagnostico, hanno persino cambiato alcune delle malattie descritte classicamente come invariabili nei testi, né basta sapere che la patologia è oggi modificata dagli antibiotici, per potersi orientare d’un colpo sull’esatta diagnosi.

Una volta, per esempio, la polmonite veniva diagnosticata con comodo sui rilievi di percussione e di ascolto, che procedevano di pari passo durante diversi giorni, man mano che la zona di polmone infiammato s’induriva e si riempiva di essudato, o ancora oltre, quando lentamente si riassorbiva l’essudato, e il respiro riaffluiva negli alveoli; e un segno esterno importante dell’affezione era l’herpes labiale, che segnalava al medico la reazione di difesa dell’organismo. Oggi, appena uno si mette a tossire e ha la febbre, di propria iniziativa si imbottisce di sulfamidici, e magari anche di penicillina, prima di chiamare il medico; e questi si trova di fronte a un quadro complesso, nel quale il più delle volte i diversi sintomi non concordano come dovrebbero.

Così il medico pratico di oggi, di fronte alle difficoltà sempre crescenti della professione, rinnova spesso il medesimo atteggiamento di sfiducia in se stesso che sembrava un superato «handicap» del suo antico collega. Ma disgraziatamente non sa più valersi, per difetto di abitudine, di educazione e di tempo, delle ampie risorse umane, delle quali si nutriva un tempo la stima e il rispetto verso il curante, di tale grado ed intensità da mantenersi inalterati qualunque fosse l’esito della cura.

Quel che è peggio, la «crisi di sicurezza» è spesso avvertita dal malato, in grazia dell’acutezza che lo stato d’infermità conferisce ai sensi, e da lui viene per lo più interpretata, grossolanamente, nel senso univoco di «incertezza». Ciò è tanto più facile quanto più largamente il paziente si è nutrito, sulla stampa ebdomadaria o quotidiana, di frammentarie ed elementari nozioni del suo male particolare, tanto chiaro da capire e tanto facile da guarire, almeno nell’aulico periodare di qualche incosciente scribacchino.

Così accade che, superficialmente saccente, ma in fondo ignaro affatto del travaglio di spirito e di tecnica che conduce oggi a una diagnosi esatta e soprattutto confermabile da altri a distanza anche breve di tempo, l’infermo giunge a criticare l’operato del medico per le più opposte ragioni: se scrive medicine banali e di poco prezzo perché «non conosce le cure nuove»; se ne scrive troppe e costose perché «esagerato»; se non fa esami perché «cura all’antica»; se ne fa molti perché «tormenta inutilmente il povero malato», e via di seguito.

In persona del suo rappresentante più vicino al pubblico, il medico pratico, la medicina paga con ciò lo scotto della perdita progressiva dell’umiltà.

«Quantizzare» analiticamente i rilievi obiettivi è stata la base di partenza per lo sviluppo scientifico della medicina, e costituisce ancora oggi il fondamento della diagnosi e la conferma della terapia.

Ma si ripete purtroppo anche nell’ambito della medicina la cattiva sorte che il progredire della civiltà delle macchine ha donato all’umanità: le conquiste tecniche sempre più avanzate ingenerano il «tecnicismo» e gli uomini, invece di dominare per mezzo delle macchine, ne subiscono, oltre al fascino, anche la dittatura.

Il tecnicismo

In campo sanitario questo atteggiamento ipocritico (dal quale restano immuni pochi spiriti eletti, che probabilmente sarebbero stati grandi medici anche in altre epoche) ha condotto a diversi sviluppi, tutti egualmente perniciosi:

  1. la specializzazione e l’ultraspecializzazione;
  2. il mito dell’infallibilità dei mezzi tecnici e dei loro referti, tanto più radicato quanto meno ciascun medico ne ha diretta conoscenza (e con ciò l’esatta nozione delle possibilità di errore), che quindi raggiunge logicamente la sua massima esasperazione nei profani;
  3. come conseguenza, l’abdicazione frequente del medico ai suoi mezzi umani, considerati a torto insufficienti e «tecnicamente obsoleti» di fronte a quelli extraumani;
  4. la difficoltà di riassumere in una sintesi operativa la mole crescente dei risultati parcellari raccolti con gli esami complementari (nella prescrizione dei quali la moda momentanea e le simpatie del paziente giocano talvolta un ruolo poco dignitoso), ciò che allarga enormemente il numero degli elementi da interpretare, moltiplicando - secondo che insegna la statistica - l’errore probabile;
  5. la frattura, ogni giorno più larga, tra scienza medica e pratica professionale. Qualcuna di queste categorie, soprattutto la prima, la terza e la quinta, meritano una trattazione meno schematica.

La specializzazione

Siamo tutti d’accordo sul fatto che lo sviluppo esponenziale dimostrato nell’ultimo cinquantennio da ogni branca dello scibile umano (e in particolare da quello medico), ne renderebbe impossibile il dominio anche ad un odierno Pico della Mirandola. Da qui insorge la necessità della specializzazione tecnica, quale esigenza preliminare affinché tutte le infinite applicazioni, per esempio della medicina, alla vita sociale, alla salute, alla malattia, ricevano l’adeguato approfondimento.

Ma se la «divisione del lavoro» è fruttuosa sul piano scientifico e di studio, la sua trasposizione nel piano pratico è foriera di conseguenze spiacevoli.

La medicina specializzata, partita originariamente dalla suddivisione degli apparati, è giunta ormai a quella di organo o addirittura di parcelle topografiche (proctologia, ecc.)

Con ciò le riesce ogni giorno più difficile di sfuggire al pericolo di un esclusivo meccanicismo, e a quello di trascurare la correlazione del danno locale con l’integrità organica e psichica della persona umana.

Di fronte ai referti di analisi, che assumono spesso per malinteso rigore scientifico, la veste di algoritmi sempre meno comprensibili per il medico pratico, questi soggiace, abbastanza facilmente, ad un vero complesso di inferiorità tecnica; né vi è da stupirsi considerando la somma di esami che «si possono» compiere sui malati moderni.

Quanti «esami»?

Ecco un caso semplice e diffuso: l’iperteso. Se il curante vuole evitare il rischio di restare interdetto di fronte alla cortese sufficienza di un eventuale consulente, che gli richiederà proprio i risultati di quelle analisi sofisticate alle quali non aveva ricorso, dovrà, secondo i moderni dettami scientifici, sottoporre il paziente ad oltre una quarantina di esami, i referti dei quali gli saranno probabilmente chiari, almeno in parte, come se fossero redatti in cinese.

La lista, sicuramente incompleta, può comprendere: esame clinico completo; pressione arteriosa; oscillometria; misura della fragilità capillare; radiografia cardioaortica; elettrocardiogramma, balistocardiogramma; esame neurologico; esame endocrino; campo visivo; pressione oculare; esame del fondo oculare; esame chimico completo dell’urina; eventuali albuminuria e glicosuria; sedimento urinario; azotemia; concentrazione ureo-secretoria; rapporto emato-urinario di Cottet; coefficiente di Van Slyke; diuresi provocata secondo Vaquez; esplorazione della funzionalità glomerulare; test di Volare; pielografia; test del freddo; test posturale; test del sonno; test del tetraetile; colesterolemia; glicemia; cloremia; uricoemia; protidemia; metabolismo basale; esame emocromocitometrico e formula; R.W. e collaterali sul sangue e liquor; prova dell’istamina; prova della dibenamina; prova del regitin.

Tutto questo, naturalmente, nel caso eccezionale in cui nessun organo risulti per suo conto sofferente, altrimenti per ciascuno di essi c’è pronta un’altra consimile serie.

Il medico generico può compiere solo i primi due o tre esami; sia per il numero sia per l’apparente importanza, è la folla degli altri a prevalere. È possibile dunque che il curante, il quale conosce le sue limitatezze umane, e crede tanto più infallibili i referti delle analisi quanto meno li sa leggere, giudichi erroneamente trascurabile il suo apporto personale al rilievo degli elementi diagnostici. Ciò conduce a poco a poco alla trascuratezza dei rilievi clinici (comoda oltretutto per il risparmio di tempo) e quindi, fatalmente si arriva ad una conferma della loro inefficacia, chiudendo con ciò il circolo vizioso di un equivoco paradossale.

Così, come conseguenza di questa ingiustificata petizione di principio, una quota sempre più larga di medici va perdendo quella peculiare finezza di sensi e di rilievi che permetteva ai grandi Clinici del passato (ma anche ai loro Assistenti educati con passione e costanza) le diagnosi quasi miracolose, che oggi raggiungiamo con maggior fatica e con oneroso dispendio di mezzi.

È come un serpente che si morde la coda; la medicina attuale fa di tutto perché l’aratro mentale dei medici pratici si arrugginisca. Che meraviglia dunque ch’esso non brilli più come prima, e tagli assai meno profondo?

Gli equivoci e le antinomie della medicina moderna

Chiunque rifletta, con distacco impersonale, sullo stato attuale della Medicina, viene immediatamente colpito dalla impossibilità di inquadrare tutta la materia in un sistema logico omogeneo. Al di là del travaglio evolutivo, sia teorico, sia pratico, che investe ognuna delle sue multiformi espressioni, l’unico punto concorde ……………….. una per una e tutte insieme.

Questo, se su un piano logico si risolve in una babele semantica, sul piano pratico condiziona una serie di equivoci non risolti, fattori gravissimi di malessere per ciascun medico, di incoerenza e di disturbo per la Medicina. È assolutamente certo che se nessuno degli interessati, cominciando dai grandi responsabili, deciderà di dedicare del tempo e del cervello alla chiarificazione dei termini medici e dei fenomeni che gli stessi delimitano, il medico appena laureato continuerà come ora a essere gettato allo sbaraglio professionale senza idee guida, senza principi fondamentali, senza una preparazione, anche embrionale, a quello che veramente lo attende nella realtà, appena al di fuori dei portoni istoriati delle università.

Tanto per esemplificare i principali motivi di equivoco, e le antinomie più palesi, raggruppate eterogeneamente nel termine falsamente univoco di medicina, chi ha mai detto al neolaureato se la «strada» che esso ha scelto, e che crede ingenuamente identificarsi con la cura ed il sollievo del malato, debba intendersi come una scienza o un’arte, come una accademia od una professione, come un rapporto privato o come un servizio pubblico?

Arte o Scienza?

Oggi la medicina è tutto questo, e molto altro ancora; ma le scuole di «medicina» a che cosa singola, di questo universo, preparano?

A tutte, certamente no. A qualcuna certamente assai bene. Ma siamo sicuri che queste siano le più importanti, sia dal punto di vista statistico, sia da quello funzionale?

È proprio questo il nucleo da discutere, e da chiarire pregiudizialmente con la collaborazione di tutti.

Agli inizi del secolo, quando un numero ormai cospicuo di invenzioni e di tecniche cominciava ad essere applicato all’«arte del guarire» veniva spesso dibattuto l’argomento se la medicina fosse una scienza o un’arte; il dilemma nasceva dalla equivalenza dei mezzi umani e di quelli tecnici, presente nella medicina d’allora. Oggi, con l’espansione della medicina scientifica, il dilemma teorico si è risolto in una pratica antinomia.

Il sofisma antico risiedeva nel comprendere in un unico concetto («la medicina») tanto l’insieme delle nozioni che costituiscono la «materia medica», quanto l’applicazione delle medesime conoscenze al singolo malato. Il problema nuovo, ben più complesso di quello antico tutto accademico, sta nel determinare se, ed eventualmente in qual modo, sia possibile oggi raggiungere una soddisfacente sintesi operazionale tra le due distinte «medicine», senza che l’una venga soffocata o addirittura annullata, dalla prepotenza dell’altra.

È impossibile negare, al giorno d’oggi, che la «materia» della medicina sia della vera scienza, con qualche isolata riserva. Quando parliamo di «costanti biologiche» ci riferiamo oramai a dati quantitativi di valore non opinabile, e che, confermati dall’analisi statistica, rivestono la caratteristica di criteri assoluti sia in teoria, sia nella loro applicazione pratica allo studio di una «entità nosologica».

Il colloquio singolare

Ma l’esercizio pratico della medicina, cioè l’applicazione delle scienze mediche all’uomo individuale, per fini diagnostici e curativi che lo investono nella sua integrità corporale e psichica, è cosa totalmente diversa.

L’esame del malato, il suo interrogatorio, il modo di esporgli la diagnosi e il trattamento, la capacità di inspirargli la necessaria fiducia e , caso per caso, o la speranza nella guarigione, o la sopportazione del suo stato; la abilità a suggerirgli per gradi insensibili, nei casi disperati, il miracolo della rassegnazione e ad infondergli tuttavia ad ogni incontro una sempre rinnovellata tranquillità; in una parola il «colloquio singolare», fondamento peculiare dell’incontro professionale, resterà sempre la pratica di un’arte anche quando la scienza medica si sarà ancor più allargata e matematicizzata di adesso.

È appunto alle diverse capacità reattive del medico nel corso di questo incontro, ed alla sua abilità di armonizzarsi senza sforzo apparente con l’ambiente psichico ogni volta imprevedibile che avvicina, che debbono essere attribuite le differenze talvolta enormi di successo professionale, tra medici usciti dalla stessa scuola, cioè dotati di uguale preparazione scientifica.

È ben chiaro che il «successo», cioè l’abilità professionale, dipende assai più dalla personalità profonda piuttosto che dalla istruzione ricevuta, ma occorre anche ammettere, onestamente, che l’attuale ordinamento universitario trascura totalmente la fase professionale, e si dimostra in genere poco adatto alla preparazione strettamente pratica del neolaureato.

Non si fa qui riferimento alla penuria dei mezzi didattici, considerata dai più come l’unica ragione della crisi universitaria, e che invece ha il carattere di una semplice contingenza, anche se di lenta e faticosa risoluzione. Il problema di fondo è la natura ben più seria, e riguarda l’indirizzo generale degli studi, che – in quasi tutti i paesi d’Europa – è prevalentemente «accademico» cioè, almeno nell’intenzione, scientifico puro invece che «professionale».

Ora, se si considera la realtà statistica che solo il 6% circa degli studenti si dedica dopo la laurea alla ricerca o alla carriera di docente, risulta chiaro che il restante 94% è costretto ad imbottirsi di nozioni che in pratica non userà quasi mai e, all’incontro, dovrà costruirsi del tutto individualmente, in altra sede che non l’universitaria e sotto l’assillo della fretta, quella tecnica professionale minima, indispensabile all’esercizio pratico. Ciò viene compiuto (salvo i casi fortunati di frequenza ospitaliera) a spese dei primi pazienti, con molta fatica, inorganicità e pericolo di errori.

La condizione del 6% di «élite» non è, peraltro, più felice; essa soffre dello scarso approfondimento degli studi, dovuto all’enorme sciupio dei mezzi, pariteticamente distribuiti, pur senza alcuna utilità presente o futura, anche alla restante pletora di concorrenti al medesimo indifferenziato diploma.

Il problema è già stato praticamente affrontato in alcuni paesi, ma le soluzioni proposte non sono ancora soddisfacenti. Nell’U.R.S.S. la durata temporale e la profondità della preparazione sono già diversificate, e lo sono anche i titoli «medici» ai quali danno accesso. Ma il sistema, che presenta effettivamente dei vantaggi funzionali relativi a quel paese, sembra poco accettabile alla mentalità occidentale perché declassa estesamente la dignità e il prestigio del medico pratico, se non quello della Scienza Sanitaria e della ristretta cerchia dei suoi cultori.

In alcune università scozzesi si è pensato invece di inserire dei corsi di tecnica professionale nel piano organico degli studi di Medicina: in attesa di una radicale riforma di principio, questa metodica potrebbe dimostrare un suo valore contingente, contribuendo almeno a restringere l’attuale distanza tra lo studio e la sua applicazione alla realtà.

Comunque, se si vorrà por mano a una riforma strutturale o funzionale dell’insegnamento, occorrerà tener conto di questa fondamentale necessità, criticamente rivelata dalla moderna «produzione di massa» dei medici e che un tempo si risolveva da sé. Quando però, in grazia del piccolo numero degli studenti, e della consuetudine giornaliera col Maestro, si trasmettevano con caratteri quasi invariati dall’Uno agli altri non solo le tecniche diagnostiche e gli schemi di terapia, ma anche l’arte di avvicinare il paziente. Tanto che era spesso possibile riconoscere, nel comportamento tecnico e in quello umano del medico, il trasparente riflesso degli insegnamenti creditati, con la parola e con l’esempio, da questo o da quel Caposcuola.

La crisi di sviluppo della Medicina moderna, insorgente da molteplici motivi di intimo travaglio, risulta oggi acutizzata ed esasperata dall’interferenza di un fattore assolutamente estraneo ad essa, cioè le cosiddette «istanze sociali» sollecitate e in qualche caso imposte dagli «uomini politici».

La medicina socializzata

Prima di legiferare insindacabilmente che la Medicina deve essere estesa a tutto il complesso sociale, parificandola così a un qualunque servizio di pubblica utilità finanziato dalle imposte, sarebbe giustificato che i sullodati «uomini politici» si chiedessero se la società moderna dispone di medici preparati alle nuove esigenze in numero sufficiente, o se almeno fa tutto il possibile per procurarseli. A una disamina obiettiva risulta vero, purtroppo, il caso opposto. Onde è perfettamente inutile voler imporre delle soluzioni di forza, giustificandole con la «democratica» prevalenza numerica degli assistibili sui sanitari, se non viene pregiudizialmente risolto il problema dei medici.

Soprattutto della massa d’urto di quelli pratici e generali, sulla cui preparazione, efficienza e convinzione, prima ancora che sulla reperibilità dei mezzi di finanziamento, deve basarsi per necessità qualunque programma di assistenza collettiva che aspiri ad essere serio e non solo di figura.

Altrimenti sarebbe come voler costruire, perché richiesto a furor di popolo (mosso inizialmente da agitatori più o meno interessati), un imponente edificio pubblico, valendosi di mattoni crudi o di malte senza cemento: probabilmente crollerebbe sulla testa dei convenuti già durante la bella festa e le tronfie discorse inaugurali.

È pacifico che il voler cominciare la casa dal tetto finisce sempre in un disastro, né la Medicina può fare eccezione alla regola. Eppure in gran parte del mondo civile, mentre i piani di sviluppo economico vengono sottoposti al parere dei tecnici più qualificati, e si preparano fondamenta ben salde prima di procedere alla erezione di programmi ambiziosi, la malintesa urgenza delle «istanze sociali» spinge a bandire programmi sempre più vasti di assistenza totale, spregiando dilettantescamente non solo i consigli, ma addirittura il contrario avviso dei tecnici responsabili.

Persino l’esperimento inglese di assistenza totale gratuita (cioè pagato dalle tasse) che è stato il primo in ordine di tempo (5 luglio 1948) e che poteva avere quasi tutti i motivi di perfetto successo poggiando la sua struttura sui risultati di uno studio ventennale, presentato nel 1942 al Governo di Sua Maestà dal liberale Lord Beveridge, ha dimostrato, in fase applicativa, e soprattutto nei primi anni di funzionamento, delle pecche abbastanza serie, tanto da portare alla sconfitta elettorale il governo (laburista) che l’aveva trasformato in legge funzionante.

Il fatto è che persino il grande economista Beveridge aveva trascurato di tabulare, nello studio sociologico preliminare, proprio il fattore fondamentale dell’assistenza, cioè la crisi evolutiva attuale della Medicina; alla chiarificazione e alla possibile soluzione di questo sfuggente fattore di base possono dare un efficiente contributo soltanto i medici, e soltanto dopo averli risolti per loro. Il che, ancora oggi, non è. Tuttavia anche l’esperimento inglese, paradigma di tutti gli altri, non ha insegnato nulla ai politici. Questi «tirano dritto» dovunque, e al momento attuale sono già arrivati a «mutualizzare» o «nazionalizzare» su queste premesse errate almeno il 60% della popolazione europea, e circa l’80% di quella italiana. Così tutti hanno ampie ragioni di giustificato scontento: i malati, che non si sentono curati; i medici, che vedono snaturata la loro arte; e i governi o gli enti assicuratori, impotenti a frenare le emorragie finanziarie.

In questo clima assurdo, che interferisce negativamente sul sereno esercizio e sulle possibilità stesse della professione in qualsiasi sua branca, si trova proiettato senza alcuna istruzione pratica il neolaureato in Medicina, ed è costretto, per poter vivere della sua arte, a dominarlo, oppure ad adattarvisi; o infine a subirlo.

È perciò di grande interesse gettare una occhiata sulle modalità pratiche dell’esercizio professionale moderno, sulle difficoltà che lo inaspriscono, e sulle sue differenze, supposte o reali, nei confronti del passato.

Le difficoltà dell’inserimento nella professione

In quasi tutto il mondo e particolarmente in Italia, il laureato in Medicina, abilitato più o meno «provvisoriamente» ad esercitarla, può fare in teoria di tutto, dalla più semplice fasciatura alla più pericolosa manualità chirurgica: essendo infatti ancora corazzato, come nel medio evo, da quel famoso «ius necandi et occidendi» che i goliardi celebravano nei loro canti.

In pratica tuttavia resta disoccupato, e deve superare una feroce competizione persino se vuole essere accolto in qualche clinica privata o pubblica col titolo assolutamente onorario di «interno».

Se non ci riesce, può sempre occupare utilmente il suo tempo divertendosi a calcolare tutte le possibilità che gli studi percorsi gli aprono: una rosa di attività (pochissimo o moltissimo distinte l’una dall’altra) il cui numero è così alto da risultare a prima vista incredibile.

Se consideriamo infatti che quella multiforme «Medicina» alla quale un unico diploma indifferenziato dà accesso, può essere distinta in non meno di sei classi (scientifica-pratica, libera-dipendente, generica-specializzata) ciascuna delle quali può distribuirsi su almeno sette categorie applicative: preventiva, d’ambiente (scolastica, militare, di fabbrica, ecc.), tecnica (o di laboratorio), ospitaliera, fiscale e assicurativa, amministrativa e funzionaristica, e finalmente sindacalistica, risulta che la somma totale delle diverse combinazioni possibili in base alla semplice formula xn (dove x è il numero delle classi, cioè 6, e l’esponente n è ancora 6, cioè 7 categorie applicative meno 1, l’amministrativa e funzionaristica, che può essere solo dipendente) e che risponde dunque a 6°, raggiunge l’impressionante valore di 46.656.

66=46.656

Il numero infinitamente minore delle reali possibilità di lavoro medico dipende dal fatto che ciascun sanitario cumula in se stesso, contemporaneamente una serie più o meno ampia dei diversi elementi di combinazione, per lo più allo scopo preminente di ricavarne sufficienti mezzi di vita, essendo di regola insufficiente la retribuzione di ogni singolo servizio.

Ammettendo che la scelta del nostro neolaureto sia già avvenuta, e riguardi una delle possibilità  pratiche, nasce subito il problema di conquistare la «clientela». È a questo scopo, privatamente, che i giovani cercano la frequenza ospitaliera, che offre la prima larga occasione di venire a contatto  con il serbatoio di potenziali pazienti, unita alla possibilità di assimilare la massa di quelle indispensabili nozioni di ordine strettamente pratico, che vengono fornite in modo non organico o francamente insufficiente  dall’istruzione accademica ricevuta nelle aule universitarie. Ed è così che, come il nettare dei fiori, attirando gli insetti, adempie alla fondamentale funzione della fecondazione entomofila, l’ospedale insegna al giovane medico la pratica di quelle piccole, cose neglette dal corso accademico e apprese con l’esempio dolo dalla piccola percentuale dei frequentatori delle Cliniche, quali la tecnica delle iniezioni endovenose e le altre piccole manualità mediche, sulla scorta delle quali e in relazione diretta con la maggior o minore abilità del medico a compierle,  i pazienti giudicano assai spesso il suo «valore».

Negli ultimi anni di corso e nei primi mesi della sua nuova dignità, il neo laureato crede ancora nella Medicina. Naturalmente a quella tradizionale, fondata sul l’incontro benefico del medico con il suo personale malato, cioè a dire con colui che lo chiama tra i mille per la libera elezione, innalzandolo su un così alto piedistallo di rispetto, di fiducia e di aspettazione da trovare del tutto naturale l’incondizionata dittatura di un uomo sulla vita dei suoi pari. Infiammato di sacro entusiasmo, attende solo un cenno per gettarsi all’azione e pulire la faccia del mondo dalla bruttura dei mali. Per il medico neonato l’importanza dei primi pazienti è pari a quello della notte nuziale: l’esito felice o infelice dei primi incontri condizionerà in futuro, nascosto profondamente nel subconscio, la confortante tendenza alla fiducia in sé stesso o il deprimente sospetto di una vita sbagliata.

Ma spesso il primo cliente tarda troppo a venire. E nel frattempo il medico viene a conoscenza delle prime brutture della pratica professionale, come la redditizia pratica dello «smistamento» su base dicotomica verso alcuni specialisti e i laboratori privatamente «convenzionati»  contro i dettami delle deontologia.  Con la quale nozione, e considerata  la grande difficoltà e il reddito inadeguato della Medicina generale, comincia a risentire gli allettamenti  di una di una qualsiasi specializzazione, intesa spesso come possibilità di più facili e maggiori guadagni, invece che come espressione di un interesse particolare.

Ma in ogni campo in cui cerca di inserirsi, si scontrerà, inevitabilmente, con il medesimo fenomeno: la pletora dei colleghi.

Distribuzione ineguale

Che i medici siano molti e sembrino troppi è un fatto indubitabile. Tanto per riferirsi a cifre italiane, i laureati in Medicina sono passati dai 600 all’anno del 1914 ai 4000 circa degli ultimi anni; il numero assoluto di quelli iscritti agli albi professionali dai 23.424 del 1911 agli oltre 74.000 del 1959, con un aumento progressivo della densità per centomila abitanti (totale italiano), da 65 medici nel 1911, a 104 nel 1948, a 140 nel 1954, a 160 nel 1956.

Ma la loro distribuzione è assolutamente ineguale. In  Italia il computo statistico delle provincie, riferito ai 72.527 iscritti nel albi 1958, dimostra 1 medico su 285 abitanti  nella provincia di Roma; 1:416 in quella di Milano, 1:474 a Napoli e, per converso , solo 1:1.148 ad Aosta, 1:1.294 a Cuneo, 1:1.446 a Rovigo.

Il fenomeno è mondiale, e gli altri  Paesi europei rilevano cifre quasi pari alle nostre. Per i nuclei abitati, ad esempio,  si passa in Francia da 1 medico su 4.545 abitanti per i comuni con meno di 1.000 abitanti, a 1:757 per i nuclei da 80 a 100.000 a 1:584 a Marsiglia, a 1:410 a Parigi.

Cosa spinge i medici a inurbarsi?  Il più alto livello di vita ivi esistente. È dimostrato, da ricerche compiute dall’ U.N.E.S.C.O., e pubblicate da Woytinsky, che le spese mediche annuali crescono in  diretta relazione con il reddito. Per riferirsi agli U.S.A.,  dove la situazione, per mancanza di assistenza obbligatoria, è ancora simile alla nostra «libera professione», esse passano gradualmente dai 57 dollari per redditi fino a 1500 dollari, ai 163 dollari dei redditi fino a 5.000, ai 340 dollari dei 10.000 e oltre.

Eppure si parla molto anche  di «pauperizzazione» del medico, e la cosa non è affatto fittizia.

Evidentemente è legge naturale che, come i medici  si trasferiscono nelle città a scopo di miglioramento, così i pazienti si trasferiscano negli ambulatori dei medici dei quali ottengono di più  (estendendosi purtroppo il «più» dalla migliore abilità diagnostica alla maggiore generosità di ricette o di «giorni»).

Così il medico,  sia individualmente sia statisticamente, « o muore di fame o muore di indigestione». Come diretta conseguenza della pletora e della feroce conseguenza ( che giunge talvolta a violare senza ritegno persino le più semplici regole deontologiche), per il discredito riversato sui medici dalle polemiche sindacali, e dalla conoscenza, resa universale dalla stampa, delle indegne «retribuzioni» imposte da alcuni Enti Assistenziali, la gente si è abituata a considerare il medico ( per lo meno quello generico) alla pari di un bene di consumo che diminuisce  di prezzo col crescere della sua produzione in massa. È vero che il costo della Medicina è sempre più alto, ma solo in causa del costo dei medicinali e delle analisi: al contrario il medico generico è sempre più a buon mercato.

Per riferirsi a tariffe ufficiali, la decadenza del valore economico dell’opera medica risulta evidente,  se si pensa che un modesto borgo piemontese conferiva al condotto comunale, nel 1893, un onorar ario annuo di lire 1200  (nell’epoca in cui il solito pollo delle statistiche si pagava 80 centesimi,  e un capomastro 1 lira al giorno). Anche tornando a tempi più vicini, ma ancora precedenti all’esperienza manualistica si massa (il 1936-1937), mentre le uova si vendevano a L.3,90 la dozzina, e la benzina a L. 1,05 al litro, l’onorario minimo per una visita  generica era stabilito in L. 20, per una iniezione endovenosa in L. 25 per una visita specialistica in L. 50. Cioè una  visita normale equivaleva a 5 dozzine di  uova, o a 19 litri di benzina. Una inchiesta francese del controvalore, anch’essa basata sul «poulet» ha rilevato che il più comune atto medico era scambiato contro due polli nel 1914, 1 nel 1939, ½ attualmente.

Le precedenti considerazioni valgono, naturalmente, per l’artigianato medico (tuttavia componente l’80% dei professionisti) restandone finora immune la «aristocrazia» medica, cioè gli specialisti  e i chirurghi di vasta rinomanza e una parte dei titolari di cattedre universitarie.

Ma si tratta di una percentuale assai esigua, non superiore al 6-7% i cui guadagni talvolta troppo elevati sono controbilanciati dagli stipendi vergognosamente bassi, inferiori a quelli legati per le domestiche e gli apprendisti, dei quali alcune amministrazioni ospedaliere «gratificano» gli assistenti  di ruolo, come premio di superati concorsi.

Nonostante tutti questi «handicap» il problema primordiale per il giovane medico resta  quello di vivere «sulla sua laurea», cosa che, assurdamente non è facile come gli aspiranti al titolo dottorale credevano nei sogni rosati del corso accademico.

I metodi possibili per risolverlo sono molteplici, non tutti, peraltro, sul medesimo piano etico o deontologico. La scelta preferenziale di uno di essi, condizionata purtroppo da molti e contrastanti fattori intimi e di ambiente, costituisce la prima vera prova del fuoco,  per la quale,  a differenza dell’epicrisi diagnostica, l’istruzione accademica non dà nessun aiuto e nessuna guida

L’aumento delle spese di esercizio quale fattore di decadimento professionale

Un tempo il medico, giunto al possesso della laurea ed iscrittosi agli Albi professionali, poteva passare immediatamente all’esercizio delle Medicina, accontentandosi i pazienti antichi dei suoi mezzi umani, cioè i sensi e il cervello.

Oggi, invece, un ambulatorio sfornito di almeno una mezza dozzina di luccicanti apparecchi induce il paziente a poco benevoli apprezzamenti, tali da influire negativamente sulla sua scelta. È quindi praticamente un obbligo, anche e sopratutto per il neo-laureato, di immobilizzare grossi capitali in questa scenografia spesso soltanto di figura, indebitandosi per ottenerli e ipotecando così dei guadagni futuri, la cui misura e probabilità costituiscono dei veri azzardi.

Di fronte a questo ostacolo, grave  e per di più imprevisto, una a parte dei laureati uscenti da famiglie non ricche, le quali hanno già sostenuto con fatica progressivamente crescente i diciannove anni di studio improduttivo, si perde di coraggio, «getta alle ortiche» il prezioso bagaglio di cognizioni specifiche e purtroppo esclusive faticosamente accumulato, e si dedica ad altre attività meno lusingatrici ma praticamente più redditizie.

Considerato sul piano dell’economia della comunità ciò assomiglia molto ad uno sciupìo criminoso di pubblico denaro. Tuttavia il fenomeno si verifica (censimento italiano del 1951) in un abbondante 6% dei laureati, cioè, per un contrappeso quasi irrisivo, nella medesima percentuale di quelli, tra i nuovi medici, che si dedicheranno alla carriera accademica.

Una profonda nostalgia dell’arte spinge alcuni di questi involontari apostati della Medicina a ingrossare le già troppe schiere dei «collaboratori scientifici» delle case farmaceutiche, le quali declassano bensì al rango di piazzisti un prezioso materiale umano, tecnicamente preparato a compiti socialmente assai più utili, ma hanno almeno il pregio di pagare generosamente bene e presto, sia in moneta sia in rispetto.

La «Mutualità»

Per la stragrande maggioranza dei giovani medici, la situazione del problema economico si chiama senz’altro «la mutua», i cui assistiti dimostrano esigenze assai più limitate di attrezzatura e di ambiente, e possono essere smistati, all’occorrenza, verso specialisti di ogni ramo senza alcuna formalità, né spesa.

La tendenza sempre più larga verso il «fiduciariato» non corrisponde perciò affatto ad una cosciente adesione ai principi della Medicina socializzata, come qualche volta è stato detto in sedi politiche, ma quasi sempre a una condizione di necessità per chi cerca un immediato frutto alle sue lunghe fatiche.

Il fatto che i vantaggi finanziari eseguibili rimangano, per un tempo più o meno lungo (specie nei centri urbani) a livelli pressappoco infimi, non dimostra alcun effetto deterrente; ne assume al contrario uno lusingatore l’interpretazione della «mutua» (almeno all’inizio) quasi come una terra di emigrazione, dalla quale ricavare, con un forsennato lavoro di qualche anno, i mezzi per tornare a vivere e ad esercitare con soddisfazione nella patria della libera Medicina.

Strana mentalità a dire il vero. Che fa ricordare, per analogia, quei militari inglesi privi di beni di fortuna che accettavano ingaggi addolciti da polpose prebende presso i principotti indiani, con l’intenzione di ritirarsi presto a vivere di rendita. Ma spesso, per il clima o per il costume di vita al quale non potevano più rinunciare, il breve ingaggio si trasformava in legame di tutta la vita; cosa che richiama, sempre per analogia, quel che accade, proprio nella massima parte dei casi, al nostro paradigmatico «mutualista controvoglia».

Ma il desiderio della libera professione rimane. Si spiegano così quelle targhe ineffabili («Mutue e Privati») che possono persino ingenerare il sospetto, in quanti non sono addentro in queste cose, dei due pesi e delle due misure. In pratica però soddisfano anche a una esigenza del pubblico, il quale non incorre ricorre affatto nella libera professione in quella esigua percentuale del 20% che le statistiche dicono non ancora coperto dall’assistenza obbligatoria, ma in misura ben maggiore. Infatti anche i «mutuati» hanno ormai capito, a loro spese, che il problema basilare, in caso di malattia, è soltanto quello di guarire presto e bene, per ritornare immediatamente all’attività; cosa assai più redditizia, nonostante le prime apparenze, della gratuità di un’assistenza inefficiente, e perciò protratta per un tempo assai più lungo.

Su che cosa si fonda, in questi tempi di Medicina socializzata, il richiamo dei liberi professionisti? Non offrono visite o medicine gratuite, né generosità di assenze giustificate dal lavoro, ma danno al paziente, finalmente, la possibilità di un rapporto professionale ed umano basato sulla reciproca fiducia.

Su questo rapporto si fonda (a dimostrare la invariabilità della vera medicina) il ricorso privato ad un medico liberamente scelto, il quale può essere tanto il «libero puro» quanto un mutualista che vi dedica qualche ora libera. Quasi tutti i «mutualisti», infatti, esercitano la doppia attività, però il malato generalmente ricorre, quando sceglie da sé, a un medico diverso da quello il cui timbro orna il suo tesserino. Anche quello, a stretto rigor di termini, lo ha «scelto» lui, ma evidentemente sentendosi non libero, per le limitazioni territoriali o di elenco chiuso che la «mutua» gli ha imposto.

Si paga due volte

Così, oltre tutto, si avvera il paradosso che la società, cercando l’illusione della Medicina gratuita, finisce per pagarla due volte: la prima, quando è sana, attraverso i «contributi»; la seconda quando è malata, in «via breve».

A questa luce si possono spiegare più facilmente le strane inefficienze tecniche, in sede «manualistica» di medici rivelanti altrove una buona preparazione, nonché le pecche funzionali del sistema, tra i quali basilare il sostanziale disinteresse per la personalità del malato. Il mutualista giovane di regola ha molto tempo da usare: all’inizio della sua attività regala generosamente agli Istituti della Medicina di ottima fattura, pago, più che della insufficiente retribuzione, della possibilità di applicare praticamente la sua tecnica e il suo entusiasmo taumaturgico.

La buona fama che così acquisisce attrae a lui una schiera ognor più larga di assistiti, per lo più cronici, scontenti del loro medico introvabile e frettoloso. Ne risulta che in breve tempo anch’egli si trova nelle medesime condizioni dei colleghi più anziani, e costretto ormai come loro, dalla mancanza di tempo, a subire i pericoli della superficialità e i facili allettamenti della terapia sintomatica.

Il medico convenzionato direttamente non ha alcun mezzo (quello finanziario gli è in teoria negato), per limitare l’afflusso dei tesserini a quel tanto che soddisfi i suoi bisogni e non più, lasciandogli il tempo per vivere, oltre che per esercitare degnamente.

Dall’altra parte lo spinge a moltiplicare gli atti medici, sfuggendo i più impegnativi in favore dei più elementari, il livellamento incongruo di tutte le «prestazioni», dal semplice rinnovo di una ricetta alla formulazione prognostica che impegna l’avvenire di un malato e della sua famiglia; cosa, con le attuali tariffe, assai vicina alla prevaricazione: del medico nel primo caso, dell’Ente nel secondo.

Insoddisfatto com’è, il medico potrebbe, quest’è vero, lasciare la «mutua» quando essa gli ha donato, con un anticipo di anni sull’antico, una discreta fama e una sufficiente clientela. Ma la decisione, oltre a rappresentare un’incognita, è resa assai difficile dal fatto che, come ognuno sa, quando arriva la prima automobile crescono i bisogni e il gusto delle comodità, i quali portano ad accettare anche le attività poco congeniali, purché il loro reddito sia sufficienti a soddisfarli.

Il momento cruciale

Questo è il momento più drammatico e penoso, superando il quale scompare finalmente la riserva mentale dell’adesione «provvisoria» e che coincide con la possibilità di gravi pericoli etici o deontologici. Mentre l’arte (per la trascuratezza) si degrada progressivamente anche nella sua saltuaria applicazione ai pazienti cosiddetti «privati», si richiede al mestiere di rendere ai massimi vantaggi con la minor fatica. Ciò può finalmente sospingere, nell’eventualità di deboli freni morali, a indulgere a colpe gravi quali il comparaggio e persino la sfacciata richiesta della «giunta» al bollino.

È naturalmente pacifico che questa pessimistica sequenza di degradazione pratica, deontologica e morale non si verifica nella generalità dei casi, anzi è del tutto eccezionale nella realtà. Ma basterebbe un unico esempio (e la realtà purtroppo, non è così ristretta) per squalificare moralmente un sistema che la rende possibile o la facilita.

Ad una cruda disamina, risulta comunque che nell’ambito della cosiddetta «mutualità» (come è oggi) esistono quasi tutte le condizioni determinanti perché una previsione così tragica possa avverersi. Regolamentazioni cervellotiche e necessità inderogabili di bilancio, indirizzi politici e pressioni demagogiche dal vertice o dalla base, ma sopratutto l’ignoranza fondamentale della realtà assistenziale da parte degli amministrativi che codificano le «normative di erogazione», tutto congiura e rendere estremamente difficile, per il medico, la corretta applicazione sulla scala di massa della sua arte tanto desiderata e tanto benefica.

Nonostante tutte le remore e tutti gli inciampi, la massima parte dei medici mutualisti è cercata, seguita, e persino stimata dai propri assistiti. E questo significa – al di là di ogni agiografico complimento – che esercitano bene il loro mestiere. Ma per farlo sono costretti qualche volta a infrangere (e diciamo pure a «correggere») almeno alcune prescrizioni burocratiche pleonastiche o gratuitamente dannose. Per citare qualche «correzione» tra le più banali ed utili: la incompleta scritturazione dei modulari e la indicazione di urgenza al ricovero ospedaliero.

Quest’ultima pratica sopratutto, può servire da esempio e merita di essere chiarita almeno sommariamente per riconoscere le differenze abissali tra la «realtà assistenziale», cioè i veri bisogni dell’assistibile, e la distorta rappresentazione mentale che se ne fanno i burocrati.

Dunque, quando il medico curante mutualista decide (secondo scienza e coscienza, e in possesso di tutti gli elementi di giudizio) che un suo malato abbisogna di ricovero ospedaliero, si trova nell’alternativa di infrangere o le regole della sua convenzione con l’Ente mutualistico, o quelle della sua coscienza sanitaria.

Se, infatti, come richiede il caso, indica un ricovero ospedaliero semplice, da compiere cioè non perforando il traffico cittadino a strepito di sirena su un’ambulanza, ma su un comune mezzo di trasporto entro le prossime ventiquattr’ore (non di più, evidentemente, altrimenti si curerebbe il suo paziente da sé, almeno per un giorno ancora) sa a priori che non sarà possibile al paziente di ottenerlo.

E questo perché – con un disposto burocratico irridente nella teoria e nel fatto – le richieste di ricovero non urgente sono soggette a «visto» da parte di qualsiasi ente di mutualità. «Visto», ripetiamo, non «controllo medico della necessità». Tanto è vero che nessuno si sogna di visitare il malato, ma è la richiesta del medico che gira di qua e di là per il paese o la metropoli, da un ambulatorio a un ufficio sezionale, in caccia del sospirato «timbro e firma» apposto magari proprio da un medico (ma dietro a una scrivania) dopo code e discussioni penose subite in momenti psicologicamente drammatici; cosa che non fa certo benedire la organizzazione e le sue impostazioni extramediche.

Così il medico mutualista prescrive l’urgenza dei ricoveri per le bronchiti, le flebiti, le appendiciti fredde così via. Ma non volendo perdere del tutto la faccia, almeno sui moduli, aggiunge alla diagnosi reale quel tocco di complicazione inesistente ma attendibile che può giustificare la richiesta, comunque interpretata per quel che vale, e in genere senza stupore, dai medici dell’accettazione ospedaliera.

Resta così dimostrato che il sistema riesce a soddisfare i bisogni degli assistiti (almeno in questi casi) grazie alla continua serie di falsi in atto pubblico, compiuti in favore dell’assistito dal medico, a suo esclusivo rischio materiale e morale. Perché magari accade, se il medico dell’accettazione dell’ospedale non è esperto dei meandri operativi della mutualità che il malato, urgente sulla carta e non in corpore si senta dire in più: «Ma chi è quel cretino di medico…, ecc.» con tutto il danno psicologico che ne consegue, a scapito – come sempre – del cireneo mutualista.

Come regola fissa della mutualità infatti si può affermare che se le «correzioni» del sistema sono in qualche caso possibili a livello dell’assistito, per quanto riguarda il medico esse non hanno alcuna efficacia; né remunerativa né di stima.

Nell’ambito della libera professione, a una intensificazione e a un approfondimento del lavoro svolto corrisponde sempre, presto o tardi, una resa economica o di fama in progressivo crescere. Nel settore della mutualità attuale, il miglioramento del servizio prestato corrisponde sempre ad una perdita. Il maggior tempo dedicato alla singola «prestazione» non appare né viene considerato; chi fa di meno, ance se meglio, paga anzi di tasca sua, rimettendoci nel confronto. Infine – ed è una considerazione urtante – la sola possibilità che il sistema induca a una frettolosità forfettaria ha condotto l’opinione pubblica a «declassare» praticamente il mutualista e la sua capacità diagnostica e terapeutica. Ma se il giudizio dei profani dispiace, la medesima opinione, esplicita o implicita, offende i mutualisti e con loro tutti i medici, se proviene da altri colleghi o addirittura da cosidetti Maestri, i quali ostentano in qualche caso, privatamente o in pubblico, il disprezzo per la «medicina mutualistica» e per chi individualmente la pratica, quasi fosse una sottospecie deteriore e non la loro medesima arte.

Con questo possa poi conciliarsi con i grossi introiti che la mutualità concede prevalentemente ad essi, attraverso al finanziamento dei ricoveri con i «compensi ospedalieri forfettari» o attraverso alla tariffe preferenziali concesse ai numerosi «Centri» dell’una o dell’altra specializzazione, resta finora un insoluto mistero psicologico e pratico.

Tutto questo conduce a concludere che, se la medicina corre oggi il rischio di screditarsi nella pratica, una grossa parta di responsabilità ricade sugli Istituti assistenziali, i quali propugnano in tutto il mondo dei sistemi che, in base a errate premesse, agiscono largamente come corruttori del costume e dell’etica medica moderna. Tanto è vero che altre professioni liberali, per le quali nessuno ha pensato di programmare una socializzazione gratuita (e non sono tuttavia meno costose della Medicina) godono tuttora la piena considerazione e il rispetto del pubblico. Valgono gli esempi banali del notaio, dell’avvocato, dell’ingegnere.

Ma la medicina purtroppo costituisce, come il pane, un bene di consumo di tale immediatezza e importanza da incorrere, per sua disgrazia, nella determinazione di un prezzo politico non corrispondente alla realtà. Per questo il medico riesce a guadagnare più degli altri liberi professionisti, ma solo in caso di successo, lavorando quasi come uno schiavo, e a spese della normalità della sua vita. Né, in pratica, riesce a morire ricco. Anche se il suo livello di vita è apparentemente elevato (e tuttavia costituisce, come l’automobile, quasi un mezzo di «produzione» di lavoro, utile al prestigio professionale nel mondo) la quota di medici che diventano ricchi con la pratica professionale è irrisoria. Disponiamo di uno studio statistico compiuto per la contea di Hartford, Conn., U.S.A, su 144 medici deceduti tra il 1940 e il 1953. Soltanto uno di essi lasciò una fortuna di 1.000.000 di dollari ma alla cui raccolta la medicina aveva contribuito solo in minima parte. Il 55% valeva alla morte meno di 100 mila dollari, il 31% meno di 10.000, il 13% era ancora indebitato.

Cifre, naturalmente, valide solo per gli U.S.A., dove il costo della Medicina è altissimo e le mutue ignote.

In compenso – e quest’ultimo dato può valere anche per tutti gli altri paesi del mondo - il 63% di essi era morto improvvisamente, spesso sul lavoro, per infarto cardiaco o emorragia cerebrale.

Delle qualità ideali del medico cosi scriveva Amiel , nel 1873: «Per me il medico ideale deve essere un uomo con profonda conoscenza della vita dell’anima, che intuisca per divinazione le sofferenze e i disturbi di qualsiasi specie, capace di ridare la tranquillità con la sua sola presenza.»

«Il Dottore ideale deve perciò essere, nello stesso tempo, un genio, un santo, un uomo pio».

Ma proprio questo uomo dalle qualifiche eccezionali, che oltretutto reca con sé la maledizione di vivere tutta la sua vita, e tanto più strettamente quanto più ha successo, a perenne contatto con i dolori degli altri e che, oberato di lavoro ai limiti della resistenza umana e oltre, rileva una incidenza di infarti del 330% rispetto a quella generale, alcuni istituti assistenziali si sono abbassati a offrire la vergognosa quota capitaria annuale di ben 450 lire, e hanno trovato persino chi era disposto ad accettarla!

Cosa è dunque avvenuto, della dignità di questo professionista, di quest’uomo riconosciuto per millenni superiore persino ai Re, perché si lasci trascinare così in basso senza ribellarsi? Cercheremo di analizzare il fenomeno nei prossimi capitoli.

IL MEDICO

Come è perché viene scelta la professione di medico

Il capitolo precedente finiva con una domanda piuttosto cruda, dettata dalla realtà dei fatti. La risposta più ottimistica e rispettosa per i medici è quella di considerare la categoria (che ogni giorno ci fornisce ancora esempi preclari di forza morale, di virtù e di eroismo) come non più omogenea e selezionata su standard elevati, al pari del tempo passato, ma inquinata da apporti individuali meno validi sotto tutti gli aspetti, che potrebbero essere i soli responsabili (a danno dell’intera categoria) della decadenza pratica e sociale della figura del medico.

Effettivamente, mentre ancora un secolo fa la «leva» media degli iscritti a Medicina apparteneva alla borghesia benestante, e spesso era già spiritualmente preparata all’arte da «dinastie» mediche di famiglia, oggi l’afflusso dei neo-immatricolati proviene da tutte le categorie sociali, con prevalenza, almeno numerica, della piccola borghesia impiegatizia; e anche da quello che un tempo si usava definire «proletariato» in percentuale ben maggiore che in antico.

Nella «bontà intrinseca» di un medico, com’è perfettamente ovvio, non interferisce per nulla la sua «estrazione» familiare; ma nel completamento della sua preparazione tecnica (ben lontana dall’essere perfetta al momento della laurea) il censo familiare assume – almeno sulla scala statistica e riferendoci alla presente situazione sociale e professionale – una importanza non trascurabile, alla quale (e alle cui conseguenze) abbiamo già implicitamente accennato in uno dei capitoli precedenti.

Considerato poi il fatto che, se una pletora esiste, essa è di laureati in Medicina piuttosto che di medici, occorrerebbe provvedere in qualche modo a inscrivere nelle scuole mediche i soli giovani che si avvicinano alla medicina per vera vocazione, o (se la parola sembra troppo grossa) almeno per la spinta di un sano interesse, piuttosto che, come accade troppo spesso oggi, in conseguenza di ragionamenti più o meno capziosi, responsabili già pregiudizialmente di equivoci pericolosi.

Per citar qualche esempio di numeri, è chiaro che l’anormale aumento degli iscritti alle Facoltà Mediche nei periodi bellici non si può giustificare con una improvvisa esaltazione dello spirito sanitario o degli ideali umanitari della Croce Rossa, ma appare piuttosto il riflesso sociale del desiderio animale proprio a ciascun uomo, di sfuggire, in qualsiasi modo possibile, alla morte e alla sofferenza.

Matricole di guerra

Ogni conflitto mondiale ha prodotto infatti nelle Facoltà Mediche una ipertrofia di nuove immatricolazioni, le quali perdurano per qualche anno, fino a che si spegne nell’animo degli studenti il «condizionamento» familiare, di solito il solo che spinge il giovane verso una carriera che può tenerlo lontano dai fronti di battaglia o, nella peggiore delle ipotesi, destinarlo a un’«arma» non combattente.

Per l’Italia le cifre sono queste: dai 10.900 iscritti del 1938-1939 si è progressivamente arrivati, nel 1946-1947, a ben 35.000; ma nel 1951 si era già tornati a 22.000. Se tutti gli iscritti del decennio fossero giunti alla laurea, oggi i medici in Italia non sarebbero 74.000 ma molti di più. Dove sono finiti tutti gli altri? Evidentemente, cessato il pericolo, una parte degli studenti, per i quali l’interesse precipuo non era la Medicina ma le maggiori probabilità di salvezza personale che le sembravano connesse, si sono indirizzati ed altre attività più congeniali.

Tuttavia i giovani si inscrivono nelle facoltà mediche anche sulla base di altri atteggiamenti mentali, non meno equivoci di quello «bellico», ma che purtroppo, a differenza di quest’ultimo, si dimostrano persistenti e conducono quasi sempre alla laurea.

La medicina, rende?

Si tratta per esempio dell’opinione, diffusa ancora oggi largamente, che la Medicina dia un facile pane ai suoi cultori, e consenta una più pronta e stabile ascesa sociale nel mondo.

Gioca in questo atteggiamento psicologico il riflesso dell’antica dignità del medico e della sua arte, e l’apparenza esteriore della sua vita, di uomo generalmente ben vestito e «motorizzato». Ciò induce, parallelamente al crescere del livello di vita, un numero sempre maggiore di famiglie meno abbienti ad avviare i figli sulla strada della Medicina.

Sarebbe perciò estremamente utile che il pubblico, e particolarmente gli interessati, venissero esattamente informati delle realtà attuali offerte dalle professioni sanitarie, le cui remunerazioni, per quanto effettivamente più alte della media nei casi fortunati sono tuttavia inadeguate alla somma totale di sacrifici che esse impongono giornalmente, e che possono essere sostenuti con serena sopportazione solo se l’esercizio medico si identifica assolutamente con la passione dominante della vita.

In difetto di questa adesione totale, non solo il medico avverte, ogni giorno rinnovato, lo scontento disarmante di un errore non più riparabile, ma, ancor peggio, non riesce più a dare neppur quel che potrebbe, diventa frequentemente scadente nelle sue prestazioni, e si avvia fatalmente all’insuccesso professionale e alla insoddisfazione personale.

È con questi tempi disgraziati, soprattutto, che la Medicina perde il suo prestigio, in quanto è in mezzo a loro, prevalentemente, che alligna la mala pianta del comparaggio e delle altre miserie pratiche, le quali sembrano rinverdire le perdute speranze di un guadagno ottenuto con minore fatica (sia pure a spese di una grave degradazione morale).

Il compito di questa preventiva informazione, altamente meritoria, potrebbe essere demandato a corsi di orientamento professionale, da introdurre obbligatoriamente negli ultimi anni delle superiori, e che naturalmente dovrebbero illustrare, parallelamente alla Medicina, anche le altre attività principali di lavoro che si offrono all’uomo nella società moderna.

Ciò potrebbe attuare una selezione di massa su base psicologica, la cui efficacia è certo difficilmente prevedibile (in relazione alla somma dei molti fattori concorrenti su scala sia individuale sia sociale) ma che porterebbe comunque ad una utile chiarificazione, alla quale si potrebbe sempre fare riferimento per l’applicazione successiva di qualsiasi selezione, togliendo a questa l’eventuale fama di ingiusta discriminazione.

La vocazione «economica»

La medesima esigenza chiarificatrice, applicata al sacerdozio (a parte il giudizio critico preliminare sulla validità della vocazione) prevede durante i successivi gradini del corso clericale la possibilità, più volte rinnovata, senza alcuna infamia per chi se ne va. Per la Medicina, invece (che, sia pure su un piano diverso, impegna ugualmente tutta una vita) nulla di simile. Si presume aprioristicamente che un vero e perfetto medico, questo eccezionale esempio delle possibilità umane al loro limite superiore, si trovi nascosto in ciascuno, senza esclusioni, dalla massa dei nuovi immatricolati, per il solo fatto che può dimostrare la potenzialità economica sufficiente per sostenere l’onere delle tasse universitarie.

Al contrario la realtà è ben diversa, e assai più oscura. Né può essere un indice la percentuale elevatissima dei fuoricorso, pari sul totale delle facoltà mediche italiane nel 1955-1956, al 34% degli iscritti globali, cioè per chiarire meglio, oltre un fuoricorso su due iscritti regolari. Questa massa ingente di statici ipertrofizza, almeno teoricamente, la popolazione scolastica e contribuisce ad abbassare la quota individuale di disponibilità didattica, a scapito dei normali.

Di questo clima di fallimento, o almeno di concordato obbligatorio, ha cominciato ad occuparsi la stampa, ormai da anni, e finalmente l’opinione dei profani viene aggiornata, a ondate ricorrenti, dello stato di disagio esistente nell’ambiente universitario. Accade così che la mancata soluzione interna del problema (cioè la forzosa dimissione dei fuoricorso ingiustificabili o recidivi) comincia a riflettersi negativamente sulle nuove immatricolazioni, le quali sono scese, per le facoltà mediche italiane, del 28% in cinque anni (dal 1951 al 1955).

Evidentemente una certa quota di studenti liceali ha dirottato verso altre facoltà che permettono maggiore completezza di preparazione, oltre al vantaggio di un corso o due anni più breve. Per quelli che credono nella pletora medica (e ignorano che in Italia esistono tremila nuclei abitati senza medico residente) ciò può sembrare un avviamento alla risoluzione di un apparente problema. Ma chi ci assicura che nei «dirottati» non vi siano in potenza dei medici altrettanto e forse più idonei degli iscritti? È un altro grave punto da accertare con serie inchieste e con lo studio da parte di veri competenti.

Comunque, superato il passo preliminare della immatricolazione, lo studente si dedica a un «cursus» preparatorio tecnico e informativo, alla fine del quale consegue l’abilitazione all’esercizio professionale, parola assai fredda e inadeguata ad esprimere l’intensità della dedizione totale, sempre entusiasmante, al sollievo dei propri simili.

Ma è chiaro che (a parte qualsiasi disquisizione sulla efficienza tecnica dell’apparato didattico italiano moderno) il «cursus» informativo è destinato a macinare a vuoto se non trova nello studente, almeno in potenza, i requisiti indispensabile della idoneità professionale futura, ed un loro sufficiente livello.

VLa somma di queste qualità fondamentali (e pregiudiziali) investe almeno quattro piani della personalità, i quali si possono un po’ artificiosamente, contraddistinguere come segue in ordine di importanza crescente:

  1. a) piano fisico;
  2. b) piano mentale e psicologico;
  3. c) piano tecnico-professionale
  4. d) piano etico.

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L’UOMO SENZA FUTURO 

Mursia, 1976

L’uomo senza futuro è una rigorosa ricerca scientifica, più affascinante di un romanzo di fantascienza, che denuncia in maniera documentatissima la nostra sfrenata corsa verso il suicidio sociale.

L’autore “limita” la sua indagine alle “cose mediche”, il che include quasi tutta la vita singola e collettiva; ma gli impone l’obbligo (assolto attraverso un’interpretazione assolutamente originale dei documenti disponibili) di ricercare la diagnosi causale dei tragici flagelli moderni: dal drogaggio chimico e ideologico di massa alla sovrappopolazione, dall’inquinamento all’epidemia universale di odio, dal fallimento di ogni assistenza sanitaria organizzata al dilagare “misterioso” delle cardiopatie e del cancro.

Speciani riscopre che è la civiltà delle macchine a uccidere l’uomo; ma, in più documenta che il vizio meccanicistico ha infettato l’attuale medicina, così che anch’essa collabora alla rovina dell’uomo, invece di difenderlo.

Sennonché, a differenza di tutte le critiche precedenti, solo angoscianti perché incapaci di indicare qualsiasi soluzione, la presente ricerca irradia un messaggio di consolazione e di speranza, offrendo, nella medicina a misura d’uomo, l’alternativa per sopravvivere non solo realizzabile ma già realizzata e operante in mezzo a noi.

Ipotesi per un inventario

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Un’antica maledizione cinese si cela dietro questo testo soave: «Ti auguro di vivere in tempi interessanti…». Troppo sottile? Vediamo. Non c’è dubbio che i tempi nei quali ci è toccato di vivere sono davvero i più interessanti dell’intera storia dell’uomo. Esistono oggi più scienziati e più poeti, più pittori e più politici, più libri d’arte e più matematici, più telefoni e più velocità, più macchine e più denaro, più congressi e più pianificazione, più medici e più medicine, di quanti ne siano apparsi durante tutta la vita precedente dell’umanità. Abbiamo fisicamente raggiunto la Luna, e strumentalmente Marte, Venere, e da poco Giove. Eppure il mondo non ha mai sofferto come ora tanta fame e tanta angoscia, tanti squilibri sociali e turbamento, tanti cronici, tanta povertà e tanto cancro. Per limitarci alle cose mediche – argomento esclusivo del libro – l’insoddisfazione privata e pubblica verso l’attuale medicina è così universale da far temere in ogni momento l’esplosione di una rivolta eversiva. Perché?

È un fatto che la crisi della civiltà, diventata ormai globale, sta in mezzo a noi e ci circonda, causa ed effetto insieme del nostro soffrire. La sua intensità, in aumento progressivo da trent’anni, ha sollecitato centinaia di testi critici: da Huizinga a Mumford, da Marcuse a Toffler, da Calder a Malleson. Ma tutte queste lucidissime analisi negative, mai confortate dall’offerta di una possibile alternativa, più che chiarire le idee hanno contribuito ad esasperare (come la propaganda-shock del «fumo = cancro») l’angoscia esistenziale del mondo.

Una sola certezza risulta condivisa tanto dalla critica dei sociologi quanta dalla sofferenza sentimentale collettiva: il progressivo allontanamento dall’uomo delle scienze. Se questo è doloroso per quelle umanistiche, diventa addirittura tragico per l’unica che trova nell’uomo la sua sola validità e significato, cioè la medicina. Eppure è forse, oggi, la più disumanizzata di tutte; anche per questo siamo ora esposti al pericolo definitivo, cioè l’estinzione di specie.

Nel corso della sua storia l’umanità ha ottenuto altre volte il consiglio della medicina: del celebre medico e architetto Imhotep, deificato dagli egizi (e trasformatosi presso i greci in Asclepio), scrivono gli annali del Regno Antico (circa 2800 a.C.), che «la sua scienza ha posto fine a sette anni di carestia». Ma il sistema di canali irrigui, da lui disegnato e costruito per fecondare le terre, ha anche risparmiato all’Egitto la malaria per i successivi quarantacinque secoli, finché nel XVIII la dominazione turca non li ha lasciati insabbiare.

medicina zoppa

Oggi, di fronte a problemi umani ben più gravi e universali, non solo non abbiamo nessun Imhotep sottomano, ma la medicina stessa è in crisi nella pratica, nella teoria, persino nei risultati. La sua struttura attuale in tutto il mondo – tanto più là dove più perfezionata – è ammalata di gigantismo e di pleonasmo, di incompetenza e soprattutto di superbia, perché ha dimenticato la sua identità con l’uomo e pretende di risanarlo aggredendone i più intimi equilibri psico-organici, in gran parte ancora ignoti. Così accade che possa vantare trionfi eccezionali forse illeciti (come le sostituzioni globali del cuore, o le plastiche viscerali ampiamente demolitive nei cancri preagonici) e sogni addirittura le chimere del «cyb-org»;1 ma nello stesso tempo si dimostri penosamente incapace di guarire causalmente un banale raffreddore o una emicrania, e persino un «alito cattivo». Come sarà anche troppo facile documentare in seguito, non ha saputo né sa, nonostante la priorità assoluta di questi problemi, risparmiare alla comunità umana le sofferenze della civiltà: dall’inquinamento dell’aria, dell’acqua, del suolo, all’eccesso della popolazione; dalla decadenza della qualità della vita all’aumento esponenziale delle malattie psicosomatiche.

Per quest’ultimo settore della patologia umana, che oggi si estende dall’ipertensione arteriosa alle allergie, dagli infarti cardiaci all’asma, dall’ulcera gastroduodenale al diabete, dai disturbi ormonali al cancro, la medicina ufficiale non sa offrire nessun rimedio causale, ma solo un’indigestione di farmaci sintomatici ogni giorno rinnovati, che lasciano il tempo che trovano.

Quel ch’è ancora più grave – e rivela la tragica incompetenza del sistema – essa non riesce neppure a leggere, nelle esatte statistiche disponibili, le evidenti ragioni del loro aumento che è strettamente parallelo alla progressiva disumanizzazione dell’esistenza. Cosicché nei paesi tecnologicamente più avanzati la durata probabile della vita ricomincia a diminuire, dai 70 e più anni raggiunti lentamente dai tempi preistorici fino a ieri (O.M.S. 1971); il che confina nel limbo delle pie illusioni le trionfalistiche previsioni «scientifiche» dei «120 anni di vita nel 2000».


[1] Organismi umani o animali integrati da parti meccaniche o elettroniche potenzianti il loro «rendimento biologico»: per esempio la sostituzione di un occhio con una telecamera; dei polmoni con branchie elettroniche che consentano la respirazione subacquea ai palombari, e così via.

L’inventario essenziale

Considerato il fallimento statistico della civiltà tecnologica, particolarmente grave nella sua espressione medica, e di fronte all’ipotesi concreta di una imminente crisi globale, sembra arrivata l’ultima ora utile per provvedere alla nostra sopravvivenza. Si impone un indilazionabile inventario del ridondante patrimonio strumentale della medicina, discriminato sulla pietra di paragone della sua utilità per l’uomo.

Qualcosa di simile, dunque, ai corredi vitali ai quali si attenevano, con giudizio critico essenziale, le carovane che partivano dalla civiltà dell’800 per raggiungere il Far West; che lasciavano i biscotti e i pianoforti a Boston, ma si portavano dietro le sementi e le zappe, la dinamite e, magari, la chitarra. Altri (Vacca per esempio) hanno già redatto elenchi di manufatti preziosi da tenere in riserva, in previsione di un futuro tecnologicamente più arretrato del presente. Per la medicina questa analisi dell’essenziale irrinunciabile non è ancora stata compiuta; ne avrebbe avuto l’obbligo istituzionale la medicina sociale, ma purtroppo si è dedicata allo studio dei sintomi invece che delle cause dei mali della comunità. Come restaurare insomma gli stucchi sui soffitti, mentre la casa è squassata dal terremoto e brucia.

C’è tuttavia la diffusa sensazione (tra i profani più acuta che tra i medici) che molte delle sue scintillanti conquiste siano in realtà assai meno indispensabili di quel che sembrano e che essa, nella sua totalità, risulti assai meno soddisfacente, per l’uomo, di quanto se ne vanti. Anzi talvolta il suo rapporto moderno con la medicina (paradossale a quello antico, tecnicamente meno valido ma spiritualmente più consolante) ricorda la condizione del prigioniero nei «malconfort» medievale, citato da A. Camus.

Perciò l’obiezione che l’ingrato lavoro di revisione e di scelta critica, al quale questa necessità costringe, risulterebbe superfluo nel caso (da tutti auspicabile) che la prevista crisi non si verificasse, non è sostenibile.

Se la riscoperta della essenzialità umanistica in medicina fosse riconosciuta valida, non occorrerebbe attendere il giorno del giudizio per applicarne nella pratica le conclusioni concrete. La loro adozione immediata potrebbe invece ridurre a livelli più tollerabili i costi e gli impegni sociali delle comunità, che le stanno precipitando verso la bancarotta. Naturalmente ciò imporrà alla medicina d’oggi, che maschera col sovrabbondante orpello tecnologico la sua immensa carica di dubbi, un serio esame di coscienza e probabilmente anche di ribattezzarsi, se vuole riaffermare la sua indispensabile presenza nel mondo, di nuovo a vantaggio dell’uomo e non solo di se stessa. Per questo occorrerà che la medicina (e per essa i suoi cultori) accetti serenamente l’ammonimento scolpito da quindici secoli nel battistero di S. Sofia in Costantinopoli: «Lavati gli errori, non solo la faccia».

La presente ricerca medico-sociale intende documentare la possibile rinascita di una Medicina dell’uomo, che non auspica il ritorno all’empirismo delle caverne, ma la ricerca onesta del vero dovunque esso si trovi, e l’integrazione di ogni apporto valido della millenaria scienza medica nell’eterno significato essenziale dell’arte del guarire. Perciò si propone, sulla stessa linea di umiltà ma di urgenza, come il semplice tentativo di informare meglio tutti, perché non vada perduta colposamente la speranza esigua di un futuro per noi, vivi oggi, e per i nostri figli, domani.

LA MEDICINA 

«Signore liberaci
dal troppo zelo per le novità;
dall’anteporre la cultura alla saggezza;
la scienza all’arte;
l’intelligenza al buon senso;
dal curare i malati come se fossero malattie;
dal rendere la guarigione più penosa
del persistere del morbo».

SIR JONATHAN HUTCHINSON, Londra, 1904

CAPITOLO I – Origini e significato della medicina 

 

La medicina è nata con il secondo uomo. Cioè, sulla falsariga del Genesi biblico, con la prima donna.

Rimandando a più innanzi la documentazione di questo fenomeno, possiamo chiederci subito il significato della medicina, allo scopo di accertarne la validità passata e presente, ma soprattutto quella futura.

Un errore logico quasi universale, chiaramente implicito nello schema comune del comportamento umano, riguarda il concetto che la medicina serva a curare le malattie. Il che non è vero né in pratica né in teoria; a parte il fatto storico che le malattie sono comparse sulla Terra prima dell’uomo. A. Cockburn, del comitato per lo sviluppo delle risorse umane di Detroit (U.S.A.) è riuscito a documentarne almeno una dozzina presenti, nei primati antropoidi antenati comuni delle scimmie e dell’uomo, da oltre 25.000.000 di anni. Tra esse la dissenteria amebica, la febbre gialla, le artrosi, l’ossuriasi, la malaria, la fromboesia, la sifilide. Coetanee dell’uomo (Homo erectus e sapiens, 750.000-250.000 anni fa) sembrano il tifo, la lebbra e forse il colera; soltanto fuori della preistoria sarebbero comparsi il morbillo, la parotite, il raffreddore comune e l’«influenza», cioè le moderne maledizioni da virus, bisognose, per svilupparsi, di forti concentrazioni di popolazione (tanto virale quanto umana).

Un altro errore di mira, prevalente nell’epoca cosiddetta «scientifica», tende a identificare la Medicina con le medicine. Cioè con gli strumenti tecnici del suo progresso applicativo, dai medicamenti alle attrezzature chirurgiche fino alle possibilità fantascientifiche dell’ingegneria cromosomica. Questo errore di bersaglio, rimasto per millenni più potenziale che reale in conseguenza dell’arsenale esiguo e immutabile del medico, minaccia oggi, ingigantendo contemporaneamente al progresso, di denaturare nell’opinione universale (medici compresi) il vero significato della medicina.

È invece incontestabile che l’apparato strumentale medico, sempre più fascinoso per le meraviglie che ogni nuovo giorno ci regala, si rivela ad una critica disinibita come la parte meno valida della medicina. Esso infatti ha seguito nei millenni la stessa sorte di tutte le realizzazioni tecniche dell’uomo, cioè la insopprimibile tendenza a una durata sempre minore, sia per il continuo superamento operativo sia per la sottomissione alle assurde leggi della moda, della novità o del diverso, nel rifiuto acritico di tutte le realizzazioni precedenti. Soltanto nell’ultimo trentennio i più illuminati storici della medicina si sono accorti della complessità inscritta nello sviluppo delle idee scientifiche e degli strumenti pratici da parte dell’uomo.

Così, mentre H. W. Haggard lo dava ancora nel 1941 come ovvio, già A. Castiglioni, pochi anni dopo, dichiarava non più accettabile l’antiquato concetto delle «fioriture auree» della medicina in tempi prima e dopo oscuri, come quelle connesse con la scuola pitagorica, con Alcmeone e Ippocrate, con Galeno e Salamanca, con la scuola salernitana del 1200 d.C., col Rinascimento italiano, con gli illuministi francesi. Il sottofondo condizionante di questo prolungato errore consisteva nella impossibilità di attingere facilmente come oggi una documentazione completa. Questo manteneva gli studiosi all’oscuro dei collegamenti inapparenti ma reali con altre «facies culturali» risalenti, anello per anello, lungo una catena primigenia della quale non ancora vediamo l’inizio: dai sumeri ai cinesi, dagli indiani agli aztechi, dai maya all’Egitto, all’Atlantide mitica… Tuttavia a mano a mano che la nostra conoscenza della verità si allarga, scopriamo, con sorpresa, che molte tecniche a torto ritenute moderne sono state già largamente utilizzate, poi travolte e dimenticate per nuove mode, e magari riscoperte e ridimenticate.

Cure «moderne» di 75.000 anni fa. – Tra gli esempi documentabili ne esistono di assolutamente incredibili, se non fossero confermati dai reperti archeologici distribuiti nei musei di tutto il mondo. Le fasciature delle mummie egiziane presentano, per dirne una, tutti i sistemi di bendaggio usati e insegnati fino ad oggi (dalla «minerva» alla «spica reversa»); o meglio fino a qualche anno fa, quando l’uso delle reticelle elastiche ha cominciato a fare anche di questa un’arte perduta…

L’enteroclisma ci arriva dagli egiziani, che l’hanno appreso dai fenicotteri sulle rive del Nilo; la detensione endocranica, ottenuta dai neuro-chirurghi con la trapanazione, è documentata su crani fossili di Cro-magnon (40.000) e di Neanderthal (75.000 anni a.C.) con esito in guarigione: le proprietà antiuriche e antiblenorragiche del pepe (che oggi sfruttiamo, dimenticandone l’origine vegetale, sotto la forma dei composti chimici come la piperazina e derivati) sono state descritte e utilizzate dagli araucani e dagli aztechi; i digestivi a base di succo di ananas (oggi tanto di moda) dai più antichi samoani; l’ipnosi medica come anestetico e antiemorragico negli interventi, dagli «stagnatori di sangue» d’Egitto, chiamati durante la rituale trapanazione cranica preagonica su ogni faraone; il concetto e la profilassi dell’allergia («favismo») irrisi come antiscientifici per i successivi 25 secoli, dalla scuola pitagorica; le virtù terapeutiche dell’herba mate e del guaranà, le qualità eccitanti del caffè, del tè, delle foglie di coca, della scopolamina (Datura stramonium) sono state usate fin dalla preistoria centroamericana; il più attivo antiprostatico non ormonale, di recentissima introduzione in terapia, è stato «adottato» concentrando gli estratti naturali della medesima corteccia del Pygeum africanum (Hooker) che da oltre cinquemila anni gli stregoni del Natal (Sudafrica) somministravano ai vecchi della tribù per liberarli dalla difficoltà ad urinare. La radice di Rauwolfia serpentina, usata in India fin dai tempi pre-ariani di Moenjo-Daro, è il miglior trattamento oggi conosciuto e prescritto nell’ipertensione arteriosa, che riesce spesso a curare causalmente grazie alla tripla azione circolatoria, renale e psicotropa. I cardiotonici più attivi (digitale e strofanto) risalgono alla preistoria centroeuropea, centroafricana e centroamericana, dove l’ultimo era usato, insieme al paralizzante curaro (l’unico mezzo chimico che ha reso possibile la grande chirurgia moderna del polmone e del cuore) come veleno delle frecce per la caccia ai grossi mammiferi. Le droghe allucinogene più moderne, dall’hashish o mariuhana alla mescalina alla psilocibina, che hanno recentemente dato origine al settore addirittura fantascientifico degli psicofarmaci, sono usate da millenni in Europa, in Asia e particolarmente in centro-America, sotto la forma naturale del cactus peyotl, del fungo teonanacatl («carne divina»), del convolvolo ololuiqui («serpente verde»).

Per concludere una lista di straordinario interesse, ma che ha qui una semplice finalità dialettica, basterà ricordare che persino la forma (a «foglia di giglio») dello strumento medico per antonomasia, cioè il bisturi, è ritrovabile, perfettamente uguale a quella funzionale attuale, non solo nella romana Pompei, ma in alcuni reperti ateniesi del VII sec. a.C., e persino tra gli stupendi bronzi di 5-7.000 anni fa del museo preistorico di Este (Padova). E sarebbe anche giusto che le nostre donne quando giornalmente trafficano con la base obbligatoria di ogni cosmetica (la universale cold cream) ricordassero che la sua formula ripete, quasi immutata nei secoli, una precisa ricetta del famoso Claudio Galeno, medico dell’imperatore romano Marco Aurelio (II secolo d. Cristo).

Ma l’«emulsione di olio di mandorle, cera d’api e acqua di rose» ch’egli prescriveva con enorme successo alle matrone della corte imperiale, era in realtà giunta a lui da informazioni persiane di quasi certa derivazione indiana, recate a Roma dai legionari di Lucio Vero insieme, purtroppo, alla peste del 166 d. Cristo.

Rieccoci dunque tornati alle donne, alle quali sono state attribuite, all’inizio, la responsabilità e l’onore della nascita della medicina. Vediamone finalmente il perché. Secondo J. E. Pfeiffer, la famiglia è nata con lo Australo-pithecus (quattro-cinque milioni di anni fa), il primo ominide che riveli utensili straordinariamente avanzati e specialistici, indizio certo di attività e progetti comunitari, quindi dell’esistenza di un linguaggio almeno rudimentale, e della possibilità di una organizzazione sociale.

Dal bacio sulla «bua» allo scienziato. – La divisione familiare del lavoro conferiva all’uomo il ruolo di cacciatore, con la conseguente lontananza temporanea dal luogo stabile di residenza, nel quale restavano le donne e i figli (con l’incombenza della raccolta, vicina, di cibi vegetali). Senza alcun dubbio, allora come oggi, i bambini giravano per casa e appena fuori combinavano i soliti piccoli disastri attraverso i quali costruivano la propria esperienza educativa: dalla carezza abrasiva di una suppellettile alla classica bozza in testa, alla vescica sul dito per aver voluto toccare, contro l’avvertimento materno, l’affascinante tizzone rosso.

Allora, come d’altronde oggi, i risultati patologici di questi piccoli guai erano curati esclusivamente dalle madri e da nessun altro, per lo più a base di ipnotiche carezze, e con ottimo esito. Se a questo si aggiungono per la sola donna (mestruazioni!) l’assenza del terrore irrazionale per il sangue e l’esperienza frequente del parto, è certo che la massima disponibilità per la cura del cacciatore ferito risiedeva nelle donne, più che nei suoi compagni di banda. Ma è importante riconoscere in questo comportamento, oltre al fatto tecnico, la comparsa primigenia della motivazione non temporanea della medicina, rimasta valida anche sotto le successive etichette di empirica, sciamanica, sacerdotale, scientifica; l’unica motivazione che possa garantire la sua indispensabilità lungo tutta l’evoluzione futura del genere umano. Essa non è altro che una profonda sollecitazione emotiva indotta nella sfera dei sentimenti (non in quella razionale) dall’atteggiamento interpersonale di solidarietà, coinvolgente nello stesso tempo tanto chi la dona quanta chi la riceve.

La «medicina femmina» è nata dalla evidente necessità che la donna più esperta (o le donne in gruppo, visto che dovunque al mondo le comari adottano da millenni il team-work) non poteva limitare la sua opera benefica al proprio figlio o compagno, ma era eticamente obbligata ad estenderlo a qualsiasi membro sofferente della comunità. E ai suoi pazienti essa donava, oltre alla limitata scienza, sia che questa li guarisse oppure no, tutta intera la sua carica sostanziale di consolazione e di amore. La medesima motivazione etica, esaltata in difesa della comunità, e nella potenza e responsabilità da esse discendenti, è alla radice dello status sociale dello stregone o sciamano, comparso quando la divisione del lavoro si è ulteriormente specializzata col progresso. Per questo nelle pitture paleolitiche (per esempio nella caverna Trois-Frères dell’Ariège) lo stregone, coperto di una pelle di cervo, è rappresentato - come il capo - a parte e sopra la folla dei cacciatori, quale uno dei numi tutelari della tribù.

E, comunque, non si trattava di una sinecura puramente onorifica. Dall’esperimento in proprio della potabilità dell’acqua ad ogni nuovo campo e della commestibilità di ogni frutto sconosciuto, dalla conservazione del fuoco all’esorcismo per la buona caccia, dalla cura dei feriti al mistero delle malattie, dalle nascite alle morti, quasi tutte le manifestazioni importanti della vita avevano (e hanno ancora oggi) poco o molto da spartire con la medicina e con chi la esercita. Senza il sostegno dell’enorme tesoro scientifico presente (e magari anche nonostante quello, come dimostra il troppo facile ricorso alla responsabilità suddivisa) quale medico moderno si sentirebbe disposto ad accollarsi una così terribile responsabilità?

Amplificando progressivamente, nei secoli, il significato e la motivazione originaria di solidarietà singola e comunitaria, la medicina ha guidato l’umanità alla conquista dell’ambiente ostile, per consentire all’uomo la sopravvivenza sempre più facile. Nel corso di questo sforzo, purtroppo coronato da un successo troppo inebriante negli ultimi due secoli, essa è arrivata a perdere quasi del tutto - nella tronfia ricchezza di mezzi e nella troppa certezza di sé - il gusto e persino il ricordo del suo sostanziale significato per l’uomo.

Ora, purtroppo o per fortuna, il tempo della pompa trionfalistica è finito. È il momento di discriminare almeno in questo campo, all’avanguardia etica del mondo, i valori essenziali ed eterni dagli pseudovalori tecnici che ne sono una semplice derivata temporanea. Se ci trovassimo da un’ora all’altra in un tifone atomico, quanta «Medicina» rimarrebbe a disposizione immediata dei pochi superstiti? Forse, nel black-out di ogni sorgente energetica e di ogni tecnologia da essa dipendente, non altro che la motivazione originale della solidarietà interumana, con i soli mezzi umani per esprimerla. Ma quanti «sanitari» modello 1975 sarebbero ancora capaci di «erogarla» in grado soddisfacente, per loro e per gli «assistiti»?

Forse, come all’alba dell’umanità, questo dovere-diritto ricadrebbe ancora una volta sulle donne (che d’altronde non l’hanno mai completamente dimenticato). Cosicché, paradossalmente, di contro alla superbia operativa di tutta la medicina occidentale, in una ipotesi apocalittica le migliori garanzie di sopravvivenza comunitaria potrebbero essere riservate alla Cina di Mao e all’U.R.S.S. dove, sia pure per semplice coincidenza strumentale, il 70% e l’80% rispettivamente dei «medici dai piedi scalzi» e dei «felsher» (medici di base) risultano già ora di sesso femminile.

 

Capitolo II – Nasce la scienza, s’incrina l’uomo

Il significato sostanziale della medicina e il suo beneficio senza prezzo per l’individuo e la comunità riemergono intatti ancora oggi quando ad esercitarla sia un vero medico. Questo dimostra che il suo nucleo si è trasmesso integro dall’una all’altra generazione dell’umanità preistorica e storica, fino a quella odierna. I ritrovamenti archeologici e l’etnologia hanno inoltre accertato che le sue forme operative sono rimaste simili per decine di millenni (e tuttora nelle culture primitive), accentrandosi nella figura onnipresente dello sciamano, medico e insieme sacerdote. La doppia dignità non sorprende perché, intesa la malattia come espressione della collera degli dei, il solo uomo della tribù che aveva il coraggio di sfidarli per sottrarre il malato al suo destino mentre tutti gli altri - compreso il capo - si allontanavano presi dal terrore, riceveva in compenso una investitura quasi semidivina.

Su questa base antologica, che ha accompagnato l’uomo fino alle soglie della storia e anche al di là di esse («le frecce di Apollo»), era fatale che finisse per accentuarsi il lato preternaturale o soprannaturale (perciò magico o divino) della medicina, a detrimento di quello puramente fisico, o naturale. Ne è derivata l’identificazione del medico come di colui che, unico, godeva del diretto ed esclusivo contatto con le divinità, e diventava perciò interprete dei loro voleri arcani ai quali - per suo mezzo - la comunità doveva ubbidire.

La usuale istituzionalizzazione di tutte le cose umane ha quindi favorito, in modo sempre più rigido, il monopolio della medicina-sacerdozio da parte di una casta privilegiata, che puntualmente ritroviamo dagli inizi della storia scritta (3500 a.C., a Kish in Mesopotamia), presso gli assiri e i babilonesi, nel popolo ebraico, in India e soprattutto in Egitto. Il modello teocratico non ha affatto impedito il continuo progresso pratico dell’arte, fino a conquiste farmacologiche o chirurgiche di livello rispettabile anche oggi, storicamente registrate nelle tavolette cuneiformi della biblioteca di Ninive, nei papiri egizi di Ebers, di Brugsch, di Edwin-Smith, nella stele sumera di Hammurabi, e in una serie di altri testi specialistici o medico-sociali. È importante tuttavia sottolineare che, essendo la malattia il sintomo di una colpa personale o sociale, la guarigione o la salute venivano spesso impetrate attraverso sacrifici, purificazioni, astensioni (per esempio, dalle carni di maiale, dal sesso nei mestrui e in puerperio) che nella sostanza risultavano validi precetti igienici, ma nella forma si presentavano, ed erano seguiti, come prescrizioni religiose.

Meno teurgiche ma ancora condizionate dal concetto unitario del male quale rottura dell’equilibrio dell’universo si rivelano le antiche medicine cinese e indiana. La prima, più filosofia che esperimento, ha bensì codificato già nel 2700 a.C. una serie di norme empiriche nel Huang-ti Su-wên («Domande semplici dell’Imperatore giallo») e nel Ling-shu-ching («Libro canonico del perno dell’anima») che insieme formano il cosiddetto Nei-ching («Canone della Medicina»). Ma l’ideogramma mandarino della medicina è composto tuttora con i simboli grafici elementari delle sue motivazioni preistoriche e protostoriche: faretra, frecce, colpire, pozione! E l’agopuntura profonda, che rappresenta ancora per metà nella Repubblica Popolare di Mao Tze-tung la normale forma di trattamento medico, sfrutta da oltre cinquemila anni un sistema generale che non ha nulla a che vedere con l’anatomia.

L’armonia universale. – Esso si basa sulla teoria che l’energia dell’universo, espressione dell’Essere primordiale Hsüan (il mistero) e distinta nelle due modalità antinomiche di yin e yang (femmina e maschio), circoli continuamente nel corpo umano lungo quattordici linee verticali dette meridiani. Su queste linee si riflette la sensibilità di ogni singolo organo, cosicché, per combatterne una eventuale insufficienza funzionale, basterà stimolare l’energia del suo meridiano con aghi d’oro o di rame; per frenarne invece l’esuberanza occorrerà disperdere l’energia dello stesso meridiano, con aghi di argento, platino o acciaio. A parte gli innegabili risultati pratici, riscoperti dalla moderna terapia occidentale del dolore, persino il concetto della riflessione cutanea degli organi interni è stato riconosciuto dalla scienza medica, ma solo verso la fine dell’800 (zone di Head).

Ciò dimostra che in medicina (che è la continua ricerca della verità dell’uomo e del mondo) persino una piattaforma filosofica e non sperimentale può condurre ad una superiore consapevolezza delle cose, molto vicina alle conoscenze moderne della scienza. Questo è infatti avvenuto al pensiero medico-filosofico indiano il quale, partendo dai concetti metafisici del Karma (legge dell’azione) e del Samsara (metempsicosi) è giunto, intorno all’VIII sec. a.C., alla interpretazione dell’organismo come un insieme dove l’armonia delle parti rappresenta la condizione essenziale della salute. Da essa deriva la modernissima nozione (chiara alla scienza speculativa ma non sempre ai medici!) che «l’organo palesemente infermo non deve essere curato come avulso dalla unità di cui fa parte, ma invece considerato nel quadro generale, nelle interazioni con tutto il resto e nella resistenza complessiva dell’organismo» (Susruta: Sutrasthana). Che queste non siano semplici vacuità scolastiche lo dimostra la spiegazione della funzione biologica attraverso i tre «dosa»: Kapha o anabolismo; Pitta o catabolismo; Vayu o energia nervosa. (Noi questo, a differenza degli yoghi, l’abbiamo dovuto reimparare biochimicamente nell’ultimo sessantennio!)

Il concetto metafisico dell’armonia, esteso addirittura dal microcosmo-uomo al macrocosmo-universo, ricompare due secoli dopo (VI a.C.) con Pitagora e la sua scuola, nelle colonie greche d’Italia cioè a Crotone, Sibari, Reggio Calabria, Agrigento, e riuscirà a informare di sé lo stesso pensiero medico di Ippocrate di Coo. Fino a quell’epoca nel mondo occidentale, cioè prevalentemente ellenistico, il concetto dominante in medicina era ancora quello tradizionale e leggendario, «eroico» (la medicina di Omero) e, sul piano operativo, empirico. Tuttavia, nello spirito di esasperata libertà individualistica della civiltà greca (ragione unica del suo fiorire e del suo decadere), le interpretazioni pur teologiche delle malattie non avevano consentito il sorgere della solita casta dominante di medici-sacerdoti. Però gli unici luoghi di cura ufficialmente riconosciuti erano ugualmente i templi, eretti in località di straordinaria bellezza, quasi sempre dotati di una sorgente termale che aggiungeva le sue virtù ai consigli dei sacerdoti.

I templi più prestigiosi, e i sacerdoti più celebri per abilità diagnostica e risultati terapeutici, erano quelli di Asclepio, il dio principe della medicina. Il tempio più antico erettogli in Grecia era a Titanos presso Sicione, il più famoso quello di Epidauro nell’Argolide, due regioni assai ricche di serpenti. Il rettile stilizzato, che orna anche oggi il parabrezza delle automobili dei medici, identifica infatti da sempre il culto e l’esercizio della medicina: il caduceo (bastone con il serpente attorcigliato, prima unico poi duplice) è stato ritrovato in bassorilievi di Ninazu (Signore del medico) e del figlio Ningišzida a Ninive, datati 1200 anni prima di Cristo; e la dea medica di Cnosso (Creta) ne portava due, attorcigliati sulle braccia. A parte la simpatia totemica che ne ha favorito il trapianto nell’Argolide, da dove nasceva il dio Asclepio? Essenzialmente da un errore linguistico.

Un errore linguistico deificato. – Si tratta infatti dello stesso celebre visir egizio Imhotep del 2800 a.C., del quale abbiamo già ricordato i canali irrigui. Medico e architetto, è il costruttore del primo edificio in pietra dell’umanità, la stupenda piramide a gradini (mastaba) di Saqqara, di 60 m di altezza e 1600 di perimetro, tomba del faraone Žoser della III dinastia. Deificato dagli egizi per la medicina, l’architettura e la matematica (una specie di triplo premio Nobel ante litteram) gli furono eretti nei successivi due millenni, templi a Menfi, Karnak, Deir-el-Bahari, Deir-el-Medineh, e nell’isola di File (dai Tolomei). La sua cappella commemorativa a Saqqara era chiamata dai greci Asklepieion. Trasferendo i suoi insegnamenti (materia pratica del culto) in patria, i viaggiatori greci equivocarono il termine come «eponimo» da un non mai esistito Asclepio, che prese a battere le strade del mondo ellenico e romano sotto il mutato nome. Lo ritroviamo anche nelle già citate colonie italiane della Magna Grecia, dove la medicina-sacerdozio fioriva come in ogni altra regione dell’Ellade, e dove abbiamo già localizzato Pitagora e la sua scuola filosofica, di probabile derivazione indiana. Esattamente in questa matrice era destinata a nascere, per la prima volta nella storia umana, la scienza medica.

È a Crotone (sede principale della scuola pitagorica) che essa esplode con la straordinaria figura di Alcmeone (circa 500 a.C.) il quale riuscì a sintetizzare il sistema filosofico dell’armonia pitagorica con la diretta osservazione dell’uomo, eredità della scuola medica italiana (Cnido). Alcmeone definisce, con assoluta precisione, il concetto generale della isonomia, cioè della salute come perfetto accordo di tutte le sostanze che compongono il corpo umano (ripreso poi con assai maggiore fortuna pubblicistica dal ben più famoso Ippocrate); con ciò stabiliva il fondamento di quella patologia umorale che fu per più di venti secoli la base di ogni concezione clinica. Il suo merito maggiore sta nell’aver per primo fatto ricorso all’esperimento pratico (autopsie e chirurgia funzionale) per provare la verità dei suoi ragionamenti. È stato così in grado di localizzare nel cervello – invece che nel cuore o nei polmoni – la sede delle sensazioni e il centro della vita intellettiva; nonché di precisare e descrivere alcune lesioni responsabili di disturbi funzionali fino allora misteriosi (le paralisi); ha studiato l’occhio e il meccanismo della visione; ha distinto le arterie dalle vene; ha individuato il decorso dei nervi ottici e scoperto l’origine (cerebrale) del sonno; gli si attribuisce persino la scoperta della tuba uditiva, detta poi «tromba di Eustachio» dall’anatomico marchigiano che la riscoperse a Roma nel 1560.

La prima rivoluzione scientifica. – Ha perciò origine con lui la prima rivoluzione scientifica, dopo la quale l’uomo non sarà mai più un’unità misteriosa ma comincia a distinguersi nelle sue parti singole, tenute insieme solo da un concetto filosofico: l’astrazione «uomo». Ma in assenza di quest’ultimo il fascino analitico della isolata funzione appena scoperta o da scoprire avrebbe potuto deviare l’interesse di ogni ricercatore esattamente e soltanto su una parte avulsa dal tutto. Questo è appunto accaduto, venticinque secoli dopo, quando da quella radice benefica è fiorita la lussureggiante chioma delle specializzazioni microanalitiche, giustificazione di quella produzione industrializzata dell’uomo a pezzi che affligge la nostra età tecnologica.

Nel momento medesimo della sua nascita, la scienza ha dunque incrinato l’uomo. Da allora ad oggi, salvo episodiche inversioni di tendenza, combattute con ogni mezzo per impedire qualsiasi deviazione dal filone aureo tradizionale, la scienza ha continuato ad erigere i suoi fastigi sfruttando - quando più quando meno - le rovine dell’uomo integrale. Pressappoco come facevano i papi e i cardinali romani del Medioevo e della rinascenza, i cui meravigliosi palazzi sono in buona parte contesti dei marmi e delle pietre rubati al Foro e al Colosseo.

Il più famoso utilizzatore del contributo di base fornito da Alcmeone (che oggi definiremmo un ricercatore patologo e neurofisiologo) è stato infatti un primo grandissimo specialista: il clinico Ippocrate di Coo. Nato nei 459 a.C. dal medico Eracleide e da Prassitela, a sua volta figlia del medico Fenarete, assorbì nel prezioso ambiente culturale nativo la somma delle molteplici correnti mediche che vi confluivano: l’osservazione accurata del malato di marchio italico (Cnido); la ricerca analitica di Alcmeone e della sua scuola; infine - come dopo di lui Galeno - l’illuminante studio di antichissimi testi, messigli a disposizione, ancora giovane, dai sacerdoti del tempio di Imhotep in Menfi.

Ippocrate ebbe il merito eccezionale di comporre il tutto in una sintesi originale di tale ampiezza e profondità da farne assai presto il medico più universalmente celebre dei suoi tempi. La fortunata longevità (104 o, più probabilmente, 88 anni) gli consentì non solo di raccogliere intorno a sé, in Coo, la scuola medica più fiorente del mondo, ma di consegnare in cinquantatre opere scientifiche divise in settantadue libri la sua immensa dottrina, esperienza e saggezza. Il corpus hippocraticum, abbinato ai contributi enciclopedici di Celso e Galeno (I e II sec. dopo Cristo) rimase fino al Rinascimento (cioè per ventidue secoli) la materia medica fondamentale dell’insegnamento in Occidente, e il suo autore ne ricavò il titolo di «padre della medicina».

Difatti il contributo positivo di Ippocrate è ancora oggi di valore straordinario; ma è consegnato assai più nei libri «etici» (Aforismi, Il giuramento, Delle prescrizioni, Del comportamento del medico) piuttosto che in quelli di casistica clinica (Delle fratture, Delle ferite al capo, Degli umori, Delle fistole, Dell’uso dei liquidi, Della dentizione, Del parto in sette mesi ecc.). Ciononostante anche in questi esistono linee teoriche e pratiche di enorme progresso metodologico: per esempio la esatta registrazione di alcuni sintomi diagnostici tuttora insegnati perché validi in ogni tempo, come la facies hippocratica preagonica e la succussio hippocratica per la diagnosi non radiologica dei versamenti endotoracici. E ancora il concetto dell’interazione obbligata tra uomo e ambiente, che la medicina sociale inizia soltanto ora ad assimilare (in Delle arie, delle acque e dei luoghi). E ancora la esatta nozione del sintomo, cioè del «segnale» che va inteso come guida per la ricerca della malattia, e mai curato per se stesso. La riaffermazione (dovuta certamente a reminiscenze egiziane e pitagoriche) della fondamentale unità dell’organismo, espressa dall’equilibrio dei quattro umori (sangue, flemma, bile gialla e bile nera), rotto il quale non esiste affezione morbosa che non colpisca tutto l’organismo, anche se si rivela in un organo isolato.

Tuttavia sul piano puramente tecnico, anche Ippocrate deve piegarsi alla legge da lui stesso espressa con insuperata perfezione nei primo degli Aforismi: «La vita è breve, l’arte lunga; l’occasione è fuggevole, l’esperimento fallace; il giudizio difficile». Sul piano etico e comportamentale, invece, alcuni dei suoi concetti rimangono validi in assoluto, anzi - considerata la situazione attuale della medicina - più essenziali ancora che nel suo tempo. Per esempio il comandamento basilare della prudenza in terapia (quante volte oggi infranto?) nel Prius nil nocere, inteso come rispetto della natura guaritrice (vis medicatrix naturae). E ancora l’aver sottratto - per la prima volta - la pratica della medicina tanto alla superstizione magica, quanto alla dipendenza divino-sacerdotale. È perciò merito indiscusso di Ippocrate l’avere innestato sul tronco eterno della medicina («il sentimento della solidarietà umana») la tecnica esatta per esprimerlo in pratica: cioè lo studio e la guarigione dell’uomo ammalato conseguiti con il metodo razionale. E ha impresso il sigillo della sua straordinaria personalità nel lapidario aforisma: «Dove c’è amore per l’uomo, là c’è amore per l’arte».

Invenzione della malattia. – Ma troppi epigoni di Ippocrate, non sorretti dalla sua profondità spirituale, dovevano spesso dimenticarlo. Così appunto il già citato Claudio Galeno, greco di Pergamo, nato all’ombra del famoso tempio di Asclepio (ancora!) ed emigrato a Roma nel 158 d.C., medico della Corte imperiale di Marco Aurelio Antonino, clinico acutissimo e scrittore fecondissimo (oltre centoventi opere mediche). Filtrando col dogmatismo aristotelico l’insegnamento di Ippocrate, e cementandolo con i suoi successi pratici in un sistema rigido, insieme contesto di verità e di errori (purtroppo insegnato per quindici secoli di seguito) egli rivela un interesse per l’arte assai più grande di quello per l’uomo. Pur conservando di Ippocrate la linea strettamente razionale, il suo ragionamento, invece che sintetico e biologico come nel maestro di Coo, diventa rigidamente analitico e morfologico (formale). Con simili premesse teoriche era fatale che Galeno introducesse in medicina due concetti astratti, la cui carica pericolosa, latente per millenni, sta ora raggiungendo la temperatura critica di esplosione.

Il primo è il fondamento sistematico della sua terapia, espresso dalla celebre massima: «contraria contrariis (curantur)», (le malattie si curano con il loro contrario), cioè l’infreddatura con il caldo, la febbre con il freddo, e così via; concetto base della teoria «allopatica» che tuttora domina l’universo medico moderno. Il secondo è l’invenzione di quella fantomatica entità chiamata  «malattia», lo sfortunato equivoco analitico che è riuscito a monopolizzare per quasi due millenni l’interesse, le risorse e la ricerca della medicina ufficiale. Così l’elenco delle malattie identificate risulta di circa 60 in Ippocrate; già di oltre 150 in Galeno; e oggi è assurdamente arrivato a circa 35.000 (IBM, 1973), mentre l’uomo (senza il quale nessuna malattia può esistere) è stato progressivamente e colposamente dimenticato.

Capitolo III – La curva evolutiva della medicina nei secoli

Dopo Galeno la medicina ha costruito il suo edificio mattone su mattone, ciascun d’essi corrispondente alla intera vita di un suo artigiano. Nei testi di storia della medicina sono elencati i nomi di molti di loro con l’analisi erudita dei contributi forniti alla fabbrica della scienza. Ma il Who’s Who medico, sia pure plurimillenario, riveste solo un moderato interesse cronistico. È assai più importante invece riconoscere che nel complesso l’edificio ha resistito abbastanza bene, finora, persino alla crescita esagerata degli ultimi due secoli nonostante i molti «mattoni» sgretolati o vanificati dal tempo.

Probabilmente ciò è dovuto alla incrollabile saldezza delle fondamenta (il sentimento della solidarietà umana); tuttavia oggi, raggiunta l’altitudine di un gigantesco grattacielo, la medicina tende spesso a incantarsi dietro le stelle e i satelliti, trascurando gli uomini che, come quelli visti dalla ringhiera dell’Empire State Building, si rattrappiscono alla insignificante entità di impersonali formiche. In nome di queste formiche umane che riacquisterebbero di colpo la piena dignità e statura di uomini solo che il grattacielo crollasse, è giusto rendersi conto dei veri punti di forza dell’edificio, per conservarne il progetto nell’ipotesi che occorresse ricostruirlo.

Il sinusoide smorzato. – Limitando l’analisi storica al solo filone aureo della medicina occidentale - che ci coinvolge personalmente - è noto da tempo che la sua intensità non è stata costante dalla preistoria ad oggi. Ha invece dimostrato periodi più o meno lunghi di stasi e periodi di rapide accelerazioni, corrispondenti a nuove idee sempre più largamente condivise, e finalmente riassunte con la massima efficacia da un personaggio paradigmatico. È stato appunto questo ritmo discontinuo, abbinato alla limitata informazione, a far sorgere il mito didattico delle cosiddette fioriture auree della medicina.

Non è stato invece fin qui rilevato che la comparsa delle «intensità modificanti» (e relativi nomi paradigmatici) dimostra, negli ultimi quarantasette secoli storici, una frequenza progressivamente maggiore. Ci si potrebbe anche rallegrare di un simile andamento, se la sua obbligatoria contropartita non fosse anche l’espressione della minore potenza di ogni successiva pulsione. È persino possibile, confrontando i periodi di dominio scientifico delle singole «onde», riconoscere quasi l’esistenza di una legge matematica (costante di decremento) che domina la storia naturale del fenomeno.

Infatti, mentre l’influsso razionalistico di Imhotep sembra essere durato tredici secoli prima di essere sopraffatto, persino in Egitto, dalla sua distorsione divino-sacerdotale (esoterica) e superstizioso-magica (popolare), dominanti per dieci secoli fino ad Alcmeone e Ippocrate, è del tutto certo l’intervallo di settecento anni tra questi ultimi e Galeno. Seicento anni circa dopo Galeno la prima nuova pulsione modificante è la fioritura degli ospedali, che precede di cinquecento anni la diffusione europea delle università. Quattrocento anni tra questa e Galileo, soli duecento fino a Spallanzani, cento fino a Pasteur; ma cinquanta tra Pasteur e Freud, e poco più di trenta tra quest’ultimo e l’esplosione della tecnologia in medicina.

Se si traccia un diagramma storico del filone aureo sotto forma di onde colleganti le date delle successive idee-forza (vedi fig. 1), esso assume quasi l’aspetto suggestivo di un sinusoide smorzato, descritto dalla formula di Thomson (T = 2 π √LC) come il «decremento esponenziale di una carica elettrica che va esaurendosi»! È certo che alla sempre maggiore frequenza di scoperte scientifiche si è abbinata, nei secoli, una progressiva diminuzione del prestigio sociale e della credibilità professionale della medicina, nonostante la crescente efficienza delle sue realizzazioni tecniche. Questo fa temere ancora

Fig. 1. – Il «sinusoide smorzato» della medicina.

di più il momento (che il sinusoide di Thomson preannuncia assai vicino) nel quale la frequenza parossistica delle nuove scoperte non permetterà a nessuna di sviluppare un qualsiasi dominio-pilota, tutte vicendevolmente annullandosi. Il tracciato oscillatorio potrebbe allora appiattirsi in una asintote, cioè in quella retta orizzontale continua che tanto per l’elettrocardiogramma (cuore) quanto per l’elettroencefalogramma (cervello) segnala in medicina la cessazione totale di ogni carica elettrica, cioè della vita stessa.

L’analisi motivazionale della medicina. – Che cos’è che non funziona, e rende possibile questo tragico paradosso? Nessuna delle componenti concrete del fenomeno Medicina, ma piuttosto le possibili varianti storiche del suo sottofondo di sentimenti, quell’impalpabile fattore di ogni manifestazione umana, che si definisce motivazione. Per quanto incorporeo, questo moto dello spirito condiziona oggi - in mano agli psicologi, ai socio-psicologi e ai marketing experts - l’investimento e la resa di migliaia di miliardi di dollari in tutto il mondo; le analisi motivazionali garantiscono il successo - o determinano il fallimento – di una forma di frigorifero, o di un modello d’automobile, o di una marca di sigarette. Per vedere se nasca qualcosa di utile, per il futuro, da un’analisi motivazionale condotta sugli sviluppi della medicina ripercorreremo perciò le tappe auree della sua evoluzione storica (vedi fig. 2).

Imhotep: del suo contributo pratico e dottrinale alla scienza non abbiamo documenti originali, se non le opere già ricordate (l’architettura e la canalizzazione). Della sua originalità e del suo immenso valore professionale ci dà prova anche solo quest’ultima insuperata realizzazione medico-sociale, vera bonifica ecologica che per quarantacinque secoli ha garantito la salute e la prosperità economica al popolo egiziano, condizionando il successivo profilo di tutta la civiltà occidentale. Della sua dottrina è rimasta l’impostazione strutturale nel culto e nell’insegnamento sacerdotale ed esoterico, rielaborati ma presi a guida – per loro stessa ammissione - da Ippocrate e da Galeno. L’etichetta che lo distingue è perciò la «medicina» senza alcun aggettivo discriminante, nella piena e globale accezione di fattore benefico per la comunità, sostenuta da una tecnica perfetta (Saqqara!) sbocciata splendida come un’aurora boreale sul sottostante baratro di oscurità. La sua motivazione, dedotta dai fini perseguiti e raggiunti, non può che essere anch’essa globale, cioè, per dirla con la definizione ippocratica, l’«amore per l’uomo e per l’arte».

Fig. 2. – Le «etichette storiche» della medicina e la loro motivazione.

Sciamani e sacerdoti: l’etichetta magica e sacerdotale della medicina viene interpretata come una distorsione del fascio principale della scienza. Non essendo riuscita a conservare il suo standard al livello della perfezione tecnica e della potenza logica di un illuminato come Imhotep (d’altronde deificato esattamente per le sue qualità eccezionali e solitarie), essa è certamente decaduta sul piano tecnico, immiserendolo nell’empirismo da una parte, nel mito dall’altra. Tuttavia ha saputo conservare due qualità fondamentali di valore assoluto: la prima è quella «unità uomo-medicina» che oggi sta riemergendo alla coscienza medica, la seconda è «l’amore per l’uomo», coincidente con la motivazione eterna della medicina, addirittura potenziata dalla povertà dello strumentario scientifico, tanto dottrinale quanto pratico. Per questo i maghi e gli sciamani offrivano senza riserve solo (ma tutta) la loro forza umana al malato, sperando con lui di guarirlo. Non sempre ci riuscivano (come d’altronde nemmeno gli scienziati di tanti secoli dopo), però gli donavano sempre quella consolazione (di accertato valore terapeutico) che oggi il malato cerca, senza trovarla, dentro gli apparecchi scintillanti di cromo e di perspex.

Alcmeone fa nascere la «scienza» ma Ippocrate, che la applica all’uomo inventando la «medicina clinica» riesce sotto questa etichetta a mantenere ancora un perfetto equilibrio tra l’amore per l’arte e quello per l’uomo, che ne è insieme oggetto e soggetto. Questa motivazione gli ha dettato i libri etici, di valore duraturo, e ha favorito la grandezza senza uguali del suo esempio professionale. Non così invece Galeno. In lui, affascinato dall’arte fino al punto da affastellare insieme verità ed errori di giudizio pur di raggiungere la perfezione formale di un sistema dottrinale che rifiuta di riconoscere la diversa realtà dell’uomo, osserviamo la prima vera frattura tra l’uomo e la scienza. La sua invenzione delle «malattie», derivazione analitica obbligata della etichetta di «casistica clinica» che lo classifica, ha reso da quel momento sempre più difficili e dispersivi lo studio e la pratica professionale. E, peggio ancora, è riuscita ad immettere nell’acqua cristallina della medicina una corrente sottilmente adulterata, che a distanza di secoli l’ha resa infine imbevibile e inadatta a sostentare l’uomo.

Il ritorno all’«amore per l’uomo» avviene con l’affermazione degli ospedali. Anche se una cronaca cingalese del IV secolo a.C. dà notizia di un ospedale «per uomini e animali» a Ceylon nel 437 a.C., ed esistevano a Roma, già al tempo di Augusto, le medicatrinae o iatreiae (case di cura private organizzate dai medici), è solo con il riconoscimento giuridico del cristianesimo che ne sorge qualche esemplare permanente. L’intento di queste istituzioni era più caritativo che sanitario, ricoveri in genere per anziani invalidi come quello fondato a sue spese da Placidia, consorte dell’imperatore Teodosio. Con un’altra finalità tecnica, sempre però limitata all’aiuto umano, sorsero nei secoli successivi i cosiddetti xenodochi (ricoveri di forestieri) lungo le strade consolari romane, ad uso e asilo dei pellegrini nei loro viaggi rituali a Roma. La vera nascita dell’ospedale, come organizzazione assistenziale per gli infermi, coincide con la fondazione degli ordini cavallereschi, quale strumento tecnico del loro compito istituzionale. Il primo al mondo, verso l’850 d.C., fu eretto e servito dall’Ordine di Nostra Signora della scala a Siena. I problemi logistici connessi con le crociate imposero poi la diffusione tanto degli ospedali sulle strade di Terra santa, quanto degli ordini cavallereschi (O. di S. Lazzaro, per la cura dei lebbrosi, 967 d.C.; degli Ospitalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, 1020 d.C.; dei Templari, 1118 d.C.; dei Cavalieri Teutonici, 1191 d.C. …).

La nuova idea medica rappresentata dagli ospedali si distingue con l’etichetta di «medicina sociale» cioè di servizio medico alla comunità. Essa persisterà per secoli, ampliando nel XVI secolo la sua funzione, non ancora terapeutica, in quella di una difesa sociale contro le malattie (lazzaretti per gli appestati; ospedali «degli incurabili» e così via).

Anche se gli ospedali primevi non curavano, l’incontro tra l’abbondante materiale patologico e la curiosità benefica dei curanti favorì una larga esperienza di sintomi e decorsi, consentendo ai medici una sempre più raffinata abilità di diagnosi e di prognosi. Era giusto perciò che negli ospedali nascessero le scuole mediche, tra le quali famosa quella di Salerno, sviluppatasi intorno a un nucleo ospedaliero monastico (benedettino). Tale fu, nel corso del tempo, il prestigio salernitano, che nel 1134 re Ruggero decretò (e in seguito Federico II di Svevia riconfermò) che «nessuno potesse esercitare la medicina se prima non avesse ottenuto, con pubblico esame, l’approvazione documentata (la laurea!) dei maestri di Salerno».

«Approvazione» tuttavia, non «insegnamento». Questo perché, allora come oggi, negli ospedali il lavoro era durissimo e il tempo sempre insufficiente non consentiva l’insegnamento formale, ma solo quello dell’esempio personale. Nacquero così, per interesse medesimo degli aspiranti alla professione sanitaria, le cosiddette università o studi. Il termine università significava, inizialmente, solo la «federazione corporativa degli scolari» che eleggevano nel consiglio un rappresentante per ogni nazione, uno dei quali, eletto rettore, amministrava l’università e chiamava i lettori (cioè gli insegnanti). La fioritura della nuova idea concreta, nella forma definitiva, avvenne intorno al XII secolo, e la sua validità è confermata dalla fulminea diffusione in Italia e in Europa. La prima università del mondo fu quella di Bologna (privilegiata in un rescritto dell’imperatore Federico Barbarossa del 1158); seguirono Oxford in Inghilterra, 1214; Parigi, 1215; Padova, 1222; Napoli, 1224; Vercelli, 1225; Montpellier, 1228; Ferrara, 1278; Roma, 1303; Parma e Pisa, 1343; Heidelberg, 1385…

Qual è stato il significato, per la medicina, di questa ulteriore conquista scientifica? Insieme favorevole e no, almeno giudicando dagli sviluppi futuri. Infatti la prima grande divisione del lavoro tra chi insegna e chi opera professionalmente ha consentito ai primi un tempo pieno per approfondire gli studi e le ricerche, ma li ha progressivamente distaccati dal contatto con il malato, fecondo di osservazioni sempre nuove e del vero progresso della scienza. E ai secondi, salvo eccezioni personali, ha negato la possibilità di insegnare la realtà se per caso risultasse diversa dalla dottrina scolasticamente accettata.

Nelle università l’etichetta distintiva della medicina diventa quella scolastica, cristallizzata su schemi immutabili: chi non giura sul verbo di Galeno non può ricevere non solo la lode ma neppure la laurea. La motivazione di questa scienza istituzionalizzata, pletorica già al suo nascere di contributi nozionistici, è naturalmente l’esasperato «amore per l’arte». Ne deriva fatalmente il primo solco, all’inizio così sottile da passare inavvertito, tra l’impostazione didattica della materia e le esigenze della professione dopo gli studi; è questo solco, oggi diventato quasi una voragine, che inferisce al neolaureato il primo trauma della sua vita professionale, per il dilemma non ancora risolto tra accademia e scuola professionale nel corso degli studi medici.

Nel 1453 cade l’Impero d’Oriente; letterati, giuristi e medici vanno profughi in tutta Europa, particolarmente in Italia, e portano le opere originali dei classici ellenici nelle corti che li accolgono. Nello stesso tempo (1436) Giovanni Gutemberg inventa la stampa a caratteri mobili; per quanto riguarda la medicina il risultato straordinario di questo incrocio di destini si esprime nelle oltre 900 edizioni delle principali opere mediche, di nuovo conio o ristampe di classici, che videro la luce già entro il secolo XV. La cultura compie la prima cabrata esponenziale, e il suo filone umanistico diffonde con rapidità inaudita il gusto e addirittura il bisogno di indagare con libero pensiero, rifiutando ogni monopolio della verità.

In medicina il più ingombrante feticcio da abbattere, vecchio già di tredici secoli, erano Galeno e il galenismo, pedissequamente insegnati nelle università, con la «coda» di Avicenna e di tutta la scolastica araba. E fu la lotta, appassionata e violenta. Non si trattò all’inizio (come sempre per ogni nuovo corso dell’umanità) di un moto universale, ma piuttosto della ribellione di individui isolati, di eccezionale potenza mentale e coraggio, pronti a sacrificare l’intera vita sull’altare delle nuove idee. Sennonché la loro meravigliosa offerta al progresso dei posteri li privò, quasi sempre, della comprensione dei contemporanei, incapaci sia di riconoscere una grandezza tanto superiore, sia di deificarli per difesa psicologica, com’era accaduto per Imhotep. Ogni figura di vero scienziato, in questo convulso tempo di «rinascimento», finisce sempre con il conformarsi all’uno o all’altro di due schemi antitetici: o trasformando la sua esistenza in un turbine di violenti contrasti con se stessi e col mondo (come Paracelso), o rinchiudendosi sdegnosamente nella torre d’avorio dei suoi sogni concreti (come Leonardo da Vinci).

Paracelso (Teofrasto Bombast), svizzero di Einsiedeln, figlio di medico e regolare studente a Zurigo, comprese ben presto l’insufficienza dell’insegnamento tradizionale. Lo completò con qualsiasi esperienza ritenesse valida: dalla scuola chimico-mineraria dei Fugger in Carinzia, alla frequentazione privata di alchimisti e astrologi, alla peregrinazione da una università italiana all’altra, fino a quella di Ferrara dove conseguì finalmente la laurea in medicina, pochi anni dopo Nicolò Copernico. Nominato professore di medicina a Basilea nel 1527, osò bruciare pubblicamente le opere di Avicenna per significare drammaticamente il suo rifiuto della autorità «scolastica», e la necessità di ricorrere allo studio diretto per conoscere la realtà della natura. Con tutta questa violenza di pensiero e di opere, che lo ucciderà appena quarantottenne, rifiutò sempre di essere considerato una specie di Lutero medico (cioè eretico e scismatico). Sosteneva invece che era appunto la qualità di medico a pieno titolo ad imporgli l’interesse e la conoscenza di qualsiasi linea valida di ricerca che potesse maggiormente avvicinarlo alla verità. Questa intuizione, tanto moderna da non essere tuttora digerita dalla scienza attuale, la espresse lapidariamente in un motto famoso: «Alterius non sit, quis suus esse potest» (non sia d’altri chi può essere di se stesso).

Leonardo da Vinci, l’esempio più insigne del comportamento alternativo, visse quasi settanta anni; pur completamente autodidatta e probabilmente il più grande e poliedrico ingegno espresso dall’umanità; fu largamente celebre anche nel suo tempo, ma solo come architetto militare e civile (i navigli lombardi), pittore irraggiungibile, scultore equestre e scenografo di corte (a Milano, presso Ludovico il Moro)! Ma tutto l’immenso tesoro scientifico delle sue ricerche «futuribili» nei campi della matematica, della fisica generale, dell’ottica e della prospettiva, della balistica, dell’aerodinamica; le centinaia di invenzioni strumentali, dal paracadute all’aliante, dall’automobile all’aeroplano al sommergibile, e soprattutto il vastissimo corpus di studi anatomici e fisiologici, sono stati da lui consegnati unicamente a se stesso, e rivelati al mondo stupefatto solo 250 anni dopo, da Guglielmo Hunter. In un tempo nel quale la necroscopia era ancora una colpa giuridica e religiosa, Leonardo praticò personalmente (e nel contempo disegnò) almeno trenta dissezioni anatomiche. Ciò gli ha consentito di documentare e commentare, in centinaia di perfette tavole (il primo atlante anatomico esistente) una serie di scoperte attribuite nei secoli successivi ad altri: per esempio l’endocardio e le corde tendinee delle valvole cardiache, il cosiddetto «fascio di His», l’«antro di Higmoro», il meccanismo della visione, l’utero (per la prima volta e antigalenicamente descritto a cavità unica), e la esatta conformazione e posizione dell’embrione e del feto.

Contrariamente ad ogni superficiale apparenza, la motivazione più profonda che spingeva Leonardo nella ricerca, soprattutto medica, non era solo «l’amore per l’arte», ma piuttosto quella, fino allora sconosciuta e rivoluzionaria, di un totale «amore per la verità». Infatti, come scrisse nel Codice atlantico: «nessuna cosa si può amare né odiare, se prima non si ha cognition di quella». È esattamente questo concetto, espresso in tanto lucida forma sessant’anni prima che nascesse Galileo, la chiave d’oro che aprirà la via più fulgida della scienza, cioè la «ricerca sperimentale non preconcetta».

Capirolo IV – La seconda rivoluzione scientifica: l’uomo a pezzi

La seconda (e definitiva) rivoluzione scientifica ha nome Galileo Galilei. È stato infatti quest’altro genio benefico dell’umanità, nato a Pisa nel 1564, a stabilire in forma ineccepibile i principi teorici e le linee applicative del metodo sperimentale, cioè della «via per raggiungere la conoscenza attraverso l’esperienza» (tale è l’esatta traduzione, in linguaggio comune, dei termini di radice greco-latina metodo ed esperimento).

Altri prima di lui, Alcmeone e Ippocrate, Galeno e il chirurgo arabo Albucasis (Abu’l-Qasim az-Zahrawi) erano già ricorsi all’esperimento, sia a fini di conoscenza sia per scegliere le terapie più efficaci. Ma in genere la discesa sul campo pratico veniva offerta - con almeno un pizzico di degnazione - solo come prova facoltativa, e ad uso degli altri, della validità del ragionamento deduttivo (dall’universale al particolare) già concluso che la precedeva. È esclusivamente in grazia di questa impostazione dogmatica che fu possibile al corpus Galenicum di resistere per troppo tempo. Non essendo ciechi, i medici e i chirurghi vedevano bene che quanto era stato loro insegnato differiva profondamente dalla realtà che incontravano ogni giorno; ma essendo considerato il livello gerarchico delle cose osservate assai più basso di quello di un sistema teoretico, la somma degli errori non riuscì a scalfire (per quindici secoli!) la dignità della dottrina.

Soltanto Leonardo applicò in tutta la sua feconda perfezione, prima di Galileo, il metodo sperimentale. Come logica conseguenza raggiunse in un ampio ventaglio di campi scientifici (dall’anatomia all’aerodinamica) la verità. Ma preferì tenersela per sé, giudicando i tempi non ancora maturi per accoglierla.

Le tavole della legge scientifica. – Galileo ritenne invece che ormai lo fossero (mentre le sue famose traversie prima universitarie e da ultimo con il Sant’Uffizio dimostrano ancora il contrario); insegnò quindi senza ipocrisie, dalle cattedre di matematica di Padova e di Pisa, il concetto che l’esperimento non è la conferma a posteriori di una ipotesi prevista con il ragionamento, ma invece è l’unica via per raggiungere la verità obbiettiva, scegliendo criticamente quella più convincente tra le diverse possibilità interpretative offerte dall’osservazione della natura, avvicinata senza pregiudizi.

Questa proposizione avrebbe anche potuto risultare inoffensiva per il suo autore, se Galileo non avesse preteso di applicarla praticamente in ogni momento e campo della sua ricerca. È ben vero che questa chiave d’oro gli consentiva di allargare ogni giorno il patrimonio di conoscenza dell’umanità, fin da quando (1583) diciannovenne e ancora studente di medicina, scoprì la legge dell’isocronismo delle oscillazioni del pendolo controllando sul suo polso i tempi uguali di oscillazione della famosa lampada del duomo di Pisa, mossa da una raffica temporalesca. Ma inevitabilmente ogni nuova scoperta smentiva, con la sua inconfutabile verità, le false affermazioni delle imperanti teorie aristoteliche: dalla caduta uguale dei gravi, al lavoro virtuale in meccanica, al termoscopio e da questo alla teoria cinetica del calore, al cannocchiale. Questo meraviglioso strumento gli consentì, purtroppo, di scoprire le stelle novae e le comete, le macchie solari, le montagne e i crateri della Luna, le fasi di Venere, e i quattro satelliti di Giove (che dedicò ai Medici, i granduchi di Firenze). Ma gli aristotelici si rifiutavano di porre l’occhio al cannocchiale. Aristotele non aveva detto che Giove aveva i satelliti, dunque «questi non c’erano». Il vederli era solo un’illusione dei sensi. Fu di fronte a questa ottusa negazione della libertà che Galileo sfogò il suo spirito mordace di toscanaccio pubblicando, nel 1623, Il Saggiatore, capolavoro polemico che distrugge (matematicamente!) le ipotesi di padre Grassi, un gesuita aristotelico, sulle comete. E, nel 1632, l’opera fondamentale del metodo sperimentale di ricerca: il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo.

Sennonché la miscela esplosiva dell’asprezza polemica con lo stile affascinante, della perfezione logico-matematica delle scoperte con le loro conclusioni rivoluzionarie, non fu forse l’ultima causa della condanna che la Santa Inquisizione irrogò all’opera e allo stesso Galileo. Ma ancora oggi nessuno scienziato può rileggere senza commossa ammirazione queste «Tavole della Legge» scientifice, perché esse da allora guidano (o almeno lo dovrebbero) tutto il successivo meraviglioso sforzo di conoscenza compiuto dall’umanità.

Naturalmente, come abbiamo già rilevato nel capitolo precedente, anche Galileo, quale simbolo riassuntivo della nuova conquista umana, cioè la scienza sperimentale, ebbe i suoi precursori e i suoi contemporanei nel medesimo movimento di opinione. Tra essi, oltre al già ricordato Leonardo da Vinci, è il filosofo inglese Francesco Bacone, ingegno tanto poliedrico da avergli fatto attribuire addirittura la vera paternità del teatro di Shakespeare, che sarebbe stato un suo nom de plume o un prestanome. Sul piano filosofico Bacone condusse una perfetta analisi del metodo induttivo («dal particolare all’universale»), indicando le esatte linee del metodo sperimentale, che tuttavia non applicò mai.

Un altro filosofo, la cui opera ebbe una grande influenza sulla medicina, è il francese René Descartes. Osservando nella scienza del suo tempo un caos di contradditorie e incerte opinioni, cercò una base valida di partenza nel pensiero cosciente («cogito, ergo sum»), e fondò il suo «Metodo» (Discours de la Méthode, 1637) sul dubbio metodico verso l’autorità della tradizione, e sulle percezioni soggettive, accettando come vero solo quanto i fenomeni insegnavano («Omne est verum, quod dare et distincte percipio»).

L’analisi della natura, che in Galileo è essenzialmente rivolta al macrocosmo (l’universo) è in Descartes applicata anche al microcosmo più vicino e disponibile (l’uomo). Nasce così, con il Traité de l’homme (1664, postumo) il primo tentativo di spiegare l’organismo vivente secondo schemi funzionali, almeno i più facilmente rilevabili, cioè quelli meccanici e quelli fisico-chimici. Geniale in Cartesio è l’interpretazione del corpo come di una macchina, che avrebbe stimolato tutta la fisiologia e le conquiste dei secoli futuri e persino la dottrina darwiniana dell’evoluzione; non altrettanto felice il dualismo tra anima e corpo, le due sostanze derivate che si escludono reciprocamente. Su di esso è germinata una lunga serie di interpretazioni antinomiche dell’uomo, dal vitalismo al positivismo, nessuna delle quali si è rivelata capace di risolvere in modo soddisfacente la sua unità psicofisica ma che ancora purtroppo ingombrano, dopo più di trecent’anni, la via maestra della medicina.

La macchina-uomo «esplosa». – Sul piano morfologico, un precursore della conoscenza sperimentale dell’uomo è, oltre al solito Leonardo, il belga Andrea Vesalio, insegnante di anatomia all’universita di Padova, dove (1543) pubblico l’opera fondamentale De humani corporis fabrica con le stupende tavole di Stefano von Calcar, allievo di Tiziano Vecellio, tuttora probabilmente insuperate dal punto di vista artistico. II valore dell’opera, oltre che documentario, è filosofico e rivoluzionario. Disegnando con artistica esattezza quanto lo scalpello metteva in luce nel corpo fell’uomo, si andavano smascherando gli errori delle intoccabili verità di Galeno. A tal punto radicali che neppure il Vesalio se ne rese conto appieno. Pag.38…

La crisi professionale del medico, oggi

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Sacerdozio, arte, professione, mestiere: così, per tappe successive raggiunte in lento volger di secoli, è decaduta la medicina nell’opinione del mondo. Il mestiere dei medici, oggi, è un nodo gordiano di controverse opinioni e di pratici paradossi: ricevono dai grandi della terra i supremi onori, ma sono nello stesso tempo considerati come loro servi (dove l’assistenza di malattia è organizzata) dai più bassi livelli sociali. In teoria sono sempre più lodati come i salvatori del mondo, nella pratica sono frequentemente insultati dai pazienti con la discussione delle diagnosi e delle ricette.

Che cosa succede dunque alla medicina? Il terreno è così minato da non consentire discorsi opinabili ma soltanto fatti; e cominciamo subito con il riprodurne testualmente qualcuno. «È ora di parlare francamente del medico di famiglia. La verità nuda e cruda è che egli era generoso del suo tempo e del suo colloquio perché aveva ben poco d’altro da offrire…». «Manca, per l’applicazione ottimale della più avanzata scienza della salute, un generico parasanitario (generalist para-professional) un ‘buon vicino come tutti gli altri’ (neighborhood peer) che coordini i servizi specialistici dei professionisti medici, che spieghi gli elementi tecnici ai profani e questi ultimi ai medici, senza danneggiare i loro mutui rapporti».

Traducendo questa pregevole prosa tecnica appunto in linguaggio paraprofessionale ne emerge il vivace schizzo idealizzato di una figura umana ben nota a tutte le piccole comunità, di ogni tempo e di ogni latitudine, cioè, per dirla alla francese, della «sage femme» o, per dirla all’italiana, della comare. Ma il testo citato prosegue: «Il suo stato giuridico dovrà avere chiara definizione, riconoscimento, stabilità e utilizzazione universale». In conclusione, dunque, una comare patentata, con stabilità di carriera.

L’eccesso di tecnicismo. – Le citazioni sono tratte da un «Working paper» edito nel 1967 dall’agenzia federale americana O.E.O., che finanzia opere e servizi intesi al miglioramento del benessere della comunità.

Il manuale, intitolato L’agente sanitario del vicinato (Neighborhood Health Agent) è destinato al personale dei Comprehensive Neighborhood Health Centers, specie di consorzi sanitari per gli indigenti, basati sulla pratica medica di gruppo integrata dai descritti specialisti (non medici) in rapporti umani. In U.S.A. infatti la medicina soffre acutamente di spersonalizzazione non per cause mutualistiche ma per eccesso di tecnicismo e di superspecializzazione.

Forse per questa posizione di avanguardia mondiale, che fa loro provare i danni della civiltà con l’anticipo di qualche decennio sul resto del mondo, lo stesso manuale può esprimere, con crudele chiarezza, una critica ufficiosa che altrove avrebbe fatto gridare allo scandalo, nonostante la sua inoppugnabile verità: «I critici della medicina americana d’oggi ammettono il suo orientamento qualitativo e la sua eccellenza scientifica, ma segnalano simultaneamente la sua disumanizzazione. L’immagine del medico americano si è distorta da quella del saggio amico di famiglia in quella dell’imprenditore, interessato all’affare piuttosto che alla pratica della medicina – troppo occupato per poter comunicare soddisfacentemente con il suo malato. I servizi resi sono divenuti frammentari; mancano di unitarietà, di continuità e di coordinazione; sono in gran parte inaccessibili specialmente ai bisognosi, e frequentemente inaccettabili per chiunque».

L’invenzione della «comare patentata» nel tentativo di riumanizzare capillarmente la medicina segnala le difficoltà che persino l’O.E.O. incontra, per trasferire sul piano pratico quel teorico diritto alla salute codificato all’unanimità, negli ultimi decenni, in documenti giuridici di valore internazionale, dalla Carta Atlantica (1941) alla Carta dell’O.N.U. (1945), allo statuto dell’U.N.E.S.C.O. (1947), alla Costituzione italiana (1947), allo statuto dell’O.M.S. (1948). Le medesime e anche maggiori difficoltà inceppano dovunque il funzionamento delle strutture di difesa collettiva della salute, dalle «mutue» alla medicina di Stato, ai servizi nazionali di sanità. Siamo dunque di fronte a un fenomeno moderno di patologia medico-sociale, universale come una epidemia, che nessun correttivo fiscale o amministrativo sembra capace di estinguere. Non è dunque lecito chiedercene il perché?

In verità la medicina (e la professione ne è solo una espressione ambientale, come il medico pratico solo una sentinella avanzata) sta attraversando una delle crisi più gravi della sua esistenza; il travaglio di questa crisi, che può dar vita a un suo tipo superiore oppure a una mostruosità genetica (e fino ad ora le probabilità sono addirittura a vantaggio del mostro) interessa contemporaneamente l’interno della medicina, oltreché l’esterno.

Nell’intimo c’è crisi tra l’arte tradizionale e la tecnica ingigantita, crisi di equilibrio tra le funzioni, crisi di fiducia, di verità e di vocazione. All’esterno la crisi di rapporto rivela infiniti problemi piccoli e grossi, che tutti insieme possono essere riassunti in uno solo, fondamentale e di principio. Questo riguarda il modo di seguire, senza troppe sofferenze e disastri, e soprattutto conservando all’arte di guarire il suo significato, la fatale evoluzione della medicina da fenomeno di carattere individuale e di natura privata in un altro di carattere collettivo e di interesse pubblico. A renderne più tormentata l’evoluzione vi confluisce una serie di fattori interagenti, spesso dimenticati da quanti riversano esclusivamente sul medico la responsabilità della sua attuale distorsione.

Ricordiamo almeno i principali: l’ambiente comune al medico e a tutti gli altri uomini, il malato, la medicina, il medico, l’atto medico, il rapporto professionale. Negli ultimi cinquant’anni quasi tutte le categorie citate hanno assunto, per ragioni intime o d’ambiente, caratteri, forme, metodiche ed espressioni profondamente diverse da quelle tradizionali rimaste immutate per millenni. Ciononostante gran parte dell’evoluzione che la medicina ha subito nell’ultimo mezzo secolo, e che comprende il progresso tecnico in tutti i suoi settori, la conseguente impossibilità per un uomo singolo di dominarne le infinite peculiarità particolari, il suo costo in esponenziale aumento e infine l’esigenza sociale della difesa della salute a spese della comunità, è in realtà solo forma ambientale, e non sostanza. La sua sostanza è sempre l’uomo, l’uomo singolo, individuale e non ripetibile, nella sua duplice caratteristica di numero statistico sulla carta ma insieme di sofferta umanità privata quando si ammala, guarisce o muore.

Le qualità umane del medico. – Il disagio moderno della medicina, probabilmente il suo più serio peccato sociale, sta nel dimenticare troppo spesso questa realtà. Come dentro la capsula spaziale non c’è solo la tecnica perfezionata, ma l’uomo che la condiziona per il successo o per il fallimento, così anche nel fondo della medicina collettiva o della medicina strumentale esiste l’uomo, sintesi di corpo e d’anima che come tale va inteso, e avvicinato, e rispettato, sotto pena di insuccesso e di insoddisfazione privata e pubblica.

La medicina collettiva, sia essa di gruppo privato o statale, ha edificato nel corso di alcuni decenni un corpus ormai quasi perfetto di schemi e regole e tabelle attuariali. Alla raggiunta perfezione organizzativa non corrisponde però, al momento attuale, una soddisfacente erogazione del bene-medico ai previsti utenti. Non vi è sfuggito nemmeno l’esperimento inglese di assistenza totale «radle to grave» («dalla culla alla tomba») gratuita (cioè finanziata dalle tasse) che è stato il primo National Health Service in ordine di tempo (5 luglio 1948) e che sembrava avere tutti i motivi di successo, poggiando la sua struttura sui risultati di uno studio ventennale, presentato nel 1942 al governo di Sua Maestà dal liberale lord Beveridge.

Il fatto è che persino il grande economista Beveridge aveva trascurato di tabulare, nello studio sociologico preliminare, i due fattori fondamentali di ogni assistenza medica, esattamente quelli che, bene o male impostati, ne garantiscono o al contrario ne screditano la validità operativa. Il primo di essi è la crisi evolutiva attuale della medicina: alla chiarificazione di questo sfuggente elemento di base possono dare un efficiente contributo soltanto i medici, e soltanto dopo averla raggiunta per se stessi (il che, ancora oggi, è francamente eccezionale). Il secondo è, paradossalmente, lo sciamano cioè, per uscire dalla crittografia, l’analisi spregiudicata ma sostanziale della potenza guaritrice del medico, provvedendo a non snaturarla nel suo progettato consumo di massa. Questa purtroppo risiede ancor oggi, pur dopo secoli di coscienza scientifica, prevalentemente nelle qualità umane del medico, piuttosto che nel suo strumentario tecnico up to date; si tratta dunque di un sentimento qualitativo più che di una entità quantizzabile. Per questo non ha trovato posto nelle tabelle attuariali dei sistemi di assistenza collettiva; ma esattamente per questo la loro incompletezza umana li rende dovunque insoddisfacenti, perché infine coloro che li devono usare sono uomini veri, e non i loro assai più comodi artifici numerici, economici o statistici.

È stato persino scritto che «una buona medicina (collettiva) è fatta per un terzo da buone medicine e per due terzi da buone leggi»; dove è dunque l’uomo, in essa? L’uomo medico e l’uomo malato, intendiamo, dove vengono confinati? Appunto per questo spirito di soddisfatto formalismo esteriore, che rifiuta di scendere alla scomoda radice dei fenomeni, la medicina è malata. Visto che chi paga, in proprio e immediatamente, lo scotto pesante della insoddisfazione moderna a suo riguardo sono prevalentemente i medici pratici e di famiglia, non fa alcuna meraviglia che il loro numero diminuisca. Ancora nel 1953 in U.S.A., credendo erroneamente che l’insufficienza dei medici risiedesse nel loro numero (allora di 220.000), mentre era una crisi di presenza spirituale, il National Manpower Council aveva chiesto la «produzione» supplementare di almeno 40.000 medici nel successivo decennio. Oggi in U.S.A. i medici sono saliti a oltre 330.000, ma nei vent’anni trascorsi si è osservato un declino del 42% nei medici di famiglia il cui rapporto numerico è attualmente di uno su tremiladuecento abitanti (pari a quello cioè delle zone europee depresse, superiore persino alla quota individuale del N.H.S. inglese), mentre sono molto aumentati gli specialisti.

In grazia della sempre più larga disponibilità di mercato, è oggi facile che il paziente ricorra direttamente ad essi scavalcando l’introvabile medico di famiglia. Cosicché accade sempre più spesso che gli aerofagici vadano dal cardiologo, e gli epatopazienti dall’otorino, per ronzii e vertigini! Naturalmente – se lo specialista non è anche un ottimo medico generale – restano come prima e peggio. Ma se gli capita di guarire incorrono in un danno ancora peggiore. Infatti soggiacciono a una concatenazione mentale perfettamente logica ma sostanzialmente errata del tipo seguente: sintomo = ricetta = medicamento che guarisce! Da essa paradossalmente è scomparso il «taumaturgo» cioè l’uomo investito del potere divino della guarigione. Ma quando il paziente recupera la sua figura globale, allora, avvertendo acutamente la carenza dei fattori umani nella medicina (che lui stesso ha contribuito a creare) si butta alle critiche più feroci e talora gratuite. Ne dà uno sconfortante elenco il Medical World News (gennaio 1968), riferendo un’inchiesta finanziata dalla American Academy of General Practice. La maggioranza dei pazienti ha fiducia nei propri medici, ma li ritiene in genere assai poveri di calore umano. Nel 75% si considerano ben curati, ma solo il 24% giudica il medico medio appassionato del suo lavoro. Un accenno particolare meritano gli aspetti finanziari della medicina, perché doppiamente illuminanti, sotto il profilo sia individuale sia sociale (esigenza di una fornitura a spese della comunità): i pazienti lamentano in massa che i costi sanitari siano saliti alle stelle.

La fame di medici veri. – La Los Angeles County Society ha pubblicato una ricerca secondo la quale «solo una su quattro volte le lamentele finanziarie dei pazienti sono giustificate». Nelle altre tre, invece, le lagnanze monetarie mascherano motivazioni connesse con scarsità di comunicativa umana e incomprensione. Sarebbero quindi solo il sintomo di una frattura o di una insoddisfazione nel rapporto medico-paziente e ancor più, secondo il Dr. A. Beckmann della Columbia University, «di una enorme ostilità intrinseca verso il medico».

Considerato che da sempre la comparsa del medico è connessa alla fase sgradevole e squilibrante della malattia, è chiaro che l’ostilità non riguarda il medico ma invece la sua insufficienza ad essere ciò che il paziente vorrebbe che fosse per lui. Tant’è che, a fianco delle critiche, la stessa inchiesta ha fatto emergere modelli particolari di medici reali, accettabili e desiderati; non a caso essi si distinguono per le superiori caratteristiche umane assai simili a quelle della figura tradizionale del medico, che risulta un elemento preminente – anche in una società superficialmente avida di tecnicismo – per l’efficienza terapeutica globale. Esistono d’altronde, proprio in U.S.A., conferme di massa di questa fame insoddisfatta di medici veri. Basta ricordare che i programmi televisivi più seguiti (nel 1962) furono quelli impostati sul chirurgo Ben Casey e sul dottor Richard Kildare (rilanciato quest’ultimo con uguale fortuna in Europa). Come ognuno di noi ricorda, era una serie apparentemente monotona di casi clinici, alla cui risoluzione contribuiva però, in modo determinante, la partecipazione umana del medico alla crisi umana del paziente. I motivi del successo? «Viviamo nell’era dell’ansia», ha spiegato il professor S. Jaffe, uno dei supervisori della serie, «e il pubblico ha un bisogno continuo di aiuto e di sicurezza: i medici, quelli veri, anche se personaggi della TV, costituiscono una delle risposte più efficaci a questo bisogno».

Ma come sono i medici oggi? La verità nuda e cruda (per ridirla come il manuale dell’O.E.O. citato all’inizio) è che il medico non è più quello di una volta; ma – a differenza di quel che pensa l’O.E.O. – non perché è più occupato per mantenersi efficiente, ma proprio perché è più efficiente, quindi più certo di stravincere tecnicamente, più superbo dei suoi mezzi, meno umile sul piano umano. Questo complesso di superiorità tecnica (temperato solo in personalità eccezionali da un altrettanto ipertrofico sviluppo delle qualità umane e umanistiche) comporta il rischio di minare alla base il rapporto di solidarietà tra chi richiede e chi dà l’assistenza, che i corsi di studio dimenticano.

Si può ricordare, come esempio di una critica costruttiva all’attuale sistema didattico, l’esperimento di cura domiciliare (Medicaid) messo in atto presso la Tufts University di Boston dal professor Hyman Shrand (pediatria e medicina preventiva). Oltre al lavoro nell’ospedale, Shrand invia presso le famiglie gli studenti degli ultimi anni, abbinati a un medico, ponendoli così a contatto con il sottofondo umano della malattia nelle sue meno mascherabili espressioni. I risultati? Per Shrand il più evidente beneficio dell’intero programma consiste nella sua «umanità». «Oggi non è più necessario discutere i vantaggi del curare i bambini nelle loro case, circondati da quelli che li amano. È invece nuovo ed eccitante registrare i dividendi emotivi accumulati dagli studenti nel contatto con i pazienti a domicilio. I nostri studenti di clinica arrivano a noi come indiscusse autorità in medicina molecolare. Registriamo invece la loro piacevole sorpresa, quando si rendono finalmente conto che il nucleo essenziale della medicina non è la membrana cellulare, ma piuttosto l’essere umano nella sua integrità».

Il concetto qui espresso clinicamente da Shrand costituisce il nucleo intimo di quella Medicina-Uomo che la presente ricerca propone, a vantaggio comune di se stessa e dell’uomo. Ma deve trattarsi sostanzialmente di un assenso sentimentale e quasi fideistico (un ribattezzarsi dunque, come è già stato detto), piuttosto che un giochetto burocratico-amministrativo, come quello inventato dall’O.E.O. È chiaro infatti che, se il medico moderno ha perduto l’umanità, è a lui stesso che occorre ridarla, non a un subalterno «specialista in rapporti umani» al quale il paziente rifiuterebbe l’assenso sentimentale profondo.

Corvisart, il medico di Napoleone, all’imperatore che si rotolava sul tappeto giurando di essere stato avvelenato, gridava con veemenza: «Vergognatevi, Sire; la vostra è vigliaccheria. Non avete che crampi allo stomaco. Alzatevi!». E Bonaparte «guariva». «Non credo alla medicina» diceva, «ma credo in Corvisart». C’è forse qualcuno così ingenuo, da credere che lo stesso effetto sull’imperatore, colto da una crisi acuta di ansietà, l’avrebbe avuta la spiegazione in linguaggio comune dei referti biochimici del succo gastrico, fattagli da una comare patentata sia pure abbigliata da merveilleuse neoclassica?

L’angoscia del medico. – Come l’imperatore dei francesi, anche il più disincantato cittadino dell’era dei jet crede ancora nel medico, quando ha la fortuna di incontrarlo (ha imparato però a riconoscere, sempre più acutamente, la differenza tra questo raro esemplare e il semplice «laureato in medicina» che una volta coincidevano, nella sua stima ed opinione). Ma, a documentare la enorme crisi professionale della medicina attuale, diventa oggi addirittura lecita questa domanda paradossale: «Siamo sicuri che almeno i Corvisart credano ai Corvisart?».

Infatti da alcune evidenti situazioni di malessere individuale e collettivo sembra purtroppo di no. Anche (e si può dire soprattutto) i medici più degni di tale qualifica avvertono una dolorosa incertezza sul loro significato e sulla loro utilità per l’uomo, in questo tempo di metamorfosi della medicina.

Uno di questi e J. Hamburger, direttore del Centro nefrologico all’ospedale Necker di Parigi. In un saggio del 1972 (La puissance et la fragilité) analizza con esattezza scientifica, sotto la quale tuttavia traspare l’angoscia ad ogni pagina, la situazione straordinariamente sofferta del medico appunto perché per la prima volta veramente padrone - con le sue scelte - del destino e della vita di chi gli si affida.

Il contrasto tra la «potenza» e la «fragilità» si ripropone oggi quasi ad ogni suo intervento, e diventa lo stress di tutta la vita, alla drammatica ricerca di una certezza che continuamente gli sfugge. Un tempo essere medico era molto più semplice (eppure un’inchiesta U.S.A. del 1950 accertava già per i medici una incidenza di infarti cardiaci del 330% rispetto alla media generale): si poteva fare relativamente poco contro le malattie, ma quel poco non costringeva a pesare le alternative tra due rischi, sempre più spinti quanto più l’intervento può risultare efficace. Chi ha la responsabilità (globale) del paziente è sempre più costretto a delegare la sua scelta ai superspecialisti depositari di un sapere settoriale maggiore del suo; e ciò non contribuisce a lasciarlo tranquillo.

Hamburger riconosce la continua e progressiva distanza tra le conquiste ultime della scienza e la loro nozione nel campo medico generale. E propone una rete di terminali ai quali qualsiasi medico in professione possa attingere, momento per momento, la più aggiornata «conoscenza obiettiva».

Sennonché a questo punto si scontra con l’esigenza giornaliera della scelta singola per l’uomo singolo. Si accorge allora che essa si trasforma, da puro fatto tecnico, in un preciso caso morale da risolvere volta per volta; e ancora che la mitizzata conoscenza obiettiva, le cui certezze nascono dalla misura della realtà in termini probabilistico-statistici, non gli può essere di alcun aiuto esattamente perché – in ordine alle stesse leggi della probabilità – le certezze statistiche risultano completamente inapplicabili alla problematica del caso singolo, riproposto dunque ogni volta alla sua personale scelta, contesta di dubbi e d’angoscia. Hamburger giunge perciò a proporre un accordo tecnico «da parte di ricercatori professionisti» sui criteri da adottare nelle scelte «etiche»; e non si accorge così di cadere in uno schema deterministico, alla lunga più stressante e più antiumano di quella stessa angoscia che vorrebbe annullare o ridurre.

Egli, inoltre, trascura la probabilità zero che quell’accordo fra tecnici da lui auspicato possa mai verificarsi. Difatti il profeta moderno più noto della «conoscenza vera od obiettiva» espressa in termini apparentemente rigorosi di caso, necessità e selezione, è il suo compatriota J. Monod, premio Nobel 1965 per la medicina e fisiologia, attribuitogli per le ricerche sull’informazione genetica e sulla biologia molecolare. Ma il suo vangelo (Il caso e la necessità) riesce ad estrarre dalla esperienza di ricerca, riproposta con drammatico stile e affascinante linguaggio, non altro che una risposta già nota e screditata al quesito fondamentale del «perché viviamo». Per dichiarazione medesima di Monod ad Hamburger (v. Cambiare il destino: colloquio tra J. Hamburger e J. Monod in «Panorama», n. 366, 1973) la sua tesi conclusiva si riallaccia al positivismo scientifico di Comte e alla teoria sintetica di Haldane, Huxley (J.), e Simpson, entrambe già largamente superate.

Lungi da noi l’idea di entrare qui nel merito della tesi di Monod; ci importa tuttavia ricordare che un biologo almeno altrettanto grande, quel F. Jacob che, guarda il caso, ha ottenuto anch’egli il premio Nobel per la medicina e fisiologia, per lo stesso anno 1965, e per ricerche nel medesimo campo della biologia molecolare e genetica come Monod (e perciò a lui abbinato) afferma e dimostra, nel suo volume La logica del vivente esattamente il contrario di quest’ultimo. Di fronte ai medesimi fatti sperimentali, avvicinati forse con un maggiore rispetto che gli rivela le lacune sempre più intime della loro «conoscenza scientifica», F. Jacob si trova costretto, con pieno rigore epistemologico, ad avanzare una lunga serie di interrogativi «tecnici» esattamente là dove J. Monod precede con certezza dogmatica nel «panbiologismo molecolare» e nelle sue conseguenze meccanicistiche, persino per l’uomo. Mentre Monod si rivela dunque «riduzionista» (cioè intende l’organismo come un tutto che può essere spiegato in base alle sole proprietà delle sue parti componenti), Jacob si dichiara apertamente «integrista» (cioè si rifiuta di pensare che tutte le proprietà di un essere vivente, il suo comportamento, le sue attività, possano essere spiegate sulla base delle sole strutture molecolari. Il tutto, insomma, non è semplicemente la somma delle parti).

Questo atteggiamento più aperto gli ha fatto dire in una intervista del 1972: «Non è un caso che tutte le grandi scoperte contrastassero con la verità del momento in cui nacquero: qualcosa che non collimava con la “spiegazione del mondo” in quel momento accettata… La verità ha una durata effimera, e già in questo sta la punizione del conoscere. Il sapere non è fatto per consolare: disinganna, inquieta, ferisce».

È la risposta più certa – e più deludente – alla ricerca appassionata ma ingenua di Hamburger. Dunque il medico di oggi, nell’esercizio cosciente della sua professione, resta solo, non essendogli possibile sperare in alcuna comoda delega di responsabilità, neppure verso l’«onnipotente» scienza dell’ultimo minuto. Questo è appunto il sigillo infrangibile della sua terribile crisi nel mondo moderno, «esplosione atomica» di un esame di coscienza iniziato 80 anni fa e tuttora ben lungi dall’essere concluso.

Capitolo VI – La rivoluzione tecnologica: l’uomo scompare

Nel capitolo precedente è apparsa per un attimo alla ribalta (per invito di J. Hamburger) la gigantesca protagonista extraumana della medicina moderna, cioè la tecnologia.

Ogni mestiere, professione o arte, per non parlare delle scienze (e la medicina è stata ed è tutte queste cose insieme…) si è valso nei secoli di uno strumentario tecnico via via più perfezionato, come espansione artificiale dei suoi strumenti naturali (occhio, orecchio, mani…). A un certo momento storico, circa un secolo fa, la tecnica delle macchine ha sviluppato prodotti così raffinati da riuscire a sostituire quasi tutto l’uomo (come animale da fatica o da traino, come schiavo e come artigiano) dimostrandosi più efficienti e meno costosi di lui. Che questa rivoluzione delle macchine sia all’origine insieme dello smodato progresso e della decadenza umanistica e morale delle società occidentali è cosa ormai ovvia. Meno ovvia è la considerazione che essa ha falsato con la troppa facilità i valori meno deperibili dell’intelletto umano. Così i pittori e gli scultori, finché avevano nei loro corredo tecnico, dalla preistoria in poi solo i pennelli e gli stili, il mazzuolo e lo scalpello hanno prodotto faticosamente opere da museo capaci di parlare al cuore di tutti; oggi che si valgono di martelli pneumatici e di presse, e di materie plastiche che consentono ogni ardimento e avventura, quasi tutta la loro produzione – anche se lucrativa come non mai – appare incapace di sollecitare qualsiasi colloquio sentimentale.

La tecnica in medicina. – Quale partecipante alla realizzazione dell’uomo, neppure la medicina poteva sfuggire al medesimo destino. Ma diversamente dal mezzo di trasporto e dall’arte informale – dei quali si può anche fare a meno, restando ugualmente vivi – la sua degenerazione tecnologica rivela in sé i  germi già rigogliosi di una tragedia globale, destinata a coinvolgere non solo la sua espressione formale (la professione), non solo quella sostanziale (l’amore verso gli uomini), ma addirittura la sua efficienza e utilità, e alla fine persino il suo oggetto (cioè l’uomo stesso, tanto come medico, quanto come paziente).

Dall’inizio dei tempi fino ad un molto prossimo ieri, il medico di fronte al malato doveva raccogliere gli elementi del giudizio solo attraverso i mezzi sensoriali naturali: il suo «occhio clinico», il tatto delle mani sulla pelle e contro i visceri, l’odorato (nelle gangrene e nel colera, nella peste), l’orecchio nudo sul torace, persino il gusto (se assaggiava, come usava nel ’700, l’urina del suo paziente, alla ricerca del diabete mellito, cioè dolce!) ma null’altro di più. II tecnicismo medico era quasi inesistente: per la diagnosi (extraradiologica) della pleurite essudativa si usava la succussio hippocratica (lo scuotimento del paziente, inventato da Ippocrate); ma non la percussione digitale, che oggi didatticamente la precede, perché essa fu introdotta in clinica solo nel 1786 da Jean N. Corvisart des Marets, il già ricordato medico di Napoleone, che l’aveva vista usare dai bottai delle sue tenute, per riconoscere il livello del vino attraverso la parete opaca dei tini.

Esisteva già naturalmente (come di tutte le scoperte occidentali, dalla polvere da sparo agli spaghetti ai razzi) un precedente tecnico in Cina; a parte la acupuntura vecchia di cinquemila anni, Ch’in Yuch-jen aveva descritto, nei V sec. a.C., le «74 varietà diagnostiche del polso», rielaborate in forma perfetta verso il 280 d.C. da Wang Shu-ho nei dieci volumi del Mo-ching (Canone del polso). Ma si trattava, secondo la comune opinione, di una fra le tante panzane antiscientifiche affastellate dal veneziano Marco Polo nel suo Milione (ca. 1300 d.C.), quindi indegne di essere ricordate.

Persino il più semplice rilievo quantitativo, tanto naturale oggi che il paziente motiva su di esso la richiesta di visita («Dottore, il mio bambino ha 39° di febbre…») e addirittura neonato, rispetto alla età incommensurabile della cura dei malati: infatti la misura clinica della febbre, per mezzo del termoscopio di Galileo, fu introdotta da Santorio Santorio, professore a Padova, nel 1615. E lo stetoscopio da auscultazione da R. Th. Laennec nei 1815; le prime somministrazioni non orali dei medicamenti da Ch. G. Pravaz nel 1830, con l’invenzione dell’ago cavo e della siringa; la misurazione della pressione arteriosa dal varesino S. Riva-Rocci, 1895; e nello stesso anno, con la scoperta dei raggi X da parte di W. Roentgen, il medico acquisiva la magica potenza di vedere dentro nell’uomo, senza ferirlo.

Dai primi del ’900, seguendo il solito schema del sinusoide smorzato, le scoperte si fanno sempre più frequenti ma insieme sempre più specialistiche: nel 1903 l’elettrocardiogramma (E.C.G.) con C. Matteucci e W. Einthoven; nel 1929 l’elettroencefalogramma (E.E.G.) con H. Berger; negli anni ‘30 la radio stratigrafia, negli anni ‘50 la roentgencinematografia e via, orma all’infinito. Molti degli apparati strumentali relativi a questa ondata di tecnicismo, scintillanti di cromature e affollati di quadranti dei cruscotti di un Jumbo, ingombrano gli studi dei neolaureati, arredati a spese e cura della famiglia, a partire dall’ormai onnipresente apparecchio radiologico. Ma purtroppo il più delle volte la loro funzione è prevalentemente di  Status symbol» piuttosto che di utile sussidio diagnostico.

A parte l’enorme spesa d’impianto e di esercizio che la medicina strumentale comporta, interessa qui rilevare due gravissimi pericoli ad essa strettamente correlati. Il primo riguarda il mito della infallibilità dei mezzi tecnici e dei loro referti, tanto più radicato quanto meno ciascun medico ne ha diretta conoscenza(e con ciò l’esatta nozione delle possibilità statiche di errore) da esso consegue l’abdicazione frequente del medico ai suoi mezzi umani, considerati a torto insufficienti e tecnicamente obsoleti di fronte a quelli extraumani.

Il secondo pericolo si identifica con l’essenza stessa dell’esplosione tecnologica. Dopo la produzione di apparecchi meccanici sempre più perfezionati, l’elettricità li ha resi ancora più  efficienti, e infine l’ingegneria elettronica li ha mitizzati. Non tanto per averli miniaturizzati comprimendo in volumi minimi delle capacità favolose, ma piuttosto per l’atmosfera messianica che ha circondato l’utilizzazione sociale e scientifica degli ordinatori o computer. (Per esempio all’inizio, e in gran parte anche oggi, non è possibile acquistarli ma solo affittarli il che li parifica, giuridicamente, ad uomini liberi invece che a schiavi  meccanici!).

Il riconoscimento tecnico delle capacità straordinarie dei computer, tanto superiori per volume mnemonico e per supposta velocità elaborativa a quelle del cervello umano, si è trascinato appresso, disgraziatamente, anche l’equivoco di una loro inesistente superiorità a livello di scelta critica, che invece è a loro totalmente negata. Per questo è stata definita ingenua la proposta di J. Hamburger, circa il ricorso ai mezzi tecnologici come a un «deus ex machina» in grado di risolvere i terribili problemi informativi, ma soprattutto etici, che assillano l’esercizio moderno della medicina. è assolutamente irrazionale credere che il libero accesso ai terminali possa riprodurre, per lo stregone moderno quel legame esclusivo con la divinità nel quale risiedeva la radice della dignità e della potenza del suo arcaico collega tribale.

L’ente superiore di quest’ultimo (almeno nell’opinione sua e dei malati, quindi come «fede guaritrice») era onnipotente; il computer supremo del mondo, anche se avesse nei suoi tamburi di memoria tutta la scienza in continua espansione, non sarebbe neppure onnisciente. Per questo l’attuale esplosione tecnologica, a chi la esamini senza pregiudizi, riecheggia, magari per un impulso del subconscio, un sottofondo musicale denso di aspettazione fremente, avviato a un crescendo sabbatico e a una tempesta orgiastica incontrollata. Lo stesso cioè dell’apprenti sorcier del poema sinfonico di Dukas, che scatena le potenze infernali ma non riesce più, in assenza del suo «primario mago», a tenerle sotto controllo, finendone a sua volta – controllato e travolto.

L’esplosione della tecnologia.- Tuttavia, per quanta forse irriverente, è difficile sottrarsi al medesimo accostamento anche analizzando razionalmente il fenomeno. In questi tempi di medicina per tutti la tecnologia sanitaria e la bioingegneria sembrano promettere la soluzione di ogni problema di programmazione e di gestione; per questo raccolgono adesioni sempre più vaste, come documenta la nascita, quasi a ritmo di fissione nucleare, di sodalizi ad esse dedicate: in U.S.A. per esempio il Committee on Interplay of Engineering with Biology and Medicine (della N. Acad. Eng.) nei 1967, la Biomedical Engineering Society nei 1968, la Medical Electronics Section (della E. Industries Assoc.) nel 1969, la Society for Advanced Medical Systems nel 1969 e così via in tutto il mondo, da allora.

Tuttavia di fronte a una valanga così improvvisa di studi, progettazioni, applicazioni pratiche della tecnica elettrica ed elettronica in tema di salute, di perfetti studi teoretici e applicativi di sistemistica volti a ogni fine sanitario, desta una certa perplessità la grave carenza di ricerche relative al significato e alle interazioni del fenomeno, massiccio e deflagrante, con la nostra attuale realtà psicosociale. Dopo il grandissimo Wiener, ben pochi se ne interessano. Ed è colpa pesante perché quando i mutamenti sociali, da ordinati e progressivi, si fanno – come ora – improvvisi, urgenti e rivoluzionari, nasce su di essi (J. Whittico jr.) «l’eta del discontinuo e dell’incongruo».

Che la tecnologia aiuti gli uomini, nessuno l’ha messo mai in dubbio. A differenziarci radicalmente dagli animali bastano la ruota e il fuoco, con le loro infinite conseguenze. Tra le quali, a tempo debito, è giunta la mongolfiera cantata dal Monti, e il traforo del Fréjus immortalato nel «Ballo Excelsior» quando ancora la scienza e la vita camminavano sottobraccio, mutualmente spianandosi le difficoltà dell’esistenza. Ma nessun poeta ha cantato la nascita ben più importante dell’UNIVAC né dei calcolatori della seconda generazione. Non per disinteresse, forse, ma come riflesso dell’indigestione tecnica. In virtù d’essa le promesse della tecnologia ci hanno quasi reso impossibile il vivere, appunto perché mantenute. In una sua relazione (Los Angeles 1965) l’allora presidente della American Medical Association, J.Z. Appel, ricordava che «oltre il 90% degli scienziati di tutta la storia umana sul pianeta Terra sono vivi e lavorano oggi. E le conoscenze mediche sono cresciute più negli ultimi 30 anni che in tutto il resto della storia umana». Ma il futuro ci riserva di peggio: «l’ampiezza di queste conoscenze, in crescendo esponenziale, ha già superato in volume tutta la materia medica insegnata e studiata dieci anni fa». Ciò equivale a dire che nessuna istruzione medica può mai aspirare ad essere completa. Ne consegue che la stessa istruzione, ormai indominabile non soltanto dal proverbiale uomo solo ma neppure da una singola specializzazione (che infatti si scindono a ritmo accelerato), riesce a conferire al neolaureato un intossicante miscuglio di orgoglio e spesso di superbia pubblica, ma insieme di insicurezza privata laddove la piccola scienza antica, conscia dei suoi invalicabili limiti, conferiva ai medici la giusta miscela di umiltà e di sicurezza (entro quei limiti) che li rendeva preziosi e benefici.

Tecnologia «bianca». – Naturalmente, come per la magia la Kabbala insegna che esiste la bianca (benefica per l’uomo) oltre alla nera (malefica), anche la tecnologia rivela una estrema potenza di bene, innegabile e affascinante. Per riferirci solo alle sue implicazioni sanitarie, la tecnologia bianca ha reso possibile il godimento di massa di un prezioso e dimenticato aforisma di Ippocrate: «La salute dipende dal tempo, ma spesso anche dalla opportunità». L’opportunità originaria, per esempio, è quella dell’incontro spazio-temporale tra il malato e il medico, una volta reso estremamente difficile dalla mancanza di mezzi di comunicazione. L’automazione, preziosa per i costi nell’industria, può essere applicata con vantaggio anche in medicina allo svolgimento di lavori ripetitivi di grande massa, dove la pazienza umana si esaurisce a scapito dell’attendibilità (analisi biochimiche e di laboratorio; registrazione e aggiornamento di cartelle cliniche; e tutto il fardello burocratico che ruba al pensiero medico larghissime somme dello scarso tempo disponibile).

A livello della precipua specializzazione dei calcolatori (cioè non tanto la semplice raccolta mnemonica ma la elaborazione significativa di dati biomedici di massa), la loro introduzione ha prodotto un risultato prezioso mai raggiunto in millenni di arte medica: ha cioè richiesto ai medici di quantizzare e definire i fenomeni normali e patologici, per renderli idonei al confronto statistico; un esame di coscienza scientifico, euristicamente benvenuto. Ancora più essenziale e l’apporto della teoria dei sistemi all’inquadramento matematico della logica medica, con la pressante compulsione (sia in diagnostica sia in terapia) a tenere conto solo dei concetti e dati fondamentali, eliminando spietatamente quelli superflui.

Importantissima la possibilità, data dalla combinazione automazione-calcolatori, della creazione e applicazione di sistemi di «pattern-recognition» (riconoscimento formale), in ordine ai quali è possibile eseguire l’analisi istantanea di significatività delle onde ECG ed EEG, e dei cromosomi cellulari, con precisione maggiore di quella del controllo umano. Infinitamente prezioso – per l’enorme risparmio di tempo, ricordando che il calcolatore opera in tempo reale cioè dà la risposta nel tempo stesso in cui gli si pone la domanda – il lavoro dei computer nella archiviazione dei dati relativi alla letteratura medica, ormai impossibile per chiunque, per la solita crescita esponenziale (sistema MEDLARS [= Medical Literature Analysis Retrieval System] e altri). è sufficiente imparare il linguaggio dei calcolatori, uno qualsiasi dei molti già disponibili (FIDACSYS, BUGSYS), per chiedere al computer centralizzato, da un qualsiasi terminale o per telefono, come a un enciclopedico direttore di cattedra sempre disponibile, la soluzione di qualsiasi dubbio tecnico. Oltretutto il calcolatore, se collegato telefonicamente a una biblioteca medica (come è già stato attuato alla Harvard Medical School) si aggiorna continuamente da solo. Ma, la risposta, esatta, verrebbe in termini di probabilità statistica, perciò tanta più vera quanta più la statistica è ampia, perciò tanto meno applicabile all’angosciante caso singolo, e del tutto inutile per l’etica della scelta, come abbiamo già visto.

Altri tre grandi benefici della tecnologia elettronica sono: a) il monitoraggio continuo o periodico, ospedaliero o ambulatorio (nel senso proprio, cioè col paziente che cammina, portandosi sotto l’ascella una scatoletta miniaturizzata che registra tutto di lui, e lo trasmette a un centro di controllo); b) l’uso dei calcolatori come macchine insegnanti a disposizione dell’enorme numero e dell’insufficienza didattica degli studenti in medicina. Non è fantascienza. L’uso dei calcolatori per il «gioco dei dirigenti» è già una realtà, adottata da alcune grandi società americane. Infine, c) la possibilità, considerata la raccolta automatizzata dei reperti e la loro elaborazione in tempo reale della realizzazione degli AMHT (Centri multifasici di controllo della salute), sull’esempio del primo, il celebre Kaiser Permanente of  North California.

Tecnologia «nera». – C’è però l’altra faccia della medaglia, quella nera, che paradossalmente dipende dall’ipertrofia, insostenibile biologicamente, delle promesse tecniche mantenute.

Cominciamo dalla famosa «opportunità» di Ippocrate. L’auto ha finalmente avvicinato, nel momento del bisogno, il paziente e il medico. Ma ora per il traffico caotico delle città torna ad allontanarli, questa volta senza alcuna speranza di soluzione. è così che (J. Truxal, 1969) per far giungere un traumatizzata in ospedale occorrevano solo 22′ nel Vietnam (zona di guerra) e 45′ a New York. E per la stessa ragione E. H. Bishop, ginecologo americano, ha dedicato serie ricerche alla previsione del travaglio di parto (misurazioni pelviche), avendo riscontrato che, in determinate ore del giorno, il trasporto in ambulanza dal domicilio al più vicino ospedale ha elevate probabilità di finire con un parto in ambulanza, nel mezzo di una coda ad un semaforo. Più traumatizzante e pericoloso dunque di quello tradizionale e sottosviluppato di una donna Bantu appesa ad un albero, e aiutata dalle comari più esperte del villaggio.  L’automazione è teoricamente la panacea di ogni problema nell’industria lo dimostra ogni giorno, adeguandosi perfettamente alla natura dei servizi ivi richiesti (ripetitivi, con interventi decisionali semplici) e ai problemi di sviluppo. Sennonché «nella cura della salute (C. D. Flagle, 1969) non esistono alternative più semplici delle procedure tradizionali»; ciò conduce, fatalmente, all’esigenza teorica e pratica (R. Rushmer, bioingegnere dell’Università di Washington, 1969) di una continua iperspecializzazione orizzontale e verticale, circoscritta a categorie sempre più ristrette perché possano risultare omogenee e quindi automatizzabili. è chiaro che l’estrapolazione terminale del concetto condurrebbe al reparto iper-specialistico per il paziente singolo.

Collegata a questa impostazione è la richiesta sovrabbondante di medici, sempre più numerosi ma sempre più insufficienti. Sono già superate le cifre previste da Appel a Los Angeles, quando giudicava che, col tasso di richiesta presente «i medici in USA avrebbero dovuto essere, nel 2000, circa 550.000».

In realtà nel 1969 erano già diventati (E. Egeberg sottosegretario del HEW) 324.000, ma sempre più scarsi cosicché non ha più nemmeno sapore di paradosso l’affermazione di R. Fein (The Doctor Shortage: an economic analysis, Wash. 1967) secondo il quale, continuando così l’incremento di popolazione e la espansione della domanda, «fra 50 anni sarebbe necessaria metà della popolazione, per curare l’altra meta». Quanta alla codificazione esatta dei dati, purtroppo in medicina non tutto è quantizzabile (per esempio gli stati d’animo) e il confine tra dati fondamentali e superflui è quanto mai aleatorio. è esattamente qui – infatti – che si applica l’affermazione di A. Chapomis (1965) relativa alla «documentata superiorità dell’uomo sul calcolatore, a livello della percezione e della sintesi complessa».

Ma esiste un pericolo ancor più serio, e soprattutto progressivo: la delega continuamente dilatata di responsabilità alla tecnologia disabitua i medici all’esercizio non assistito della loro arte. E non si parla della iperspecializzazione e della responsabilità suddivisa, ma del fatto che già oggi ben pochi medici si fidano a fare diagnosi senza radiografie, e perciò molti tisiologi non sanno più auscultare il torace, molti urologi e ortopedici trascurano di palpare il paziente; e domani sarà così per tutti, senza eccezione.

D’accordo che la medicina è così affascinante da attrarre persino i computer: il calcolatore dell’università del Missouri, programmato per scegliersi un lavoro, si è proposto per l’insegnamento medico, la ricerca, la diagnosi e la terapia (Appel, 1965)! Ma la delega totale della pratica e dell’aggiornamento condurrebbe senz’altro all’atrofia e alla rigida dipendenza fattuale e psicologica dal dio-calcolatore.

Se venisse la guerra atomica, come ci troveremmo, con i calcolatori distrutti? Anche questa non è fantascienza: quando alle 17,15 del 9 novembre 1965 la rete di energia (controllata dai calcolatori) saltò, e mise al buio 30.000.000 di americani in nove stati e tre province canadesi per dieci ore, anche i calcolatori si spensero. L’equilibrio mentale della comunità restò affidato a un fattore imprevedibile, cioè alle universali radioline a transistor che mantennero i contatti interpersonali e impedirono il panico e la catastrofe. Ma se già allora gli interventi medici li avessero eseguiti i computer, invece che medici, uomini al lume di candela, come sarebbe finita? Si potrà obiettare l’eccezionalità dell’evento; e allora restiamo pure sul concreto terreno di ogni giorno.

In quest’ultimo quarto di secolo le realizzazioni della medicina tecnologica hanno espanso esponenzialmente la domanda, senza prima espandere la capacità del sistema. E le spese sanitarie crescono ovunque al mondo fino ad essere insostenibili. Ma di questi due argomenti, e dei loro pesanti riflessi psicosociali e socioeconomici, discuteremo in un prossimo capitolo. Qui vogliamo per ora accantonarli, limitandoci ad illuminare il paradosso sempre più grave e contestabile del «discontinuo e incongruo» che la tecnologia offre all’umanità, per la sua stessa benefica natura.

Quella meraviglia tecnica che è un AMHT (il centro multifasico di salute), smista in un anno un massimo di 30.000 pazienti, al ritmo vertiginoso di uno ogni quattro minuti di tempo operativo. Ne esistono negli USA circa 140, ma per coprire uniformemente tutta la popolazione attuale ne occorrerebbero (J. Truxal) circa 4.000. Ora anche ammesso di spremere dalle tasche dei contribuenti gli altri 12 miliardi di dollari necessari non si tratta solo di una questione di finanziamento.

Le nuove macchine tecnologiche possono essere anche fornite, ma esiste chi «le faccia andare»? II prof. P. Stefanini, al Convegno ANIPLA di Milano (gennaio 1971) su «L’automazione nella assistenza sanitaria» ha lamentato la gravissima scarsità di personale tecnico in grado di operare con i microscopi elettronici, la macchina cuore-polmoni, i nefro-dializzatori. Anche ammettendo che questo paralizzante problema di uomini possa essere risolto (forse con i supercomputer?) i più recenti sviluppi dimostrano che il progresso tecnologico sta divorando se stesso. Infatti anche i plus ultra AMHT, nei quali i programmatori politici ripongono le più rosee speranze di una difesa sanitaria di massa, risultano già concettualmente e praticamente superati! Essi forniscono in tempo reale, analizzando automaticamente il sangue prelevato dal paziente, una impressionante lista di misure quantitative delle costanti biologiche: dal numero degli eritrociti per millimetro cubico al tasso di emoglobina; dalle concentrazioni dei sali (di magnesio, calcio, fosforo, ferro, potassio, sodio) a quelle del colesterolo, dei lipidi, della bilirubina, persino il tenore dei principali enzimi normali e patologici (dalle transaminasi [GOT e GPT] alle LDH, HBDH, GLDH, CPK, G – 6 – PDH ecc., ecc.).

Sennonché, a parte i dubbi sempre più documentati sulla attendibilità singola dei reperti, sta crescendo nei loro confronti (e nei confronti addirittura di tutta l’enorme massa di esami di laboratorio finora immessi nei calcolatori centralizzati) una demolitiva critica di fondo sulla utilità diagnostica dei dati istantanei. Il più recente Simposio sulla Strutturazione del laboratorio moderno (Mannheim, Germania, 16 gennaio 1974) ha concluso unanimemente «che gli esami effettuati su campioni isolati (che costituiscono oltre il 99% delle analisi chimico-cliniche attuali) non riescono a mettere in evidenza la “regolazione biologica”. Quest’ultima, cioè la variazione nel tempo dei valori (che esprime in numeri non altro che l’incessante pulsare della vita), può essere rilevata solo attraverso il monitoraggio continuo (come si fa già, oggi, nelle cosiddette unita coronariche, per i seguenti parametri biologici: ECG, battito cardiaco e aritmie, pressioni arteriosa e venosa, ventilazione polmonare, gittata cardiaca, temperatura, EEG). è certo tecnicamente possibile ricorrere all’impiego di autoanalizzatori da 6 a 12 canali per ottenere misurazioni continue in vivo; i costi divengono però proibitivi e le difficoltà assai maggiori. Ciò nondimeno, nel prossimo futuro, l’analisi dei singoli valori biologici verrà relegata a un ruolo piuttosto secondario e cederà il passo a taluni monitoraggi importanti».

Quello che il Simposio non ha detto, ed è il risvolto tragico del nuovo fatale «progresso», è che l’impiego dei 6-12 canali per un giorno soltanto per ogni caso ridurrebbe la capacità di un AMHT a un centoventesimo di quella attuale. Perciò, per soddisfare le esigenze dell’intera popolazione U.S.A., ne occorrerebbero non più 4.000 ma centoventi volte di più, cioè 480.000, instaurando con questa sola ipotesi un clima di paranoia organizzativa o, più semplicemente, l’annullamento di ogni ambizioso programma di massa. A meno che gli AMHT selezionino fra tutti i cittadini i rari eletti ai taluni monitoraggi importanti. Ma come e chi sceglierà? Tra i negri o tra i WASP1 tra i nordisti o tra i sudisti, tra i grassi o tra i magri, o magari con una lotteria nazionale? E gli esclusi, tuttavia paganti come chiunque altro il servizio, come reagiranno?

Qui basta solo segnalare che, per sua stessa ammissione, dalla medicina tecnologica è finalmente scomparso (oltre al medico) anche l’uomo che essa cerca di analizzare. Non è infatti possibile dare altra interpretazione al rifiuto della validità dei reperti isolati; la stessa sorte, in breve tempo, subiranno anche i previsti fasci temporali delle costanti biologiche per quanto estesi. Ciò significa la cruda ammissione, per la medicina tecnologica, della incapacità a circoscrivere l’uomo (o a riprodurlo nella sua integrità) in formule analitiche per quanto complicate e costose.

Riemerge qui, ancora, il dilemma non risolto tra l’orgoglioso e falso riduzionismo di Monod e l’integrismo di Jacob, matrice dell’angoscia globale di Hamburger. E tuttavia la stessa ammissione di sconfitta, che in chiave negativa appare ai superficiali come un difetto scientifico, può essere invece, in chiave positiva, l’inizio tecnico della riscossa dell’uomo, visto che egli si rivela sorprendentemente superiore, nella sua sintesi reale, ai mitizzati robot elettronici che l’illusione tecnocratica ci propone da adorare come dei.

 

 

 

 

 

 

Capitolo VII – Il tabù in medicina

 

Il tabù è l’interdizione o divieto sacrale, alogico, di persone, cose, luoghi, tempi, parole, descritto nel 1777 dall’esploratore inglese Cook, a Tonga, in Polinesia, come stranezza propria a comunità incivili. Ma ricerche successive ne hanno ritrovato l’esistenza anche in altre civiltà attuali (India) o antiche (ebrei, greci, romani), in genere legata a riti religiosi o filosofici. Dovunque i tabù più importanti riguardano la nascita, la morte, il versamento di sangue: in sintesi simbolica quindi la vita, nel suo sorgere, nel suo mantenersi, nel suo spegnersi.

Il significato del tabù è stato chiarito da S. Freud, quale indice di un conflitto intrapsichico tra intensi desideri inconsci e il divieto di tradurli in atto. «Nei riguardi della persona o dell’oggetto tabù il primitivo sente perciò, al tempo stesso, attrazione-repulsione e terrore, come il nevrotico ossessivo nei confronti di certi oggetti o situazioni» (Totem e tabù). I desideri più colpiti dal tabù sono - secondo Freud - quelli dell’incesto e del parricidio; in sintesi quindi ancora e sempre la vita, negli strumenti antropomorfici del suo trasmettersi. Per quanto possa sembrare impossibile a chi la crede tutta scienza e macchine, la medicina soffre acutamente, oggi assai più che nei tempi andati, di una gravissima interdizione irrazionale, cioè di un vero e proprio tabù, nei confronti della morte o della sua supposta inevitabilità.

rivela. – È esattamente in ordine al suddetto tabù che, sebbene la lotta alla morte sia la sostanza stessa dell’arte medica, il paziente terminale è un vero paria nell’ospedale moderno. Ne fa fede una ricerca compiuta all’Università di Chicago dalla psichiatra Elizabeth K. Ross. Essa ha scoperto che l’accettazione della morte prossima attraversa cinque distinte fasi psicologiche, che importa conoscere e seguire (sarebbe lecito aggiungere «con amore») perché la frustrazione sia ridotta al minimo. Invece accade tutto il contrario; «il paziente che muore è circondato dalla cospirazione del silenzio. Le infermiere sono più lente a rispondere alle sue chiamate, i medici lo sorvolano nel loro giro». La ricerca della Ross è riuscita, limpidamente, a enucleare nel comportamento il tabù: «Lo schermo difensivo che cerchiamo di erigere tra il paziente e l’idea della morte è in realtà destinato a proteggere noi, non il diretto interessato». Analoghe conclusioni, questa volta desunte dal comportamento dei malati, sono state espresse dal dr. S. C. Klagsbrun, psichiatra del St. Luke’s Hospital di New York, dopo un esperimento di 18 mesi in una divisione di cancerosi. Rovesciando l’atteggiamento di freddezza dei medici e delle infermiere nel reparto ha osservato che la vita è rivissuta da questi pazienti, fino al momento terminale. Sappiamo già che questa freddezza non è altro che lo schermo difensivo della Ross, sintomo irrazionale del tabù della morte che scatta però di fronte al cancro anche mesi, quando non anni, prima che il paziente sia veramente terminale ma già condannato. Ciò ne fa un paradigma perfetto del malato cronico e senza speranza, per l’analisi delle interdizioni alogiche che il mondo dei sani, quello dei malati, e infine quello della medicina, rivelano di fronte a una tale evenienza umana.

Il tabù contro il cancro agisce a tutti i livelli d’incontro, dalla propaganda alla ricerca. Esso si rivela già nell’atteggiamento dei sani di fronte alla malattia, e persino nei termini usati per indicarla. In un tempo di definizioni precise come il presente, il cancro è l’unica malattia ad essere del tutto «innominata», tal quale il personaggio manzoniano dei Promessi Sposi. Carcinoma e cancro infatti non sono altro che l’antichissimo nome egizio di granchio tradotto in greco ( ?a?????? )e in latino (cancer), derivato dal frequente aspetto simile al crostaceo, cioè di una massa centrale con gettate radiali periferiche (come le chele del granchio) che gli imbalsamatori egiziani osservavano aprendo l’addome dei cadaveri da mummificare. Tumore è puro latino (tumor), ma significa solamente gonfiore (della parte affetta); sarcoma (dal greco s????µa) vuol dire solo massa carnosa; neoplasia descrive unicamente, alla greca, la nuova formazione (di tessuto); eteroplasia, che vorrebbe forse esprimere un minimo giudizio patogenetico («formazione estranea») e addirittura un falso scientifico, riconosciuto tale dalla scoperta del microscopio in poi. Né i termini composti («oncologia, oncologo») hanno maggior significato: dal greco ?????, (volume, mucchio, corpo voluminoso) essi definiscono puramente la scienza e lo scienziato (=  logia) del «mucchio», cioè ancora del tumore! Nel linguaggio comune ci si riferisce ad esso, con un inchino psicologico simile a quello del rabbino quando incontra nella Torah il nome di Jehova, come a «qualcosa di brutto» o a «un brutto male». Nelle necrologie il suo sinonimo corrente e costantemente «un male incurabile».

Nella diagnosi. – I profani stupiscono perché alla diagnosi di cancro segue, spesso a brevissima distanza di tempo, l’esito infausto tra le sofferenze consuete. I medici esperti invece sanno che la malattia ha un decorso assai lungo, in genere più o meno latente, e soltanto alla fine l’andamento si fa tumultuoso, penoso per tutti e indomabile.

Ma quando si pensa che i testi clinici riportano ancora come sintomi più o meno precoci del tumore polmonare il dolore, l’emoftoe e il dimagramento, mentre qualsiasi medico di schermografia li considera quasi terminali, risalta appieno la contraddizione tra la realtà e il suo riconoscimento medico attuale. Lo stesso vale per altri organi: un adenocarcinoma del colon uccide quattro soli mesi dopo la diagnosi; ma per quanti anni, prima, è stato curato come colite cronica senza mai guarire? E la casistica potrebbe moltiplicarsi all’infinito. Non si fa qui questione di incapacità o superficialità diagnostiche. Importa solo riconoscervi il fattore strettamente connesso al tabù: cioè la reazione inconscia del medico di fronte alla supposta condanna inappellabile che seguirebbe alla diagnosi di cancro. Essa conduce a una vera rimozione psicologica del sospetto di cancro dall’arco delle possibilità diagnostiche differenziali, e a una diversa giustificazione dei sintomi presenti, fino al momento nel quale la diagnosi si impone da sola (o più spesso ad altro sanitario, meno emotivamente coinvolto con il paziente in causa).

D’altronde la diagnosi del cancro, non «precoce» (come si usa dire), ma in fase «preclinica» (cioè prima che esplodano i sintomi terminali) è dichiaratamente di una difficoltà estrema, e non ha nulla di specifico. Per non parlare di quelli endoaddominali non occlusivi, dove la radiologia è del tutto cieca, e l’unico mezzo di accertamento sono quelle dita che quasi nessun medico usa più, per quelli ovarici ad esempio, maligni nei 25-40 per cento delle statistiche, l’ultimo congresso italiano di Ostetricia e Ginecologia lo dichiara addirittura impossibile (F. Gasparri). Solo per qualche tipo la diagnosi è possibile (polmonari ad esempio) sia per la trasparenza radiologica del viscere sia nella varietà broncogena per l’uso di analisi citodiagnostiche (Papanicolau) del materiale espettorato. Solo a questa situazione di privilegio è probabilmente dovuto il forte incremento differenziato del cancro polmonare negli ultimi decenni.

Nella prognosi. – Considerata soprattutto dai medici - più ancora che dai pazienti - irrimediabilmente infausta, la prognosi è la chiave motivazionale del comportamento diagnostico analizzato in precedenza. In questa fase (E. K. Ross) «i medici sono soliti fare due errori: dire al paziente condannato che non si può fare più nulla per lui e stimare la probabile durata ulteriore della sua vita». Essi riflettono, ancora una volta, la reazione polinesiana al malefico genio del tabù. Che cosa possono fare gli eroici pescatori abituati a distrarre a mani nude lo squalo tigre per salvare un compagno, di fronte allo stesso fratello colpito dalla maledizione sacrale? Null’altro che lasciarlo morire, per non esserne a loro volta infettati. Contro ogni legge della logica e della umanità noi facciamo lo stesso. E incorriamo così in altri due errori alogici di condotta, addirittura contrastanti.

Il primo si riferisce alle possibilità di guarigione spontanea. Per quanto eccezionale e misteriosa, la letteratura ne registra circa una sessantina di casi (i 5 di Stewart, 1952; i 18 complessivi di Cowdry, 1955; Shore, 1936; Dunphy, 1950; Penner, 1953; Sumner, 1953; Levison, 1955; Malleson, 1955; Buffoni, 1955; Brusa e Orlandi, 1939; Wohlbach e Cushing, 1927;Wyatt e Farber, 1941; Natale, 1957; i 3 di Sirtori e Pizzetti, 1956; gli 11 di Duke-Elder, 1940; i 19 di Park e Lees, 1950; e pochi altri). Invece di ricavare, da queste realtà, materiale logico per distruggere il mito della totale invincibilità, il medico medio sa parlare soltanto di «condanna senza appello, a meno di un miracolo»; dove ricompare il ricorso a un evento irrazionale e misterioso, come all’unico capace di opporsi all’altrettanto misterioso e irrazionale tabù.

Il secondo errore, paradossale, si attua in un paralogismo inibente, del tipo: «il vero tumore è quello che non guarisce». Probabilmente è soltanto questa inguaribilità per petizione di principio che impedisce ai medici di riconoscere - e alla letteratura di registrare - i molti altri casi di regressione spontanea che la statistica permette di prevedere, anche semplicemente in ordine alla pura casualit

Nella terapia. – Già sul piano logico, la terapia del cancro soffre di gravissimi «handicap» per la ragione fondamentale espressa dal poeta latino Marziale ancora 1900 anni fa: «…non intellecti / nulla est curatio morbi» (non c’e cura per un male ignoto). L’epigramma ci risuona tragicamente nelle orecchie ad ogni nuovo caso, richiamato dall’assenza di una qualsiasi teoria generale accettabile e documentata sul cancro.

Per questo da tanti anni la scienza ha cercato di combattere il concreto (o almeno il limitato comprensibile) nel tessuto da asportare, nella cellula da asfissiare o affamare o avvelenare o atomizzare, piuttosto che tentare - chissà dove, chissà come – di imbrigliare l’ignoto stimolo causale olo-organico della deviazione neoplastica localizzata. Questo vale anche - di massima - per le terapie antiproliferative introdotte dal 1945 in poi: le azotoipriti e gli alchilanti, gli ormoni sessuali, gli antibiotici, gli alcaloidi, gli antimetaboliti e gli enzimi, le quali tutte, dichiaratamente, non sono cure, ma solo trattamenti. Per converso quasi tutti i farmaci a supposta azione generale (vincristina, vinblastina, colchicina) sono arrivati alla sperimentazione scientifica dalla medicina popolare (delle Ande peruviane con la vinca rosea e v. peruviana; delle Alpi centroeuropee, con il colchicum) che, ignorando per principio il funzionamento dell’organismo, pretende di curare l’uomo tutto intero e magari con semplici estratti di fiori (curiosamente sempre alpini e di colore rosazzurro!). Cura del tumore come sintomo, o possibile cura dell’uomo deviante, sono due strade diverse che forse finiranno felicemente per confluire, sempreché diminuisca anche in questa fase il peso eccessivo del tabù, che sembra tuttora inibire ai medici l’uso contemporaneo delle tre possibili terapie (chirurgica, radiante e medica) demandando la lotta contro la maledizione sacrale ai soli sacrali ferro e fuoco, nella moderna versione del bisturi e delle particelle subatomiche (solo lo 0,59% su 2033 casi rivisti statisticamente da A. Serio: «Il cancro» 1966, 3, sono stati trattati con tutte e tre.)

Ma nella fase terminale successiva, con il malato cachettico, sempre più anemizzato e dilaniato dalla sofferenza, il medico resta solo, con la terapia tradizionale: estratti epatici e morfina; una specie di belletto biologico che «ricostituisce» il tumore prima ancora dell’organismo, abbinato a un tranquillante che serve soltanto ai parenti del malato.

In questa sua solitudine, ripetuta ad ogni nuovo caso che è costretto ad assistere, il medico matura, nei confronti del cancro, una gravissima frustrazione personale, radice del nichilismo prognostico che è stato già ricordato. Nonostante i periodici bollettini di vittoria sulla malattia, la realtà cruda è che in tutto il mondo il cancro è diventato la seconda causa di morte (dopo le malattie cardiocircolatorie), uccidendo più di 300 uomini ogni ora. Resta, almeno nei profani, il condizionamento della speranza, indotto dalle troppo incensate conquiste della scienza medica nell’ultimo secolo. Senonché A. Sabin, lo scopritore del vaccino antipolio, intervistato a Siena nell’ottobre 1973 sul tema di un possibile vaccino anticancro, è stato costretto a dire solo che «le sue ricerche sono alla fine del principio» e che «là dove esiste una teoria virale è auspicabile che vi sia la possibilità della scoperta di un vaccino e in tal senso vi sono studi nei campo della immunologia» («Battaglie Sanitarie», 15 novembre 1973). A parte il fatto che i più aggiornati immunologi di tutto il mondo, riuniti nell’ultimo Brooke Lodge Meeting a Milano, febbraio 1974, hanno concordemente smentito questa possibilità, l’intero testo attribuito a Sabin può essere definito, in dissacrante gergo giornalistico ma in piena verità scientifica, come «aria fritta». Cosicché i medici, che a differenza della gente comune lo comprendono, continueranno come ora, di fronte all’evenienza di un cancro personale (incurabile e riconosciuto), ad abdicare ad ogni speranza e alla loro razionalità, il che si avvera tanto se lo accettano santificandosi, quanto se decidono di accorciare le loro vite.

Perché i medici si suicidano. – Una delle statistiche umane meno attendibili riguarda il suicidio. Per conseguirlo l’uomo si vale - più spesso che no – degli strumenti consueti del suo lavoro; i soli che vengano registrati appartengono invece al modulo tradizionalmente terrificante del tuffo dal ventesimo piano, del cappio sull’architrave, della pistola alla tempia o del gas. Ma Emma Rothschild per esempio, in un saggio recentissimo sull’automobile (1974), riferisce uno studio medico-sociale di Houston (Texas), secondo il quale «negli incidenti d’auto mortali una vittima su sette sarebbe semplicemente un suicida». Poiché anche i medici usano l’auto la loro categoria partecipa a questa nascosta statistica al pari di qualunque altra. Ma in più hanno a disposizione in ogni istante una somma incredibile di mezzi letali (chimici e biologici) e soprattutto le conoscenze per raggiungere il fine che si propongono senza scandalo (né contestazioni assicurative). Per questa ragione le statistiche, già tragicamente illuminanti di per sé, vanno sicuramente aumentate di una quota destinata a restare per sempre ignota, dipendente dalla facilitazione tecnica che rende i medici legalmente signori della vita e della morte altrui (nonché della propria).

Il suicidio nelle classi culturalmente superiori è una realtà statistica nota da gran tempo. Per quanto riguarda i medici (già come studenti, Cady, 1970) essi prevalgono su tutte le altre categorie professionali, a parità di età. Tra i medici stessi prevalgono gli psichiatri, come segnala Freeman (1967), che ha rivisto tutte le necrologie settimanali dello J.A.M.A. («Journal of American Medical Association») dal 1895 in poi. Per l’Inghilterra il tasso accertato di suicidio è nei medici maschi superiore del 225% alla media per le stesse età e classi sociali; più di 1 su 50 medici si uccidono; il 6% di tutte le morti dei medici sotto i 65 anni sono per suicidio, cioè lo stesso che per ca. polmonare; infine persino le mogli dei medici superano di molto la media generale per questo atto («Brit. Med. Journ.» 1964).

Nella linea generale della presente ricerca, ci interessa soprattutto il significato dei fatti: a questo proposito il B.M.J. avanza alcune interpretazioni, ma dimentica la più importante. Esso segnala: la disponibilità dei veleni, il drogaggio facile ed eccessivo, lo stress professionale intollerabile e senza pause, la frequente infelicità familiare e personale, la solitudine di tutta la vita, l’ambivalenza (odio-amore per la morte) che ha condizionato la scelta della professione medica, la «non paura» della morte, e persino l’«anomia» di Durkheim. Ma, dalle statistiche di Dorpat (1968) risulta che il 70% dei suicidi hanno severe malattie fisiche, in genere incurabili. Ogni medico può attingere senza controlli dall’armadio farmaceutico le alte dosi di droghe sintomatiche che nega ai suoi pazienti, e rendono la vita ancora tollerabile. Per una sola le droghe non funzionano, e questo è il cancro, malattia tanto psicosomatica da investire e distruggere il corpo e l’anima insieme. È esatto che il medico, in genere, non teme la morte; conosce dalla sua esperienza d’ogni giorno che essa è priva di dramma per chi la subisce, e persino quasi sempre anche di sofferenza. Ma gli fa paura il dolore, soprattutto quello incomprimibile, soprattutto quello inutile… e lo evita uccidendosi, cioè rassegnandosi al tabù invincibile, come il papua che si copre il capo con la coperta e attende nell’angolo più buio della capanna la morte, che nulla e nessuno può evitargli. L’ipotesi avanzata appare poi l’unica in grado di spiegare l’altrimenti misterioso eccesso di suicidi tra le mogli dei medici. In una consimile evenienza personale anch’esse si accorciano la vita perché finiscono con il condividere, per mimetismo psichico e obblighi consolatori le stesse convinzioni tecniche ed esperenziali proprie al consorte medico. Questa tragica parentesi statistica, non opinabile perché pagata in prima persona, rivela l’intollerabile potenza del tabù maledetto, con il quale il cancro incatena ancora non solo i medici, ma tutta l’attuale medicina.

Il tabù nella ricerca. – Persino nella ricerca scientifica, che dovrebbe essere campo di privilegiato dominio della logica razionale, il peso del tabù-cancro si fa sentire. Delle migliaia di contributi annuali, la massima parte è di casistica clinica o di tecnica chirurgica, o di statistica; ciò ritrasforma il cancro - almeno per convenzione nosografica - in una malattia come tutte le altre. Ma le ricerche intese ad aggredire il mistero, cioè non il tumore già nato, ma il perché affascinante e terribile del suo insorgere, sono estremamente rare e ancor più raramente firmate da oncologi specialisti. D’altronde è anche vero che in questo particolare ambito bioteoretico, per sua natura assai più attinente alla metafisica che alla concretezza quantizzabile, è sempre presente un elevato rischio di inganno pseudoscientifico, magari in buona fede.

Per questo ogni troppo entusiasta adepto della medicina, che abbia mai osato proporre al suo capo d’Istituto una simile linea di indagine, si è sentito regolarmente rispondere di dedicarsi piuttosto a lavori più concreti e redditizi. Lo stesso accade a chi vuole ricercare farmaci attivi contro il male. O peggio ancora a chi intende registrarli affinché medici e malati possano liberamente disporne, senza ricorrere alle forniture clandestine di questo o quel discusso taumaturgo. In tal caso - per lo meno in Italia - il tabù-cancro si difende da mezzo secolo con la forza punitiva della legge. Il R. Decreto L. 7 agosto 1925, n. 1732, recita infatti, all’art. 3: «Non possono in nessun caso essere registrate specialità che vantino: a) omissis; b) virtù terapeutiche speciali per quelle infermità che saranno determinate dal Regolamento». E il successivo Regolamento, all’art. 17: «La registrazione… è negata: 1) 2) 3) omissis; 4) quando alla specialità siano attribuite virtù terapeutiche di sicuro effetto contro il cancro, il lupus, la tisi polmonare e quelle altre malattie che verranno determinate con decreto del ministro dell’Interno…». Altro che petizione di principio! Qui abbiamo addirittura le malattie incurabili per rescritto burocratico. Così i medici guariscono da 30 anni lupus e tubercolosi con farmaci preziosi che il fabbricante (a scanso di sanzioni penali) è costretto a definire ancora oggi solo «coadiuvante nelle malattie da myc.tub.»; così come i pochi prodotti anticancro in commercio sono etichettati come «analgesici» (reg. 5406) o «coadiuvanti» o, al massimo, «antimitotici», «citostatici», «antiblastici» (reg. 10476) sperando che il legislatore abbia dimenticato il greco del liceo!

Comunque, come scriveva A. Chevallier, direttore dell’Istituto di ricerche sulle macromolecole di Strasburgo («Il cancro», 1958, 4), «non si è mai avuta tanto netta la sensazione che lo studio dei problemi posti all’umanità dal cancro, dalla sua esistenza, dal suo sviluppo, dal suo trattamento, non può essere utilmente intrapreso se non nel contesto puramente scientifico (gnoseologico!) che accompagna i diversi aspetti della malattia».

Il che significa che per conoscere il cancro, cioè la vita deviante, è sufficiente, ma necessario, conoscere con precisione le leggi della vita pluricellulare non deviante, alle quali il tumore si sottrae. Tuttavia, anche dopo Watson e Crick con la loro scoperta dell’elice della vita, siamo sicuri di essere prossimi a questa fondamentale conoscenza, o almeno di procedere sulla strada giusta? Nel caso particolare, siamo assolutamente certi che il tumore sia una malattia o non piuttosto un sintomo? L’equivoco si è ripetuto troppe volte in medicina, facendo per esempio classificare la pellagra tra le malattie della pelle mentre è una carenza della vitamina B, e la oligofrenia fenilpiruvica tra quelle del cervello, mentre è un errore congenito del metabolismo, per mancanza dell’enzima fenilalanina-idrossilasi. E per lo stesso diabete, anticamente inteso come malattia del rene, poi del pancreas e delle isole di Langerhans (donde insulina), si pensa ormai con insistenza alla neuroipofisi, ricercando ben lontano dal pancreas le motivazioni primarie dell’affezione.

Nel rapporto umano. – Ma dove il tabù del cancro esplode con tutta la sua furia malefica e compie i massimi guasti è nel rapporto umano, tanto a livello del singolo quanto a quello della comunità. In questi ultimi anni, parallelamente all’affermarsi della psicosomatica, si sono moltiplicati gli studi sull’etica medica nelle malattie gravi o terminali. Il problema di fondo riguarda il quesito: «Si deve dire la verità, al paziente?». I teologi insistono rigidamente sul suo obbligo, affermando che «il tacerla è ingiusto, immorale, un furto»; i medici, più pragmatisti ma più umani, si lasciano guidare «da un precetto che trascende la virtù di dire la verità per il solo scopo di dire la verità, e questo è: non fare del male, finché possibile» (B. C. Meyer). Il che è molto consolante e in genere attuato, insieme con la delicata assistenza fino all’exitus, purché la malattia mortale non sia quella tabù. Se è questa, la sua sola presenza dissacra e scompagina ogni comportamento usuale sul piano umano, professionale e persino deontologico. A livello del rapporto umano, per lo stress emotivo che il medico subisce, il malato di cancro - benché il più bisognoso - è spesso il meno seguito di tutti, o il meno volentieri. Sono sempre malati scomodi, esasperati nella sensibilità e modificati profondamente nel carattere dalla malattia (anche prima che la diagnosi si chiarifichi!), dei quali si teme la domanda critica e l’angoscioso crollo spirituale. Inoltre è in questo caso sempre documentabile, salvo isolate eccezioni, «il comune errore di supporre che, fintanto non gli sia detta la verità, il malato non la conosca» (B. C. Meyer). Il medico assiste invece come regola - sentendo crescere il malessere ad ogni incontro - ad un modulo stereotipo di tragedia degli equivoci: il malato lo sa e non lo dice; i parenti lo sanno e non lo dicono; il malato sa che i parenti lo sanno e non lo dicono… Tutto questo costruisce e mantiene un clima di grave turbamento psicoemotivo, che rende assai più tormentoso del solito l’ingresso nella rassegnazione. Talvolta questa è raggiunta, insieme ad una stupefacente serenità, solo quando un errore o una svista fanno partecipe il malato del suo vero stato; in ordine al quale, per tragico che sia, si risente investito della qualità di adulto, invece che regredito all’infanzia con lo schermo di tante pleonastiche menzogne.

Ma c’è anche di peggio che «non dire la verità». È l’inganno preordinato che viene perpetrato sul paziente nei casi più gravi, quando (e non è vero) «non c’è più nulla da fare». In queste occasioni il chirurgo, che ha aperto e chiuso per l’impossibilità di asportare il tumore, fa spesso credere al malato, in combutta assurda con i parenti, che «è stata tolta la cisti renale, o l’appendice, o l’ulcera gastrica…». Così, proprio mentre la fine si avvicina a passi sempre più rapidi anche in seguito allo stress psico-biologico dell’intervento, l’uomo direttamente interessato, per giunta imbottito di droghe smemoranti, non è in grado di mettere un qualsiasi ordine ai suoi affari privati di ogni tipo, il che sarebbe suo esclusivo e inalienabile diritto. Si potrebbe parlare di comportamento illogico, se non addirittura di truffa; in realtà è strettamente logico, in ordine al tabù della malattia, e riaffiora in cento modi diversi nell’assistenza al malato di cancro. Persino, paradossalmente, nella guarigione. Quando questa avviene, a seguito di uno sforzo tecnico ma soprattutto spirituale da parte dei curanti, in qualsiasi modo venga ottenuta, i necessari controlli e la protratta somministrazione di terapie stabilizzanti vengono subite (dal malato che ignora il rischio mortale che ha corso) con sempre maggiore intolleranza, fino talvolta a trascurarle; e al posto di una gratitudine infinita per il medico accade persino di incontrare il risentimento. O addirittura l’irrisione più frustrante, allorché controlli clinici successivi, costretti a riconoscere la scomparsa di una cirrosi epatica o di un linfosarcoma, sono così prigionieri della «petizione di principio» citata («il vero tumore è quello che non guarisce») da smentire la diagnosi infausta di partenza, magari accertata da loro stessi!

Le sfide al tabù. – Sul piano collettivo il tabù-cancro si esprime nella immutabile attrazione-repulsione della massa. Il cancro fa notizia sempre e dovunque, nei salotti e sulla stampa generica: i titoloni e i grassetti si sprecano, sia che parli il dottor Bonifacio delle capre, o il premio Nobel prof. Szent-Gyorgyi del legame equilibratore degli enzimi cellulari, la gliossalasi, che sarebbe il dernier cri (luglio 1969, al convegno dei premi Nobel a Lindau) in tema di cancerogenesi. E a seguito della notizia aumentano le tirature, sulla cresta di innumeri impossibili illusioni, lasciandosi dietro una torbida scia di delusioni in chi è riuscito ad acquisire la medicina-miracolo, e di frustrazioni in chi non vi è riuscito; coinvolgendo in un esasperato e caotico bailamme di contrastanti emozioni i commentatori medici e le comari al supermercato, i telecronisti e i «miracolati», gli esperti e i ministri della Sanità. In questo clima picaresco, che ogni volta peggiora, i pochi che la passione spinge a sfidare il tabù sanno in anticipo che avranno rovinata la vita, o almeno la reputazione scientifica e umana.

La pubblicità, improvvisa e spesso indesiderata, trasforma le loro ricerche private e senza mezzi, i loro risultati limitati o imperfetti, in un esplosivo e irritante fatto di costume, politico, scandalistico; tutto, fuorché scientifico e razionale. Eppure, nonostante ogni più nera certezza, la linea alternativa degli sfidanti teorici e pratici del tabù è in tutto il mondo abbastanza nutrita, essendo in fondo il cancro «la cattiva coscienza della medicina moderna». In Italia sono stati fortunati quelli che, come Protti con le micotorule, il chimico agrario Schenck con gli estratti di lieviti, il chirurgo Annessa con le sue teorie radiomagnetiche, il dr. Algranati con l’arsenico pentavalente e l’ergotamina, non sono andati in pasto alle gazzette, incontrando solo delusioni e amarezze private.

Ma per altri (C. Jolles-Fonti, A. Vieri e la colchicina diluita) sono scoppiati i pubblici cataclismi a tutti noti. Ed è lo stesso in tutto il mondo, persino nel tollerante Brasile, per il dottore «espirita» L. Neiva e il suo Aveloz, persino nell’anticonformista America U.S.A., che consente libera cittadinanza ai culti lucrativi più strani, ma impedisce arbitrariamente la distribuzione interstatale del Laetrile dei Krebs padre e figlio, e si rifiuta da anni di sottoporre a prove cliniche comparative il Krebiozen di Durovic e A. C. Ivy, nonostante quest’ultimo sia professore emerito di Fisiologia, e fino a poco tempo fa preside della Facoltà medica dell’Università dell’Illinois.

Qualche volta, tuttavia, vengono istituite d’autorità, sotto la pressione dell’opinione pubblica, commissioni di esperti che dovrebbero controllare obiettivamente questo o quello specifico antitumorale. A parte l’equivoco di base (il «tumore» è un sintomo, non la malattia) è molto sospetto che nessuna commissione abbia mai accertato nulla di utile, neppure limitato, in qualsiasi prodotto ufficialmente indagato. Evidentemente ad un certo momento dei loro lavori, già preconcetti in partenza, esse vengono sopraffatte dal peso incombente del tabù, e tutto termina in un caos di passionalità inconcludente.

Con ciò si vuole solo avvertire che la obiettività deve basarsi sull’assoluta assenza di pregiudizi condizionanti, e che è altrettanto pesante la responsabilità di un giudizio positivo quanto di uno negativo; infine che può essere pericoloso respingere, con un frettoloso marchio di ciarlataneria le cose difficili da comprendere, attualmente. Di quest’ultimo risvolto può far fede la storia di un altro Koch (W. F.) di Detroit, U.S.A., professore di embriologia all’Università del Michigan (1910-13) poi di fisiologia al Detroit Medical College (1914-1919). Nel 1919 annunciò la scoperta di una «panacea» utile anche contro il cancro. Ne seguì il solito cataclisma personale e la bufera di controverse opinioni, nonché la fama di «quack» (ciarlatano). E persino (1943 e 1946) due processi sensazionali («il Governo contro W. F. Koch») che non riuscirono peraltro ad acquisire alcuna prova di colpa. I suoi libri (Cancer and Its Allied Diseases, 1929; e The Chemistry of Natural Immunity, 1938) sono stati definiti «le più abili contraffazioni di seria letteratura scientifica negli annali della pseudo scienza» (Fads & Fallacies in the name of Science di M. Gardner, 1957). Nonostante tutto questo, e la testimonianza dei chimici governativi (1943) che «il preparato non era chimicamente differenziabile dall’acqua distillata», suscita una inquietante perplessità il fatto che Koch definisse il suo prodotto «catalizzatore cellulare» e lo chiamasse glyoxylide, cioè gli attribuisse le stesse funzioni, la stessa indeterminabilità chimica e persino l’ugual nome (ma esattamente cinquant’anni prima) della gliossalasi comunicata da Szent-Gyorgyi a Lindau 1969!

La logica razionale contro il tabù. – Uno dei fenomeni più sconcertanti ma certi, in tema di tabù dei primitivi, è che esso provoca la morte negli indigeni, mai negli esploratori o missionari che ne studiano razionalmente gli effetti. Ne consegue che, se la catafratta impermeabilità del cancro sorge dal tabù che lo difende, l’unica arma per penetrarla debba essere la logica razionale, sostituita, ad ogni livello d’incontro, all’attuale comportamento alogico di fronte alla malattia. Cominciando per esempio da una definizione corretta del fenomeno; come insegna Freud, dare un nome a una paura è gia esorcizzarla cioè dominarla logicamente; ed è il primo indispensabile passo verso la sua conquista; poi provvedendo, immediatamente, a una migliore sistemazione del rapporto umano.

Trattandosi qui della più globale ed intima affezione psicosomatica, ogni errore squilibrante di comportamento – prima e dopo l’esplosione del sintomo tumore - non può che peggiorarne il decorso, e favorire le recidive. Per converso ogni spinta favorente il ritorno all’equilibrio psicologico personale, comunque ottenuta, dalla rassegnazione all’estetista, dalla meditazione al parrucchiere, dalla sublimazione esperienziale al far l’amore come prima e meglio (vedi l’opera preziosa delle associazioni «Attive come prima» per le mastectomizzate, in Italia voluta dalla signora Ada Burrone e sostenuta da Pietro Bucalossi, presidente della Lega anticancro), riveste non solo un interesse assistenziale, ma l’altissimo valore di un presidio medico-profilattico, a parità di titolo, e probabilmente superiore, a quelli chimici o radianti tradizionali.

A livello del comportamento medico nella diagnosi e nella prognosi, il terrore irrazionale del tabù può essere sradicato solo dalle conquiste della ricerca, causali però, non solo sintomatiche; o almeno da una teoria logica e documentata dell’affezione (esorcismo). Nell’attesa, si impone l’urgenza di togliere (al medico!) parte della sua paura tabuistica, sublimandola in una donazione di tecnica e di amore a questi nostri fratelli disgraziati, quasi gli unici che la scienza attuale non sa guarire. Ma perché questo avvenga, occorre insegnare ai medici (cosa che l’attuale corso medico non fa) le delicatezze e la potenza dell’assistenza ai cronici terminali, dei quali i cancerosi sono il paradigma più ossessivo e la falange ormai più numerosa. Per la ricerca, infine, l’evasione dal tabù significa il rifiuto dell’atteggiamento psicologico di casta, di fronte al pericolo che minaccia la sopravvivenza dell’uomo dall’interno, e che sfida tutta la medicina a dimostrare finalmente quello che vale e che può. Come una delle tante espressioni esistenziali dell’uomo, anche il cancro non può essere, sul piano della logica, che una malattia come tutte le altre, senza nulla di misterioso. Il persistere millenario del suo mistero dipende dalla insufficienza dei nostri occhi, tuttora ciechi di fronte alla realtà psicosomatica unitaria dell’uomo integrato.

Se è vero, comunque, che la scienza non si mortifica per non essere subito vittoriosa, è anche vero che gli ultimi cento anni di ricerche eccezionali, sostenute da finanziamenti mai eguagliati nella storia dell’uomo con risultati a dir poco sconfortanti, dovrebbero pure insegnarle qualcosa di tecnico sul piano razionale, oltre all’umiltà sul piano del sentimento. Cioè la scienza dovrebbe infine riconoscere - dal più elementare sillogismo - che se i mezzi e i ricercatori sono (com’è certo) validi, l’errore non può risiedere che nel filone specialistico fino ad oggi coltivato con fideistica e dogmatica esclusività. Per ripartire bene non resta altra scelta che evaderne, anche se risulta penoso abbandonare - sia pure per più ampi ma incerti orizzonti - i culti tradizionali tanto stereotipati quanto redditizi.

Persino il prof. Umberto Veronesi, segretario generale del Congresso Internazionale del Cancro, Toscana settembre 1974, è costretto a scrivere: «Oggi, accantonate le speranze di una soluzione a breve termine, gli scienziati stanno seriamente meditando sulla nuova strategia da adottare nella ricerca antitumorale… Alcuni ritengono che per raggiungere una soluzione definitiva e integrale bisognerebbe addirittura “ricominciare da capo” naturalmente su basi nuove, con strumenti nuovi e con mezzi decuplicati, e indicano anche le tre grandi direttrici di marcia: 1) la identificazione e la eliminazione dei fattori causali…».

Queste, per i meno informati, possono sembrare proposte insensate. Eppure è quanto la più responsabile lotta anticancro sta cercando di compiere in questo momento, magari in sordina per timore (illecito) di scandalo o di critica. A prescindere dalle opposizioni sempre più convinte alla chirurgia allargata e alle iper-irradiazioni postoperatorie, il Memorial Sloan-Kettering Institute for Cancer Research di New York (la più avanzata punta traente della ricerca nel mondo), dopo quattro lustri perduti nell’inseguire la troppo facile ipotesi dell’inesistente virus dei tumori umani, ha chiamato nel 1973 a suo direttore il dr. R. A. Good, immunologo d’avanguardia (ma, fino a quel momento, anche pediatra esercitante!). La notizia, passata sui giornali scientifici senza particolare emozione come una semplice sostituzione personale, può avere invece un significato assai più pregnante, e documentare l’auspicata inversione di tendenza. Cioè l’intento di studiare l’uomo (e il cancro) tutto intero e non a pezzi: come complesso reattivo sintetico (anche se ancora mediato attraverso i meccanismi immunitari) piuttosto che analiticamente, per cellule singole. Se questa interpretazione non è illusoria, la strada che si apre davanti a noi si dimostrerà presto ben più diritta e feconda di quella incredibilmente tortuosa e sterile che ci sta ormai dietro le spalle.

on Protestant, l’indice siglato dell’americano tipo.

Capitolo VIII – La crisi di verità della medicina moderna 

Padre Agostino Gemelli, fondatore e rettore dell’Università cattolica del S. Cuore, diceva in una prolusione accademica che «il medico moderno, tutto chiuso nella visione dei metodi e delle applicazioni tecniche… ha smarrito la visione umana dell’uomo… e vive di una paurosa miseria intellettuale». è vero, purtroppo, ma è tutta colpa sua? Un’inchiesta americana, riferita a RAI-Milano dal prof. Battaglia, ha accertato il settantacinque per cento di alte motivazioni etico-sociali tra le matricole di medicina (basate sull’amore e la solidarietà umana, sue eterne radici); ma al momento della laurea la quasi totalità delle motivazioni originali era sostituita da altre, più pragmatistiche e razionali (predominanti: il prestigio, la carriera, il guadagno…). Che cosa c’è dunque di tanto sbagliato nelle Facoltà, che riesce a distorcere molte preziose vocazioni di medico nelle loro caricature incomplete e insoddisfacenti di «operatori sanitari»?

Presso quasi tutte le facoltà mediche del mondo, i neolaureati in medicina vengono catapultati brutalmente, dalla atarassia delle aule accademiche e dalle responsabilità atomizzate delle corsie, nella tragedia della società attuale. Di fronte alla terribile responsabilità globale (giuridica, penale, economica, umana, morale) che grava già sul primo loro atto medico, nessuno gli ha mai insegnato neppure i rudimenti della lingua che vi si parla, dei costumi che vi imperano, delle motivazioni che la condizionano. Ciò li equipara paradossalmente a veri missionari nell’ignoto proiettati in una cultura aliena ed alienante, in mezzo alla quale si ritengono illusoriamente preparati ad agire con vantaggio loro e dei pazienti.

Chi gli insegna per esempio le piste più sicure per districarsi nella paurosa giungla dell’ambiente moderno, dove il già delicatissimo rapporto medico-malato e paradossalmente complicate dalla diffusione dei mezzi di massa (condizionamento dei sani), dalla scomparsa universale della relazione interpersonale, dall’ansia esasperata del vivere (la corsa al guarire), dalla pusillanimità e dalla mollezza dei costumi (edonismo, ricerca della immediata compressione del sintomo), dalla pressione economica ogni giorno più vorticosa? Chi gli insegna come conservare almeno la essenzialità senza fronzoli alla visita mutualistica di sette minuti (per «capitolato»), abituato com’è fino all’ultimo giorno dei corsi a veder visitare un raffreddore per un’ora intera, da un consesso aulico di almeno cinque elementi accademicamente titolati? Chi gli insegna a riconoscere in tempo il tranello malvagio della differenza tra «visita» e «prestazione»? Chi gli insegna la farmacognosia, la farmacodinamica, la posologia, le indicazioni, le controindicazioni, la tossicità acuta e cronica, di se stesso come medicina? Chi gli insegna soprattutto la tecnica delicatissima e pericolosa dell’avvicinamento medico al malato difficile, al cronico senza remissione, al condannato alla morte più disperata? Nei programmi dei corsi, ogni anno più intasati di ultraspecializzazioni, nessuno.

Così le università continuano (giustamente) a pretendere cinque anni di specializzazione prima di consentire una resezione emorroidaria, ma nemmeno un’ora per la preparazione psicologica del medico di fronte all’uomo che soffre. Eppure questo, e non altro, è il fondamento della formazione del medico, come sosteneva anche J. Romano, nell’indirizzo di apertura del congresso di medicina interna di Miami 1964 («e l’imparare il ruolo specifico del medico nella sua relazione personale con il paziente»).

La vera formazione, completata dal «saper leggere» l’uomo sano e malato e dal gusto dell’informazione autonoma per conoscerlo sempre meglio, è l’unica garanzia per l’espansione continua delle capacità professionali e delle qualità umane del medico. Ma le nostre strutture didattiche si illudono di sostituire la formazione (che è un impegno filosofico e critico di libertà finalizzata) con la indigestione informazionale pre-laurea e la cosiddetta formazione permanente post-laurea, che è ancora e soltanto informazione di aggiornamento. D’accordo che l’ipertrofia tccnico-specialistica della medicina stimola ad un affannoso inseguimento delle nozioni sempre nuove, e allo studio dei mezzi più idonei a diffonderle. Ma l’informatica, branca scientifica di tutto rispetto, combatte una battaglia perduta in partenza di fronte a una realtà medica che raddoppia ogni decennio il suo patrimonio culturale, al ritmo biologicamente insostenibile di duemila nozioni nuove ogni giorno; il cui solo vocabolario (secondo A. Manuila, capo dell’Ufficio pubblicazioni dell’O.M.S.) comprende ormai 150.000 parole, quando Racine per i suoi drammi immortali ne ha usate solo duemila.

Sa perciò di patetico il rinvio alle enormi capacità dei calcolatori per l’elaborazione della massa sovrumana dei dati, considerato che il destinatario finale non è il computer, ma il limitato cervello dell’uomo che deve applicarli.

D’altronde l’aggiornamento continuo è un obbligo per i suoi riflessi giuridici e penali (Introna) ma, considerata l’accertata impossibilità per ogni medico di essere aggiornato su tutto quanta riguarda la medicina, se ne deduce che la pratica professionale è diventata uno degli azzardi più paradossali e impensabili, esponendo il medico singolo a pesanti colpe penali senza alcuna contropartita di convenienza.

L’aggiornamento impossibile. – Per tornare agli studenti, da secoli si usano nelle scuole superiori le famose dispense. La ragione della loro persistente fortuna e utilità sta nel fatto che ogni libro di testo, appena uscito, è superato da chi inventa di continuo la scienza, un tempo prerogativa privilegiata delle università. Oggi il fenomeno è esasperato a tal punto che se il laureando dovesse uscire, per contratto, dalle università informato degli apporti ultimi della sua scienza, dovrebbe rimettersi a studiare le materie di base, in un ciclo sempre più frenetico, mai concluso. Per quanto riguarda l’aggiornamento dopo la laurea, è impossibile trasferire tutte le nozioni nuove a tutti i medici; ma è in errore anche chi crede che sia possibile almeno per ogni singola specializzazione. Per prima cosa i congressi – mezzo tecnico che per cent’anni ha favorito l’avanzamento della scienza e la sua pubblicizzazione – sono oggi strutturati su una serie di interventi preordinati spesso attribuiti più per prestigio di scuole che per importanza di contributo. Ciò ne accentua il dogmatismo rigido, inutilizzandoli sotto il profilo di uno scambio fecondo di singole e libere esperienze, a vantaggio di tutti. Inoltre il tempo medio di stampa dei loro atti ufficiali si aggira sui 18-24 mesi, annullando anche il loro valore di aggiornamento. Da ultimo l’indirizzo analitico-iperspecialistico e l’ipertrofia del progresso medico sono riusciti a vanificarli. Infatti, considerando il ritardo tipografico, l’unico modo di ricavarne qualcosa di utile e di nuovo è di parteciparvi direttamente. Ma a quali, fra i troppi doppioni?

Ci sono ormai dei mesi nell’anno (immediatamente prima e dopo l’estate, per evidenti ragioni ricettive) nei quali sono in corso uno o due congressi il giorno, e persino due o più contemporanei sul medesimo tema, a centinaia di km di distanza.

Esempi? Maggio 1974: il 2-5 a Ischia, della Assoc. europea centri antiveleni; il 2-4 a Milano il 4° corso naz. di aggiornamento in Rianimazione; il 2-5 a Pescara sull’attualità in sindromi di urgenza; il 4-5 a Bologna, sul pronto soccorso; il 18-19 a Castrocaro dell’Assoc. ital. medici di pronto soccorso; il 30 a Roma, il simposio internazionale di terapia intensiva… il 6-9 a Salerno sulla patologia del pancreas e il 23-26 a Belgirate della soc. it. di Diabetologia… il 23-26 a Roma della soc. ORL latina, e il 9-12 giugno a Stresa, dell’assoc. degli ORL ospedalieri… L’elenco è tratto da un bollettino informativo molto incompleto che segnala solo i convegni italiani d’importanza nazionale. Quando poi un congresso è d’importanza mondiale le cose addirittura peggiorano. Gli ultimi due del cancro (X, Houston 1970; XI, Toscana 1974) hanno richiamato circa 8000 studiosi ciascuno, che nessuna singola aula né città poteva contenere. Per questo l’XI si è articolato in 2 sedi residenziali (Firenze e Montecatini) e in ben 6 sedi scientifiche (Firenze, Montecatini, Lucca, Pisa, Siena, Perugia) e sul piano dei lavori in 10 diversi congressi («Conferences»), 44 simposi, 8 corsi di studio e centinaia di comunicazioni. Le rigide esigenze organizzative di questa allucinante investimento spazio-temporale di massa ha perciò costretto l’Unione internazionale a vietare ai partecipanti qualsiasi spostamento dall’uno all’altro simposio o «conference ». Quindi ciascun d’essi ha seguito esclusivamente il tema della sua iper-specializzazione analitica, ma è stato defraudato tecnicamente del confronto con le linee parallele di ricerca, che costituiva il significato sostanziale di questo strumento scientifico; lo stesso che oggi rischia di andare perduto, soffocato dalla pompa e dal gigantismo.

Probabilmente è per reazione a questo amore insoddisfatto che i medici tendono a disertarli o a frequentarne prevalentemente le manifestazioni turistiche o mondane. Il medesimo atteggiamento si estende a tutte le possibili ramificazioni della stessa formula. Nella preziosa relazione (S. Remo 1971) di H. Gastaud, preside della Facoltà medica di Aix-Marseille, la presenza dei medici ai diversi sussidi di aggiornamento (sui 6.000 circa della sua zona) è stata la seguente: agli stages ospitalieri (3 mattine all’anno) 1 su 120; alle conferenze di dipartimento (ogni venti giorni) 1 su 140; alle giornate mediche (una volta l’anno) 1 su 60 tra gli interni, 1 su 200 tra gli esterni; alla televisione medica 4 su 100 (ma il sessanta per cento la contesta come dispersiva e dannosa); invece alle conferenze di quartiere da 60 a 80 su 100. Il significato di questa preferenza è illuminante: i convegni di quartiere promettono livelli di informazione assai più umili degli incomunicabili Moloch scientifici; ma in essi è possibile incontrare altri uomini (per lo più conosciuti e di uguale formazione) afflitti dagli stessi irrisolti problemi pratici, e parimenti in cerca di aiuto.

Uguale significato esprime anche la crescente fortuna, in questi ultimi anni, di canali informativi semplici ma più adeguati alla comune misura d’uomo. Tra essi le riviste d’impostazione sintetica e linguaggio volutamente elementare (come «il ruolo terapeutico» di Milano); o le lezioni-dibattito promosse da «Stampa Medica» o le essenziali e duramente oneste schede informative del «Medical Letter on Drugs and Therapeutics» di New Rochelle (U.S.A.), già arrivate a diffusione internazionale; o i bollettini di documentazione al pubblico, ormai in una decina di lingue, dell’I.C.R.F. (Independent Citizens Research Foundation) americana, sulle malattie degenerative; e molti altri, tra i quali persino le crociere di studio. Nessuno di questi mezzi pretende di risolvere i grandi problemi della medicina di oggi, ma solo di fornire a chi li usa una limitata quantità di bit informativi, in forma accessibile, assimilabile e non controversa. Svolgono insomma un piccolo traffico di pattuglia sulla fronte troppo estesa dell’esercito medico in marcia; e se una pattuglia non vince la guerra e neppure una battaglia, nessuno si stupisce, perché tale è il suo destino. Ma, quando un’intera armata scatta all’offensiva e fa notizia sul piano mondiale, ed è costretta infine a segnare il passo dove già risiedeva, la perplessità dei profani, e soprattutto dei medici, sfiora quasi i limiti dello scandalo.

È quanto è accaduto per il X congresso del cancro (Houston 1970), il primo Golia spettacolare dell’U.I.C.C. Un suo resoconto redatto da un ricercatore per i ricercatori (in «Negri News», maggio 1970), ricorda il linguaggio elusivo dei bollettini di Stato maggiore di ogni guerra perduta: «Quanto allo stato attuale della ricerca, riteniamo di dover dire francamente che anche l’incontro di Houston ha dimostrato come i progressi siano estremamente lenti e non abbiano ancora fatto registrare niente di veramente risolutivo». La formula «congresso» è ormai talmente esaurita che persino gli antichi dominatori della scena, i capiscuola veri o presunti, li frequentano malvolentieri e per motivi preminenti di prestigio.

Ma quelli invece tra loro che hanno qualcosa di nuovo da dire (e da imparare) usano le moderne formule di incontro scientifico, cioè i workshop (letteralmente: officina o laboratorio) o i meeting riservati, che si vanno moltiplicando specie nei paesi anglosassoni. In essi, esclusivamente per invito e senza alcun partecipante estraneo, si raccolgono da tutto il mondo piccoli gruppi di scienziati che si scambiano, a tavola rotonda e senza inibizioni, a voce e non a stampa, i più recenti risultati positivi e negativi delle loro ricerche in corso, su temi estremamente circoscritti e senza alcuna concessione allo spettacolo.

Il metodo costituisce uno dei più validi tentativi di superamento dei legami scolastici e dell’isolamento nella ricerca; ma esso non è altro che la riedizione moderna delle accademie scientifiche, le quali nacquero appunto per soddisfare a questa esigenza. Con in più i vantaggi delle comunicazioni attuali, che consentono la presenza al cenacolo di specialisti non solo locali, nonché l’immediata pubblicizzazione dei lavori attraverso conferenze stampa o interviste ai partecipanti, sui comuni canali di informazione del pubblico. Tuttavia in questo si nasconde un doppio pericolo, raramente avvertito: da una parte la loro qualifica costante di primi della classe con la conseguente aspettativa messianica, ben di rado soddisfatta; dall’altra la partecipazione – indiretta ma inevitabile – dei profani psicologicamente impreparati al lavoro tormentoso e sempre aleatorio della ricerca scientifica, dove per una certezza è necessario digerire mille dubbi ed errori.

Cosicché anche questa nuova ed inerme nudità della scienza, vera democratizzazione degli interessi di casta, contribuisce alla smitizzazione della medicina scientifica, ma anche ad aggravare la sua crisi di verità.

La crisi di verità. – Una delle ragioni per le quali la pubblica opinione ha finora creduto al mito della scienza è che essa gode, presto o tardi, i vantaggi delle sue novità, ma ignora i macroscopici infortuni di giudizio che hanno da sempre oscurato la storia delle conquiste scientifiche. Per non parlare ancora di Galileo e di Paracelso, basta ricordare E. Jenner e la vaccinazione antivaiolosa (1796); e l’ostetrico ungherese T. F. Semmelweiss.

Nel 1847, giovane assistente ventinovenne a Vienna, egli scoprì la causa (infezione) della febbre puerperale che uccideva misteriosamente migliaia di puerpere, soprattutto nei grandi ospedali. Impose allora nel suo reparto a tutti i medici e ostetriche un accuratissimo lavaggio delle mani (lo stesso usato a tutt’oggi dai chirurghi), ogni volta che visitavano una madre in travaglio; con il che la mortalità nelle sue corsie cadde quasi a zero, mentre nelle altre persisteva altissima. Ma l’aver scoperto nel medesimo tempo la causa e la cura di un flagello secolare, nonché il concetto e la pratica della moderna asepsi, gli valse solo l’espulsione dall’ospedale di Vienna e in seguito persino dalla cattedra universitaria di Budapest, offertagli nel 1855. Vittima delle più crudeli persecuzioni morì a 47 anni, in manicomio. Tuttavia quindici anni dopo la sua morte, la scienza ufficiale gli intitolava la clinica ostetrica di Vienna, dove era avvenuta la scoperta, e nel 1894 gli veniva eretto un monumento a Budapest! E ancora il dentista americano W. T. G. Morton, inventore dell’anestesia con etere, rovinato professionalmente e lasciato morire nella miseria più scandalosa; o l’infortunio dell’intero senato accademico di Wurzburg nei confronti del suo rettore (!) W. C. Roentgen, irriso quale demente quando (1896) presentò ai suoi fisici la scoperta dei raggi X, che non volle brevettare e neppure chiamare col suo nome (ne ricevette però il premio Nobel per la fisica nel 1901); o quello di Pettenkofer, membro della commissione ufficiale di studio sul colera, quando bevendo polemicamente nel calore della discussione, a Berlino 1884, la coltura di vibrione del colera isolata in Egitto da Roberto Koch – già famoso per la scoperta del bacillo tubercolare – «dimostrò» non ammalandosi (perché digiuno da ore, quindi con molto succo gastrico libero e intensamente acido, ad altissimo potere sterilizzante) che «Koch si era sbagliato»!

E infine, tra le mille altre topiche che tralasciamo, A. Einstein, la cui teoria della relatività (1905) risultò così conturbante per gli esperti da fargli attribuire il premio Nobel per la fisica non soltanto in ritardo (1921), ma evitando accuratamente di citarla nella motivazione.

Un tempo tuttavia l’infortunio era privato, e solo il tardivo riconoscimento era pubblico, cosicché il Mito della Scienza Infallibile ne godeva – immeritatamente – i riflessi. Oggi le manca l’elasticità del ripensamento, per la ripresa diretta di ogni suo passo importante, e così avviene che i medici siano ogni giorno più confusi e la gente disincantata. Di fronte all’accavallarsi di certezze in contrasto tutti hanno ormai paura di credere. Come credere ancora al tracciato ECG, se (Cunning) la metà degli elettrocardiogrammi da sforzo nelle donne normali presenta un quadro ischemico cioè di pre-infarto? Come credere al valore degli esami se il 27° Congresso della soc. tedesca dell’app. Digerente e Ricambio dichiara (ott. 1972) che è impossibile con qualsiasi mezzo (angiografia, contrasto retrogrado, ultrasuoni, scintigrafia, ecografia) raggiungere precocemente la diagnosi di carcinoma del pancreas? Come credere alla infallibilità della medicina ufficiale, quando un congresso (Medicina pratica, 1973) segnala che la tanto celebre iperplasia del timo non è una malattia, ma anzi sempre il segno di una difesa immunologica, e quindi non va irradiata (!) com’è stato invece fatto in milioni di casi da trent’anni?

E che cosa pensare quando la reazione critica a un mezzo indiscusso parte dagli ambienti più qualificati, naturalmente dopo che un primo coraggioso oppositore si è accollato tutti i rischi professionali e finanziari della ribellione, in difesa dei pazienti? è accaduto per il coma insulinico nella schizofrenia. Introdotto nel 1932 (Berlino), furono istituite in ogni reparto psichiatrico costose unità di insulinoterapia. Ma nel 1953, dopo che praticamente tutti gli schizofrenici d’Europa e d’America avevano subito una o più volte la cura, il dott. H. Bourne, nell’autorevole rivista inglese «Lancet» (Il Mito dell’Insulina) rilevò gli errori di giudizio di tutte le pubblicazioni scientifiche sul metodo. Nacque il solito cataclisma fino a che, quattro anni più tardi, Ackner e collaboratori dimostrarono, con il primo studio controllato dopo un quarto di secolo di universale applicazione, che il coma insulinico (nonostante i gravi pericoli per la vita dei pazienti) non presentava alcun vantaggio sui comuni sedativi barbiturici. Al suo lavoro fece immediatamente seguito una marea di conferme da parte dei neuropsichiatri, che lo usavano sui pazienti solo perché il non farlo era colposo o «eretico». Cosicché «oggi (Malleson) il coma insulinico è usato assai raramente nella schizofrenia».

Se questo riguarda il passato, c’è anche chi discute il presente o addirittura il futuro. Un qualificatissimo ricercatore (G. Mathé, direttore dell’Istituto di Cancerologia e Immunogenetica dell’Hopital P. Brousse di Villejuif, Francia) in un riassunto delle conquiste di oncologia nell’anno 1971 (su «Médecine et Hygiène» del gennaio 1972) scrive testualmente: «La chemioterapia (antitumorale) è la branca terapeutica che suscita le ricerche più vaste e più costose. II prodotto dell’anno è il cis-platinum-di-amino-di-cloruro, attualmente in prova a Dallas, a Belhesda e a Villejuif. Ma la chemioterapia deve ancora chiarire due punti deboli: la sua estensione (troppa) e la sua umanizzazione (troppo poca)… La troppa estensione nasce da un’azione abusiva, perché spesso non diretta scientificamente; per esempio l’applicazione stereotipata di una combinazione doppia, o quadrupla o sestupla di medicamenti sull’uomo, senza che alcuno studio sperimentale abbia documentato il loro interesse oppure addirittura il contrario (per esempio l’associazione di methotrexate e di asparaginasi è meno attiva del methotrexate da solo). Il n’est pas impossible qu’actuellement, avec cette mode des chimiothérapies “totales”, cette  méthode thérapeutique tue plus de malades qu’elle n’en guérit».

Ma provate a consigliare a un paziente (o a un parente) di rifiutare la chemioterapia, e daranno a voi  dell’assassino, quasi che vi rifiutaste di tendere l’unica mano soccorritrice al malato caduto nella fossa dei serpenti!

Eddy Merckx batte provetta. – Ma anche al di fuori di queste tragedie, e navigando in acque più amene, il mito della scienza inciampa oggi in perdite di faccia di contenuto in fondo risibile ma che, per la loro immediata e universale diffusione, la ridimensionano quando non la squalificano (termine sportivo assai adatto all’episodio che citeremo). Nella conferenza di fine anno alla fondazione Erba di Milano, tra le realizzazioni 1973 il prof. C. Sirtori ha citato che «si arriva a misurare un femtogrammo, cioè un milionesimo di miliardesimo di grammo di una sostanza». Ma quando (per esempio con la gascromatografia) la scienza pretende di applicare in pratica le sue incredibili finezze tecniche, non sempre riesce vittoriosa. è accaduto col famoso controllo antidoping del corridore ciclista Eddy Merckx dopo la sua vittoria nel Giro di Lombardia 1973 (esattamente la sua 321ma!). La ricerca nell’urina di eventuali droghe stimolanti ha data esito positivo, e come risultato la squalifica del vincitore. Il quale – non avendo alcun bisogno di droghe per vincere sempre, come fa da quindici anni – aveva in realtà bevuto, fino a due giorni prima, un semplice sciroppo per la tosse (Mucantil) contenente una minima quantità di nor-efedrina come broncodilatatore. Ma l’implacabile gascromatografo aveva rivelato ancora i suoi residui infinitesimali a 48 ore di distanza. Sennonché, costretta a decidere tra il giudizio della macchina e l’uomo-Merckx, l’opinione pubblica ha scelto quest’ultimo, e la sua vittoria anche sulla provetta ha assunto il significato sentimentale di una pericolosa ribellione umana nei confronti della inumana verità scientifica. Un’altra stigmata di sfiducia che il tempo faticherà a riparare, inserita com’è nella sfera sentimentale piuttosto che in quella razionale.

Come ancora la notizia, immediatamente pubblicizzata dalla stampa, dell’«alcool messo sotto accusa: non disinfetta!» emessa da una tavola rotonda (Milano, 8-4-1974) della soc. ital. di Chemioterapia. L’improvvisa pubblica distruzione (oltretutto infamante) del mito del disinfettante più comune e più conosciuto dai profani (ma chi glielo ha insegnato??), usato come tale dal XIV secolo in poi, ha fatto sulla gente lo stesso effetto dell’abolizione papale (per accertata inesistenza) di santa Filomena per i siciliani, che ne vantano i miracoli, e di san Giorgio per i lattai, Genova e l’Inghilterra, che lo hanno per patrono da millenni (ma chi glielo ha concesso??). Cioè il risultato di una dissacrante crisi di fiducia verso tutta la religione e, per l’alcool, verso tutta la scienza. Comunque queste disfunzioni potrebbero essere considerate semplici anomalie relative alla inflessibile legge statistica (non tutte le ciambelle riescono col buco), sempre che le sedi più elevate del prestigio scientifico, quelle che hanno per statuto mezzi e tempo per correggere eventuali errori di un immediato giudizio, mantenessero la loro adamantina attendibilità, al di sopra di tutti. Ma la sconfortante risposta è purtroppo No.

In ordine allo statuto di fondazione, delineato da Alfred Nobel (inventore della dinamite) nel suo testamento del 27 novembre 1895, i celeberrimi premi Nobel, consegnati il 10 dicembre di ogni anno nel giorno anniversario della sua morte, dovevano premiare con una grossa quantità di denaro ma soprattutto con la riconoscenza di tutta l’umanità «Le persone che avessero compiuto le più importanti scoperte o invenzioni nell’anno precedente»… «donando all’umanità il massimo beneficio». Questo per cinque distinti campi: fisica, chimica, fisiologia e medicina, letteratura, e pace. Ora, tralasciando le tempeste polemiche che hanno accompagnato quasi da sempre l’attribuzione di quest’ultimo premio (Pauling; Kissinger e Le-DucTho nel 1973, peggio ancora per E. Sato e G. Mc Bride nel 1974, così da far chiedere un diverso criterio delle scelte…) è istruttivo ma poco consolante scorrere l’elenco e le motivazioni dei premi attribuiti dalla massima assise scientifica del mondo, scegliendo fra le «proposte basate sul principio della competenza e della universalità» inviate alla Fondazione dalle seguenti categorie (per la fisiologia e medicina): 1) membri della Facoltà medica del Karolinska Institutet di Stoccolma; 2) membri della Classe medica della Reale accademia delle scienze svedese; 3) premi Nobel in fisiologia o medicina; 4) membri delle Facoltà mediche di Uppsala, Lund, Oslo, Copenhagen ed Helsingfors; 5) membri di almeno sei altre Facoltà mediche del mondo; 6) altri scienziati ritenuti idonei.

Era evidente l’intenzione di A. Nobel di assicurare a qualsiasi scelta l’avallo più completo della scienza ufficiale di tutta la terra. E così di fatto avviene. Ma qual è il risultato? Che spesso le scoperte veramente fondamentali vengono ignorate perché troppo grandi o non ancora digerite, in favore di apporti esclusivamente tecnologici presto superati, se non peggio. Per questo nella fisica si leggono con orgoglio i nomi di Roentgen (raggi X, 1901), di P. e M. Curie (radium e radioattività naturale, 1903), di G. Marconi e C. Braun (telefonia senza fili, 1909), di M. Planck (teoria dei quanta, 1918), di E. Fermi (radioattività artificiale, 1938); con minore orgoglio di A. Einstein (1921, non per la teoria della relatività!), di G. Lippmann (fotografia a colori per interferenza, 1908), di C. T. Wilson (camera a nebbia per il rilievo dei traccianti radioattivi, 1927), o di P. Blackett (perfezionamento della camera di Wilson, 1948), e persino di N. G. Dalen («per la sua invenzione dei regolatori automatici per gli accumulatori a gas dei fari e gavitelli», 1912).

Quanto alla fisiologia e medicina, e ai suoi riflessi immediati sulla salute delle comunità umane, l’analisi è altrettanto sconcertante. Anche qui, a fianco di vere pietre miliari nel destino umano (von Behring, possibilità della sieroterapia, 1901; T. H. Morgan, ruolo dei cromosomi nell’ereditarietà, 1933) incontriamo una serie di premi su base tecnologica o strumentale  (Ry. Finsen, cura attinica del lupus, 1903; A. Gullstrand, ricerche sulla diottrica dell’occhio, 1911; W. Einthoven, elettrocardiogramma, 1924; G. H. Whipple e G. R. Minot, cura dell’anemia con estratti di fegato, 1934). Inoltre alcune gravi dimenticanze o scorrettezze (dovute forse non alle persone ma all’organizzazione privilegiata delle proposte): per esempio il Nobel a Sir R. Ross (1902), per la scoperta del ciclo biologico zanzara-uomo del plasmodio malarico, ha del tutto trascurato l’opera precedente dell’italiano G. B. Grassi; o quello gravissimo del 1923, che attribuì il premio «per la scoperta dell’insulina» (quindi per curare il diabete) a Banting e Macleod, dimenticandosi affatto del giovane C. H. Best, primo ideatore della scoperta ancora da studente, avversato come visionario finché trovò in Banting il ricercatore disposto a sperimentare le sue idee! è ben vero che Banting divise immediatamente con Best il suo premio, ma nessuno ha mai aggiunto il nome di Best all’elenco del Nobel.

Ma c’è qualcosa di peggio. Nel 1927 il Premio fu attribuito a J. Wagner-Jauregg «per il valore curativo dell’inoculazione della malaria nel trattamento della demenza paralitica» e dopo qualche anno nessuno la usò più come il coma insulinico, per i suoi accertati pericoli e la riconosciuta inutilità. E nel 1949 lo ricevette A. Egas De Abreu Moniz, «per la sua scoperta del valore curativo della leucotomia in certe psicosi» soprattutto la schizofrenia. Moniz aveva pubblicato nel 1936 una brillante monografia sulla resezione dei lobi frontali dal resto del cervello. L’intervento, che «amputava» definitivamente la personalità del paziente, divenne di gran moda così che (Malleson) dal 1940 in poi furono leucotomizzati circa 10.000 soggetti in Inghilterra, e oltre 25.000 negli U.S.A. Dal 1951 già qualche neuropsichiatra cominciò ad avere forti dubbi, finché nel 1958 Robin pubblicò la prima ricerca controllata sui risultati a distanza: non solo i pazienti così trattati non erano stati aiutati dalla cura, non solo rivelavano degenze in istituti mentali più lunghe degli altri, ma nel 18 per cento sviluppavano anche l’epilessia (oltre alla consueta e inalterata schizofrenia). Annota A. Malleson, nel suo stile scozzese-tacitiano: «La leucotomia non è più un intervento popolare per la cura della schizofrenia».

Ma se l’avallo alla lobotomia frontale interessava i soli malati di mente esiste nella lista dei Nobel un infortunio che stiamo pagando tutti quanti. Nel 1948 il Premio (sempre per fisiologia e medicina) fu concesso a P. H. Muller «per la sua scoperta dell’alta efficacia del DDT come veleno da contatto contro numerosi artropodi». Oltre che contro gli artropodi, purtroppo agisce anche contro di noi. Ora, ricordando la motivazione statutaria dei Nobel («per il massimo beneficio dell’umanità») e la nostra tragica lotta attuale contro il veleno cellulare che ha invaso tutto il nostro ambiente e noi stessi anche prima di nascere, del quale non ci potremo liberare in meno di altri cento anni, e di fronte persino alla sua accertata cancerogenicità (Taylor), dobbiamo dedurne che neppure la scienza al suo massimo livello (le persone singole sono in questo caso fuori discussione) riesce a vedere più in là del suo stesso naso, ed è incapace di attingere una sintesi globale e soprattutto di difendere l’uomo, suo artefice e destinatario.

Terminiamo l’elenco con il cancro, cioè il nemico più terribile – e invitto – della scienza. In relazione al tabu che lo difende, risulta il grande dimenticato nell’elenco dei premi Nobel. Non è sempre stato così: nel 1926 il premio è stato attribuito al danese Johannes Andreas Fibiger «per la sua scoperta della Spiroptera carcinoma» cioè del bacillo del cancro, il quale naturalmente non esiste. La scottata della fondazione (ma in nome e per conto di tutta la scienza ufficiale) è stata tanto forte da averle fatto attendere esattamente quarant’anni per richiamare la malattia-tabu nei suoi protocolli. Nel 1966 il premio è stato attribuito a P. Rous («per la scoperta di virus induttori di tumori») e a C. B. Huggins («per il trattamento ormonale del cancro prostatico»); ma questo ripensamento è stato possibile solo in dispregio della norma statutaria fissata da A. Nobel («scoperte dell’anno precedente») e per la eccezionale longevità degli interessati (i Nobel possono essere concessi solo a viventi). Infatti, Rous è vissuto 91 anni (1879-1970) e ne aveva 87 al momento del premio; e quanto alle ricerche premiate, le sue risalivano a più di 40 anni prima, e quelle di Huggins a circa 30.

Si sa che tutto è in discussione, nel mondo moderno; ma l’avanguardia più esposta è la scienza, in particolare la scienza medica perché ci riguarda più da vicino e intimamente. Non c’è dunque nulla da meravigliarsi se in questa crisi globale di verità, per una medicina che rifiuta i suoi caratteri umani in favore di quelli scientifici, la gente cerca rimedio alla insicurezza acquistando una illusoria certezza da chi si pone, per principio, al di fuori di ogni inquadramento scientifico. Per questo a Milano (ma è così dovunque nelle metropoli più civilizzate) esercitano oggi almeno 4.000 maghi e veggenti per un giro d’affari complessivo di oltre venti miliardi di lire all’anno. («Il Milanese» n. 148, 1974).

Capitolo IX – Il futuribile e la medicina 

Poco dopo il 1945 un fisiologo francese, tutt’altro che in vena d’ironia, dichiarò che l’Homo sapiens del terzo millennio avrebbe avuto gambe semiatrofiche, occhi miopi, padiglioni auricolari rudimentali, forze organiche irrisorie, testa assolutamente calva e rachitica a causa della ipertrofia dell’unico organo stimolato dal processo della civiltà, cioè la corteccia cerebrale. È lecito invece dubitarne, non avendo egli tenuto conto del non ancora nato cervello elettronico e della sua invasione (negli U.S.A. erano 12 nel 1950, e già 40.000 nel 1968, secondo Norwood). Da quando per esempio il costo ormai irrisorio degli orologi ne ha reso universale la diffusione, non esiste neppure più un contadino in grado di calcolare, con un semplice sguardo all’altezza del sole, l’ora del giorno con sufficiente approssimazione (per non parlare dei cittadini, e dell’ora legale). E con i computer da tasca, chi penserà più?

Gli Isaia in mezze maniche. – Per studiare appunto l’interferenza della civiltà sull’uomo è nata da una ventina d’anni la futurologia, il cui campo di ricerca è il futuro possibile o futuribile (termine coniato dal teologo spagnolo Molina), cioè la probabile realtà del mondo fra 10 anni (futuro presente) o 100 (prossimo), o 1.000 (intermedio) o 10.000 anni (lontano). A queste indagini si sono dedicati, con metodo interdisciplinare, insospettabili organismi scientifici: tra gli altri l’Institute of Technology di California e del Massachusset (il famoso M.I.T.) in U.S.A., l’Accademia sovietica delle scienze, la Rand Corporation of America, il ministero della sanità della Germania Federale, e la Croce Rossa Internazionale (1972). Oltre alla proiezione futura delle realizzazioni tecnologiche attuali occorre anche studiare i loro probabili riflessi sul modo psicologico del vivere singolo e collettivo. (Y. Hayashi; psico-futurologia.)

Sennonché fino a pochissimi anni fa le uniche previsioni attendibili sono state espresse dagli autori di fantascienza. Che cosa c’è per esempio di più azzeccato, a oltre settant’anni di distanza nel futuro, delle descrizioni di Jules Verne del missile lunare (Dalla Terra alla Luna) o del sottomarino atomico (il Nautilus del capitano Nemo in 20.000 leghe sotto i mari), battezzato perciò in suo onore come il precursore del romanzo?

E così, a livello sociopsicologico, non si può non riconoscere forte validità al futuribile descritto da George Orwell e Aldous Huxley rispettivamente in 1984 e Brave New World scritti circa quarant’anni fa, con sorpresa persino dei loro autori (A. Huxley in: Brave New World Revisited, 1958: «Nel 1931 quando scrivevo Brave New World, ero convinto che ci fosse ancora tempo, e parecchio. Invece le mie profezie si avverarono assai più presto di quel che pensassi…»). Che dire delle «fantasie» sociologiche di R. Heinlein, di R. Shektey, di M. Kornbluth, dei coniugi Gillon, di G. Gamov, di I. Asimov (Io, Robot, per esempio)? Soltanto questo, che le previsioni contenute nei loro libri sono del tutto possibili, essendo ricavate dai fatti concreti e dalle tendenze attuali con lo stesso rigoroso metodo delle ricerche di futurologia scientifica. (D’altronde molti autori di fantascienza, tra i quali Gamov e Asimov, sono o sono stati professori universitari, in genere di fisica o matematica; e hanno partecipato a gruppi di ricerca futurologica). Lo stesso metodo ha addirittura permesso al celeberrimo biologo francese Jean Rostand di scrivere nel 1962, a proposito della ingegneria cromosomica un libro (Aux frontières du surhumain) assai più avanzato del romanzo fantascientifico di Franck Herbert sullo stesso argomento The eyes of Heisenberg del 1966.

Le previsioni sbagliate. – Tuttavia persino la stretta adesione alla concretezza delle tendenze tecnologiche può portare a risultati aleatori; così è avvenuto che le Meravigliose avventure di Saturnino Farandola, un romanzo di avventure per ragazzi pubblicato a dispense appena cinque anni dopo il salto aereo dei fratelli Wright a Kitty-hawk (1903) riempia il cielo moderno di elicotteri più pesanti dell’aria, ma anche che un fisiologo aerospaziale (prof. R. Margaria, nel 1969) neghi in un’intervista concessa al giornalista Ugo Apollonio la possibilità di sbarcare sulla Luna «se non entro i prossimi trenta anni» mentre questa avvenne, come tutti ricordano, appena il 20 luglio dell’anno dopo (in L’uomo nel 2000, 1968). Per questa totale insicurezza insita nel comportamento dell’uomo, mentre disponiamo di previsioni abbondanti e attendibili a livello tecnico e operativo (nuove fonti di energia, reddito economico, sistemi industriali, sviluppo tecnologico) i contributi sul futuribile medico risultano estremamente scarsi: due soli su oltre 150 articoli originali in tutta la raccolta della rivista specializzata «I Futuribili»; addirittura nessuno in una raccolta (1968) di saggi dei massimi futurologi del mondo: Kahn, Wiener, Pierce, de Sola Pool, Mesthene e altri, che vanno dagli armamenti allo spazio, dai trasporti all’istruzione, dai computer all’economia, come saranno fra 50 anni. (Forse che il mondo del 2018 sarà senza medicina?).

Essi appaiono, inoltre, spesso correlati al dominio di una specializzazione esclusiva; per questo errore anche l’affascinante volume di P. Stefanini e U. Apollonio (Nuovi orizzonti della Medicina, 1970) si rivela semplicemente come la proiezione stereotipata nel futuro, senza alcuna alternativa, delle realizzazioni tecnologiche attuali della scienza, in chiave prevalentemente chirurgica e cibernetica. Vediamone qualcuna.

Gli psicofarmaci come arma di guerra, incruenta ma globale. La stimolazione biochimica alla crescita di nuovi arti ed organi. La fecondazione in vitro dell’ovulo umano e il reimpianto in un sostituto dell’utero materno. L’adattamento artificiale dell’organismo umano a peculiari richieste funzionali extraterrestri o extragalattiche (cyb-org). La realizzazione di una programmazione sanitaria universale e soddisfacente… questi, e centinaia d’altri, gli spunti medici che il futuribile ci riserva, come dotazione automatica di una imminente età dell’oro. Essi peccano però, in genere, di insufficienza critica: pongono infatti l’accento sulla realizzabilità tecnica, ma quasi mai sulla loro pratica attuabilità e sulle inevitabili conseguenze individuali e sociali.

L’altra faccia del miracolo. – Fino all’avvento delle cattedre di resuscitologia, non esisteva miracolo più sovrumano della resurrezione di Lazzaro. Ma già quell’aggressivo polemista del Carducci aveva annotato che - vedendola dall’altro lato - il disgraziato Lazzaro era stato l’unico uomo a morire due volte. Oggi il triste primato è stato largamente battuto, per esempio alcuni anni fa da un vicepresidente della accademia sovietica delle scienze, risuscitato ben sette volte (e morto otto). Ma il risultato più straordinario della rianimazione artificiale è stato di ordine metafisico, riuscendo (Speciani, 1968) a rendere relativa e opinabile una delle più incrollabili certezze dell’uomo, cioè la morte (quando comincia, e quando finisce? E che cosa è dunque, la morte? Per immediata antilogia: quando inizia la vita? E dove? Nella cellula o nell’organismo? E che cosa è l’organismo? Quando comincia a vivere come complesso unitario? E quando, come complesso unitario, muore?).

Per attenerci a miracoli meno eccezionali, l’aumento della aspettativa media di vita (alla nascita) dai 20 anni della preistoria ai 70 del 1960, esprime un fatto di per sé ottimo, e tale da inorgoglirci. Ancora di più se si pensa che la componente maggiore del fenomeno coincide con la compressione universale della mortalità infantile, scesa dal 500 per mille del 1900 al 100 per mille del 1950, e al 30 per mille addirittura negli ulteriori 15 anni, nel complesso dei paesi europei. La quasi totale vittoria della scienza contro le malattie infettive ci assicura anche nella vita adulta, salvo l’interferenza delle malattie degenerative. Ma già nel momento presente, per non parlare del futuro, qual è il risultato statistico di questa meravigliosa conquista? Anzitutto l’aumento esponenziale della popolazione in tutto il mondo, che diamo per scontato. Poi, tragico e attuale, l’aumento straordinario dei cronici, degli invalidi, dei disadattati fisicamente (per i quali nessun paese ha saputo preordinare tempestivamente leggi e difese sociali idonee).

Molto di più sono cresciute invece le spese per questa quota di popolazione: le pensioni di invalidità e vecchiaia (INPS, Italia) sono salite da 1 miliardo e 165 milioni del 1922, a 364 miliardi e 750 milioni del 1955, a 2.800 miliardi e 600 milioni del 1968, a 4.991 nel 1973, a 7.365 nel 1974.

Si sono cioè moltiplicate di oltre 6.300 volte in dieci lustri (conteggi in lire 1965!). A parte il fatto della prevedibile bancarotta sociale, c’è - a documentare la tragedia psicologica del vecchio nella società moderna - la statistica mondiale dei suicidi, che accerta per il gruppo oltre i 65 anni un tasso sette volte superiore a quello globale della comunità (Speciani, relaz. XI congr. Med. sociale, Modena 1967). Il prof. Vittorio Puddu (in L’uomo del 2000 di Ugo Apollonio) afferma, certo pensando alla «conquista» delle cardiopatie, che «in ogni caso, l’uomo del prossimo futuro vivrà 120 anni». Potrebbe vivere forse; a meno che non si suicidi in massa ben prima, sopraffatto dalla noia e dalla alienazione, visto che le attuali balorde leggi antibiologiche lo costringono a pensionarsi, in piena efficienza fisica e mentale, a meno di metà della sua speranza di vita, non utilizzando incoscientemente una somma irripetibile di esperienze e di saggezza.

Bioingegneria cromosomica e trapianti. – Ricorderemo ancora che, come parziale arginamento della marea montante e della presa di potere degli ipofrenici, con conseguenze immaginabili persino sull’ulteriore progresso della civiltà, la scienza offre un metodo che consentirebbe la nascita - a piacere, nel luogo e nella quantità utile - di un drappello di Einstein, o di Descartes, o di Edison. Si tratta delle «banche dello sperma» dove potrebbe essere conservato anche per millenni seme particolarmente iperdotato, donato all’umanità da geni ed eroi durante la loro vita. Ne accennava J. Rostand nel 1962 (Aux frontieres du surhumain), ma la realizzazione pratica era già, solo dieci anni dopo, in largo uso sperimentale. T. Mann, Rowson e tutto il gruppo della stazione di fisiologia della riproduzione della Università di Cambridge, Inghilterra, riescono correntemente ad ottenere vitelli Hereford da vacche Frisone, agnelli Border-Leicester da pecore Dorpet, con uova fecondate in Inghilterra e generate in Australia, e così via. Usano spermi conservati a -79° (anidride carbonica solida) e persino a -196° (azoto liquido) («Pan. Med.» 1, 1972). La sola proiezione futura di questo pilastro tecnologico è la sua applicazione all’uomo, null’altro. Ma qui iniziano i guai. Infatti né le vacche Hereford né le pecore Dorpet hanno personalità giuridica, quindi non possono fare testamento mentre l’uomo sì; e quando se ne dimentica, vi provvede automaticamente la società, attraverso le sue leggi. Nel caso che un uomo abbia un figlio duecent’anni dopo la sua morte naturale (e i figli si fanno con la cromatina genetica, non con i baci e le carezze), come si comporterà la legge a proposito delle eredità già chiuse? O le terrà sempre aperte finché rimanga una goccia di seme attivo, nella «banca»? Le complicazioni legali del caso, studiate da Pierre Sagaut (in Rostand, l.c.) sono tali da distruggere quasi tutta la struttura giuridica esistente, o, più probabilmente, da inibire il ricorso effettivo a un progresso tecnologico realizzabile, come questo.

Per quanto riguarda la ingegneria cromosomica in senso più stretto, cioè la possibilità di lavorare sui cromosomi portatori dei caratteri dell’organismo globale, correggendo eventuali anomalie dannose (o determinando la comparsa di caratteri presunti favorevoli, tipo cyb-org naturali) anche qui il futuro e già abbondantemente cominciato. Il primo atto di qualsiasi intervento (in biologia e no) è di conoscere con precisione il campo sul quale si intende agire. E la patologia dei cromosomi (autosomi) ha conosciuto uno sviluppo esplosivo dopo che Lejeune, Gauthier e Turpin (1959) hanno scoperto che la idiozia mongoloide o sindrome di Down dipende da un cromosoma in più in una delle 23 paia normali. Così essa si chiama oggi «trisomia 21», ma si conoscono già patologie speciali cromosomiche (1 in più o 1 in meno, mezzo in meno o in più e così via) per decine di altre sindromi, da quella di Klinefelter a quella di Turner, dalla sindrome di Wolf-Hirschhorn a quella di Patau, a quella di Edwards, oltre ad almeno 18 malattie metaboliche ereditarie.

Dalla necessità alla realizzazione, in medicina il passo è breve e difatti è già avvenuto. Ci attendiamo perciò presto l’azione modificante, e le sue successive conseguenze etiche, verso la costruzione di qualche nuova superrazza; cioè l’avverarsi scientifico del folle sogno di tutti i dittatori. Infatti due anni fa il biologo americano J. Shapiro, dopo essere riuscito a sintetizzare per la prima volta un gene, abbandonò la professione di ricercatore per non contribuire a scoperte pericolose per l’umanità. Ma nell’estate 1974 un gruppo di biologi della Stanford University, California, è riuscito a trasferire alcuni geni del rospo africano Xenopus Laevis nel patrimonio ereditario di un batterio, la Escherichia coli. A seguito di questa scoperta, e per le insorgenti perplessità morali, una decina di biologi «cromosomici» ha pubblicato nelle due maggiori riviste scientifiche del mondo («Nature» e «Science») un appello ai colleghi perché sospendano le ricerche nel campo della ingegneria genetica. Nonostante l’assenso della Gordon Conference (un convegno annuale della più avanzata biologia internazionale) esistono tuttavia ben poche probabilità che l’appello venga ascoltato.

Quanto ai trapianti d’organo efficienti, già oggi assommano in tutto il mondo a migliaia (di massima, reni). Se si risolverà il problema del rigetto e dei medicamenti antirigetto che stimolano tumori nei soggetti trapiantati, non esisteranno limiti tecnici alle sostituzioni. Pancreas, cuore, polmoni, cervello. Qui altro inciampo: dal 1967 il neurochirurgo R. White, del Metropolitan Hospital di Cleveland, U.S.A., riesce a mantenere in vita, per ore o giorni, un cervello isolato di M. Rhesus, collegato alle carotidi di un altro macaco. Se invece che all’esterno il cervello senza corpo fosse immesso dentro la scatola cranica dell’ospite, il trapianto diverrebbe completo. Ma chi sarebbe la scimmia ospite? Il suo corpo o il suo nuovo cervello? Trasferite il dilemma sull’uomo, e avrete un nuovo argomento per tenervi svegli di notte. O, se non voi, i teologi morali.

Vogliamo scendere più al pratico? Purtroppo anche così l’empasse non svanisce, anzi. Già oggi, col rischio quasi certo della morte solo procrastinata, nessun trapiantologo fatica a convincere i riceventi. Il difficile è trovare donatori. Benissimo, faremo le banche degli organi. Ma chi le rifornirà? Quando il mercato psicosociale premerà con la forza tremenda dei voti sui legislatori per rendere possibile a tutti (in regime di medicina socializzata!) un trapianto vitale, gli amministratori della comunità non avranno altra scelta che quella di rifornire le banche di organi freschi e sani comminando la pena capitale (altro che rieducazione del delinquente!) per infrazioni normative sempre più lievi, come il fumare al cinema, o la sosta vietata. Oppure - o anche parallelamente - nascerà da una richiesta altamente retributiva, e continuamente insoddisfatta, la borsa nera degli organi, a beneficio di bande di assassini di pochi scrupoli, a impunità garantita. Di questo macabro risvolto sociale si è interessato un bel racconto di fantascienza (La terza mano); ma anche quotidiani serissimi e gravi come il «New York Times» e la «Komsomolskaya Pravda» (citati da A. Toffler in The Future Shock), nonché recentemente (8 giugno 1974) il «Corriere della Sera» a proposito del prelievo di ipofisi umane entro le 24 ore dal decesso, lecito in altri Stati, ancora illegale in Italia, per estrarne a scopo terapeutico l’ormone somatotropo (STH). E persino autorevoli riviste scientifiche: il «British Med. Journal» riferisce (1974) che a Cambridge sono stati sospesi i trapianti renali per «penuria del materiale».

Qualcuno ha forse una terza via da proporre?

Lo stress universale. – Considerato che in ogni campo scientifico il progresso raddoppia le informazioni in dieci anni, risulta che nel tempo di una vita, oggi, le conoscenze acquisite nei primi anni di scuola si moltiplicano per 64 (Appel, Toffler). Ciò significa che tutti siamo, a distanze brevissime da ogni apprendimento, superati da una valanga fissionistica di nozioni, ormai impossibili a digerirsi.

Ad un certo punto si può anche decidere di chiudere gli occhi e le orecchie, rifiutando ogni ulteriore informazione. Ma non è invece possibile rifiutare lo scontro con i risultati pratici del progresso tecnologico, che si esprimono per esempio in una vorticosa rotazione dei beni di consumo, sempre più rapida (il 55% dei prodotti in commercio non esistevano 10 anni fa; in compenso il 42 per cento di quelli di 10 anni fa è scomparso…). Lo stesso modulo si applica persino alle medicine e ai metodi di terapia, sia pure con minore rapidità. Lo stesso, ancora, investe tutta la vita moderna. L’investimento neurale gravissimo che questa continua rivoluzione di mutamenti comporta per tutti, è un terrificante e incomprimibile fattore di stress (nel significato esatto di H. Selye), che ci investe in ogni attimo della giornata, da quando usciamo di casa a quando vi ritorniamo. Ora, di fronte a uno stress esterno insostenibile (lavoro, preoccupazioni, guerre, epidemie) tradizionalmente l’uomo si rifugiava nella famiglia, «hortus conclusus» intorno alla sua personalità, finalmente disarmata. Un solo indice demoscopico: la ipernatalità immediatamente successiva ai medesimi periodi di stress sociale. Sarebbe scomodo (sovrappopolazione) ma forse il minore tra due mali, se lo stesso metodo fosse possibile anche oggi. Ma non lo è già più, e sempre meno lo sarà in futuro. La rivoluzione della famiglia e del suo significato è in atto da decenni, ora è giunta all’esplosione finale. Non solo è diventata il semplice dormitorio di individui isolati, appartenenti a categorie differenti e tra loro incomunicanti, non solo aliena gli anziani e non ha più tempo per allevare i figli, ma è in discussione persino come sostanza d’istituto. Huxley ne prevedeva la scomparsa nel suo Brave New World ma la realtà ha già superato le sue previsioni. Proposte di leggi sempre più avanzate (verso cosa?) nel Nord Europa riconoscono personalità giuridica alle plurifamiglie (poliandriche o poliginiche). Toffler spinge la linea logica fino ai «pro-genitori» cioè a famiglie di allevamento di figli altrui «certamente più idonee, perchè professionalmente preparate al compito», di molte di quelle naturali; e magari «consistenti di due padri omosessuali» e nessuna madre. Lo stesso autore segnala «la già sicura esistenza di unità familiari plurime negli U.S.A.», ma pecca di ingenuità, visto che nei paesi latini, o sudamericani, il fatto (tuttavia illegale) è sempre esistito, seppure con due o più madri e un solo padre.

Ma il fatto stressante è la ricerca continua di nuovi mutamenti, nel rifiuto continuo dei moduli tradizionali. Si arriva in questo modo non solo all’accettazione ma alla codificazione del matrimonio temporaneo a termine, o a quello a puntate (per Toffler la società U.S.A. lo pratica già, coll’istituto dei divorzi successivi!), e finalmente a quello «di prova» o «prematrimonio riconosciuto» addirittura con l’assenso di teologi (il tedesco S. Keil dell’Università di Marburgo e il canadese padre J. Lazure, citati da «Time», 14 aprile 1967: Trial by Marriage).

In questo nuovo mondo, arrivato a tradimento senza che fossimo preparati ad accoglierlo, nel quale tutto è «modulare» dai detersivi alle Università ai posti di lavoro, non stupisce che uno psicologo abbia proposto, in U.S.A., anche la famiglia modulare.

Visto cioè che i dirigenti e i tecnici, usi frequentemente a mutare sede di lavoro, sono costretti a trasferire anche le famiglie con grave e ricorrente spesa («Casa arredata vendesi, causa trasferimento…») un grosso risparmio sociale coinciderebbe con il trasferimento senza la famiglia:

AAA FAMIGLIA VENDESI causa tra-
sferimento di sede, in casa comple-
tamente arredata, seminuova. Figli 2.
Moglie (una, rossa), taglia 44, docile,
silenziosa, ottima cuoca. Facilitazioni
pagamento (mutuo 50%). Proponibi-
le intercambio, se pari condizioni ev.
conguagliabili, zona New England. CP
– 300641 K – S. Francisco.

e con l’acquisto di un’altra già pronta nella nuova residenza. Oggi può sembrare una facezia. Fra pochi anni forse no. Comunque la rivoluzione dei costumi ci lascia senza alcuna arma naturale idonea ad annullare, o almeno a ridurre, il logoramento esagerato dell’intera personalità fisica e psicologica dell’uomo, come individuo e come società. Perché, come dice Toffler «l’uomo rimane, in ultima analisi, come cominciò al principio: un biosistema dalla limitata capacità di cambiamento. Quando tale capacità viene travolta, la conseguenza è lo shock del futuro».

Da qui in avanti, tuttavia, non siamo più d’accordo con la quasi completa analisi compiuta da A. Toffler nel 1970. Per lui le conseguenze dello shock sono prevalentemente di tipo psicologico, o sociale, o politico; e su quella base egli indica la necessità di un intervento modificante, senza peraltro trovarlo. La sua analisi ha toccato - marginalmente - il campo sanitario, ma per esso egli dichiara la sua incompetenza di non medico, limitandosi a registrare un trasparente dispiacere al riguardo della medicina d’oggi, decaduta come tutti gli altri rapporti umani «a scambio di messaggi così elementari da ridursi a brevissimi comunicati… L’impatto che questa frammentazione e contrazione delle relazioni paziente-medico ha sulla difesa della salute dovrebbe essere esplorato più seriamente» (The Future Shock). Questa è appunto l’esigenza che ha dettato la presente ricerca. Perché esso è il punto chiave non soltanto del malessere psicologico del mondo, ma dell’aumento progressivo di vere malattie da shock di civiltà, che la scienza medica moderna è incapace di curare, e che ci uccideranno nonostante ogni tecnologia, se non saremo in grado di ritornare a equilibrare l’uomo.

La medicina come pollice in bocca e il suo fallimento. – A causa dello stress cronico della iperscelta universale, della insicurezza e della provvisorietà esasperata di tutto quanto ci circonda, compresi noi stessi, la più diffusa tra le malattie contemporanee sta diventando la «crisi di identità», fonte unica dalla quale discende una serie di sintomi psicosomatici a diffusione e rilevanza sociale: dall’ipertensione al diabete, dai disturbi ormonali al cancro. Anche senza la dilatazione progressiva della coscienza sanitaria, anche senza il fascino ambivalente del progresso tecnologico medico, anche senza il truculento battage dei farmaci ai profani, il ricorso moltiplicato alla medicina, rispetto a tempi psicosocialmente più tranquilli, è dunque in queste condizioni quasi obbligatorio.

È esattamente questa bomba psicosociale, dimenticata dai burocrati riformatori, che ha fatto fallire in tutto il mondo i più accurati programmi sanitari, i quali erogano una medicina sempre meno soddisfacente quanto più si fa complicata, tecnicistica e spersonalizzata. Infatti i pianificatori, coerenti solo con i loro condizionamenti culturali populisti, stanno ancora baloccandosi con gli schemi artefatti della «giustizia sociale», che distribuisce gratis a tutti le forme esteriori ma non il contenuto sostanziale della medicina. Il quale naturalmente è quello di sempre: in questo memento storico, che vede l’uomo muovere i primi incerti passi, da mille triboli frastornato, sulla landa ostile di un futuro che gli è caduto addosso di colpo, il ricorso esasperato alla medicina si identifica con il gesto dell’infante nella fase orale freudiana, che succhiandosi il pollice tenta di risuscitare - gratificandosi con un equivoco dei sensi - la vicinanza protettiva della madre e del suo capezzolo turgido e pulsante. Ma questa trasparente richiesta sentimentale non è prevista in nessuna «normativa di erogazione», e l’errore dei politici lo pagano come sempre le comunità, avviandosi dovunque alla bancarotta sociale. Se invece venisse ascoltata e soddisfatta, non solo consentirebbe agli uomini almeno qualche equivalente della felicità, ma ridurrebbe talmente i costi da risanare di colpo qualsiasi bilancio assistenziale (e comunitario).

Utopie? Per niente; questa è invece la chiave misteriosa (cristallizzata da A. Carnegie nella formula del successo: «Trova un bisogno e soddisfalo») che ha aperto le porte del mondo moderno all’enorme successo finanziario di una serie di prodotti di consumo che fanno appello al sentimento piuttosto che alla razionalità; il loro incompleto elenco si estende dal teatro partecipazionale ai maghi e veggenti, dalle terapie di gruppo al Club Méditerranée, dagli happening al drogaggio di massa. L’evasione nel sentimento, tra l’altro, non ha nulla di sconveniente (se non per il nostro orgoglio intellettuale); è uno dei mezzi difensivi naturali posti in essere da qualsiasi organismo superiore nell’eventualità di una crisi di sopravvivenza (e la nostra che cos’è?). E per un’ottima ragione: infatti l’automatismo dei sistemi nervosi profondi (i famosi cervelli dei rettili e dei primati di Laborit e Papez, sede delle emozioni e degli istinti) supera in efficienza e saggezza qualsiasi apporto cosciente della corteccia cerebrale.

Lo hanno dimostrato almeno da vent’anni, con finissime ricerche di psicobiologia sperimentale, Hernandez-Peon, Scherrer e Jouvet negli animali; Galambos e tutta la scuola di G. Walter, nell’uomo. In quest’ultimo uno dei sentimenti più complessi, automatici e irrazionali è la fiducia. Ebbene, nonostante tutte le delusioni razionali che ha subito dalla medicina, nonostante addirittura che la scienza medica non creda quasi più a se stessa (cap. 8) la gente alla medicina ci crede ancora. Un’inchiesta DOXA conclusa lo scorso anno (sulla «Fiducia degli italiani») vedeva all’ultimo posto i politici (era ora!), al secondo i vescovi (con il 16,5 per cento), ma con generale sorpresa al primo i primari degli ospedali (con il 42 per cento). E a Londra un sondaggio di opinione quasi contemporaneo, condotto dal «Sunday Times», ha accertato che i medici raccolgono ancora la fiducia del 75 % degli intervistati.

L’interpretazione più probabile è che questo intimo e irrazionale accordo - in contrasto con l’opinione razionale - sia stipulato con la base sentimentale della medicina, visto che è tanto forte da superare le continue frustrazioni logiche della sua tecnica fallimentare. Ma a questo punto s’impone una domanda fondamentale: non è possibile trovare qualche diversa alternativa, perché la medicina ritorni ad essere anche sul piano tecnico quella che l’umanità desidera che sia, e riacquisti con ciò tutto il suo potere taumaturgico, oggi apparentemente perduto?

Capitolo X – Medicina: una o molteplice? 

Fino ad ora la presente ricerca si è sempre riferita all’arte del guarire come alla medicina tout-court, adeguandosi alla opinione universale che la forma che di essa conosciamo ne sia l’espressione più valida, e addirittura l’unica possibile. Questo è invece uno dei più gravi errori di giudizio delle comunità civili moderne, in conseguenza del quale questa medicina, pur avendo raggiunto limiti estremi nello sviluppo tecnico e scientifico, si dimostra ogni giorno di più incapace ad assolvere il suo compito istituzionale, che è unicamente la difesa dell’umanità. La tragedia nasce dal fatto che essa non è – come le sue antenate – infarcita di errori o superstizioni, la cui correzione potrebbe migliorarla. Anzi ha ormai raggiunto la quasi massima perfezione tecnica, sviluppando correttamente le premesse che si è data da un secolo. Perciò non si è parlato nei suoi riguardi di modifiche, ma piuttosto di alternative; infatti la forma medica attuale non si identifica affatto con l’intera medicina, ma soltanto con uno dei suoi filoni, cioè con la cosiddetta allopatia.

Il rastrello elettronico. – Questa verità dimenticata è l’unica capace di spiegare i suoi grandi successi e insieme le sue sconfitte paradossali contro nemici grandi e piccoli dell’uomo, dal cancro al raffreddore, sul livello della terapia; e persino la sua progressiva sterilità in grandi ipotesi (secondo A. Jores, clinico medico di Amburgo) al livello della conoscenza scientifica. Evidentemente il filone, appunto perché coltivato con la massima efficienza, è assai prossimo all’esaurimento e non rende più.

Per chiarire meglio il dramma attuale della medicina, prenderemo un esempio dall’agricoltura. Essa usa, in molti modi e in tutte le stagioni, quell’utilissimo strumento che è il rastrello, espansione potenziata delle dita ad artiglio dei primi coltivatori. Ma se l’agricoltura avesse subito cent’anni fa lo stesso destino della medicina, il rastrello avrebbe soppiantato qualsiasi altro strumento, diventando sempre più lucido, funzionale, motorizzato e da ultimo persino elettronico, nel tentativo di provvedere da solo ai compiti di ogni altro attrezzo. Sennonché, ad onta di tutti i possibili perfezionamenti, sempre rastrello resta e i campi finiscono con l’isterilirsi e morire per mancanza della vanga o dell’aratro. Il rastrello della paradossale parabola configura esattamente l’allopatia. Resta da vedere come, e perché, essa sia riuscita in quest’ultimo secolo a raggiungere un monopolio così esclusivo da soppiantare non solo la pratica, ma persino la nozione di ogni altra possibile forma dell’arte del guarire, fino ad identificarsi illecitamente con essa.

L’allopatia, o dottrina medica dei contrari, risale come sistema a una setta di guaritori fiorita in Asia Minore nel I sec. a. C. II suo principio è tanto semplice da risultare l’ovvia applicazione del buon senso: a chi ha febbre, si applicano le compresse fredde sulla fronte; a chi rabbrividisce si danno le coperte o lo scaldino, o, per via interna, una tisana o un grog bollente…

In forma dottrinale fu codificato nel II sec. dopo Cristo da Galeno: «contraria contrariis curantur», ed è arrivato fino a noi attraverso la medicina Scolastica, nonostante che il sistema galenico sia stato riconosciuto falso da oltre trecento anni. Anche dopo la sconfessione di Galeno, infatti, i medici cercavano in tutti i modi di espellere dall’organismo la «materia peccans» con la purga e con il salasso, con i rivulsivi gli emetici e i clisteri, ripetuti per decine di volte fino ad uccidere (come il Delfino di Francia, primogenito di Luigi XIV, morto «di tifo» nel 1711, «nonostante – dicono le cronache – due purghe al giorno e quaranta salassi nel tempo di un mese… »). Alcuni grandi medici si ribellarono, e furono combattuti come eretici o peggio: nel ’500 Paracelso, fondatore della iatrochimica allo scopo di preparare medicamenti efficaci e logici, di contro a quello che chiamava «il mucchio di sciocchezze» della teoria e pratica galenico-scolastica; Gerolamo Cardano, e persino François Rabelais, il frate-medico-poeta-curato di Meudon, autore del Gargantua e Pantagruel, che contiene molte feroci critiche alle «cure» ciarlatanesche e letali dei medici del Rinascimento. Alla fine del ’600 Thomas Sydenham (primo a descrivere il morbillo e in modo superbo la gotta, di cui soffriva…) chiamato l’Ippocrate inglese perché cercò di riportare l’attenzione all’uomo. Nella seconda metà del ’700 Francesco Mesmer, inventore del magnetismo animale, per il quale malattie e guarigioni non erano correlate a nessuna materia peccante, ma invece ad una errata distribuzione nel corpo del fluido magnetico universale. E infine Samuele Federico Cristiano Hahnemann, fondatore della cosiddetta omeopatia («similia similibus curantur»), l’unico sistema terapeutico in grado di sostituirsi all’allopatia. A parte la sua eccezionale longevità (88 anni, la stessa di Ippocrate) che gli consentì di trionfare, sopravvivendogli, sui suoi oppositori contemporanei; a parte la benefica assenza, nelle sue cure, dei veleni e delle violenze cari agli allopatici, il fascino maggiore della nuova teoria risiedeva nella eleganza logica del suo procedere. La regola del «similia similibus» infatti, non fu da lui intesa come il contrario polemico del «contraria contrariis», ma invece come la strada maestra per arrivare alla concezione unitaria della malattia, sfruttando i segnali (sintomi) offerti dalla riscoperta unità psico-fisica dell’uomo.

Nel 1849 il celebre fisiologo francese Claude Bernard, positivista e meccanicista, faceva la scoperta sensazionale che la puntura del quarto ventricolo cerebrale produce nel cane il diabete. Era la piena conferma sperimentale della teoria unitaria di Hahnemann. Ma quando tutto sembrava attribuirle la vittoria scientifica sulla caotica incoerenza dell’allopatia, quest’ultima fruì di un incredibile colpo di fortuna. Nel 1860 Louis Pasteur scopriva i germi, i quali le regalarono la prima spiegazione scientifica delle malattie, insieme con la insperata documentazione microscopica della materia peccante da espellere dall’uomo. Per risanare l’uomo fu dunque dichiarata la guerra ai microbi. Il loro isolamento specifico in decine di affezioni, e l’illecita estrapolazione che tutte le malattie provenissero dai germi, costruirono a posteriori una teoria di marca allopatica con la speranza terapeutica di un veleno specifico contro ogni specifico batterio.

Per puro caso fu in questo momento storico, di trionfo allopatico, che la professione medica si organizzò su base sindacale-corporativa (l’A.M.A., cioè l’American Medical Association, fu fondata nel 1847; il primo Congresso medico internazionale ebbe luogo a Bruxelles, 1867). L’adesione al sistema allopatico divenne quindi, fatalmente, la tendenza ufficiale della categoria, confortata anche dagli innegabili vantaggi delle neonate asepsi, antisepsi e anestesia. Si apriva così il filone aureo degli ardimenti e dei successi, soprattutto per i chirurghi ai quali le nuove tecniche consentivano un’opera meno tumultuosa e finalmente interna, ma soprattutto la sopravvivenza di oltre la metà degli operati, mai raggiunta nella storia. Nasce in questo momento l’entusiasmo chirurgico, e la serie dei ferri moderni ancora oggi in uso (Péan, Kocher, ecc.) derivati dalla migliore conoscenza in vivo della macchina-uomo.

D’altronde questa poteva ormai essere approfondita, al di là dei rischi operatori sull’uomo, anche con la vivisezione degli animali, insegnando l’imperante evoluzionismo darwiniano che tra le cavie, i cani, le scimmie e noi c’era solo differenza di tempi evolutivi e non di sostanza. Vengono quindi sperimentate da questo momento in poi, sui mammiferi e sulle scimmie (i nostri parenti più prossimi) tutte le novità di questa medicina dalle tecniche operatorie ai medicamenti, persino alle teorie psicologiche e comportamentali, allo scopo di trasferirne i risultati «scientifici» sull’uomo. Si è in tal modo instaurato e mantenuto uno dei più sottili errori culturali della scienza medica (curiosamente considerato colposo in Galeno per la sua anatomia «umana» basata su quella animate). Di esso in questi ultimi anni vengono finalmente riconosciute l’illecita insufficienza e la pericolosa inattendibilità.

Gli antibiotici come «jolly». – Nella linea nobile dell’arte, cioè la medicina interna, i successi tardavano invece a venire nonostante che i germi si lasciassero riconoscere e isolare in schiere sempre più fitte. La materia concreta delle malattie, cioè i loro agenti responsabili, si sarebbero rifiutati, ancora per altri cinquant’anni, di arrendersi all’attacco allopatico: nel 1860 «nasce» il primo bacillo (il mycetum aceti di Pasteur), ma solo nel 1910 P. Ehrlich e S. Hata scoprono la prima cura causale allopatica cioè l’arsenico trivalente (Salvarsan 606) contro la spirocheta della sifilide!

La troppo lunga attesa costellata di delusioni (come la cura della Tbc proposta nel 1890 da R. Koch stesso con la alt-tuberkulin, e mille altre) diffondeva nella professione medica un malessere prima sconosciuto, per la frattura tra il laboratorio fecondo di scoperte e la pratica impotente come sempre; sul piano scientifico esso si esprimeva nel contrasto tra l’indirizzo microbiologico e dogmatico (di scuola tedesca) e quello clinico-costituzionale e relativo (di scuola italiana).

Negli anni a cavallo del 1900 non esiste perciò congresso o giornale medico che non discuta passionalmente il neonato problema della crisi della medicina, dilaniata tra la pragmatistica concezione allopatica della malattia e la diversa e imprevedibile realtà dell’uomo malato. è l’inizio del conflitto tuttora irrisolto tra riduzionismo e integrismo che abbiamo già visto arrivare alle estreme conseguenze con Monod e Jacob. Questa crisi di significato e di sostanza impose l’esigenza di una teoria più soddisfacente e unitaria della malattia, risolta col ritorno al metodo ippocratico dai più grandi clinici del tempo, quasi tutti italiani: G. Baccelli e A. Cardarelli, A. Murri e P. Grocco, fino ad A. De Giovanni e G. Viola, i fondatori della patologia costituzionale. Nella loro impostazione umanistica riecheggia – anche se accuratamente taciuto – lo spirito della vecchia e combattuta ipotesi di Hahnemann. Ma non tutti tacquero sul fatto sconcertante che le prime grandi conquiste mediche non discendevano dalla linea allopatica, ma invece dalle applicazioni sperimentali della dottrina dei simili.

In quale altro sistema infatti se non in questo si inscrivono le immunizzazioni, che vinsero le ecatombi provocate dal carbonchio ematico, mal rossino dei maiali e rabbia canina (Pasteur: 1863, 1883, 1885), dalla difterite e tetano (von Behring: 1890), dal colera (Ferran: 1893), dalla peste (Haffkins, Yersin e Calmette: 1895), dal tifo (Pfeiffer e Kolle: 1896), dalla dissenteria (Shiga e Kruse: 1901); oltre a quella, già centenaria, del vaiolo (Jcnner: 1798)?

Curiosamente vollero negarlo alcuni omeopatici di stretta osservanza, ma per esempio Emil von Behring, nella sua «lezione» di premio Nobel 1901 «per la teoria e la pratica dell’immunizzazione» non ebbe alcun dubbio: «qual è la causa della immunità delle pecore vaccinate contro il carbonchio, se non l’influenza precedentemente esercitata da un agente di natura simile a quella del mortale agente del carbonchio? E con quale termine tecnico si potrebbe parlare più appropriatamente di questa influenza, esercitata da un agente simile, se non con il termine di Hahnemann, “omeopatia”?».

La diffusione mondiale delle immunizzazioni attive e passive accrebbe finalmente la aspettativa di vita alla nascita, riducendo per la prima volta nella storia la strage degli innocenti, cioè la «fatale» mortalità dei bambini fino ai due anni, che raggiungeva persino il tasso spaventoso di uno su due (500 per 1000) a causa soprattutto della difterite. Questo regalo della scienza, il primo risolutivamente benefico per l’umanità (ma non allopatico, come abbiamo visto), e ancora uno dei più preziosi ed usati e resta a lungo l’unico finché, circa quarant’anni dopo, nel mazzo disordinato delle sue carte terapeutiche, l’allopatia trovò una coppia di «Jolly» pigliatutto: cioè i sulfamidici (G. Domagk 1932, premio Nobel 1939) e gli antibiotici dalla penicillina e streptomicina in poi (A. Fleming, premio Nobel 1945; S.A. Waksmann, premio Nobel 1952).

Il trionfo ambivalente della allopatia. – II concetto antagonistico dell’antibiosi, base dei nuovi medicamenti di potenza mai sognata, ripropose trionfalisticamente il principio dei contrari che, superando ogni limite critico, ha perduto persino l’eleganza metafisica della scuola microbiologica dell’800. Non si tratta ormai più di trovare un veleno specifico per ogni specifico batterio, ma di agire su categorie sempre più larghe ed eterogenee di microbi, distinte unicamente dai caratteri tintoriali (Gram-positivi o Gram-negativi), nel dichiarato intento di arrivare presto o tardi all’antibiotico dallo spettro globale, cioè attivo contro tutti i germi (patogeni). Qui riaffiora – pericolosamente – quel concetto di panacea (curatutto) che la medicina aveva finora rifiutato come antiscientifico, anzi come il marchio più evidente della ciarlataneria e della truffa. Ma non è la sola né la peggiore conseguenza della ormai secolare dittatura allopatica in ogni campo dell’arte del guarire.

Come criterio generale, infatti, quasi tutte le magnificate realizzazioni del sistema medico attuale dimostrano un carattere ambivalente, cioè sono insieme apportatrici di bene e di male, con prevalenza, a lungo termine, di quest’ultimo.

Per esempio nel campo dove l’allopatia e maestra, cioè in quello dei farmaci «anti-qualcosa», esiste una vera inondazione di medicamenti. Ma il fallimento allopatico si rivela come segue: per le malattie parassitarie ed infettive è disponibile un eccesso di prodotti causali, preziosi anche se a scadenza biologica sempre più precoce; per tutte le altre malattie, interne all’uomo, soltanto una valanga di sintomatici (non curativi!), i cui effetti secondari hanno in compenso scatenato il fenomeno delle malattie iatrogene (cioè provocate dal medico), che si estende dalla tragedia del talidomide alle diffusissime intolleranze banali che sono invece veri avvelenamenti, sia pure in gran parte regredibili. La conseguenza più grave, pregna di tremende implicazioni per la sopravvivenza stessa dell’umanità, è che la conoscenza, lotta e vittoria causale contro i germi ha ridotto la mortalità infettiva a un esiguo 5-10% del totale (chi muore più, nei paesi civili, di lebbra o di polmonite, di sifilide o di tubercolosi, di morbillo o di influenza?); ma per converso la patologia degenerativo-cronica arriva a pesare sul totale per circa l’85-90%.

Ciò significa, al di là di ogni arzigogolo, che il sistema allopatico non riesce a conoscerne né a curarne le cause, e quindi né è sopraffatto. Polemica velleitaria? Tutt’altro. Ogni medico curante di queste forme sa purtroppo quanto poco ne sia attendibile l’arsenale farmaceutico, dove le ondate di moda sostituiscono la sicura efficacia, o dove un accertato effetto sintomatico (sul livello del colesterolo ematico, o dell’acido urico, o sui valori della pressione arteriosa sistolica…) si dimostra così letale per i pazienti da portare, dopo anni di uso mondiale, a un divieto ufficiale di vendita e di produzione. B. Inglis, L. Lasagna e B. Yunckner hanno elencato oltre quaranta prodotti di questa tipo nei primi anni ’60, in U.S.A. Per l’Italia basti il caso del Mer 29, vietato (come in tutto il mondo) dall’allora ministro della sanità on. Mariotti nella primavera del ’62, il giorno prima dell’apertura di un congresso internazionale a Milano («Stati ipercolesterolemici e farmaci anticolesterolemizzanti») nel quale una folla di illustri scienziati esponeva i «risultati favorevoli» della biennale sperimentazione clinica con la nuova medicina-miracolo.

La reazione immediata tende a incolpare di questo stato di cose le case produttrici o i clinici «iatrogenisti». Ma è un doppio sbaglio: le case preparano, al meglio possibile, quanto vien loro presentato come novità e progresso dai medici; e i clinici esigono le prove preventive di efficacia e innocuità, che in questo sistema medico vengono per legge compiute sugli animali. Il vero errore responsabile delle tragedie è di carattere essenzialmente metafisico, e risiede nella confusione concettuale allopatica che considera il sintomo una malattia e si illude «di curarlo» comprimendone l’isolata manifestazione, rifuggendo dalla ricerca preliminare delle vere cause dei mali.

Tuttavia la supina e incensata accettazione di un tal modo di procedere «scientifico» ha oltretutto il demerito di accorciare la vita.

Perché la vita si accorcia. – II mito del continuo crescere della aspettativa di vita deriva solo dalla illecita estrapolazione nel futuro di quanto è avvenuto fino ad oggi. Sennonché l’aumento (statistico medio sui nati) dipende essenzialmente dalla scomparsa della enorme mortalità perinatale e infettiva dovuta alle vaccinazioni e agli antibiotici. Nei paesi sviluppati le statistiche segnalano, al suo posto, un aumento esponenziale della patologia cronico-degenerativa, a conferma dell’incompetenza del sistema dominante di medicina (allopatica) a difendercene; il che ci lascia dunque soli a combattere contro le malattie più numerose e importanti che accorciano la vita. Se esistesse ancora qualche dubbio, le statistiche recenti ce lo tolgono. Già nel 1961 H. Shaper (U.S.A.) aveva calcolato, per i gruppi di età oltre l’adolescenza, «un regresso nell’aspettativa di vita di circa 2 anni nell’ultimo decennio». E per il decennio successivo le tabelle dell’O.N.U. e dell’O.M.S. accertano, per i sessantacinquenni, «un’allarmante riduzione della aspettativa di vita in ben 24 paesi ad alta civilizzazione», cioè là dove la medicina allopatica e tecnologica raggiunge – in dispotico predominio – i massimi fastigi.

Le ipotesi sulle cause (psicosomatiche) della tendenza esponenziale in patologia degenerativa saranno discusse più avanti; qui nel tentativo di spiegare la tragica impotenza della medicina ufficiale di fronte ai flagelli endemici moderni, basterà analizzare il suo atteggiamento verso il cancro, che ne è il paradigma più esasperato. Dopo oltre trecentocinquant’anni di indagini microscopiche, centodieci di ricerca del bacillo (con qualche migliaia di scoperte illusorie, una delle quali addirittura coronata col Nobel), settanta di organizzazione sociale anticancro, trenta di organizzazione di ricerca (Sloan-Kettering, 1945) con illimitata disponibilità finanziaria, la malattia resta tuttora un enigma. Visto che il fardello delle sconfitte si fa più pesante ogni giorno, e intanto il cancro è diventato la seconda causa di morte nei paesi civili, i ricercatori propongono, a se stessi prima ancora che al mondo, una serie di alibi sempre più rarefatti: tra gli altri addirittura quello politico («gli scarsi risultati della lotta contro il cancro dipendono proprio da una carenza di volontà politica…» in «Negri News», giugno 1970); o quello super-organizzativo, a base di collegamenti telex tra i vari centri di ricerca, naturalmente bisognoso di ulteriori sforzi finanziari (Van Bekkum, 1970).

Ma la fragilità dei pretesti è trasparente. Soprattutto di fronte alle enormi somme già spese senza risolutivo progresso da tutti i centri di ricerca nel mondo, nonché ai millecinquecento miliardi di lire garantiti al programma quinquennale «Conquista del Cancro» lanciato dal Presidente Nixon l’antivigilia del Natale 1971, che finora non ha prodotto nulla di veramente nuovo. E quanto ai supposti vantaggi della superorganizzazione, fa testo il sofferto diario di un addetto ai lavori (Renzo Tomatis, italiano, che lavora al Centro anticancro dell’O.M.S. a Lione), disadorna e immediata tranche de vie che fotografa, dall’interno, il grave inquinamento burocratico e strutturalistico con il quale la programmazione dei programmi soffoca l’assillo realizzatore della scoperta, che è prima e soprattutto poetica fantasia del singolo (anche per L. Sachs).

Da molti e sempre sorprendenti punti di vista il cancro sfida gli schemi tradizionali della ricerca scientifica. è su questa linea che S. Garattini, direttore dell’Istituto Negri di Milano, difendeva recentemente la vivisezione, cioè «l’utilizzazione degli animali nell’interesse dell’uomo» per risolvere rapidamente i grossi problemi sanitari della società moderna. Per molti degli altri ha ragione; per il cancro forse no, vista che per esempio il Calusterone (7 β, 17 α – Dimetiltestosterone), il prodotto ormonale finora più attivo nel ca. mammario avanzato, non aveva dimostrato alcuna azione antitumorale negli animali da laboratorio (Gordan G. S., Halden A., Walter P.M., 1970). Questa è una felice eccezione. La regola è invece l’inverso: si perdono spesso anni e milioni per accertare la sicurezza di un antineoplastico attivo sui ratti solo per accorgersi, dopo, che non ha alcuna efficacia sull’uomo («Tempo med.», maggio 1975). Eppure è sugli animali e nelle provette che si spende la massima parte delle somme dedicate alla conquista del cancro.

Dall’inizio della sua attività nel settore della chemioterapia (1956) l’Istituto nazionale del cancro (U.S.A.) ha sottoposto a screening 190.000 composti di sintesi, 160.000 prodotti di fermentazione, 60.000 estratti vegetali e 12.000 biologici. La motivazione di questo gigantesco impegno finanziario è, incredibilmente, soltanto «la speranza che qualche sostanza, per avventura, abbia qualche attività antitumorale»; e difatti ne sono state setacciate circa 70, che nell’uso terapeutico hanno tuttavia dimostrato «risultati limitati» a detta degli stessi ricercatori. Chi ha analizzato il significato di questo sforzo non ha potuto fare a meno di definirlo «forse non molto scientifico, anche se redditizio» (G. A. Maccacaro); «Non sembra una grande idea» (Ch. B. Anfinsen, premio Nobel 1973); «Questa cieca rincorsa di una cura per il cancro, oggi, assomiglia a un tentativo di far arrivare l’uomo sulla Luna senza conoscere le leggi della meccanica di Newton» (S. Spiegelmann, uno dei maggiori biologi viventi, direttore della ricerca anticancro alla Columbia University di New York). Infatti gli manca, ed è purtroppo l’essenziale irrinunciabile, il possesso di una prospezione geologica esatta (cioè di una ipotesi attendibile della malattia) che deve precedere l’inizio dei lavori. L’investimento d’azzardo di una parte così cospicua di risorse umane (non solo economiche, ma di pensiero), dovuto al solito alibi moderno dello «strutturalismo», gli fa correre l’altissimo rischio di trivellare l’anticlinale sbagliato e di trovare, diecimila metri sotto, solo un po’ d’acqua salmastra invece del petrolio.

La «cattiva coscienza» della medicina. – Difatti la gente comune che vive, ragiona (e muore di cancro) a misura d’uomo, non si lascia mistificare dal massiccio spiegamento di forze, ma anzi vi trova motivo di maggiore perplessità, di fronte al singolo insuccesso. Soprattutto per colpa del non risolto mistero dei tumori, dell’ossessiva propaganda che se ne fa, e in ordine alla sua natura di tabu sentimentale. Le comunità stanno perdendo ogni giorno di più la fiducia nella medicina. Siamo arrivati al punto che, se un paziente oggi muore di polmonite, e persino dell’antico tabu tubercolosi, si pensa che ne sia responsabile qualche errore del singolo medico. Ma se muore un canceroso se ne incolpa automaticamente – sia pure con sconsolata amarezza – la incapacità «della» medicina. Questa forse salva il medico, ma alla lunga sta derubando l’umanità di una delle più valide garanzie di sopravvivenza in caso di crisi globale: quella fiducia razionale nell’arte del guarire che l’ha aiutata a salire dalla cultura delle amigdale di selce a quella atomica. Esattamente come i marines sulle spiagge di Omaha il 6 giugno 1944, che affrontavano impavidi il fuoco tedesco sapendo però che solo dieci passi dietro c’erano gli infermieri, con i flaconi di plasma e la penicillina.

Nel momento della verità che oggi incombe risulta indispensabile, per salvare la medicina, dissociarla da questa sua attuale forma, operativa e limitata, che è la dominante allopatia. Cioè ritornare a distinguere, concettualmente e no, la pratica corretta dell’agricoltura (che si vale di tutti gli strumenti idonei) dalla artificiosa monomania del «rastrello», utile e benefico per oltre un secolo, ma impotente ad arare il «terreno» cioè la vera sede causale del sintomo erba.

Anche fuori di metafora, l’allopatia ha dimenticato metafisicamente proprio il «terreno», termine con il quale in medicina si designa l’uomo e la sua polimorfa e imprevedibile reazione. Se ne è valsa ugualmente, attraverso un sincretismo morganatico con altre forme dell’arte generale del guarire (sotto la condizione del silenzio ufficiale) soprattutto nell’ambito di quella patologia degenerativa che causalmente essa non sa combattere. Per questo troviamo e usiamo, in piena dittatura allopatica, formule ereditate o riscoperte dalla omeopatia (le immunizzazioni già citate, gli estratti d’organo, la placenta, le fitostimoline), dalla medicina popolare (digitale, strofanta, scilla, mughetto, colchico, podofillina, salice, balsamici, papaia, ananas, mirtillo, edera), dalle medicine africana, indiana, cinese, inca, messicana, peruviana (rauwolfia, ginkgo biloba, pigeum africanum, vincristina, vinblastina, belladonna, caffeina, aminofillina, tutte le droghe dall’oppio in poi) e tante altre.

Ma questa non basta. Centinaia di pratiche terapeutiche d’accatto, utili a superare comunque le crisi individuali, costruiscono un sistema empirico meravigliosamente collaudato, ma non fanno avanzare di un passo la scienza, cioè la conoscenza dell’uomo, nella salute e nella malattia.

Essenzialmente per questo, l’allopatia è condannata dalla sua legge a ignorare per sempre il mistero del cancro; e alla lunga l’alibi esterno mostra la corda, anche se la sua occasione degrada progressivamente in volume e figura: dal bacillo impossibile a scoprire, ai virus (un alibi più sottile…), alle molecole pre-virali (sempre più invisibili e opinabili, ma comunque esterne). In realtà non si trova nulla; non perché i ricercatori siano ciechi, ma perché non c’è nulla da trovare, oltre all’uomo, il quale tuttavia è qualcosa di più (Jacob) della somma riduzionistica (Monod) delle sue cellule costitutive. Solo in questo «di più», che però non precipita nelle provette, ed è legato unicamente all’uomo intero e non ai suoi deceduti frammenti, si nasconde (in modo abbastanza trasparente) il cosiddetto mistero. Ma finora la scienza allopatica ha diretto i suoi microscopi elettronici nella direzione sbagliata. Ricomincia a puntarlo sull’uomo globale soltanto adesso, sia pure mettendo a fuoco il singolo sintomo periferico della immunità, con la ripresa da parte degli immunologi (R.A. Good, Ceppellini) del concetto di immunosorveglianza che Ehrlich e von Behring espressero ai primi del ’900. Ma si tratta – come abbiamo vista prima – di un concetto omeopatico, totalmente estraneo alla «dottrina dei contrari» anche se da questa sfruttato.

«L’altra medicina». – Occorre dunque ricercare una impostazione più soddisfacente per l’uomo e finalmente autonoma.

Sul piano della realtà personale i singoli pazienti si dimostrano molto più saggi della scienza medica, e molto meno presuntuosi. Di solito è eccezionale – almeno nei paesi civili – che un malato si rivolga d’acchito a un guaritore o a un ciarlatano (che sono due entità enormemente diverse, anche se l’interessato equivoco concorrenziale della ortodossia medica tende a farle coincidere).

In genere segue i canali ufficiali, per consuetudine e «copertura mutualistica». Soltanto se resta com’è – o peggio – dopo un calvario di «cure» inutili, può cercare aiuto fuori della ortodossia. In questo caso la sua prima scelta è qualche medico eterodosso, cioè un laureato in medicina che ha superato, per personale esperienza, i limiti dogmatici della verità allopatica (omeopatico, agupunturista, chiropratico, osteopata, erborista, naturopatico…). Solo quando per troppo lungo soffrire non gli importa più come avvenga la guarigione, ma che essa sia almeno sperata, la sua ricerca si fa totalmente extramedica e cade su qualsiasi linea dichiaratamente antiscientifica e clandestina; a questo punto, comunque vadano le cose, paziente e curante si legano di una paradossale omertà, per essere entrambi fuori legge e accomunati nel risentimento contro l’ortodossia che tradisce le sue promesse.

Il fenomeno – reale anche se scomodo – non è tipico dei ceti più bassi, né delle aree depresse, laddove manca la disponibilità della scienza ufficiale. Le statistiche ne segnalano la prevalenza addirittura nelle metropoli più civili; a Parigi e a Milano, a New York e ad Amburgo, in media uno su cinque pazienti è ricorso alle attuali linee eterodosse dell’arte del guarire; e spesso è guarito.

A noi, come sempre, interessa soprattutto il significato di questa guarigione. Esso nasce dal fatto, semplice ma fondamentale, che al contrario dell’allopatia nessuna delle tante suddivisioni (lecite e no) dell’«altra medicina» ha respinto o dimenticato l’uomo. Nei casi estremi – scomparsa qualsiasi validità dell’agire resta soltanto il nudo contatto umano tra chi soffre e chi accetta di interessarsi alla sua sofferenza. E nonostante tutto talvolta basta questo sentimento (catalizzato dalla autosuggestione) a far guarire ciò che l’allopatia era riuscita solo a peggiorare, cronicizzando. Ma «questo sentimento» è semplicemente l’amore, che Paracelso sosteneva essere «il quarto pilastro del tempio della medicina»; quell’amore che i guaritori stessi o i loro moderni studiosi (R. Beard, G. de la Warr, B. Woods, W. Weatherhead, o il nostro F. Racanelli, che è entrambe le cose) sostengono essere il fattore più attivo dei loro successi terapeutici. Ed è sempre quell’amore che la tecnologia allopatica ha espulso da se stessa, illudendosi di sostituirlo con i radionuclidi e con le biopsie epatiche.

È importante perciò rendersi conto che l’istigazione ad evadere dall’ortodossia agisce sul paziente ben prima che si manifesti concretamente; fin da quando cioè il suo medico non risolve «il caso» e comincia a smistarlo presso gli specialisti. Qui egli fatalmente si scontra non solo con la perdita dell’amore, ma persino dell’uomo medico (il «taumaturgo») che vede sostituito dal falso sillogismo: sintomo = ricetta = medicamento che guarisce. Quando questo fallisce, è il crollo spirituale e l’evasione da un sistema che non riesce ad aiutarlo. Ma ricordiamoci che li abbiamo provocati noi.

Dobbiamo dunque – al limite dell’essenziale – cercare l’alternativa alla allopatia nell’ambito della cosiddetta «altra medicina»? Cioè sostituire un altro monopolio a quello allopatico? No di certo. All’umanità interessa, nell’imminenza della crisi totale, rifiutare le scatole chiuse dei sistemi farraginosi, ma scegliere in esse le concretezze (e più ancora le idee) indispensabili ed essenziali, integrando da qualsiasi altro sistema i benefici che le possono donare.

Questo procedimento, tra l’altro, non ha assolutamente nulla di antiscientifico né di extramedico. È solo la sconfessione necessaria di un dogmatismo cieco e dittatoriale, che riserva a se stesso l’ortodossia e preferisce affogare con l’umanità piuttosto che salvarla e salvarsi con una semplice concessione all’umiltà. Il diverso comportamento che proponiamo è invece l’unico ortodosso sul piano metodologico, tanto da coincidere con il metodo della ricerca sperimentale galileiana («Provando e riprovando») che ha fatto nascere la vera scienza. In esso la libera e tempestiva scelta di ogni possibile alternativa è la prima radice del successo.

L’attuale resistenza a questo atteggiamento scientifico si basa su un paradossale equivoco, cioè l’esistenza di un’«altra medicina». Ma questo fantasma semplicemente non esiste. La Medicina, intesa nella sua esatta definizione di arte del guarire, è ora, come è sempre stata fin dall’inizio dei tempi, una e sola. Le sue diverse espressioni sono solo il risultato della fatale istituzionalizzazione di tutte le cose umane, con il suo perfido corteo di orgoglio e di artefatte ortodossie. Poiché questo è il tempo dell’ecumenismo (persino nelle religioni!) nessuno speri di conservare alla sola medicina il concetto del sacrilegio (con relativa scomunica). Si tratta invece solo di esercitare il libero diritto della scelta alternativa. Ma se l’allopatia, perduta nel suo narcisismo, sceglierà ancora di rifiutare l’uomo, è prevedibile che presto l’uomo rifiuterà l’allopatia (non la medicina, che al contrario desidera), ed essa diventerà fatalmente il capro espiatorio di colpe anche non sue.

Medicina integrata? – Questo tuttavia sarebbe un gravissimo errore, uno dei tanti nei quali periodicamente incappa l’umanità, quando si scatena per troppo lungo soffrire. Perché la allopatia, nonostante il doppio vizio originario della vacuità metafisica e del rifiuto dell’uomo, ha collezionato in cento anni di illecito ma indisturbato monopolio una ricchezza enorme di metodi operativi e di conoscenze dell’uomo, disgraziatamente solo analitiche e nei campi esclusivi ai quali andava il suo distorto interesse. Piuttosto che disperderla o incenerirla si tratta di redigerne l’inventario, accettando o respingendo ogni «pezzo» sulla pietra di paragone della sua essenziale utilità per la sopravvivenza dell’uomo. Naturalmente occorrerà una sintesi, che serva a rendere ordinata e finalmente comprensibile (anche senza computer) la congerie caotica che ci sta affogando senza costrutto. Ma è inutile cercarla lontano, visto che essa nasce (quasi pragmatisticamente) dalla pregiudiziale identità necessaria tra la medicina e l’uomo, integrata da tutti gli apporti tecnici e conoscitivi prodotti dal pensiero umano fin dall’inizio dei secoli.

Dopo la sintesi e l’inventario, sarà solo questione di dirigere prioritariamente i mezzi dell’indagine scientifica verso quei campi della conoscenza umana tuttora oscuri, perché abbandonati colposamente alla ricerca clandestina e irrisa di singoli cultori non tecnologicamente assistiti. Rinviando a un momento successivo la proposizione in dettaglio della Medicina Integrata, basterà qui accennare che la sua caratteristica distintiva nei confronti del passato (e soprattutto della negativa esasperazione allopatica) intende essere il totale rispetto dell’uomo e insieme la sua utilizzazione, per la prima volta cosciente. Di fronte agli enormi e benefici riflessi che questa sintetica impostazione può offrire ad ogni livello della vita comunitaria (dai costi sanitari al progresso della scienza medica) non si può che restare inorriditi, una volta di più, della colpevole dispersione di mezzi di energie, di uomini e di idee che la dittatura allopatica ha imposto al mondo.

In questo sistema accade, infatti, che un grande medico come M. Méssegué (il più rinomato erborista del mondo) non si laurei in medicina perché tema di perdere, lungo anni di caotico lavaggio mentale, le sue preziose (e misteriose) potenze terapeutiche. O che un’altra punta avanzata del progresso medico come F. Racanelli, laureato in legge e guaritore abusivo per i successivi sette anni, abbia dovuto subire cinque processi (ma cinque assoluzioni laudative) fine alla laurea e alla iscrizione nell’Ordine dei medici. Che follia agita dunque questa nostra società, che distribuisce migliaia di lauree ad honorem ai cavalieri del lavoro che la ingolfano di macchine inquinanti, e mai nessuna a chi si dedica alla sua salute, esplorando con rischio personale i campi nebbiosi che saranno l’ortodossia di domani? Nell’eventualità di una qualsiasi crisi di sopravvivenza (naufragio, catastrofe, persino epidemie!) non hanno più corso legale i titoli accademici, ma piuttosto il valore di ogni individuo. È dunque tempo che l’umanità riconsideri il mistero dell’uomo, e le sue potenze trascurate dalla tecnologia (in medicina e no).

Come l’ha reimparato, pur morendo di cancro il 20 maggio 1974, il più famoso columnist d’America, Stewart Alsop. Ritornando a «Newsweek» dopo due mesi di lotta tecnologica alla malattia presso il N.I.H. di Baltimore, egli ha riferito, in un pezzo straordinario che tutti i medici dovrebbero conoscere, una sua stupenda esperienza umana, che gli ha donato tre mesi in più di vita e di lavoro per sola virtù psichica. Cercando di analizzarla, scrive: «Esistono misteri, soprattutto il mistero del rapporto tra la mente e il corpo, che non saranno mai spiegati né dai medici più brillanti, né dagli scienziati più saggi né dai filosofi». Invece no; se il condizionamento allopatico ha condotto a questo punto persino una delle intelligenze più acute del mondo, significa che è anche troppo tardi per scrollarcelo di dosso, e cominciare a lavorare nella direzione giusta, finora presuntuosamente ignorata. Diceva d’altronde Shakespeare per bocca di Amleto: «Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia». Ma dal 1600 ad oggi la scienza le ha scoperte quasi tutte. Perché ha finora trascurato colpevolmente noi stessi?

Parte seconda – L’Uomo 

Dell’uomo sappiamo moltissimo, ma
comprendiamo ben poco.

J. Z. YOUNG, Oxford, 1974

Non è il nostro ingegno quanto l’uso che
ne facciamo a determinare il progresso del

mondo.

B. T. ROBERTSON, Adelaide 1931

Progresso e felicità: dieresi senza fine

Nei tempi moderni l’uomo ha preso coscienza di uno stato di malessere, che risale ad una dieresi sempre più larga tra il progresso e la sua personale felicità. Eppure la scienza gli ha rovesciato addosso il benessere delle invenzioni meccaniche, delle rivoluzioni sociologiche e democratiche, del dominio e sfruttamento delle forze fisiche e dell’ambiente (vapore, elettricità, volo). Ma oggi, dopo un secolo di ebrietà tecnologiche sempre più raffinate, una intera legione di scienziati, da P. W. Bridgman a V. Hartmann, da F. Jacob a M. Mihailov, da R. Oppenheimer a J. Macfarlane-Burnet, da A. Einstein a K. Lorenz, riscopre, nel tormento di un’autocritica dei suoi apporti scientifici, la necessità dei valori sentimentali trascurati o respinti, dall’etica alla felicità. La critica si fa aspra in K. R. Popper, (The Logic of Scientific Discovery) secondo il quale «il progresso della scienza non essendo altro che il progresso dello scienziato, tende ad avocare sempre di più a sé la realtà, sottraendola al potere del non scienziato». È invece ancora di semplice dettaglio operativo, strettamente aderente all’ortodossia dello scientismo, e perciò ontologicamente pleonastica, la recentissima critica di L. Villa (Responsabilità della Scienza, 1975).

Se l’approccio è antireale a livello della scienza pura, persino le sue derivate tecnologiche, applicate alla vita di ogni giorno per facilitarla, hanno reso più difficile il vivere per il loro continuo superamento iperspecialistico, egoista ed esclusivo.

Per G. Sermonti persino «la biologia rischia di voltare le spalle alla natura e all’uomo, quindi al campo delle sue applicazioni e alla sorgente dei suoi problemi»; egli si augura che «la scienza riprenda, come Bacone auspicava e Pasteur seppe fare, le vie dell’uomo». Ma quale uomo, e quali vie? Il premio Nobel K. Lorenz avverte (in Gli otto peccati mortali dell’Umanità) che «nella biologia la moda di imitare la fisica come scienza esatta trascura la struttura estremamente complessa cui dà luogo l’incastro dei sottosistemi». Ma questa struttura non è altro che l’uomo, nella sua semplice ma totale integrazione psicosomatica; e il suo stato di equilibrio globale, cioè la salute, è una condizione sintetica di altrettanto estrema complessità.

La medicina attuale, razionalizzando analiticamente i soli sottosistemi, perché gli unici che sa comprendere, ha complicato terribilmente i procedimenti per ottenere la salute, fallendo in ultimo la sintesi. Esattamente da una simile impostazione suicida discende la tragica ambivalenza dei suoi risultati e la dieresi insanabile tra il progresso medico (attuale) e la felicità umana, mentre quest’ultima, sul piano psicosomatico, si sta rivelando uno dei più importanti e trascurati fattori statistici della salute singola e collettiva.

Capitolo I – Una virtù scomparsa: l’arte di ammalarsi

Del malessere che pervade il rapporto tra malati e medici entrambe le categorie hanno una somma pressappoco uguale di responsabilità e di colpa, anche se si leggono solo lamentele contro i medici, e mai nessuna contro i malati. È giusto? In fondo un aforisma antico e sempre valido sostiene che ciascuno ha il medico che si merita, ciò che dovrebbe indurre a riflessione quanti dei profani gridano, più o meno convintamente, contro l’insufficienza del loro curante. Il fenomeno, un tempo raro, oggi è quasi generale; una probabile causa sta nel fatto che, con la espansione universale dell’assistenza di malattia, l’«assistito» considera il medico «fiduciario» (dell’ente e non suo) come imposto, quindi come un estraneo senza legami affettivi; inoltre vi concorrono alcuni fattori psicosociali esclusivi, del tutto estranei alla medicina.

La capillare distribuzione delle informazioni tecniche in generale, e di quelle mediche in particolare, ha tolto a tutte le conquiste umane il lato esoterico, meraviglioso e segreto che fa ancora ammutolire il selvaggio di fronte allo specchietto da due soldi. I nostri figli invece non si stupiscono nemmeno più, come ancora noi, del miracolo della televisione e dei satelliti artificiali. Se questo sia bene o male sta ai filosofi di chiarirlo; ma per quanto concerne la medicina è certo che la supposta troppa facilità e la pubblicità data ai suoi risultati straordinari senza ricordare la somma di errori e di sconfitte che è alla base di quei successi, ha finito per nascondere l’esatta realtà delle cose, diminuendo gratuitamente il prestigio che una volta circondava l’arte medica e chi ne faceva ragione della sua vita e dell’altrui. La socializzazione della medicina, che la trasforma da sacerdozio in servizio pubblico (alla pari dei tram e delle fognature) annulla le sue caratteristiche fondamentali di singolare e di ricercata (intesi i termini esattamente nel loro doppio significato di fuori del normale e individuale, e di speciale e volontariamente chiesta); infine la sua apparente totale gratuità, perseguita dai demagoghi, ne peggiora ulteriormente il declassamento.

La relazione personale. – Il mondo moderno, pur così ricco di mezzi individuali, o forse proprio per questo, ha progressivamente perduto il senso e il gusto della relazione personale.

Un tempo l’uomo, per vivere, non poteva astrarre dalla ristretta comunità nella quale la nascita l’aveva immesso; ma nei suoi rapporti con i vicini, dai quali dipendeva ed ai quali a sua volta era necessario, conservava intera la sua individualità. Oggi ciascuno di noi può fare a meno dei vicini; ma questo, invece che rafforzare l’individualità, ci ha trasferito velocemente al rango di numeri isolati in ogni settore della nostra esistenza: nel lavoro, nel divertimento, nella malattia, nel nascere e nel morire.

Un tempo il paziente, non appena si infilava a letto, perdeva quasi totalmente il contatto con la realtà sociale. Per questo le opere religiose di misericordia elencano quel «visitare gli ammalati» che intendeva caritativamente ridurre l’isolamento del malato, assimilato senza sua colpa, specie se cronico, al rango di un carcerato (di cui appunto si occupava un’altra opera di misericordia).

Questa situazione, svantaggiosa se recata alle sue estreme espressioni, conseguiva invece nella maggioranza dei casi due spontanei benefici: anzitutto la tranquillità e il ripensamento di se stessi; secondariamente il filtraggio della realtà esterna attraverso i familiari e il medico, riavvicinata per concessioni graduali (dalle cose lievi e piacevoli alle più gravi e impegnative) a mano a mano che ritornavano le energie e la salute. Durante tutto il decorso della malattia, che scorreva lenta sotto il segno dominante della pace, le frequenti visite del medico, rappresentante di tutto un mondo lasciato e desiderato, favorivano gli scambi umani e aggiungevano una nuova ragione (distinta da quella unicamente tecnica) di gratitudine e di simpatia.

Un tempo (e ancora oggi in verità) il malato scopriva con sorpresa che la sua personale infermità, della quale fino al momento della diagnosi ignorava persino il nome, era già nota direttamente a questo o a quello dei visitatori, e ricavava dalle loro passate guarigioni nuovo conforto alla sua speranza (i casi finiti al cimitero non venivano certo a fargli visita). Oggi capita sempre che qualcuno dei giornali che il paziente legge da cima a fondo – non avendo altro da fare – riporti articoli divulgativi sul suo male indicandone magari, sconsideratamente, gli indici di guarigione e di mortalità, i pericoli presenti e futuri, i probabili residui permanenti nonché la terapia migliore, il tutto rallegrato da illustrazioni truci o macabre. Così il paziente si trasforma spesso in un tecnico nevrotico e saccente del suo particolare malanno, a danno del curante ma soprattutto suo.

La nostra vita, di giorno in giorno più convulsa, ci impone obblighi sociali sempre più impegnativi. Il suo elevato livello si accompagna tuttavia alla necessità di un guadagno ininterrotto, che viene poi quasi tutto assorbito dai consumi; ciò conduce, in caso di infermità e di fronte ai suoi costi in progressivo crescendo, non tanto ad un salutare interesse per la tempestiva guarigione, quanto ad uno stimolo artificiale a lasciare prestissimo il letto, condito di ansia e compenetrato di astio contro la malattia.

Inoltre il paziente sa che la durata delle malattie è andata accorciandosi; non sa tuttavia che questa è una media statistica, a comporre la quale entrano in assai larga misura i fulminei successi nei confronti delle malattie infettive. Ma la fantasia del pubblico, sani e malati insieme, è soprattutto colpita dalla risoluzione rapidissima delle malattie-assassine di una volta: miliare, tifo, meningite, polmonite. Perciò, se allora tutti accettavano con pazienza le «tre settimane» prima dello sfebbramento, oggi si sentono quasi traditi se in tre giorni non sono in piedi e, per giunta, valutano sulla medesima tabella oraria anche le malattie degenerative il cui decorso, prognosticamente migliorato, rimane protratto come un tempo o poco meno. Per le diverse ragioni accennate il malato moderno non merita quasi più la qualifica di paziente. Diventa sempre più spesso impaziente e soprattutto pusillanime rispetto a quello antico.

Non si può infatti non accennare alla decadenza della forza morale, ottusa nei tempi moderni dalla troppa facilità di vita e dall’assenza di lotta fisica per l’esistenza, nonché dal disconoscimento del valore sublimante del dolore che, inteso materialisticamente, perde qualsiasi significato; e infine dall’esasperazione del desiderio umano di sfuggirlo. Se è vero che Ippocrate ha detto «divinum opus lenire dolorem» è altrettanto vero che dal 1° ottobre 1846, quando il dentista bostoniano W. T. G. Morton avulse un molare guasto al musicista Eben Frost con la prima anestesia eterea della storia, l’umanità ha abusato sempre più di mezzi analgesici, con o senza necessità.

Sulla guida allopatica della compressione del sintomo, il malato moderno si è lasciato smontare come una qualsiasi macchina dalla medicina tecnologica e specialistica. Ha abdicato cioè alla sua unità di uomo, in favore di una artificiale collezione di organi e di sintomi, il che gli risulta più comprensibile (anche se falso) della faticosa interpretazione di un se stesso totale, da affidare con cieca fiducia nelle mani di un altro uomo alla cui superiorità crede sempre di meno, informato com’è dei domini sempre più spinti della ultraspecializzazione e quindi, fatalmente, delle limitazioni di ciascun tecnico della salute.

La ricerca del miracolo. – Infine il malato è preda di un fondamentale equivoco, che lo rende facilmente scontento di quel che ottiene e proclive alla critica al minimo pretesto. Crede ormai senza alcuna riserva - assuefatto com’è a veder guarire drammaticamente malattie già incurabili e mortali - nell’onnipotenza e infallibilità della scienza medica.

Così, giusto ora che dopo millenni di balbettamenti, di sconfitte, di errori, la medicina ha perfezionato molte valide armi contro il male, il malato (e i sani che lo circondano) vuole miracoli a flusso continuo, e non nasconde la perdita del rispetto e della stima verso il curante, quando questi si rivela incapace di fornirglieli su ordinazione. Per questo nessuno si adatta più a tollerare con pazienza quelle piccole miserie, quei malesseri di poco conto quoad vitam nei quali un tempo si nascondeva un fattore spesso prezioso di forza morale. Oggi ciascuno esige, come diritto, il benessere totale nella convinzione che i medici possano guarire da tutti i mali, essendo effettivamente logico che chi può fare i miracoli grandi tanto più facilmente dovrà fare quelli piccoli.

Invece proprio grazie ai continui progressi della medicina esiste ora, rispetto al passato, un numero sempre maggiore di soggetti che sopravvivono in condizioni di salute gravemente menomate, le quali impongono assistenza e cure mediche continuative. Ma a questi soggetti («i cronici») che è vanto del progresso sociale tenere in vita, la società nega spesso ogni aiuto per vivere, e si rifugia nell’etica solo per negargli il conforto di morire. Chi sono, questi cronici? Il pensiero corre immediato al vecchietto bavoso, anchilosato dalla spondilartrosi, tossicoloso e arteriosclerotico cerebrale, ma dimentica volentieri i bimbi poliomielitici, gli spastici, i miodistrofici, i nefritici, i cardiopatici, i tubercolotici ancora contagiosi dopo la chirurgia, i subnormali, i carcinomatosi di ogni età, i neurotici gravi e i malati di mente, che ormai raggiungono percentuali paurose in ogni comunità moderna.

Ad essi nessun sistema assistenziale concede l’attenzione dovuta a un fenomeno sociale di entità enorme e soprattutto progressiva, col risultato paradossale che quasi ovunque al mondo essi garantiscono cure mediche adeguate, spesso a costo esagerato, quando la malattia è un fatto temporaneo e accidentale, ma le negano (cessato il limite di assistibilità) quando la malattia diventa un fatto lunghissimo o non suscettibile di correzione (Zanobio e Dones). Questo settore presenta quindi, come riflesso dell’atteggiamento sociale, una serie di carenze legislative, ricettive, e persino medicamentose, veramente incredibili. Qui, vedendo il problema dalla parte del malato, osserviamo che è di fronte a questo tipo di patologia che il paziente riassume la sua unità globale, la stessa purtroppo che la medicina attuale fa di tutto per respingere, con la connivenza subornata dell’uomo moderno. Ma nel momento che le sue richieste vengono respinte dal sistema, nasce la crisi di cui abbiamo già discusso.

Troppe volte, da troppe inchieste condotte in tanti paesi diversi, sono emerse contro i medici accuse evidentemente dettate dalla insoddisfazione dei malati cronici, più che di quelli acuti. Non altro significato possono avere i continui appunti alla frettolosità del medico, alla sua scarsa comunicativa, alla sua impazienza. Quanto tempo occorre per diagnosticare un’appendicite e ordinare il ricovero urgente? Pochi minuti, e contenti tutti, con fiori e grazie all’uscita della clinica, dopo cinque giorni. Ma quanto tempo non basta (e le altre visite premono) per ascoltare senza tagliar corto le tremule lamentele di un settantenne, a proposito del suo intestino inerte o della memoria che sfugge? Si arriva così facilmente a una diagnosi stereotipata, che il paziente ritiene (non sempre a torto) addirittura offensiva: età + infermità = arteriosclerosi. E quando il colloquio si conclude (ma in realtà non si era mai veramente iniziato) con la già stantia ricetta destinata a lasciare il tempo che trova, resta lo scontento in entrambi, né da una parte un qualsiasi stimolo a migliorare, né il desiderio dall’altra di rinnovare l’incontro.

Una delle ragioni più concrete di questa vera carenza terapeutica dei cronici sta - paradossalmente - nel progresso stesso della scienza medica. Un tempo l’esame obiettivo era prevalentemente personale: concedeva molta ampiezza al «dialogo» anche per fini di precisazione diagnostica, e ne resta la traccia nello spazio ormai sovrabbondante delle cartelle cliniche per l’anamnesi del gentilizio, familiare, pregressa, remota, prossima, attuale, e per l’esame clinico dei sistemi e organi, in tutto il mondo ormai siglato di stenografici neg. neg. neg., e sostituito dalla serie standard dei check-up e dei test biologici. Il procedimento nuovo è altamente efficiente nei confronti di affezioni organiche, acute o croniche, che lasciano traccia di sé sui radiogrammi o nelle provette. Ma nessuna radiografia farà mai diagnosi di pleurite fibrinosa in atto, o di herpes zoster preeruttivo, responsabili di un intenso dolore toracico che - in assenza di un ormai «inutile» esame obiettivo ben condotto - verrà facilmente attribuito al solito reumatismo dalle spalle capaci, o all’età o alla insofferenza petulante.

Scriveva Henri Pequignot (in Médecine et monde moderne): «L’âge d’or de la compréhension entre le médecin et le malade a duré vingt-cinq siècles dans les quels tous deux parlaient la même langue». Forse è durata anche troppo; oggi comunque è finita, almeno sul piano di massa. E la sua fine, in ogni caso, si trova perfettamente allineata con lo spirito dell’era spaziale: quell’esasperato utilitarismo che, partendo dall’economia di mercato, si riflette automaticamente su tutte le nostre attività, fisiche, razionali e affettive, e le condiziona al di là del nostro stesso interesse. Forse è giusto gettare nella spazzatura un’auto di due anni, e una lavatrice con la maniglia svitata (la sostituzione costa quasi meno delle riparazioni), ma come la mettiamo con il bronchitico enfisematoso, con il cardiopatico sempre prossimo allo scompenso, con il nefritico iperazotemico? Nessuno ancora (ma fino a quando?) propone per essi la Geenna o il crematorio (come la fonderia per le macchine dal telaio cigolante); resta però terribilmente significativo il fatto che l’età media dei ricoverati nei centri di rianimazione e di nefrodialisi è assai verde, come se dopo i cinquant’anni il blocco renale fosse clinicamente sconosciuto.

A parte questi casi limite, dovuti a una crudele insufficienza di mezzi strumentali, resta la meno tragica, ma enormemente diffusa condizione di sofferenza e di abbandono umano di quasi tutti i cronici, per risollevare i quali sarebbe invece sufficiente una modesta intensificazione delle qualità umane dei curanti. Da una preziosa inchiesta francese nel mondo dei malati («Présences» 1957) risulta che il malato si aspetta dal medico «che mi guarisca o almeno che mi consoli». L’esigenza è perfetta nella sua laconicità, e copre tutto l’universo delle varianti nosografiche. Né è tale da richiedere al medico un impegno affettivo superiore a quello che la sua dignità professionale gli concede; gli impone tuttavia di donarsi come uomo, oltre che di lasciarsi affittare come tecnico. Specie nelle malattie di lunga durata è la caratteristica umana del medico a sostenere quasi tutto il peso degli incontri; la sua tecnica non gli serve più - o quasi - dopo il primo sforzo diagnostico visto che, nella cronicizzazione, il «caso clinico» risulta, per definizione, sempre uguale a se stesso. Ciò che cambia invece, talvolta da un’ora all’altra, è la personalità umana sofferente che presta involontariamente - rassegnata o ribelle - il substrato organico alla malattia. È questa persona, ogni giorno diversa, che il medico ritrova ad ogni nuova sua visita, e le cui mutevoli esigenze deve - e può - soddisfare, per adempiere al suo preciso dovere di terapeuta.

D’altra parte il malato cronico si accontenta in genere di assai poco: vuole essere trattato da adulto qual è, reso ancora più consapevole dalla sofferenza; respinge la sufficienza paternalistica; si diffonde volentieri sul guaietto di nuova comparsa perché dà ormai per concessa e accettata la inalterabilità del guaio grosso; desidera essere ascoltato e offrire la sua collaborazione, che tanti medici rifiutano, tradendo Ippocrate e offendendo i loro malati; e si lascia persino condurre per insensibili gradi dalla speranza alla rassegnazione, insegnando a chi lo segue (e lo guida) le altezze eroiche alle quali uno spirito d’uomo può giungere, sia che piloti l’Apollo sia che combatta in disperata solitudine, rifiutato dalla società, contro una paraplegia troppo restia a concedere il decesso pacificatore.

Eppure chi può imparare, nei corsi medici, a riconoscere la realtà dell’insopprimibile connubio psicosomatico che la malattia cronica, per le sue caratteristiche peculiari, esaspera fino a rivelarla senza schermi? Dei corsi di psicologia sperimentale molti medici ricordano solo la scatola delle matassine di lana policroma, e ben poco d’altro. Il problema originario dei cronici è tutto qui, ed è insieme semplice ed enorme. Se si vuole veramente risolverlo - e ignorarlo non è più possibile - oltre al reperimento sociale dei mezzi e alla fornitura di adeguati servizi occorre credere ancora nella medicina e nel suo eterno significato di incontro spirituale, che le comunità moderne sono in pericolo di perdere quando credono (e troppi medici con loro) che la tecnica ipertrofica del mestiere e l’assistenza gratuita di malattia possano compensare la perdita del medico-uomo, e del suo cuore.

Capitolo II – Faust demitizzato: viviamo già troppo per essere felici 

Uno dei miti più antichi dell’umanità è sempre stato il dono o la conquista dell’immortalità, da Ganimede a Faust; tanto più sognato quanto più la realtà era diversa.

L’aspettativa di vita dell’uomo preistorico sfiorava a stento i 20 anni, e rimase pressappoco invariata per millenni, raggiungendo i 30 anni solo al tempo dell’impero romano; di fronte a questa realtà si comprende meglio il fascino del passo biblico che prometteva all’uomo la favolosa età naturale di «tre ventine d’anni e dieci». La meta rimase infatti utopica per venti secoli, essendo ancora di 40 anni nel 1850. Ma da allora la curva dell’età mediana (come tutte quelle del progresso) diventa esponenziale, cresce di 9 anni in mezzo secolo, di 20 in un altro mezzo, di 2 nel successivo decennio, fino ai 70 del 1960, ma qui si è fermata. Sembra che il limite biblico dei 70 anni sia il massimo valore medio (statistico) al quale l’uomo può aver diritto. Al medesimo limite converge infatti anche il calcolo matematico delle probabilità di morte per qualunque causa; persino eliminandone le maggiori (cuore, circolazione, tumori) dopo i 30 anni esse raddoppiano ogni otto anni circa, aumentando l’aspettativa vitale a 80 anni teorici e non di più (Hayflick).

Ma allora i longevi famosi, i 113 anni accertati del falegname bostoniano, i 126 (dubbi) della lattaia bulgara? Sono valori estremi devianti dalla media, quelli che ogni elaborazione statistica elimina per praticità di calcolo. Come le lampadine moderne che, garantite per una vita media di 800 ore, possono fulminarsi individualmente dopo 4 o resisterne 2.500, segnalando solo una estrema dispersione nella curva gaussiana senza che ne soffra la verità. È invece vero che le conquiste della medicina consentono a molti più individui di superare l’età media, cosicché il progresso civile invece di donarci l’eterna giovinezza ci mette paradossalmente a carico una quota sempre maggiore di vecchi. Ma che cosa è esattamente la vecchiaia, biologicamente parlando? «Nessuno lo sa e, al giorno d’oggi, certamente nessuno ha un’idea di come fermarne il progredire» (Hausmann). La gerontologia ha accumulato una enorme quantità di dati differenziali, da quelli anatomici a quelli funzionali, da quelli biochimici a quelli cellulari, arrivando sino alla chimica molecolare. Ma chi voglia sintetizzare logicamente la materia si trova di fronte a differenze assai poco significative e discriminanti.

Un bambino, richiesto di definire il nonno, si vale di impressioni visive immediate: «è tutto una ruga e soffia nel salire le scale». Sembra curiosamente che questo schizzo ascientifico sia altrettanto valido in assoluto (A. Lansing) di molte determinazioni strumentali precisissime, che si prestano a interpretazioni controverse. Infatti nello studio della vecchiaia, come in quello delle neoplasie, le più accurate indagini a livello della cellula si dimostrano persistentemente infeconde. È prevalentemente a livello psicologico (a carico dell’apprendimento, della assimilazione, della memoria a breve e a lungo termine, dell’adattamento ambientale) che si rilevano differenze significative con il giovane. Perciò non stupisce che Verzàr, controllando sulle fibrille collagene l’asserita efficacia ringiovanitrice del gerovital non abbia rilevato alcuna variazione; né che i migliori effetti della terapia la Aslan stessa li abbia registrati nei soggetti più abbandonati e soli, più negli asili che nelle famiglie. Se la vecchiaia è, come sembra, prevalentemente una condizione di esaurimento mentale ed emotivo, erano esattamente questi i soggetti che potevano reagire favorevolmente, ben più che alla procaina, alla sferzata emotiva del rinnovato interesse umano che si riversava inopinatamente su di loro, e tanto meglio quanto più ne erano stati privati.

Sul piano fisico, certamente è vero l’antico proverbio del «si muore un poco ogni giorno»: per esempio la capacità inspiratoria massima perde (a 75 anni nei confronti dei 30) il 45%; la forza manuale il 55%; il peso del cervello il 53%; la irrorazione sanguigna cerebrale il 70%; la velocità di conduzione nervosa il 90%… Di fronte a questo globale marasma nascerebbe un profondo sconforto, se non fosse temperato dai numerosi esempi di ottima tenuta psicofisica in grandi anziani. La chiave del mistero sta nel fatto che l’organismo è dotato di enormi capacità di riserva, e la decadenza comincia a rivelarsi solo quando le riserve sono quasi esaurite. La calvizie, per esempio, comincia a dare minimi segni di sé solo quando il numero dei capelli per mmq. scende al disotto dei 15, dai 250 della norma (Montagna e Ellis, 1958). Sarebbe solo superficiale inferenza presumere che stimolando le cellule fisse a riprodursi potrebbe derivarne per l’organismo l’immortalità. E sul piano scientifico una illusione in più, se per ipotesi ogni cellula individuale (e la sua somma globale, cioè l’organismo) avesse una sua carica biologica, esuberante certo ma finita, come qualsiasi orologio costruito dall’uomo.

Quanto dura la nostra carica? – La durata di questa carica biologica è stata misurata per 10 anni (1968) da L. Hayflick, professore di microbiologia medica alla Stanford University, U.S.A. su colture in vitro di tessuti: ogni cellula normale può riprodursi in media 50 volte, ma non di più. Solo le cellule mutanti (come quelle dello stipite He-La, isolate da G. O. Gey nel 1952, che presenta da 50 a 350 cromosomi per nucleo, invece dei normali 46, o quelle cancerose, o quelle artificiali, ottenute infettandole con il virus SV-40 della scimmia) sono immortali, ma soltanto loro.

Diversi ricercatori hanno confermato i risultati di Hayflick e Moorhead. Secondo J. Saunders jr. la morte delle cellule, risultante nella degenerazione progressiva degli organi e dei sistemi, è un evento programmato nello sviluppo degli organismi pluricellulari, quasi una garanzia di vita media come quella inserita (intenzionalmente o no) in ogni macchina costruita dall’uomo; nelle lampadine ad esempio delle quali si diceva all’inizio. Il perché strumentale del medesimo comportamento dovrebbe essere esattamente quello segnalato da Curtis, cioè i progressivi errori di copiatura nel codificare e decodificare di continuo lo spaventoso complesso di informazioni riassunte nel DNA genetico; forse abbinato all’esaurimento specifico di alcuni enzimi (L. E. Orgel) connessi con la sintesi proteica del DNA-codice.

L’organismo normale dunque invecchia come un tutto; chi aspirasse alla immortalità dovrebbe fantascientificamente «mutarsi» cioè abdicare esattamente a quel se stesso che intende prolungare indefinitamente nel futuro. A questo punto s’impone la domanda critica: conviene?

Soprattutto se si considera il fatto che l’immortalità donata a un vecchio sarebbe soltanto il peggiore dei destini, la garanzia più salda di una totale e infinita infelicità, nutrita di croniche frustrazioni per il disadattamento progressivo all’ambiente nel quale è costretto a sopravvivere (persino ora, senza alcuna immortalità disponibile, è frequentissimo ascoltare nei vecchi, una volta perduto l’interesse per quanto li circonda, le lamentele per la troppa lunghezza della loro vita). Ma, donata a un giovane, risulterebbe alla lunga ancora più devastante. Perché, di fronte alla persistenza indefinita dei valori anatomici e funzionali ottimali sul piano somatico, la sua struttura mentale, affettiva, sentimentale subirebbe probabilmente la medesima usura naturale di oggi, e forse nello stesso tempo; sarebbe più vecchio che mai a dispetto della maschera di giovane carne.

Comunque, ritornando dai fuochi d’artificio fantascientifici allo stato presente del problema, che cosa è lecito attendersi dalla gerontologia? Nulla di più (e sarebbe già moltissimo) di quello che le chiedeva, prima ancora che nascesse come scienza autonoma, Steinach (1940): «non un’eterna giovinezza, ma una maturità dove, nei limiti naturali, prevalgano condizioni fisiologiche e non patologiche di vita» cioè, per usare una felice espressione di Böhlau: «che non solo aggiunga anni alla vita, ma anche vita agli anni». Ma anche questo solo obiettivo, oggi possibile e in parte raggiunto, basterebbe a rendere più felici le comunità umane? In Italia il problema è stato posto drammaticamente alla ribalta da Maccacaro, Cesa-Bianchi e Speciani all’XI Congresso di Medicina Sociale, Modena 1967 («Invecchiamento delle comunità moderne e problemi collegati, sul piano medico-sociale, e di ambiente»), ma nulla è stato fatto, negli ambienti responsabili, per un organico avvicinamento a possibili soluzioni.

Dalle statistiche demoscopiche risulta che i paesi con il più alto indice di vecchiaia sono quelli a più alto standard socioeconomico, e per essi ciò è vero da tanto più tempo quanto più remoto è stato il raggiungimento di tale standard. Per definirlo quantitativamente riferiamo un dato di Böhlau per l’Europa: l’indice percentuale degli ultrasessantacinquenni è cresciuto dal 4,8 del 1890, al 10 del 1955, al 20 del 1972; cioè del 416% in ottantadue anni.

Analizzando il dato globale nelle sue componenti singole si sono accertate, anche nell’ambito di un medesimo standard socioeconomico, variazioni significative del tasso di vecchiaia tra diverse attività di lavoro (rilievo ovvio) ma persino tra diversi gruppi razziali (8,5 bianchi; 5,7 negri in USA 1950) e tra diverse confessioni religiose (Canada 1959: 5,5 tra i cattolici; 6,7 tra gli ebrei; 8,8 tra i membri della Chiesa Unita; 10,2 tra gli anglicani). Ponderando i dati disponibili, non si può sfuggire all’impressione che, nel raggiungimento di età più vicine ai limiti fisiologici, intervengano non solo fattori fisici ed economici ma anche fattori umani, attinenti al comportamento sociale e alla soddisfazione di peculiari esigenze psicologiche e affettive.

L’evasione violenta. – Sarebbe quindi di estremo interesse rilevare, con qualche parametro quantitativo, l’indice di gradimento dei singoli individui al modo di vivere della comunità di appartenenza. In mancanza di uno di segno positivo, è possibile utilizzare un elemento di segno negativo, esprimente la totale intolleranza dell’individuo verso la sua società, e il suo volontario rifiuto. Questo elemento è la statistica del suicidio, le cui curve mondiali dimostrano un andamento altrettanto parallelo a quello di vecchiaia, nei confronti dello sviluppo socioeconomico.

Una tabella comparativa pubblicata dalla O.M.S. per il 1959 dà i seguenti valori (per 100.000): S. Domingo 0,16; Spagna 0,40; Italia 2,67; Irlanda 3,70; USA 10,6; Canada 11,40; Inghilterra 13,43; Svezia 19,74; Austria 26,1; Giappone 27,1; Svizzera 33,72; Danimarca 35,09. A parte l’attendibilità delle cifre (certo inferiori alla realtà) il rapporto tra i due estremi della scala è un impressionante 1 : 219. Per giunta il tasso percentuale dei gruppi oltre i 65 anni è almeno sette volte superiore a quello globale della comunità; e addirittura (E. Ringel, 1973) il 30% di tutti i suicidi è compiuto da soggetti oltre i 60 anni. Da tutto quanto precede discende quindi un documentato paradosso: «Quanto più una comunità sociale è evoluta, tanto più numerosi sono i vecchi, e insieme tanto meno felici». Ma perché?

Un tentativo di elencazione dei principali fattori correlati focalizza almeno dieci aree di possibile o più facile alienazione degli anziani dal contesto sociale, per massima parte coincidenti con nuclei di disturbo o di sofferenza della vita della comunità: 1) la rivoluzione della famiglia; 2) la scomparsa del valore comunitario della esperienza tecnica e umana; 3) i mezzi di comunicazione di massa; 4) il materiale culturale comunitario; 5) i divertimenti, le mode, il costume; 6) la politica; 7) gli schemi dell’edilizia moderna; 8) l’abbassamento dell’età pensionabile; 9) il consumo delle disponibilità sanitarie; 10) infine le carenze materiali e psicologiche relative agli ospedali per cronici, ai gerontocomi, ai ricoveri per anziani.

L’analisi dei diversi fattori pone al primo posto la rivoluzione strutturale e psicologica della famiglia, la quale oggi si fonda (persino religiosamente) solo sul consenso mutuo dei membri, perciò purtroppo, in modo sempre più rigido, sull’utilità e sul rendimento contingente di ciascuno dei componenti. Per l’accentuata lassezza dei legami affettivi si assiste a una sua progressiva elisione in pro di gruppi associativi ad essa estranei, con sviluppo di schemi comportamentali più facili ad essere assimilati dai giovani, molto meno dai vecchi. Ne consegue l’assai frequente solitudine e isolamento degli anziani, non solo psico-affettivi ma anche di interessi socio-culturali, e l’allargamento sempre più invalicabile della dieresi tra generazioni successive.

Uomini come frigoriferi. – Nella civiltà dei consumi la scomparsa del valore dell’esperienza tecnica e umana, a seguito delle rapidissime variazioni tecnologiche, ha annullato il rispetto della comunità per gli anziani, che oggi non sono «più esperti» ma «più superati» e che sono tollerati non essendo possibile di recuperarne il materiale rifondendoli. Già N. Wiener, il matematico-filosofo inventore della cibernetica, era giunto a tragiche conclusioni, per l’individuo, dallo studio critico della rivoluzione industriale moderna. «Una volta ch’essa sarà compiuta (scriveva in The Human use of Human Beings), l’uomo medio, provvisto soltanto di qualità mediocri, non avrà da vendere nulla che possa invogliare qualcuno all’acquisto». E parlava per i membri attivi della comunità, di continuo a contatto con la evoluzione strumentale. Per chi ne è ormai avulso, tutta una vita di lavoro diviene di colpo tanto anacronistica da non meritare più né citazione né ricordo, ma solo un pietoso velo d’oblio.

I mezzi di comunicazione di massa favoriscono il disadattamento e l’alienazione tanto per la forma quanto per il contenuto. Il loro linguaggio, ormai standardizzato in tutto il mondo, si vale di un sempre più violento ricorso all’immediatezza dell’immagine più che alla logica del discorso scritto; e nella sostanza soggiacciono ad una costante aspettativa del nuovo, ogni giorno rinnovata sulle rovine dell’antico di tre giorni. Sono fatti per i giovani anche se, paradossalmente, sono quasi solo gli adulti e gli anziani che li leggono, avendo il tempo per farlo.

Un tempo gli interessi sociali erano forse troppo congeniali all’età matura, dalle mode agli hobby al gusto di una grande casa piena dei ricordi di tutta una vita; oggi ne respingono persino la possibilità teorica. I divertimenti moderni sono quasi tutti attivi, o pretendono di esserlo (il tifo negli stadi, i 500 km domenicali sulle strade ingorgate). Le mode? Nell’abbigliamento le mini e maxigonne, l’opstyle, il beat-style; nei libri e nei dischi un vortice continuo di lanci che li fa invecchiare e li rende introvabili dopo 45-60 giorni. Nell’edilizia moderna i costi sono così alti da ridurre al minimo lo spazio per tutti. Anche su questo fattore si basa la evoluzione, socialmente dannosa, del concetto di «casa» da sede di vita familiare a semplice dormitorio, e lo stimolo progressivamente più acuto ad evaderne. In questo ambiente, non solo materialmente angusto, il vecchio si sente spesso un tollerato ma fastidioso occupante improduttivo, un concorrente parassitico alla già scarsa disponibilità di spazio fisico e psicologico.

Persino la politica (intesa nella sua sostanza di partecipazione cosciente alla vita della polis) un tempo quasi monopolio degli anziani, oggi origina prevalentemente in singoli gruppi di pressione (associazioni di partito, sindacali, di categoria) che presuppongono una partecipazione attiva e qualificante, più che nel voto, libero o liberamente condizionato che lo si intenda. Per questo, salvo che per i professionisti della politica, l’estromissione dalle forze di lavoro si identifica anche con la giubilazione della partecipazione democratica alla direzione della comunità.

L’abbassamento dell’età pensionabile è una delle più demagogiche istanze sindacali che, come altri spunti della dialettica sociale marxista, abbisognerebbe di radicale revisione a distanza storica di un secolo ma psicosociale di millenni. Il limite di quiescenza non è uguale né nelle diverse nazioni (Argentina 55 uomini e 50 donne; Belgio e Brasile 65 e 60; Canada 70 e 70; Danimarca 67 e 62; Finlandia 65 e 65; Francia 60 e 60; Cecoslovacchia e Italia 60 e 55) né nell’ambito di una stessa nazione. In Italia il famoso limite 60-55 è abbondantemente smentito dai fatti: nei soli dipendenti dello Stato, per esempio, 55 anni per i minatori e aviatori, 60 per i marittimi, 65 per i salariati, 75 per i professori universitari e i magistrati. L’amplissima differenziazione documenta l’artificiosità del problema, e la perplessità del legislatore di fronte alla forzosa interruzione del lavoro a età sempre più fresche senza nessuna giustificazione biologica. Al contrario alcune ricerche moderne (J. W. Taylor) sulla creatività hanno documentato che l’età è un vantaggio!

E non v’era neppur bisogno di conferme sperimentali, di fronte agli esempi storici a tutti noti: da Leonardo da Vinci a R. Wagner, a G. Verdi che compose il Falstaff a 80 anni, a J. S. Bach, I. Kant, B. Shaw, A. Schweitzer, P. Picasso (quadri, ceramiche e amore fino alla più tarda vecchiezza), da G. Galilei, che scrisse a 74 anni i Discorsi e Dimostrazioni Matematiche, a W. v. Goethe (la seconda parte del Faust a 82 anni), a Th. Mommsen, che terminò alla stessa età l’opera fondamentale sul diritto penale romano (Römisches Staatrecht), a C. G. Jung, che a 83 anni pubblicò il suo libro sui «motivi psicologici della visione di oggetti volanti».

L’istanza poteva avere valore quando si lavorava sette giorni su sette e dal sorgere al calar del sole e quando i ventenni inalberavano, al pari dei settantenni, il colletto duro e il virginia sopra la barba; ma oggi a 60 anni si fanno ancora i fusti sulle spiagge, e le diete per conservare l’addome apollineo, cosicché è nel pieno vigore fisico e psichico tanto reclamizzati come conquista della medicina di massa che si viene buttati fuori senza remissione. Nasce a questo punto, e solo allora, l’inopinato problema del «che cosa fare» che si trasforma, via via che non viene risolto, in una cronica spina disadattiva, qualche volta giungendo all’acme del rifiuto violento a vivere, più spesso a una rinuncia intima di partecipazione alla vita comunitaria.

Nelle società più progredite il problema è già disceso dalla coscienza dei sociopsicologi a quella della gente comune. Lo documenta, sul piano legislativo, il ritorno recente all’età pensionabile di 67-70 anni per la Danimarca e il Canada e, sul piano culturale, l’intelligentissimo saggio romanzato di un dirigente americano in pensione dal titolo volutamente equivoco di The Chairman of the Bored (=Il presidente degli annoiati, che si pronuncia esattamente come The Chairman of the Board of trustees = presidente del Consiglio di amministrazione), che descrive i tragicomici sforzi di un gruppo di dirigenti sessantenni neopensionati per ridare un significato alla loro vita. È per questo, oltre che per esigenze di integrazione finanziaria, che il pensionato ricerca spesso un qualsiasi lavoro, anche privo delle più elementari difese sindacali e sanitarie esattamente quando ne avrebbe maggiore necessità.

Ma quanti possono rilavorare in qualsiasi attività, anche scarsamente retributiva ma psicologicamente preziosa? Una statistica della O.M.S. lo ha accertato, rilevando un andamento esattamente opposto ai tassi di suicidio: i più che sessantacinquenni trovano lavoro per il 78,5% nelle comunità sottosviluppate; per il 61,5% nelle semisviluppate; per il 28,6% nelle sviluppate. Ciò significa che in quelle più evolute, quindi più specializzate e più ferocemente competitive anche nel campo del lavoro, c’è meno posto che nelle altre per il vecchio artigiano tutto fare, nonostante l’effettiva e insoddisfatta richiesta di capacità modeste, ma polivalenti e non frettolose.

La società insolvibile. – Lo sperpero incosciente di tante capacità umane, oltretutto con feed-back negativo sulla salute fisica e psicologica del soggetto costretto alla forzosa «atrofia da inattività» (F. Seitelberger, 1973) si riflette fatalmente sul complesso sociale, conducendolo presto o tardi alla insolvibilità. Abbiamo già analizzato finanziariamente il carico delle pensioni; un ulteriore gravame sociale dell’aumentato indice di vecchiaia ha strette radici mediche. Si riferisce cioè al consumo delle disponibilità sanitarie, che dimostra indici diversi per bambini, adulti in età lavorativa, e pensionati: rispettivamente 2,4 : 1 : 4,9 (Abba, Speciani, Tono, 1960). Perciò non stupisce affatto che una ricerca di Dickinson (U.S.A.) abbia documentato che, mentre la quota di ultrasessantenni è cresciuta dal 1900 al 1950 di due volte, i ricoveri per lo stesso gruppo di età negli ospedali psichiatrici sono aumentati di oltre nove volte. L’insieme di questi fattori polivalenti interferisce sinergicamente sulla disponibilità di mezzi e servizi sanitari della comunità a spese di tutti, e costa inoltre il doppio o il triplo di quanto sarebbe sufficiente, qualora esistesse un numero di posti letto per cronici e vecchi invalidi adeguato alle reali e crescenti esigenze attuali e future.

Ma questi posti letto sono gravemente carenti di fronte ai bisogni, e così i ricoveri degli anziani bisognosi di assistenza. Prima di tutto come entità numerica. Milano (considerata una delle più avanzate province europee in questo campo) riusciva ad assistere nel 1967, in reparti o istituti di vario tipo, 7.300 anziani all’anno, e altri 2.500 a domicilio. Cioè in complesso un ben misero 5,9%, su un indice di vecchiaia allora pari al 116‰. E tuttavia il problema non è ancora tutto nei mezzi e nella loro elegante utilizzazione, come dimostrano gli altissimi tassi di suicidio in alcune splendide realizzazioni architettoniche scandinave.

Il fatto è che i ricoveri per anziani sono progettati dai non anziani. Può accadere pertanto che ciò che noi riteniamo in buona fede uno strumento di piena soddisfazione (e che forse lo sarebbe per la nostra età mentale) sia per i vecchi insieme troppo e troppo poco, e perciò inadeguato alle loro esigenze psicologiche per noi forse incomprensibili. Ovviamente la famosa dieresi tra generazioni successive, se agisce tra i giovani e noi, agisce anche tra noi e i vecchi.

Il fenomeno generale dell’invecchiamento delle comunità, e i suoi riflessi su ogni livello della vita sociale, richiedono uno sforzo immenso di lavoro medico-sociale, ma il problema non consente alternative: o lo si accetta com’è nella sua tragica crudezza o lo si annulla ignorandolo. Ma in questo caso a breve scadenza ci schiaccerà, o renderà forse meno paradossale la soluzione adottata dagli eschimesi asiatici della penisola di Ciukci; che accompagnano con una pubblica cerimonia il vecchio improduttivo (magari quarantenne) nella tundra gelata, e poi lo lasciano lì, rivestito degli abiti della festa ma senza neppure il conforto di un pesce secco, che gli prolungherebbe soltanto l’agonia. Noi invece il pesce secco glielo diamo, gabellando come conquista sociale una pensione quasi sempre insufficiente a vivere e insieme scomunicandoli dalla vita comune. In queste condizioni l’attesa della morte (in media 12,2 anni dal pensionamento, in Germania) è una condanna troppo dura per non fare null’altro che un testamento.

In attesa che la società investa tempo e denaro nel massimo problema che sovrasta lei (non «i vecchi», visto che i giovani di una generazione diventano fatalmente i vecchi di quella successiva), ci permettiamo di proporre alcuni spunti di pronto soccorso gerontologico. L’età della pensione, per esempio. Perché non evitare una scadenza rigidamente uguale per tutti (norma oltretutto contraria alla realtà variabilissima dell’uomo) proponendo come alternativa che la cessazione del lavoro possa avvenire nell’ambito di un certo numero di anni (tra 60 e 70 per esempio) e a seguito di un consiglio medico personale e riservato di idoneità? Ciò consentirebbe di mantenere attivi i soggetti validi e forse di aumentare l’ammontare attuale delle pensioni a parità di spese. Per un migliore gradimento della vita negli istituti, siamo poco convinti dell’utilità straordinaria che americani e inglesi attribuiscono alla ginnastica collettiva. Per la nostra mentalità ricorderebbe forse troppo il sapore antico della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) o della ginnastica mattutina obbligatoria nell’impero di Mao. Piuttosto ricordiamo con simpatia (a Copenhagen) la presenza di vecchi soli o a coppie nel prato di una stupenda casa per studenti coniugati dove giocavano, sotto la scorta delle assistenti sanitarie, i consueti branchetti scandinavi di sei bambini ciascuno. Infatti alcuni degli appartamenti ospitavano, fianco a fianco con quelli occupati dagli studenti e dalle loro famiglie, assistiti di età avanzata: tra essi il tasso di suicidi era sceso quasi allo zero.

Sul piano della attività almeno parziale di lavoro, invece dell’eterna e inutile proposta degli hobby senza scopo, l’istituzione di brevi corsi di aggiornamento in tema artigianale, e l’offerta, o almeno la nozione di disponibilità, di elementi idonei ad eseguire quegli infiniti lavoretti che nessuno in famiglia ha più il tempo di fare e per i quali, sdegnandone la minima importanza, il tecnico specialista sovraoccupato rifiuta in genere l’opera anche se altamente retribuita.

Oltretutto il girare per famiglie, cioè il veder gente (ma con una motivazione valida, non a vuoto) costituirebbe già da solo un prezioso fattore terapeutico, in grado di combattere efficacemente l’eterno nemico della vecchiaia, cioè quella solitudine che uccide assai presto, e spesso senza alcuna giustificazione medica, molti negozianti ritiratisi per anzianità a vivere di rendita.

Il problema di fondo va invece aggredito in modo diverso, e assai più precoce. Se per l’immunizzazione antitubercolare occorrono due mesi di latenza, per la profilassi della vecchiaia (che inizia in fondo non appena veniamo alla luce) occorre provvedere già nella scuola materna, non quando esplode la bomba della pensione o appena prima, come si propone di fare, con l’eterno ritornello degli «hobby» e della «compagnia», anche il recentissimo (1975) corso di «preparazione al pensionamento» che Ursula Dolch tiene all’Università popolare di Düsseldorf.

Se è vero infatti che la vecchiaia consiste soprattutto in uno stato d’animo di disinteresse all’ambiente, è importante che l’educazione provveda, come finora non ha fatto, anche allo sviluppo di quelle qualità personali che oggi l’istruzione strumentalizzata tende ad atrofizzare: il gusto del bello e l’esercizio di ogni arte, il piacere della lettura, il gioco infinito e scorante della ricerca, gli sport non sul convulso piano agonistico ma su quello rasserenante dello scambio con la natura. Tutto questo consente variazioni individuali infinite, che potranno certo essere ridotte a un filone molto sottile dalle necessità della vita, ma da dissodare con ritrovato piacere non appena se ne presenti l’occasione di libertà, come hobby mentalmente riequilibranti. Solo in questo caso l’interruzione del lavoro quotidiano può essere interpretata - invece che come terrorizzante tempo vuoto - in termini di tempo libero desiderato e finalizzato; e solo in questo caso la quiescenza può diventare - per la felicità dell’individuo e per la minore angoscia della comunità - una serie ininterrotta di piacevoli domeniche.

Capitolo III – Dalle misericordie a Marx: dalla beneficenza al diritto 

Argomento del presente capitolo è la difesa sanitaria dell’uomo collettivo. Essa è una delle istanze politiche fondamentali dei tempi moderni, nel cui nome si procacciano voti e si impongono sacrifici esagerati a tutte le comunità Se fosse perseguita correttamente coinciderebbe con la dilatazione finalmente universale del principio di solidarietà umana che identifica da sempre la medicina; ma purtroppo la cosiddetta socializzazione della medicina risulta il più comodo alibi demagogico, gabellato come primo obiettivo realizzabile, di quella utopistica sicurezza sociale sbandierata da cinquant’anni – come la muleta dell’espada – davanti agli occhi delle masse popolari di tutto il mondo.

Che questo inganno acritico sia perpetrato a rischio della bancarotta sociale, nonché della salute e della pace delle comunità, e infine della scomparsa di una medicina degna di se stessa, non sembra minimamente preoccupare i politici, abituati a contare indefinitamente sulle periodiche amnistie di massa, che garantiscono loro l’impunità e la rielezione nonostante ogni promessa tradita. Sennonché questa materia è un campo minato, capace di scatenare i sentimenti (e gli eventuali risentimenti) più profondi dell’uomo singolo e collettivo, perché legati alla sua stessa sopravvivenza. E forse sarà la stessa istanza fondamentale, sfruttata politicamente ma gravemente incompresa nella sua tremenda identità, a provocare presto o tardi una serie di turbamenti rivoluzionari nel contesto sociale, con assai probabile crocefissione dei falsi profeti.

Prima di discuterne gli errori in dettaglio, è necessario chiarire che la deformazione demagogica del problema, evidente dovunque al mondo, trova una giustificazione almeno parziale nel fatto che la sua stessa motivazione medica risulta gravemente deformata dall’inquinamento culturale, indotto nella medicina d’oggi dalla teoria e pratica della dominante allopatia. È soprattutto questa condizione implicita di alienazione net confronti della realtà dell’uomo malato che condanna fatalmente al fallimento funzionale e finanziario ogni sistema di assistenza organizzata; il riflesso esplicito dell’equivoco tecnico di base lo si ritrova nelle dichiarazioni dei politici magari in buona fede, secondo i quali il fine delle riforme e dei servizi sanitari è di «garantire a tutti icittadini il diritto all’assistenza di malattia», invece del diritto alla salute (on. Fanfani in «Bait. Sanit.», 15-XI-72).

Proseguendo nella ricerca del significato medico-sociale dei fenomeni come e quando «il problema della difesa della salute insieme con l’inquinamento, l’urbanistica e l’educazione, si è trasformato in uno dei più critici della nostra attuale società» (Bugliarello, Calvert, Fox, Tin-Ran Hung, della Carnegie-Mellon Univ., 1969).

Scheda storica sommaria. – Il principio generale della solidarietà umana, radice eterna della medicina, si è espresso per millenni esclusivamente su un piano individuale e volontario; sul piano collettivo solo come riflesso sanitario delle strutture di potere (Imhotep, sciamani, Hammurabi, Mosé…). Al di fuori di esse ha assunto il profilo della beneficenza (definita come «qualsiasi prestazione gratuita o semigratuita di beni e servizi»), che non esisteva nel mondo antico: l’ospitalità sul piano individuale, e le distribuzioni di frumento in caso di carestie o disastri, discendevano da obblighi religiosi o etici, o erano veri strumenti di potere (panem et circenses). La beneficenza organizzata compare solo nel cristianesimo («opere buone») con istituti giuridici elementari destinati a soccorrere le vedove, gli orfani, i poveri, i malati, i pellegrini, che sfociarono nella nascita autonoma degli ospedali. La motivazione religiosa assunse frequentemente nel Medioevo la figura di lasciti, donazioni, dotazioni in genere testamentarie quali forme di penitenza, ad ecclesiastici per scopi benefici: ospedali e asili per pellegrini, ma anche confraternite per l’assistenza a malati e moribondi. La confraternita era una associazione di fedeli eretta per l’esercizio di opere di pietà e di carità (alla latina = amore), che si identificava con uno statuto, un titolo, un nome, una particolare foggia d’abito (che nascondeva il viso), e il diritto di partecipare ufficialmente con il gonfalone alle pubbliche cerimonie religiose. Dal XIII secolo in poi si diffusero principalmente nei paesi mediterranei (Italia, Francia, Spagna). Una delle più antiche, come l’Arciconfraternita della Misericordia fondata a Firenze nel 1244 (e tanto celebre che queste associazioni furono spesso chiamate per antonomasia le «misericordie») doveva provvedere per statuto, grazie alla prestazione di cittadini di ogni classe, all’assistenza gratuita dei malati e feriti, al trasporto negli ospedali e al seppellimento dei morti abbandonati.

Con l’illuminismo nasce il concetto che il far bene altrui sia imposto non dal semplice sentimento religioso, bensì dalla ragione e dall’interesse bene inteso del principe e dello Stato. Su questa linea si arriva, in seguito all’aggravarsi della questione sociale, al concetto della assistenza sociale come un vero obbligo della società, e non come semplice atto di caritatevole liberalità. Si è così completato il viraggio dalla beneficenza (discrezionale) al diritto senza alcuna contropartita di doveri, riaffermato costantemente da tutte le concezioni marxiste dello Stato.

Una seconda linea, spesso confusa con la prima, ma che ha radici assolutamente diverse, è quella del mutuo soccorso o mutualità (definita come «il fatto per cui gli uomini, attuando una tendenza spontanea e previdente, si prestano tutela e assistenza attraverso forme solidaristiche di reciproco aiuto»). Già nel Medioevo e Rinascimento le associazioni di mestiere, oltre alla tutela degli interessi  corporativi, svolgevano anche attività mutualistica (tassandosi individualmente). A seguito delle teorie di Proudhon («mutualismo») sorsero in Inghilterra, nel XVIII secolo, le prime friendly societies per  aiutare i soci in caso di vecchiaia, disoccupazione, inabilità lavorativa e malattia. La legge inglese le riconobbe e facilitò, e G. Mazzini (conosciutele nel suo esilio londinese) ne fece uno dei capisaldi del suo umanitarismo politico (insieme alle cooperative).

Oggi la  base volontaristico-contributiva delle «mutue» si è quasi perduta perché le leggi sociali, anche quando mantengono in vita le strutture gigantesche della mutualità, hanno ridotto il contributo del lavoratore a quote puramente nominali rispetto a quelle del datore di lavoro e alla integrazione statale. Il loro travaglio concettuale si è riflesso persino sul nome degli enti: l’italiano I.N.A.M., nato nel 1943 come Ist. Naz. Assistenza Malattia, è diventato nel 1947 Ist. Naz. Assicurazione Malattia, ma si è ritrasformato alcuni anni dopo in Ist. Az. Assistenza Malattia, questa volta con una precisa connotazione politica. Tuttavia attuando questa vera rivoluzione concettuale e pratica  senza l’adeguata preparazione psicologica, si è fatta perdere al singolo utente la  nozione della sua personale responsabilità etica e finanziaria, ormai diventata troppo evanescente nei confronti di uno stato che regala tutto a tutti (come se non fosse finanziato dalle tasse), e contaminata ormai senza speranza dalla impostazione marxista del diritto senza doveri. Questo è il principale motivo psicologico dei fatali abusi di ogni sistema nazionalizzato.

Aspettative e realtà. -Che cosa si attende oggi l’utente medio da un sistema di assistenza sanitaria? Lo diciamo con le parole di J. Fry (London, 1972) che riferisce la sintesi di larghi sondaggi di opinione: «fondamentalmente la disponibilità e 1′accessibilità a un medico noto e rispettato, che possa fruire di servizi specialistici comodi. Le caratteristiche più apprezzate della cura sono semplicemente la gentilezza, l’interessamento ai problemi individuali, il tempo per ascoltare il paziente e la qualità del servizio».

Esattamente le medesime caratteristiche sulle quali dopo 25 anni di vita del N.H.S., si sono accumulate la delusione, la frustrazione e le critiche degli inglesi, tanto da portare a una inchiesta parlamentare sul suo funzionamento, durata dieci mesi ed esplosa in pubblico il 30 marzo 1972; a seguito della quale il Ministero della sanità si è impegnato a proporre una completa ristrutturazione del servizio, che avrebbe dovuto andare in vigore nel 1975. è dunque come se la celebre promessa di Enrico IV ai francesi («un pollo in ogni pentola») fosse stata mantenuta, a spese di una tassazione feroce, per dare si un pollo a tutti, però di cartapesta, cioè immangiabile!

D’altronde non è solo il pubblico che si lamenta, né soltanto quello inglese, ma di ogni nazione «benedetta» da una organizzazione gratuita di assistenza sanitaria. Esse raccolgono dovunque l’unanimità dei dissensi di chiunque partecipi attivamente o passivamente a questo straordinario fenomeno sociale moderno: utenti, medici ed enti gestori (mutue o ministeri statali). E tutti con ottime e documentate ragioni, che vedremo. Perché dunque continuano ad esistere, anzi a essere imposte come conquiste sociali? Probabilmente perché gli uomini politici gli unici che non se ne lamentano, pur facendo di questa istanza una delle basi più sicure delle loro piattaforme elettorali non risulta che vi ricorrano personalmente (nei paesi occidentali) o al massimo (Jugoslavia, Polonia, Bulgaria) accedano ad ambulatori riservati ed esclusivi, dove il trattamento e ben diverso da quello fornito mediamente dal servizio. È un’altra immunità personale che si aggiunge al lungo elenco di privilegi autoconcessisi, quasi dappertutto, da queste moderne oligarchie; pericolosa soprattutto perché rischia di togliere loro la diretta esperienza del risentimento popolare.

Le lamentele degli assistiti. – In Italia, particolarmente esasperato dal continuo martellamento demagogico (al fine di ottenere, come dice l’americano R. M. Sade, 1971, la «sanzione delle vittime» sulla proposta riforma sanitaria nazionale) diventa sempre più lungo l’elenco delle critiche alle strutture esistenti, giuridicamente mutualistiche ma con annuali «ripianamenti» statali dei deficit che le assimilano già, di fatto, a un servizio finanziato dalle tasse. Si lamenta che i medici inseriti nel sistema (circa 60.000 nel 1973) siano costantemente sovra occupati, agiscano in maggioranza come smistatori, che non visitino abbastanza ma stilino solo ricette; che gli ambulatori specialistici siano sovraffollati e le loro prestazioni rimandate di tempi sempre più lunghi; soprattutto che gli ospedali (salvo rare eccezioni, nel Nord) siano insufficienti e perciò irraggiungibili, sovraffollati e insieme, paradossalmente, che costringano a degenze più lunghe del necessario.

Effettivamente l’ultima rilevazione statistica registra per l’Italia 463.000 posti letto ospedalieri, oltre a 96.517 nelle case di cura private (nella quasi totalità anch’esse «convenzionate» con le mutue). Il rapporto letti-popolazione è dunque nel complesso di 10,35 per mille abitanti. Per raggiungere quello di 12; 1000, giudicato ottimale dalla Organizzazione Mondiale di Sanità, mancherebbero ancora 130.000 posti letto; ma, a prescindere dal finanziamento, l’elefantiasi burocratica fa di tutto per impedirne la fornitura: per cominciare soltanto a costruire un ospedale, occorre aver prima strappato ben sessantasette tra permessi e autorizzazioni. Non c’è molto da stupirsi, perciò, se il defunto piano nazionale ospedaliero, che prevedeva tra il 1966 e il 1970 la creazione di 80.000 nuovi posti letto, sia rimasto allo stadio della pia illusione (D.D.S., 1974). Né la recente delega delle competenze sanitarie alla regione può far sperare in molto meglio. Infatti, il vizio peggiore è nella loro incongrua distribuzione: nelle regioni del Nord il traguardo dei 12 letti per 1000 è spesso superato; ma al Sud è pari al 3,3 in Calabria, 2,8 in Campania, 0,65 ad Avellino. Col risultato che, non potendo una democrazia impedire ai suoi cittadini la mobilità indiscriminata (come avviene in U.R.S.S.) è prassi normale che gli ospedalizzabili del Sud ingorghino gli ospedali romani, e persino quelli di Milano, rendendo inattendibile ogni piano di previsione e di fornitura regionale dei bisogni ospedalieri.

Le medesime lamentele si presentano ovunque, particolarmente là dove alle mutue si è sostituito (anche giuridicamente) un servizio nazionale di sanità (che dunque non è la panacea per questo genere di mali). In Inghilterra, oltre alle crescenti accuse di non rispettare le regole, il pubblico fa carico al N.H.S. di un inconveniente gravissimo: la straordinaria lentezza nel soddisfare i bisogni. Come risulta dagli stessi documenti ufficiali nel gennaio 1950 (cioè solo tre anni dopo la nascita del N.H.S) le liste di attesa per l’ingresso in ospedale comprendevano 530.534 persone; nel gennaio 1970, cioè dope ventitre annidi N.H.S. ancora 525.926, nonostante il continuo aumento degli ospedali e dei letti. In Svezia, citata troppo ad esempio dai fautori della nazionalizzazione sanitaria senza una conoscenza esatta della locale realtà psico-sociale, le lamentele sono simili a quelle già ricordate, compresa l’estrema lunghezza delle attese, nonostante la ricchezza del paese (la prima del mondo) la popolazione ridotta (8.000.000) e la sovrabbondanza del rapporto letti-popolazione: 16 per 1000 ab. Ad esse si aggiunge come ulteriore diversificazione, l’accusa di una totale spersonalizzazione della medicina. Questo avviene perche in Svezia oltre il 90% dei medici sono impiegati statali, cioè esercitano a tempo pieno negli ospedali, ed è soprattutto con il ricovero ospedaliero che si effettua qui l’assistenza medica pubblica. Perciò, oltre alla esasperante attesa, risulta difficilissimo per il paziente incontrare due volte di seguito il medesimo medico.

Lo stesso vizio, eretto tuttavia a sistema, rivela l’assistenza erogata dai paesi comunisti dell’Europa orientale, basata sulle famose unità sanitarie locali che una minoranza di politici, copiandone persino il nome, sta per regalare all’Italia con la prevista riforma. In esse la visita, sia ambulatoriale sia al domicilio viene compiuta dal medico in quel momento di turno nell’ambito di una lunga lista comune. Le semplici leggi statistiche accertano la probabilità zero, per un malato, di essere rivisto due volte dallo stesso medico nel corso di una singola malattia.

E, naturalmente, per un medico, di rivedere due volte lo stesso malato. Il che significa l’obbligo universalizzato di curare semplicemente i sintomi (la febbre con gli antipiretici, i dolori con gli analgesici) senza ricercarne le cause, cioè senza fare la diagnosi. Insomma l’esasperazione dei vizi allopatici, per imposizione legislativa. È chiaro che se il secondo medico non trova il malato guarito, ne prescriverà l’ospedalizzazione; e questa è  la principale ragione del fatale e cronico ingorgo degli ospedali, piaga inguaribile e sperperatrice di ogni medicina nazionalizzata. La frettolosità e il disinteresse del medico-burocrate nei confronti del singolo paziente ha poi fatto nascere tutta una  nuova categoria di patologia sociale per cercare di opporvisi:  per esempio le illecite giunte finanziarie allo stipendio (o una quota convenzionata come accade in Italia) da parte dei pazienti. Esse sono tanto usuali da avere persino un nome: «mance» in Ungheria, «onorari neri» in Polonia (Malleson).

Le critiche dei medici. – Visto che in fin dei conti la mutualità o i servizi nazionali di sanità offrono al medico neolaureato la possibilità di un guadagno fin dall’inizio consistente (a differenza del passato, quando anche dopo la laurea le difficoltà finanziarie e la «gavetta» proseguivano per molti anni), si potrebbe credere che almeno questa categoria sia favorevole alle strutture assistenziali generalizzate. È vero invece il contrario. Sia dall’U.R.S.S., dove i loro salari uguagliano quelli dei manovali specializzati e degli autisti (B.M.A. 1970; Luk e Tardov 1966) sia dalla Svezia, dove gli stipendi variano tra le 57.000 e le 148.000 corone (cioè dai 7 ai 17 milioni di lire l’anno) e naturalmente da tutte le situazioni intermedie, si leva un coro unanime: a) il sistema richiede troppo lavoro di carte e ne lascia troppo poco per la vera professione; b) l’accesso gratuito al medico gli porta davanti una folla di postulanti tra i quali esiste spesso un solo ammalato su dieci o venti, con il rischio onnipresente di non riconoscerlo, fonte di guai professionali e legali che il medico deve subire in proprio; c) discende da questo l’obbligo tecnico di richiedere al minimo sospetto gli esami specialistici o la ospedalizzazione, utile anche per una delega di responsabilità ad altri; d) i sistemi di pagamento della «prestazione medica» sono di massima gravemente imperfetti e discriminanti, da quelli capitari alla notula singola, dagli stipendi al metodo dei punti giapponese; e come tali risultano seriamente responsabili della continua degradazione della qualità del servizio; infatti, e) il sistema punisce finanziariamente chi vuole esercitare correttamente la medicina, e premia i passacarte (su questo un esempio inglese, riportato dal «Giorno» 16-5-73: «Un amico medico mi racconta: “Come faccio a non mandare sempre più pazienti in ospedale? Stai a sentire: ci sono piccoli interventi che tutti i medici generici sanno fare, che so, eliminare una piccola cisti sebacea. Benissimo: ma lo sai che se mi metto a farla io questa piccola operazione mi costa personalmente mille o duemila lire di filo di sutura, bende, strumenti, che nessuno mi rimborsa? Allora che cosa sono, un santo? E io, come tutti, mando il paziente all’ospedale, dove la stessa operazioncina costa al contribuente non meno di otto sterline, cioè 12 mila lire, più altre cinque sterline di ambulatorio, che in tutto fanno 20 mila lire»). f) Naturalmente gli ospedali e gli specialisti si lamentano di questo ipertrofico e spesso inutile lavoro, e hanno ragione; ma gli altri non hanno torto; g) nel tentativo di ridurre la valanga i medici inseriti nei sistemi mutualistici hanno spesso proposto il deterrente di un pagamento diretto del paziente ad ogni richiesta di visita o di medicine (il cosiddetto «tiket moderateur»). Ma è una vana illusione in Svezia, nonostante le attuali 7 corone che i pazienti paga all’ospedale ad ogni visita, e le 15 per ogni ricetta, il ricorso di massa al servizio è tale che un giovane medico se ne è valso come alibi (oltre 60 al giorno) di fronte a una denuncia per omicidio colposo, avendo sbagliato dose di un medicinale per un bambino (cfr. «Expressen», 1972). E il consumo delle disponibilità sanitarie è sempre più alto anche Inghilterra, sebbene invece che la sua formula originaria del «tutto gratis a tutti, dalla culla alla tomba », il N.H.S. faccia pagare alcuni scellini per ricetta, il 25% delle protesi, i letti ospedalieri (pay beds 6 amenity beds) e le visite private degli specialisti part time!

Questi rilievi si presterebbero a grosse considerazioni di fondo. Ma le rimandiamo a più avanti per ascoltare.

Le accuse degli enti gestori. – Anch’esse risultano universalmente sovrapponibili. Sia i gestori della finta mutualità sia i ministri di sanità dichiarano la completa impossibilita di redigere qualsiasi preventivo attendibile. Dovunque l’utopia della medicina socializzata abbia messo radici, essa sta turbando progressivamente l’equilibrio economico delle comunità, nonostante la completa insoddisfazione degli utenti. E verso i demagoghi comincia a comportarsi come la famosa tigre dalla quale, una volta cavalcatala, non si può più discendere per non esserne divorati. Effettivamente fu su una istanza sanitaria (l’abbandono nel 1952 del principio della totale gratuità del N.H.S., in favore del contributo per gli occhiali e le dentiere, che stavano consumando da soli un terzo dei preventivi del servizio) che il governo laburista di Harold Wilson fu costretto a dimettersi, e il ministro del Lavoro, Aneurin Bevan, spaccò il partito con la sua intransigenza da teorico.                         |

Ma torniamo alle cifre, con le quali sono usi discutere gli attuariali. Il prof. L. Reale, vicepresidente dell’INAM che assiste 48 milioni di italiani, ha rilevato statisticamente che solo dal 1969 al 1971 il consumo sanitario per ogni assistito (in unità di prestazioni medico-generiche + prestazioni specialisti che + giornate di ricovero ospedaliero) era passato da 17,75 a 32,15, aumentando quindi dell’81% in due anni.  L. Onida (1974) segnala che la frequenza dei ricoveri ospedalieri si è moltiplicata, in Italia, dal 1951 al 1972; è aumentata anche la durata media delle degenze (da 12,5 gg. nel 1951 a 14’01 nel 1972); infine che le giornate di ricovero (per i soli assistiti INAM) sono aumentate in venti anni (1951-72) di quasi 9 volte, passando da 681.000 a 61.000.000.

I costi ufficiali del N.H.S. inglese, previsti inizialmente, dopo vent’anni di studi attuariali (Piano Beveridge, 1941) in 170 milioni di sterline, sono stati subito di 450, e hanno raggiunto nel 1970 i 2000 milioni, nonostante il progressivo accollamento di contributi a carico degli utenti. Quel che è peggio è che l’incremento annuo dei costi, mantenutosi per qualche anno intorno al 10%, sta anch’esso ingigantendo: è stato del 17% nel 1969, e del 20% nel 1970; cosicché le previsioni (!) per il 1974 si aggirano ormai sui 3000 milioni di sterline (Apollonio). Le rette ospedaliere sono aumentate in Italia di 1000 volte dal 1938 (dalle 26 lire di allora alle 26.000 in media odierne, inflazione postbellica compresa), ma sono ancora tra le più basse del mondo, di fronte alle 55-60.000 lire degli ospedali svedesi e ai 115 dollari (circa 75.000 lire) della media U.S.A., cresciuta in dodici anni del 300%, dai 32 dollari del 1961, e senza inflazione esplosiva.

Di fronte a questa progressiva dieresi tra i preventivi e i consuntivi, gli amministratori sanitari sono veramente scoraggiati, anche perché qualsiasi loro richiesta di trovare dei correttivi (contributi personali degli utenti, pastoie burocratiche alle erogazioni, campagne di educazione sanitaria responsabilizzatrice, e così via) si scontra contro la lettera delle leggi istitutive dei servizi, e diventa un fatto politico che è sacrilegio solo discutere, fosse pure per migliorarle.

Da questo è derivato, negli ultimi anni, un doppio fenomeno: da una parte il lassismo finanziario senza più freni, dall’altra la ricerca frenetica di un qualsiasi colpevole del disservizio indicato volta a volta nei medici pratici (con indubbia preferenza: come in U.R.S.S., dove li si accusa di sabotare l’economia favorendo l’elevato assenteismo per malattia), nei medici ospedalieri, nelle rivendicazioni di categoria, nelle troppe ricette…; assai meno a voce alta negli abusi degli utenti; quasi mai nell’assunto demagogico di base, per via della diretta dipendenza dal potere politico e della già citata tigre. Invece il nucleo centrale del problema è esattamente questo: l’adesione acritica, incondizionata e irreversibile a uno spunto ideologico di «giustizia sociale» che, velleitario ma giustificabile un secolo fa, rivela oggi, estrapolato alle estreme conseguenze, la sua natura artificiosa, non corrispondente né alla realtà dei bisogni sociali, né a quella dell’uomo malato. Di fronte a questo inescusabile peccato originale nessun palliativo ha speranza di successo: né l’«ospedale di notte» russo né l’«ospedale di giorno» americano, né la utilizzazione multipla dei servizi costosi, dalle bombe al cobalto a laboratori di analisi dal parco ambulanze alle lavanderie, dai computer alle cooperative di acquisto di medicine e di rifornimenti. L’unico correttivo valido sarebbe il razionamento sanitario, ma su quale base adottarlo e farlo digerire alle masse, per tanti decenni illuse? E chi dei politici avrà mai il coraggio e la possibilità di suicidarsi politicamente e scatenare una rivolta di popolo.

Così tutto il mondo democratico, inventando sempre nuove tasse, continua in una sola direzione obbligata verso il traguardo non tanto lontano della bancarotta sociale.

La bancarotta sociale inutile. – Quello infatti che i responsabili finanziari dei servizi di sicurezza sociale non dicono volentieri è il rapporto dei loro costi con il reddito globale delle comunità. Per esempio la Comunità Economica Europea (CEE) ha rilevato, per il 1970, un impegno percentuale del reddito; per la sola assistenza di malattia, dal 4,7 del Belgio al 94 dei Paesi Bassi. Per le prestazioni di sicurezza sociale, dal l8,6  dell’Italia al 23,1 del Lussemburgo. Il bilancio dell’italiano I.N.P.S. per il 1974 comporta ormai entrate e uscite pari a circa la metà di quelle dello Stato (esattamente il 49,9% delle entrate, per 10.184 miliardi rispetto ai 20.399 dello Stato, e il 46% delle uscite, per 11.059 miliardi rispetto ai 24.052 dello Stato). I contributi obbligatori, erogati a favore degli 11 milioni e mezzo di pensionati, gravano su poco più di 18 milioni di unità attive; il che significa che 3 lavoratori sostengono il carico di 2 pensionati (C. A. Masini, 1975).

Quel che più conta è che l’espansione annuale delle prestazioni nel loro complesso, è stata sempre superiore all’aumento del reddito nazionale. Come dire dunque che ogni paese a  questo riguardo, spende più di quanto guadagna, cioè si indebita sempre più pesantemente nei riguardi di ogni altro consumo.

La Svezia, modello preclaro di democrazia socialista, ha visto passare le sue spese sociali dai 4.480 milioni di corone del 1961 ai 20.250 milioni del ’73 (cioè superiori ai bilanci sommati della Difesa e della Educazione: 2.820 + l.840 e 7 550 + 10.170); per finanziare questo enorme aumento, l’unico di tutto il bilancio svedese pari al 352%, ha dovuto spremere ai contribuenti (tra tasse indirette e dirette), rispetto ai 15.450 milioni di corone del 1961, ben 53.920 nel 1973, cioè tre volte e mezzo di più. E nonostante il prelievo fiscale ormai insostenibile, che riesce a falcidiare persino del 93% i redditi superiori, mentre il bilancio centrale si era chiuso nel 1961 con un attivo di 380 milioni di corone, quello del 1973 presenta un passivo di 8.370 milioni, e il debito pubblico per gli stessi anni si è più che raddoppiato (da 20.410 a 43.210 milioni di corone). Mentre i politici fingono di ignorarlo, ogni studentello di economia sa perfettamente che questa è la via maestra all’inflazione, cioè alla rapina legale delle comunità. E stiamo parlando del paese più ricco del mondo! Ma non e ancora tutto: da almeno tre lustri è noto agli attuari che le spese sanitarie si raddoppiano ogni 4-5 anni circa; per i paesi del MEC l’ufficio statistico della CEE ha accertato, per il complesso delle spese sociali, tra il 1962 e il 1970, un aumento minimo del 98% (Lussemburgo) e massimo del 252% (Paesi Bassi), con tendenza all’ulteriore incremento esponenziale, come abbiamo già accennato per l’Inghilterra.

Eppure, per quanto le cifre siano preoccupanti, la realtà sociale riesce ad esserlo ancora di più. Abbiamo infatti appena visto che questo enorme sperpero di risorse comunitarie non riesce a soddisfare né le finalità che si propone né gli utenti dei servizi. Abbiamo elencato lamentele, critiche ed accuse. Che esse non siano soltanto chiacchiere lo dimostra il ricorso sempre più vasto degli assistiti alla medicina privata, cioè estranea all’organizzazione gratuita (pagata dalle tasse). A parte le illecite integrazioni personali per godere un minimo miglioramento delle qualità del servizio, il fenomeno è socialmente diffuso in tutti i paesi mutuati o con servizi nazionali di sanità. In Italia le case di cura private (oltre ai reparti di solventi negli ospedali) sono oggi oltre 1.000, in Inghilterra 1.087, in Giappone (in massima parte rudimentali, cioè una stanza annessa allo studio del medico) addirittura 69.000. In Svezia sono state riscoperte come una novità, una quindicina di anni or sono, per rimediare (naturalmente a pagamento) alle esasperanti attese del ricovero statale. Persino l’U.R.S.S. sta attualmente considerando la possibilità di ospedali a pagamento (Malleson).

Dell’ammontare di tutte queste spese sociali, sostenute dall’individuo singolo e non comparenti in pubblici bilanci, si conosce assai poco; tuttavia in Inghilterra oltre 5 milioni di cittadini sono già volontariamente fuori dal N.H.S. avendo stipulato contratti assicurativi di malattia con alcune società finanziarie, come la BUPA (British United Provident Association), la PPP (Private Patients Plan), la WPA (Western Provident Association) che gestiscono ormai, con un bilancio annuale di oltre 50 miliardi di lire, la maggioranza delle cliniche private inglesi descritte come eccellenti. Il maggiore richiamo di questa alternativa sociale risulta essere di natura psicologica; mentre l’assistenza del N.H.S. è disumanizzata e sconfortante, quella della BUPA e simili (che trasforma il parente nel pagante in proprio) riesce a fargli ritrovare quel «interessamento al sano al suo caso, quella gentilezza; e quella qualità dei servizi» segnalati da J. Fry tra le aspettative del pubblico. Ma è veramente paradossale, quasi al limite della truffa, che chi desidera ottenere in caso di malattia un trattamento soddisfacente sia costretto, se appartiene a una comunità «socialmente assistita», a pagare due volte il medesimo servizio: la prima con le tasse sempre più alte alle quali non si può sottrarre; la seconda dedicandogli una ulteriore quota del suo reddito personale quando si ammala!

Naturalmente non è tutta colpa delle organizzazioni sanitarie di Stato se i loro costi sono in espansione esponenziale. Anche se esiste una differenza fondamentale tra efficienza ed efficacia (come sostiene A. L. Cochrane, direttore del Medical Research Council Epidemiology Unit di Cardiff, U. K in una sua critica quantitativa al N.H.S.), ciò non basterebbe a giustificare il sovraccarico indebito delle comunità per questo solo settore. E nemmeno gli abusi, né la medicinomania, né la modifica nella struttura della piramide demografica  (l’aumento enorme degli anziani) né la «patologia della cronicità assistita» segnalata da A. Jores e da Malleson. Infatti persino negli U.S.A., dove solo circa il 20% del carico sanitario è in qualche modo sostenuto dallo Stato, le spese per malattia sono aumentate da 12 miliardi di dollari (1950) a 75 miliardi (1971), raddoppiando la loro percentuale di incidenza sul reddito nazionale lordo (fino al 7,4%). L’incremento è anche qui esponenziale col rischio di finire, alla lunga, come abbiamo già previsto. Ma Bert Lawrence, Ministro di sanità per la provincia di Ontario, la più ricca del Canada, è stato ancora più esplicito in una Commissione ufficiale del 1971. Ha infatti dichiarato pubblicamente che, se le spese sanitarie continuassero nel futuro con il medesimo ritmo attuale, esse assorbirebbero intorno al 2000 tutto il reddito lordo della provincia. Ma non ha saputo trovare altro per comprimerle, sulla solita falsariga dei politici di ogni colore e paese, che accusare i medici di ipernotulazione (cfr. Toronto Daily Star, 14-V-1971).

Invece il problema è ben più profondo delle marette superficiali sollevate dalla inidoneità dei metodi di pagamento dei medici, come quello canadese a notula singola. Esso riguarda semplicemente tre fenomeni legati alla sopravvivenza stessa dell’umanità:

1) la realtà psicosociale del mondo moderno;

2) il significato intimo del ricorso alla medicina;

3) la sua presente inabilità a comprenderlo e a soddisfarlo.

La realtà ambientale e psicosociale del mondo moderno è la più tragica che la comunità umana abbia dovuto subire nella sua lunga storia. Dall’inquinamento al rumore, dall’esistenza antinaturale al sovraffollamento, tutto congiura al suo malessere e ogni giorno peggiora. Già questo, nei confronti di cento o cinquanta o anche solo dieci anni fa, è un violento fattore di aumento dei consumi sanitari. E di fatto, nell’ultimo mezzo secolo, la società ha cercato di difendersi preparando strumenti che la medicina le indicava come adeguati, e dedicando ad essi una parte sempre maggiore del suo tempo e delle sue risorse.

Segnala A. Jores, in base al censimento di Amburgo 1946, che «1/7 di tutte le professioni e 30 fra i vari generi di occupazioni comportavano attività di carattere sanitario. Solo nei servizi sanitari erano impiegate 20.300 persone, cioè il 3,45% della popolazione attiva. Nell’amministrazione della città erano adibiti a servizi igienici un quarto di tutti gli impiegati. A parte, naturalmente, il personale degli ospedali di carità, delle mutue e delle Industrie farmaceutiche…». E allora non esisteva nessuna «divisione» ecologica ne anti inquinamento. Oggi, che riteniamo erroneamente di competenza sanitaria tanto la lotta al raffreddore quanto quella all’inquinamento degli oceani, di quanto dovrebbe aumentare l’impegno finanziario e temporale della comunità, per tenere il passo con i nuovi bisogni?

Il significato del ricorso alla medicina presenta una doppia faccia. Sul piano fisico il suo incomprimibile aumento è il semplice riflesso di quella crescente patologia indotta dalle peggiorate condizioni ambientali, spesso non ancora identificabile sotto una precisa definizione nosografica (come malattia A o B), ma segnalante uno stato personale di sofferenza, responsabile dell’accertato aumento statistico delle malattie cronico-degenerative di ogni tipo, a prevalente base psicosomatica. Sul piano psicosociale l’umanità sta chiedendo sempre più urgentemente aiuto e consolazione alla medicina, appunto ricercandone sempre più frequentemente e in massa le prestazioni (gratuite o pagate, come in U.S.A.; il problema non è finanziario!).

Ma la medicina attuale e incapace di recepire il messaggio che tutta l’umanità le rivolge. Invece di censire e meditare le reali aspettative dei suoi utenti (come quelle citate da J. Fry,  tra le quali non vi è alcun posto né per la ibernazione né per l’ingegneria cromosomica, ma uno larghissimo per la consolazione) essa insiste a fornire sempre più macchine, tecnica e timore a chi desidera soltanto essere liberato dalla paura. E tuttavia neppure la medicina moderna è in malafede; il suo comportamento risale, una volta di più, all’errore culturale del quale è universalmente preda, in ordine ai già discussi cento anni di trionfante allopatia. Di questo errore discuteremo nel prossimo capitolo.

Capitolo IV – L’errore culturale 

Abbiamo dichiarato che la medicina moderna vive nell’errore, cioè che le pesa addosso un grave sospetto di eresia, per di più istituzionalizzata. L’accusa, a prima vista paradossale, è documentata da un dossier ormai straripante di requisitorie che dal suo stesso interno segnalano le colpe e i danni della progressiva disumanizzazione, della ipertrofia tecnologica, del costo insostenibile, della alienante inutilità. L’attacco esterno è sinora mancato perché al di là delle critiche nessuno è riuscito finora a indicarle un’alternativa, o ad epurarla senza distruggerla. E l’umanità senza la medicina non può vivere.

Così, visto che le pulsioni ideologiche del «progresso e giustizia sociale» imponevano la distribuzione gratuita e universale di questo bene una volta riservato (si dice, ma è falso) a pochi privilegiati, la medicina è stata rubata dai politici ai medici, trasformata in istanza elettorale e imposta a pagamento alle comunità, congelandola nella sua attuale forma imperfetta e insoddisfacente. Ne conseguono paradossi al limite dell’incredibile. Un vero grande addetto ai lavori, cioè l’ex-presidente della New York Academy of Sciences, N. H. Moss, dichiara esplicitamente (1971) che «la crisi della medicina in U.S.A. è principalmente dovuta alla drammatica tendenza dell’ultimo ventennio alla superspecializzazione, e al fallimento del nostro sistema nel riempire il vuoto creatosi». Ma contemporaneamente un pianificatore-medico (italiano) sostiene che in «materia di sanità pubblica si cammina in avanti solo comprimendo la generica e capillarizzando al massimo la specialistica; cioè riducendo l’intervento del singolo medico e accentuando l’intervento della struttura polivalente».

Concessa volentieri la buona fede a questa opinione, che è condivisa senza riserve da tutti i pianificatori sanitari del mondo, non resta che attribuirla alla acritica accettazione del valore nominale della medicina attuale, abbinata a una scarsa informazione sulla sottostante crisi di significato e di sostanza. È da questo originario passo falso che discendono appunto i guai patologici dell’assistenza pubblica, perché in essa si riconosce la medicina odierna, ma è appunto la medicina odierna che non riconosce più l’uomo. Perché?

Le cause della alienazione. – Molte delle motivazioni alienanti della medicina attuale sono già state analizzate nella prima parte della ricerca. Qui se ne riassumono le tre principali sul piano erogativo (cioè al livello pratico):

1) la mitizzazione della malattia;

2) la ipertrofia tecnologica e lo strutturalismo operativo;

infine, come più devastante fra tutte,

3) la teoria e pratica del sistema allopatico.

Fortunatamente questi errori, per quanto giganteschi, non partecipano alla sostanza della medicina ma unicamente al suo ambito culturale, il che, mentre spiega la sua attuale inadeguatezza all’uomo nonostante una ricchezza di conquiste mai raggiunte da alcun’altra scienza, consente la speranza di conservarne tutti gli immensi vantaggi, solo interpretandola correttamente.

Mitizzazione della malattia e della tecnologia: tanto il tedesco A. Jores quanto il francese J. Ménétrier rilevano che «uno dei miti più diffusi della moderna civiltà è quello della malattia», e in questa ricerca ne è stata persino seguita la storia naturale e sono state già esposte alcune delle conseguenze tecniche. Sotto il profilo pratico questo mito è responsabile dell’equivoco politico («diritto all’assistenza di malattia»), della già analizzata rottura dell’uomo in pezzi sempre più piccoli, quindi della nascita della specializzazione e iperspecializzazione. Questa si riflette persino sulla artificiosità implicita nello stesso corso di studi medici, durante il quale (a seguito della acculturazione nozionistica per compartimenti stagni) lo studente diventa, già ben prima della laurea, «il segreto seguace di una delle tante specializzazioni che ulteriormente limiteranno i suoi orizzonti» (Montanari, 1972). Sul piano pratico la continua invenzione di entità artificiali (le malattie singole) e l’esponenziale accumulo di nozioni sempre più capillarizzate su ciascuna di esse, ha condotto alla inutile produzione di una massa di informazioni analitiche ormai indominabile dall’uomo, che impone il ricorso costosissimo ai calcolatori. La loro giustificazione sanitaria sembra consistere principalmente nel trattamento delle informazioni, la cui attuale raccolta, trascrizione, trasmissione ed elaborazione assorbe ormai oltre il 25% (Jydstrup e Gross, 1966); delle spese ospedaliere, per colpa del sistema iperanalitico attualmente seguito.

Ma la speranza di delegare al calcolatore il compito difficile, scomodo e stressante della diagnosi (che è il momento della verità in medicina) si sta dimostrando una illusione fallace. A proposito della diagnosi assistita con calcolatore, uno dei massimi esperti internazionali di automazione sanitaria (il prof. U. Pellegrini) è costretto a scrivere (1973): «è difficile quantificare la valutazione dei risultati concreti che così si raggiungono, e in generale gli autori si limitano a riportarne un giudizio di approvazione e di successo».

Il vizio incurabile di questa tendenza discende dal suo obbligatorio basarsi sul sintomo, che la tecnologia (calcolatori e laboratorio di analisi) mitizza ad entità concreta, arrivando su questa strada persino a inventare una peculiare entità nosografica (nessuno ha avuto finora il coraggio di chiamarla una malattia) come la cosiddetta transaminasite, che è semplicemente il persistere misterioso di valori superiori al normale di una reazione enzimatica (transaminasi GP e GO), sul siero di pazienti clinicamente guariti da virus-epatite!

Per converso si accresce il fondamentale riconoscimento che molti dei fattori di malattia, specialmente propri alla patologia moderna in espansione, «non precipitano nelle provette». Addirittura il presidente del Congresso tedesco di chimica-clinica dichiara che «dette componenti possono essere colte soltanto dalla interpretazione oggettiva del medico, la cui funzione non è in alcun modo vicariabile mediante le indagini di laboratorio» (J. Buttner, 1973).

Questo invece risulta il metodo dovunque imposto dai sistemi moderni di assistenza, organizzati sulla falsariga dell’errore allopatico, dove in genere il medico non visita più, mentre i laboratori clinici e specialistici affogano in una alluvione di esami per la massima parte inutili e inutilmente costosi.

I documenti del fallimento allopatico. – Con l’abolizione chimica del dolore, con la rianimazione, con gli ormoni sostitutivi e soprattutto con gli antibiotici, oggi i limiti della chirurgia sono segnati soltanto dalla perfezione invalicabile delle sue tecniche e dal carattere del singolo operatore. Ne risultano da una parte gli straordinari ardimenti di chirurgia allargata ai confini stessi della sopravvivenza, specie in casi di cancro, dall’altra un alto numero di operazioni inutili, prescritte su indicazioni inconsistenti o addirittura come test ex juvantibus (una febbricola resistente agli antibiotici? «Proviamo a togliere le tonsille…»). Si maligna che se un paziente non ha il deterrente finanziario dell’operazione (cioè se «gode» di assistenza di malattia) è facile che dopo cinque anni gli manchi l’appendice, dopo dieci anche le tonsille, e via via altri organi, sempre meno superflui. Questo avviene dovunque nel mondo, perciò non si tratta di una condotta illecita sul piano del singolo sanitario, ma di una pecca inemendabile del sistema medico dominante.

Qualcuno finalmente se n’è accorto, e segnala il danno sociale (e individuale) che ne deriva. I. V. Davydovskij, uno specialista di organizzazione sanitaria dell’U.R.S.S. (dove manca lo stimolo lucrativo), dichiara esplicitamente che «delle 30.000 appendicectomie praticate ogni anno a Mosca, un terzo sono inutili. Ciò occupa illecitamente 100.000 giorni-letto, al costo medio di un milione di rubli più la perdita di oltre 200.000 giorni di lavoro, senza tener conto delle eventuali complicazioni, inabilità e morti». E quanto alla chirurgia radicale, già Mathé (1972) dimostrava su larghe statistiche (J. Howard, Londra) che essa non allungava affatto la sopravvivenza, in confronto alla asportazione circoscritta del tumore (seno). Di uguale e più convinto parere sono stati recentemente anche H. K. Zinser di Colonia, A. Schaudig di Monaco, K. G. Ober di Erlangen, e H. Sack di Essen, al Congresso 1974 (Monaco) della Soc. tedesca di Oncologia. E persino il prof. P. Bucalossi, presidente del Congresso Internazionale del Cancro del settembre 1974, cita in una conferenza stampa tra i temi più importanti del congresso le possibilità di cura chirurgica poco mutilante («in futuro opereremo in misura meno radicale di adesso»).

È un vero progresso specie perché, contrariamente al «sempre di più» in voga fino a pochissimo tempo fa, finalmente si indirizza a una limitazione critica delle possibilità astratte della chirurgia, cioè a un iniziale ritorno al rispetto dell’uomo. A quando la sua estrapolazione totale?

In campo medico l’allopatia ha scatenato la «policura». Inseguendo la compressione del sintomo ha moltiplicato la ricettazione dei medicamenti nonché la loro produzione, intesa a soddisfare una richiesta di mercato in continuo crescendo.

L’elenco ufficioso italiano dei medicamenti (l’«Informatore Farmaceutico») registra per il 1973 circa 10.500 voci (e un numero ovviamente multiplo di confezioni e dosaggi diversi). Stupisce che anche una sola malattia abbia resistito a un così massiccio spiegamento di forze «contrarie». Sennonché la quasi totalità dei farmaci sono soltanto sintomatici, superflui o di contorno: vitamine 658, ricostituenti 647, antiflogistici e antireumatici 646, antitosse 630, digestivi 452, analgesici e antipiretici 412, tranquillanti 246, lassativi 192, antispastici 145, antiasmatici 140; e così via. E, nonostante gli spettri batterici sempre più larghi, antibiotici 1108, con la quale straordinaria varietà e i facili iperdosaggi la allopatia è riuscita, invece di sterilizzare il mondo, a far rinascere il cosiddetto «ospitalismo» cioè le gravi infezioni ospedaliere che deliziavano le corsie del ’700 e dell’800, allora per mancanza di antibatterici efficaci, oggi per la resistenza batterica agli antibiotici.

Oltretutto questo oceano di medicamenti non è statico ma soggetto a continue onde di marea: una quantità di prodotti nuovi si rovescia sulle rive, e quasi altrettanta ne defluisce e scompare in un continuo accelerato ricambio, che impedisce persino al medico di impadronirsi talvolta del nome e della corretta posologia di un prodotto, prima che venga sostituito da un altro più aggiornato. È poco noto che la vita media di un medicinale sta avvicinandosi a quella di ogni altro prodotto di consumo tecnologico: circa due-tre anni. Ma le royalties di ricerca (una volta offerte sull’1% per 20 anni) vanno ormai in tutto il mondo riducendosi a tempi ristretti (3-4% per 5 o 3 anni); il che significa che nemmeno gli inventori e i produttori di ogni nuova medicina-miracolo credono più a un inserimento duraturo nel mercato dei farmaci, nonostante gli altissimi costi della sua preparazione.

Siamo arrivati al punto che i medici si ribellano intimamente, con una sfiducia crescente nelle medicine che prescrivono, proporzionale alla loro sempre più spinta provvisorietà. Qualcuno ha il coraggio di farlo anche pubblicamente, come D. Moreschi, uno dei pochi medici italiani che soffre in proprio e per i colleghi le incongruenze e i danni sostanziali di questo sistema, del quale gli sfugge solo la identificazione illecita con «la» medicina. Ma persino l’industria dei farmaci sta avvertendo la tensione pre-esplosiva della struttura attuale: un ottimo farmaco di recentissima introduzione si presenta al medico (e non è il solo) con una domanda: «Perché una nuova cefalosporina?» La risposta – non polemica affatto – potrebbe essere: «ma perché non vi dedicate invece a un campo pochissimo sfruttato, di espansione non futura ma già attuale come quello delle malattie degenerative?».

Per questo settore di patologia infatti, che oggi costituisce oltre l’85% di quella totale, le vere medicine sono scarse e inefficaci. E per il campo neoplastico, con tutto il fracasso che lo accompagna, lo stesso volume 1973 ne registra solo 38, cioè lo 0,3% del totale! Sarebbe senz’altro accolto più favorevolmente – anche sul piano della fiducia medica e della conseguente resa finanziaria – un qualsiasi sforzo in questa direzione piuttosto che l’ampollosa presentazione di un 1-fenil-1-0-cloro-fenil-3-dimetilammino-propanolo-(1)-olo cloridrato del quale quindici «lavori clinici» offerti in estratto dal collaboratore scientifico hanno accertato le proprietà antitussigene (naturalmente al di fuori di ogni diagnosi).

La diagnosi è inutile. – Questo poi, della diagnosi (= conoscenza) è un tasto sempre meno suonato sulla tastiera della allopatia, esattamente come al tempo di Rabelais. Se ne documentano i riflessi persino nella propaganda dei farmaci, che per esempio promuove un antipiretico-analgesico con l’ineffabile slogan «…in attesa della diagnosi»; e un altro, a base di Vitamina B12 iperdosata, con «Artralgie… e se fosse implicato il nervo?» nell’offensiva ipotesi che tutti i medici abbiano dimenticato, o non facciano più, la semplicissima manovra clinica di Laségue o la compressione digitale sui punti di Valleix, che in un minuto e a costo nullo chiarisce l’«angoscioso» dilemma. O un antibiotico (uno dei più raffinati e costosi) definito «di primo impiego» (da usare prima della diagnosi in qualsiasi episodio acuto) perché «a spettro di sicurezza», cioè attivo sia sui batteri Gram-positivi sia su quelli Gram-negativi. Cosicché, se la febbre passa, nessuno saprà mai se era un tifo, un colera, o un ascesso dentario; con il che non solo la diagnosi, ma persino la profilassi individuale e sociale vanno a farsi benedire!

Un altro effetto paradossale in tema diagnostico si evidenzia nell’allopatia quanto più i suoi farmaci risultano efficaci. Fino al 1952 (isoniazide!) gli studenti di tisiologia dovevano studiare una serie di classificazioni diverse della tubercolosi (Sternberg, Bacmeister, Dumarest, Parodi, Neumann, Bard, Morelli e Spinedi, Costantini, Ronzoni, Omodei-Zorini, Huebschmann, Redeker, Micheli e Lupo…), considerato che ad ogni dettaglio anatomico della malattia (tbc dell’apice; nodulare; confluente; caseosa; produttiva; postprimaria; bronchiale; ulcero-fibrosa…) si faceva corrispondere una diversa tecnica di cura. Oggi la malattia guarisce quasi sempre solo con la somministrazione degli antibiotici antitubercolari, a dosaggio standardizzato per tutte le forme. Parallelamente sono scomparse in tutto il mondo le minuziose descrizioni clinico-radiologiche di un tempo, ed è ancora una sorpresa che persista la distinzione tra tbc polmonare ed extrapolmonare! Lo stesso processo è stato subito dalla sifilide dopo la penicillina; mentre il fatto che il reumatismo goda tuttora di decine di classificazioni e di centomila terapie;  dimostra che la «scienza» allopatica non sa ancora che cosa realmente sia.

L’abitudine (e l’insegnamento) allopatico alla compressione medicamentosa del sintomo ha provocato una gravissima confusione (terapeutica, didattica e gnoseologica, cioè scientifica) tra sintomo e malattia; se ne lamenta persino uno dei massimi responsabili dell’attuale corso sanitario italiano, il prof. A. Seppilli («Il Medico d’ltalia», giugno 1975), ma ne incolpa  erroneamente un altro sintomo («la società produttivistica») mentre si tratta di un vizio d’origine, legato alla radice allopatica dell’attuale medicina. Lo dimostra ad usura la definizione (!) della bronchite cronica raggiunta nel 1961 da un comitato di esperti patrocinato dall’Org. Mondiale di Sanità: «…è una malattia caratterizzata da un aumento cronico e recidivante della secrezione mucosa, sufficiente a provocare la espettorazione…».

Come prima conseguenza si registra l’esponenziale aumento di numero delle entità nosografiche, cioè delle malattie autonome (l’antica maledizione scatenata da Galeno!) il quale costringe gli studenti ad uno sforzo mnemonico impossibile e inutile, perché si tratta per lo più di combinazioni di sintomi, spesso rivelati solo dai mezzi sempre più sofisticati del laboratorio. Tali sono per esempio le attuali 18 malattie dismetaboliche ereditarie (dalla galattosemia alla fenilchetonuria, dalla intolleranza al fruttosio alla mucoviscidosi, dalla cistina e omocistinuria alla «malattia dello sciroppo d’acero»…). Tali ancora le malattie in continua espansione «correlate al mieloma multiplo», descritto nel 1850 da Mc Intyre come entità autonoma, ma «oggi – come scrivono Bartorelli ed Eridani – frantumato in tante varietà quante sono le classi di immunoglobuline sintetizzate dal tessuto midollare proliferante»; quindi, mielomi Ig G, o Ig A, o Ig D, o Ig E, o micromolecolari; macroglobulinemia di Waldenstroem (la malattia che ha ucciso il presidente francese Pompidou); disimmunoglobulinemie; plasmocitoma «gamma A» oppure «gamma G» e così via; distinguibili l’una dall’altra solo con le indagini immunoelettroforetiche, l’ultracentrifugazione, la gel-filtrazione su strato sottile, l’immunocromatografia!

A parte il marasma cerebrale degli studenti il guaio grosso è che, succube della confusione epistemologica, la scienza si ostina sempre più nell’analisi discriminante molecolare (che poi comunque ignora come curare) invece di ricercare, altrove che nelle cellule singole dove non ha trovato nulla, la causa unitaria di tutti questi sintomi correlati; cioè l’unica malattia che li provoca tutti! Come regola generale è rarissimo incontrare nella area di lavori clinici anche pregevoli il riflesso pratico del più basilare approccio epistemologico; quando accade è come una consolante sorpresa. Per esempio il clinico medico I. di Milano, E. Polli, ha esattamente segnalato (in un’acuta sintesi al 74° Congresso Italiano di Medicina Interna, Montecatini 1973) la natura sistemistica e sintomatica delle turbe dell’equilibrio acido-base nell’organismo.

Ma ad un colpo singolo, mirato con elegante precisione, l’allopatia risponde con i bombardamenti a tappeto dei suoi equivoci clinici. Dall’anno scorso si vanno moltiplicando, in tutto il mondo, simposi, convegni e corsi di aggiornamento sulla terapia dell’asma e delle sindromi asmatiformi; quasi che l’asma (maschile! = affanno, dal greco acr8[jia) sia una malattia e non invece il sintomo spastico sempre uguale, a livello dei bronchi, di molte diverse condizioni patologiche dell'organismo (infezioni e intossicazioni locali e generali, sensibilizzazioni varie, auto ed eteroallergie, uremia, isterismo... per citarne solo un pizzico). È stata forse scoperta una nuova panacea? Ahimè no. Soltanto, due anni fa, i beta2 adrenergici o saligeninamine che, meno pericolosi dei cortisonici, insidiano il ventennale dominio di questi ultimi. Perciò i loro produttori si affannano ad informare i medici sui favorevoli risultati (sintomatici!) del loro uso clinico. E, considerata la vita media probabile di ogni novità, non a torto. Infatti la seconda metà dei troppi convegni antiasma è promossa dal partito del cortisone che sta ora (1974) dimostrando nel medesimo modo la superiorità dell'associazione beta2 adrenergici + cortisonici nei confronti dei beta ecc. da soli (S. Valenti, Relazione al Simposio sul Beclometasone; Salsomaggiore, giugno 1974).

È del tutto certo che, entro i due anni prossimi, qualcuno sfornerà un'altra novità più attiva, e magari anche meno tossica. Ma al di là di questo vortice consumistico, nessuno si interessa di insegnare ai medici (lasciamo perdere gli studenti) come correlare ogni caso di asma (sintomo) alle sue diverse cause e, curando queste, guarirlo una volta per tutte. Cioè ad esprimere la vera diagnosi, invece di tradurre semplicemente in greco l'affanno del malato!

Promesse e realtà. - Di fronte a queste sconcertanti realtà interne, il sistema medico dominante riesce a presentare al mondo una facciata sempre più brillante, essenzialmente in grazia del suo ottimo servizio di pubbliche relazioni che provvede ogni tre giorni a darle una passata di intonaco fresco. Per esempio, se la medicina d'oggi fosse davvero onnipotente come si vanta, perché gli ospedali sono più affollati che mai nonostante, il loro moltiplicarsi rispetto al passato? Forse essa potrebbe difendersi accampando la famosa legge burocratica dell'americano Parkinson («il lavoro si moltiplica fino a riempire ogni nuova e più ampia struttura... »), ma siccome nessuno in ospedale ci va volentieri, questo cronico ingolfamento dei servizi superiori rivela crudamente l'incompetenza del sistema, che nonostante tutte le scoperte di un secolo non riesce più a curare la gente a livello del medico. Occorre anche riconoscere, allo stesso P.R.O., una superlativa abilità mistificatoria che riesce a trasformare in notizie edificanti persino la confessione di sconfitte amare. Tali per esempio l'uso crescente negli ospedali (già 1 su 5 in U.S.A.) di lenzuola, cuscini, federe, traverse, bende, guanti, camici «disposable» cioè da buttar via (e bruciare) dopo l'uso singolo; spacciato per progresso moderno è il ripiego necessario (e insufficiente) per limitare l'ospitalismo, cioè le infezioni ospedaliere resistenti a tutti gli antibiotici. O l'ingegnoso sacco chirurgico del prof. Monesi, presentato al congresso naz. di ortopedia, Roma, settembre 1973, che gonfiato con gas inerte e sterile isola dall'ambiente - salvo la ferita operatoria - tanto il chirurgo quanto il paziente, al fine di ridurre il rischio delle infezioni postoperatorie.

Sennonché - indagate nel loro significato - queste utili innovazioni tecniche si rivelano, dopo 35 anni di era antibiotica, altrettante vittorie di Pirro; invece di stimolare la ricerca di sempre nuovi antibatterici (che poi seguono la legge universale del sinusoide smorzato) esse dovrebbero costringere il sistema allopatico al riconoscimento del suo errore concettuale originario. Al contrario la sua dittatura si fa ogni giorno più coercitiva, cosicché nulla che non si conformi alla linea ufficiale ha diritto di cittadinanza, di confronto, d'informazione. Ne sa qualcosa il prof. Di Bella, cattedratico di fisiologia a Modena, colpevole di aver proposto un metodo di cura della leucemia basato non sull'uso di radiazioni o veleni nucleari a dosi letali nel sano, ma invece su una ipotesi patogenetica unitaria dell'affezione (stimolazione riequilibrante di un centro di controllo cerebrale delle cellule ematiche) contraria all'imperante sistema allopatico, per il quale tuttavia la leucemia resta un insoluto mistero. Per questa «ragione» Di Bella viene confinato tra i suoi studenti e nei suoi laboratori, e la sua presenza ai congressi è, a dir poco, non gradita.

Ma insomma l'allopatia, che riserva repressivamente a se stessa l'esclusivo monopolio della verità, quali nuove speranze sa offrire alle attese messianiche del mondo dei malati? Di certo, dopo il faticato ingresso in qualsiasi ospedale del mondo, una settimana almeno di fastidi e tormenti, a base di prelievi, esami, visite specialistiche, digiuno, manovre endoscopiche e così via. R. Dochez, durante l'allocuzione presidenziale al congresso di Medicina interna di Miami (Florida 1964), aveva già presentato, per documentare le trasformazioni della medicina, le cartelle cliniche di due casi analoghi, ricoverati nel medesimo ospedale nel 1908 e 1938. La prima consisteva di due pagine e mezzo, con osservazioni fatte da due clinici (assistente di accettazione e primario) e un patologo-batteriologo. La seconda era un fascicolo di 29 pagine, con osservazioni del medico di accettazione, 7 medici interni, 10 specialisti, 14 tecnici. Degenza del primo caso 9 giorni, del secondo 21. Fin qui Dochez; ma tutti sappiamo che oggi, ad altri 37 anni di distanza, le cose sono almeno raddoppiate, e diventate ancora più complicate.

Ne potrebbe essere diversamente, pensando che dove si praticava soltanto (e spesso era insufficiente) la palpazione epigastrica per mano del primario, oggi si attuano, nel sospetto di tumore pancreatico, le radiografie del digerente, la angiografia specifica, la visualizzazione retrograda radiologica del dotto pancreatico, l'endoscopia a fibre fin nel dotto medesimo, la scintigrafia, la sonografia, l'ecografia... e magari, come capita spesso, non l'esame palpatorio ormai declassato; con il bel risultato che con tutte queste diavolerie «è tuttora impossibile accertarne precocemente l'insorgenza» (Barthelheimer, 1972). Come ulteriore progresso si propone un nuovo metodo scintigrafico computerizzato, il costo delle cui attrezzature è di oltre 820 milioni di lire (al cambio attuale del marco), e di oltre 62.000 lire per i soli isotopi da consumare in ogni singolo esame (Hundeshagen, al 27° Congresso della Soc. Tedesca per lo Studio dell'Apparato Digerente e Ricambio; Frankfurt am Main, ottobre 1972). Molto probabilmente, con le medesime insufficienze  attuali.

Gli alibi della incompetenza. - Questo della tecnologia sempre più spinta, fino ad essere inattuabile per gli insostenibili costi di istituzione e d'uso, rivela la sua mistificatoria natura di alibi («è giustificabile che non possiamo raggiungere la diagnosi: l'amministrazione non ci ha ancora comperato la luna»... e poi sarà certamente Marte, e Saturno, e la Crabnebula!). E se di colpo questi troppo raffinati sussidi tecnici mancassero, che cosa accadrebbe? Per questo la possibilità di una crisi (anche solo energetica) del mondo fa tanto spavento; in altri campi ci sarebbe la sincope di ogni servizio con un enorme aumento della morbilità generale. Ma in quello sanitario, oltretutto gravato di un sovraccarico multiplo, l'indisponibilità tecnologica provocherebbe una epidemia di decessi peggiore di quelle infettive del Medioevo, perché priva, alla lunga, della naturale autoimmunizzazione biologica!

Nel frattempo invece -  costi esagerati per tutte le comunità umane - le amministrazioni purtroppo la comprano, «la Luna», sia pure per considerazioni «politiche» e di «prestigio», come dimostrano le inaugurazioni a base di ministri del collegio elettorale locale.

L'occasione serve egregiamente al P.R.O. (Public Relations Office) medico per un battage giornalistico assai utile in tempi nei quali la salute è diventata un'istanza politica di primo piano; ma poi accade che in tutto il mondo i reparti automatizzati e computerizzati dimostrino tempi diagnostici e degenziali superiori a quelli non assistiti elettronicamente, e ad un costo notevolmente più elevato. Nello stesso alibi si inscrivono l'illusione degli A.M.H.T. (i centri multifasici di salute), le bombe al cobalto di una quindicina di anni fa per la «cura» del cancro, e i miliardi di attrezzature radiologiche e di laboratorio acquistati dalla Cassa del Mezzogiorno per gli ospedali del Sud, lasciati a marcire in cantina per inesistenza del personale tecnico in grado di usarle.

Tra le promesse che è in grado di mantenere, l'allopatia registra un flusso continuo di innovazioni tecniche in tutti i campi che, per la connaturata ambivalenza del sistema, appaiono o benefiche (come i pace-makers cardiaci che consentono la vita normale ai pazienti con blocco cardiaco totale, destinati prima del 1960 a morire; la cui carica con capsule atomiche potrà durare, prima della sostituzione, dai 15 ai 25 anni; oggi portati da più di 30.000 pazienti nella sola Germania Federale [Hinz, 1974]) oppure malefiche. Come l’obbligatoria e illibertaria analisi della personalità, attuata negli aspiranti a posti direttivi industriali, attraverso lo studio dei ritmi alfa nell’Elettro-encefalo-gramma, dal gruppo del neurologo R. Cooper, all’Università di Bristol (Inghilterra). O infine praticamente irrealizzabili e inutili, come la videodensitometria del cuore, cioè la cine o videoradiografia del cuore, perfuso attraverso un catetere con sostanze radioopache, che permetterebbe di «coglierne le variazioni spaziali». Ma «l’esame è attuabile solo con l’impiego di un calcolatore» (!) e i dati ottenibili, a un costo di decine di milioni di volte superiore alla delimitazione percussoria dell’aia cardiaca durante la semplice visita medica, «hanno attualmente lo stesso valore dei procedimenti convenzionali» (Heintzen e Loogen, 1974).

Un superamento così incredibile di ogni limite critico, possibile solo perché legato all’eresia olistica della medicina d’oggi, potenziata sul piano metafisico dallo strutturalismo («il fare per il fare») e su quello pratico dalle quasi illimitate possibilità della tecnologia, documenta l’esigenza ormai improrogabile della revisione critica del metodo attualmente imperante, cioè quello allopatico, e il ricorso ad una valida alternativa.

D’altronde, se l’urgenza di questa necessita non verrà recepita e attuata, è ormai vicino il tempo nel quale il sistema allopatico crollerà sotto il suo stesso immane e inutile peso, ancora peggiorato dall’illusione della medicina preventiva, di obbedienza allopatica (deus ex-machina di tutti gli sprovveduti pianificatori sanitari) che appare invece una delle più formidabili forze dirompenti della presente struttura sociale del mondo. Al riconoscimento della sua inflazionistica inutilità, e alla sua stessa pratica impossibilità, farà immediatamente seguito la rivoluzione popolare, probabilmente cruenta anche se a motivazione sanitaria.

Ma perché perdere colposamente l’aiuto della vera medicina, nel momento nel quale essa ci servirebbe di più, considerato che il progresso e la civiltà stanno avvicinando la comunità umana alla più grave crisi di sopravvivenza della sua intera storia?

Capitolo V – Uomo e progresso: la violenza all’ambiente 

C’è voluta tutta l’autorità di R. H. Dreisbach, farmacologo alla Stanford University, per rendere credibile il rilievo che le semplici perdite di olio delle automobili convogliate dalle fogne al mare (20 gocce al giorno per ciascuna, ma per un totale di oltre 1800 tonnellate l’anno nell’area di Los Angeles) riescono a coprire con una pellicola oleosa le acque della baia, a impedirne la corretta ossigenazione e a ridurne la pescosità. Quasi nessuno credette quindici anni fa a Barry Commoner quando indicò la causa della morte del lago Erie, in U.S.A., negli scarichi industriali acidi, che vi uccisero ogni forma vitale, salvo i vermi del fango e una carpa mutante, mitridatizzatasi ai veleni (ma immangiabile).

È spaventosamente vero che il pellicano bruno, l’uccello araldico della Louisiana, è stato sterminato dal DDT; che il fegato delle foche antartiche rivela tracce di pesticidi, usati mai più vicino di 4.000 chilometri; che Thor Heyerdahl, navigando nell’Atlantico sulla sua barca di papiro, ha incontrato mille miglia lontano dalle rotte commerciali bottiglie di plastica e macchie d’olio; che l’obelisco di Cleopatra, trasportato dall’Egitto a New York nel 1881, si è rovinato undici volte di più negli ultimi 90 anni che nei suoi primi 3000; infine che le mammelle delle donne americane «erogano» ai lattanti latte inquinato da DDT in concentrazioni da 2 a 6 volte superiori a quelle massime ammesse dal FDA per il consumo umano!

Da ricerca medico-sociale a istanza politica. – Gli inquinamenti dell’ambiente vitale, almeno relativi all’uomo, sono materia istituzionale della medicina sociale, che per anni è stata la sola a parlarne tra l’indifferenza e peggio di tutti gli interessati. Occorreva l’accusa portata a un bene di enorme consumo sociale e psicosessuale quale l’automobile perché la gente si svegliasse. Così ormai non stupisce che il presidente Nixon, nel rapporto sullo «Stato dell’Unione» per il 1970, ne abbia dedicato per la prima volta nella storia politica la  maggior parte all’ambiente e a come risanarlo, per migliorare  «la qualità della vita». Sotto la spinta dell’opinione pubblica le spese federali U.S.A. per il controllo degli inquinamenti sono salite in sedici anni (dal 1956) da 8 a 1600 milioni di dollari all’anno. II fatto è che ormai, sotto la valanga di documenti sempre peggiori, «l’ecologia (come dichiarano alcuni teorici americani della politica) è l’istanza più deteriorabile del secolo. Stiamo cercandole un nome nuovo, per mantenere vivo il concetto dopo che se ne sia parlato fino alla nausea. Pensiamo di chiamarla, semplicemente, politica».

L’ecologia (dal greco oi.xo; = casa, per traslato ambiente) è vecchia di millenni, e se ne interessarono già Platone e Aristotele. Ma solo nell’800 con Darwin prese piena coscienza di sé, e da allora avverte la comunità umana che «il tutto non coincide con la semplice somma delle singole parti, così come una foresta è ben più che un insieme di alberi». Negli ultimi anni l’ecologia è esplosa, per effetto delle colpe millenarie dell’uomo verso il suo ambiente, in un fenomeno pratico, vitale e politico. Il suo concetto di base è quello del «sistema ecologico», definite come «la somma complessiva di tutte le componenti vive e non vive che sostengono la catena della vita in una area determinata». Ecco l’esempio: a) componenti non vitali: irradiazione solare, acqua, ossigeno, anidride carbonica, composti organici e inorganici per lo sviluppo della flora; b) la flora: dal fitoplancton oceanico all’erba agli alberi, che attraverso la fotosintesi trasformano l’acqua e l’anidride carbonica nei carboidrati; c) i consumatori: gli organismi superiori che si nutrono di b cioè gli erbivori, e i carnivori che si nutrono di questi ultimi; d) i decompositori: insetti, funghi, batteri che chiudono il ciclo, nutrendosi delle sostanze organiche morte o di rifiuto, e rimineralizzandole per la riutilizzazione ciclica. Le conseguenze teoriche e pratiche della ricerca per ecosistemi sono infinite, e tutte importantissime per la sopravvivenza dell’uomo sulla terra. E per inciso anche del pellicano bruno, o dei rapaci, dei quali si premiava l’uccisione, finché si è scoperto che la loro riduzione ha prodotto l’invasione attuale delle vipere e dei topi; e persino del polipo, del quale si sta scoprendo l’utilità e la notevole intelligenza.

La biosfera, cioè la fascia terrestre dove la vita è nata spontaneamente, ha uno spessore di meno di 300 metri (da 150 m sotto il livello del mare a 150 m sopra il terreno) cioè, rapportata all’intero volume del globo, risulta assai più sottile di uno strato di vernice su un pallone aerostatico! E ancora il 70% dell’ossigeno della biosfera è prodotto dal fitoplancton oceanico (quello soffocato dalle 20 gocce di perdita d’olio giornaliera dalle auto di Los Angeles) e solo se la biosfera persiste nell’equilibrio raggiunto 5.000.000 di anni fa (e che oggi è in pericolo di perdere) l’uomo può continuare a viverci. Né si vede come l’equilibrio possa essere riottenuto in breve, una volta perduto l’humus coltivabile, dal quale dipende il nostro alimento, è prodotto dalla riciclizzazione dei rifiuti; ma per ottenerne pochi centimetri di spessore occorre il lavoro di una popolazione abbondante locale di lombrichi per 500 anni. E chi l’avrebbe mai detto che, per mantenere in buona salute una foresta di abeti, vi occorre una popolazione stanziale di ragni e ragnetti tra 50 e 150 unità per metro quadro?

Sul fronte unico dell’ecosistema terrestre confluiscono l’esperienza e l’opera di pochi uomini di scienza di tipo nuovo, capaci di integrare in una visione moderna ma soprattutto unitaria, squisitamente medico-sociale, i differenti elementi necessari alla verità del quadro complessivo, raccolti dalla loro esperienza di microbiologi (come R. Dubos e B. Commoner), naturalisti (come Broley e Bresler), zoologi (come K. Watt), biologi (La Mont Cole) o infine di ecologi istituzionali (come E. P. Odum). All’inizio (solo quindici-venti anni fa) la loro violenta uscita dal chiuso dei laboratori per agitare il problema di fronte a decine di milioni di profani provocò addirittura scandalo. Ma al di là del merito specifico, diversi studiosi di ecologia si pongono oggi un quesito strettamente motivazionale e metafisico: perché l’uomo tratta così male il suo ambiente vitale? Probabilmente perché mitizza eccessivamente il ruolo di signore della natura attribuitogli esplicitamente dalla tradizione giudaico-cristiana (Lynn, 1967), cosicché il cammino della civiltà ha sempre assomigliato a una lotta dell’uomo contro la natura, invece che a una fruttuosa e mutua collaborazione. Finché i mezzi dell’uomo erano limitati, il suo comportamento prepotente non è riuscito a fare troppi danni. Oggi la strapotenza tecnica sta portando al disastro, insieme, tanto la natura quanto l’uomo.

L’inquinamento dell’ambiente. – I documenti parlano chiaro. Ricordando l’esiguo spessore della biosfera, e le quantità della stessa aria che occorrono all’umanità per restare in vita, non si può che spaventarsi. Ogni uomo consuma ogni giorno, respirando, 14 kg di aria. Ma per bruciare un litro di benzina ne occorrono 16,5 kg, e per un kg di metano addirittura 18. E almeno fosse aria pulita! Ma i valori attuali hanno superato ogni limite di tollerabilità, con l’immissione annua nella biosfera di oltre 142 milioni di tonnellate l’anno di CO2, idrocarburi e ossidi di azoto, per i soli U.S.A. (86 milioni dalle auto, 23 milioni dall’industria, 28 milioni dal riscaldamento, 5 milioni dagli incineratori). Così nascono lo smog (smoke plus fog) e i suoi disastri.

Oggi sappiamo molto sullo smog (salvo come non produrlo!); per esempio che la ricetta per ottenerne uno veramente fuori classe è la forte irradiazione solare (naturalmente abbinata ai gas velenosi di scarico). Per questa semplice ragione, lo smog più celebre e persistente non è quello di Londra (oltretutto ormai quasi scomparso per i provvedimenti antinquinanti) ma quello di Los Angeles, dove infelicemente convivono 4 milioni di automobili e il famoso clima (oltre 300 giorni annui di sole) che aveva fatto scegliere il luogo (Hollywood) dal cinema, nell’epoca che i parchi lampade erano ancora sconosciuti. Le proporzioni cosmiche del fenomeno sono documentate da un brano di colloquio tra gli astronauti dell’Apollo 10 (26 maggio 1969) e la base di Houston, al rientro. Da oltre 40.000 chilometri nello spazio: «Abbiamo individuato Los Angeles!» «Come avete fatto?» «Dalla macchia di sporco giallastro nell’universale candore delle nubi!».

Nel Medioevo in Europa (la parte più civile del mondo) e fino al tardo ’700, la gente usava come fogne aperte gli scoli centrali delle vie. Dilavate dalla pioggia, queste materie organiche finivano nei fiumi piccoli o grandi, che non ne venivano neppure lontanamente alterate. Fino a pochi decenni fa, nonostante l’aumento gigantesco della popolazione (1 miliardo nel 1850, 2 miliardi nel 1930, 3,7 miliardi oggi) e la crescente concentrazione organica nelle acque di fogna, veniva insegnato in igiene che il potere depuratore spontaneo delle acque correnti era tale da risultare bevibili a 1-2 km a valle degli scarichi. Poi, è stato il boom tecnologico. E oggi la sola area di Chicago scarica giornalmente nel lago Michigan 5 miliardi di litri di acque industriali, inquinate da 315.000 kg di solidi sospesi, 450.000 kg di petrolio e 73.000 kg di prodotti ferrosi. Nel suo complesso l’industria U.S.A. produce (oltre ai pubblicizzati beni di consumo) anche 262 miliardi di tonn./anno di soli rifiuti solidi, sui quali si stende un conveniente silenzio. Ciò tuttavia non impedisce che l’Houston Ship Channel, un canale di 57 miglia tra il porto di Houston e la baia di Galveston nel golfo del Messico «sia praticamente riempito non di acqua ma di soli scarichi industriali».

Nel libro di Isaia, tra i segni premonitori della fine del mondo, è detto – come cosa impossibile e arcana – «e i fiumi scorreranno rossi come sangue». Ci siamo già. Per fortuna è certo che, al pari del suo inizio, anche la fine del mondo è lunga. Chissà se questo ci consentirà di invertirne la marcia.

Nonostante la sua alterigia di specie, l’uomo è purtroppo un animale sporco: basta aggirarsi sulla sede di un accampamento appena tolto per convincersene. Ma la massa predominante dei rifiuti, un tempo, era costituita da materiali organici che in poche settimane i «decompositori» rimineralizzavano, a beneficio della flora locale e degli animali che vi trovavano la pastura. Oggi finiscono nel terreno, direttamente o attraverso le acque, quantità estremamente alte di inquinanti velenosi, da lavorazioni industriali o da attività casalinghe, o da procedimenti di lotta antiparassitaria per i quali i decompositori non sono in grado di adempiere il loro compito specifico nel sistema ecologico.

Tutta la ricerca della R. Carson (Primavera silenziosa, 1962) sulla follia collettiva dei pesticidi e sui loro risultati è un documento pauroso. Più interessante delle cifre globali, è però il meccanismo di impreparazione biologica dei decompositori a causa della quale i pesticidi stanno avvelenando l’umanità. DDT, paratione, dieldrina, clordano e simili sono dotati di tossicità straordinaria, ma perfettamente nota. Perciò ai dosaggi consigliati per la disinfestazione di base (per esempio dell’anofele malarico, per spruzzatura superficiale di petrolio al DDT) non si può fare alcun appunto. E il loro scopo immediato, cioè la scomparsa della malaria in molte aree europee ed africane, è stato raggiunto dopo millenni di insuccessi. Ma che succede al DDT, immesso nell’ecosistema? Questo tutti lo ignoravano, ed è invece il lato più sinistro dell’intera faccenda. Con dosi di 0,5 p.p.m. (parti per milione) neppure il fitoplancton muore. Ma nei pesci erbivori che se ne nutrono sono stati rilevati tassi di 2-4 p.p.m., nei pesci più grossi di 25-50 p.p.m., in quelli voracissimi ed esclusivamente carnivori fino a 2500 p.p.m.! Ricordando che la dose tossica (sulle surrenali, sui testicoli, sul fegato) può scendere fino a 3-5 p.p.m., che fine farà il pescatore felice delle sue prede, se le porta a casa per la frittura?

La povera Carson, morta prematuramente anche per la valanga di calunnie, di denunce e di stroncature personali a seguito della sua ricerca (la solita sorte dei martiri della scienza), non solo aveva visto giusto, ma persino ancora in modo settoriale.

Per esempio per rompere un ecosistema non è neppure necessario ricorrere ai veleni: bastano i detersivi moderni, usati in tutte le case del mondo a miliardi di tonnellate l’anno. In Lombardia le acque nere (di fogna) costruirono per secoli, a sud della città, il miracolo biologico delle marcite con i loro cinque-sei tagli di erba l’anno, persino durante i più rigidi inverni del settentrione. Ciò era dovuto alla temperatura dell’acqua, mantenuta alta dai processi di putrefazione dei detriti organici; su questo «risvolto» biologico nacque e si mantenne per secoli l’economia del latte-burro e dei casoni lombardi. Inoltre la rete di marcite serviva allo smaltimento perfetto dei rifiuti, che, mineralizzati dai fanghi batterici naturali, consentivano all’acqua del canalino effluente, dopo la filtrazione sulla «schiena», di essere addirittura potabile. Per i materiali organici il sistema funziona anche oggi; ma non per le molecole neonate dei detersivi. Per questo le acque effluenti li contengono in quantità pressappoco invariate e si formano ad ogni minimo salto d’acqua quelle montagne di schiuma che soffocano le acque, le erbe e i pesci delle rogge. Probabilmente, se potessimo dargli il tempo sufficiente, i batteri e i lombrichi imparerebbero a digerire anche le nuove molecole. Ma per questo vorrebbero qualche milione di anni; tempo cosmico brevissimo ma troppo lungo per noi, che forse siamo agli ultimi granelli della clessidra.

E ancora, la radioattività artificiale, costruita dall’uomo con la sua tecnica, dopo che Maria Curie riuscì ad estrarre mezzo milligrammo di sale di radium da oltre una tonnellata di scorie di pechblenda. La sua grande paura, esplosa insieme alle bombe atomiche «sporche» tipo A con il famoso fall-out, cioè la ricaduta con i venti, con le piogge e con la neve (quindi con le sorgenti delle sorgenti) delle ceneri radioattive, sembra essersi negli anni più recenti sopita. Non se ne parla quasi più, e la gente sembra accontentarsi delle atomiche «pulite». Ma il pericolo invece ingigantisce ogni giorno, con l’uso progressivo dell’«atomo pacifico», cioè essenzialmente delle centrali elettronucleari. II problema della eliminazione dei loro rifiuti radioattivi è immenso, e già oggi di entità tale che solo quelli immagazzinati negli U.S.A. (280.000 metri cubi, in 200 serbatoi) sarebbero sufficienti, secondo Sheldon Novick, ad avvelenare tutte le acque della Terra. II loro controllo non è poi tanto sicuro quanto la gente crede; ogni tanto qualche contenitore perde o qualche sistema di eliminazione si ingorga. E sono guai. L’ultimo in ordine di tempo è stato a Los Alamos il 14 settembre 1974, dove diversi quintali di isotopi di plutonio (a radioattività ormai bassa) sono usciti da un tombino all’incrocio delle due strade principali (la Diamond Drive e la Pajarito Road) fortunatamente di notte, costringendo le squadre di sicurezza all’isolamento della zona fino alla totale decontaminazione.

Un altro insidioso derivato della stessa tecnologia è l’inquinamento da calore, cioè l’innalzamento di temperatura dei fiumi o laghi nei quali si scaricano le acque di refrigerazione degli impianti nucleari, con conseguente turbamento del loro equilibrio biologico. Anche questo è di tale importanza da aver consigliato un grosso rallentamento dei programmi di sviluppo elettronucleare, in attesa che esso possa essere risolto in modo migliore dell’attuale, con minore interferenza dannosa sul sistema dell’acqua, perché anche questa ormai diventa scarsa. È stato calcolato che, al tasso attuale di sviluppo, la sola società industriale U.S.A. consumerebbe annualmente, intorno al 2000, quasi meta dell’acqua del mondo.

Ci tradisce persino il suolo, da millenni proverbiale come il possesso umano più sicuro e meno deperibile; ma solo perché stiamo comportandoci con lui come il folle della favola che, seduto sul ramo, lo sega. Infatti, a causa dell’affollamento e dell’edilizia senza rispetto, dello sfruttamento intensivo delle colture e del disboscamento, la FAO calcola che ormai «in più della metà della superficie terrestre irrigata l’erosione asporta e dilava un centimetro di crosta terrestre ogni tre anni». E anche laddove l’erosione non è immediatamente percepibile, la nostra universale aggressione alla natura ci ha rubato un bene estetico, non misurabile in ettari ne in moneta, ma addirittura senza prezzo per l’equilibrio e la pace dello spirito. Questo bene è il paesaggio, del quale William Cobbett, deputato per il Surrey al Parlamento inglese, profetizzava già alla fine del ’700 la «distruzione, a seguito della rivoluzione industriale». A quelli che rifiutano il valore dell’estetica come elemento di benessere sociale, ricordiamo il diminuito richiamo turistico verso i luoghi un tempo celebrati per la loro bellezza (con relativo calo di valuta pregiata). Non vi è mai accaduto di accompagnare dei figli in qualche meraviglia paesistica illustrata dalle guide, e a voi nota un ventennio prima? Mentre i giovani si estasiano ancora, voi che la ricordate com’era siete assaliti da una scorante frustrazione, e vorreste non esserci mai ritornati. Quel «sapore» è per le nuove generazioni ormai perduto, come quelli del pane casareccio, del latte, dell’olio, dell’acqua, dell’aria «di una volta» ogni giorno che passa li rende più dimenticati e più incredibili.

Qualcuno sostiene che queste siano cose non mediche? Non siamo affatto d’accordo. Infatti la progressiva degradazione di ogni sistema del nostro ambiente vitale, complicata dal fatto tragico che essi degenerano tutti insieme senza alcun compenso elastico, si è già riflessa pesantemente sulla situazione economico-sanitaria della comunità umana. Il progresso sta ormai imponendo all’uomo un fardello sempre più oneroso di nuove malattie organiche e psichiche, contro le quali la presuntuosa terapia allopatica del sintomo è quasi impotente, e che probabilmente saranno la causa principale, senza alcuna speranza di antidoto, dell’inutile suicidio dell’umanità. Nel prossimo capitolo cominceremo ad accennare ad alcune delle più semplici tra esse.

Capitolo VI – Le malattie esterne da progresso 

Uno dei fattori più misconosciuti che hanno costretto per millenni le società umane al nomadismo è stato probabilmente la mancanza di fogne. Dove furono inventate (come a Mohenjo-daro in India, cinquemila anni fa) poté fiorire la civiltà urbana; altrove qualsiasi concentrazione di uomini e di animali diventava, alla lunga, pericolosa e inabitabile. Il problema igienico deve essere stato molto grave, visto che ha lasciato traccia addirittura in quella storiografia arcaica dell’umanità che è la mitologia. La sesta fatica di Ercole è infatti la pulizia delle stalle di Augia, re dell’Elide e figlio del Sole, ottenuta dall’eroe con la troppo radicale deviazione dei fiumi Alfeo e Peneo, che spazzarono via, insieme all’immenso letame, anche le stalle «che ammorbavano il mondo». In mancanza di ercoli, la soluzione era l’abbandono di una sede residenziale «non più gradita agli dei» visto l’aumento delle malattie (infettive e da sudiciume) per traslocare in un’altra, nella illimitata verginità della terra.

Se fosse una tribù nomade oggi l’umanità dovrebbe traslocare, visto che l’inquinamento della sua sede residenziale ha superato il livello di guardia. Ma dove, se tutto il pianeta è infetto, e il volo interplanetario ancora di là da venire? Cosicché è costretta a rimanerci contro ogni regola di prevenzione primaria, subendo una serie di malattie difficili da curare, e ancor più da evitare.

La patologia esogena da civiltà. – Tra esse si contano quelle causate dalla radioattività artificiale, dal traffico e dai suoi gas, dal rumore, dagli avvelenamenti chimici e fisici dell’ambiente, dell’acqua, degli alimenti; persino dalle molecole industriali e medicamentose ogni anno inventate per il suo benessere e per la dichiarata difesa della sua salute. Soprattutto al riguardo delle prime, è ormai nota una larga documentazione; questo ci esime dal ripeterla, lasciando invece spazio ad alcune notazioni critiche fin qui non ascoltate. Per esempio, è scoraggiante che ad essa non siano seguiti efficaci provvedimenti da parte dei politici di ogni paese; colpa tuttavia condivisa dall’attuale sistema medico, che si affanna a curare i nuovi mali ma non sa imporre l’abolizione sociale delle loro cause.

Radioattività artificiale. Negli anni ’50, cioè quando diverse nazioni, oltre gli U.S.A., compivano esperimenti atomici, gli scienziati raccolsero una quantità di notizie terrificanti sul cosiddetto fall-out, cioè sulla ricaduta delle scorie radioattive (particolarmente iodio 131, stronzio 90 e cesio 137) e sulla loro distribuzione mondiale. Dalla catena di stazioni di analisi istituite quasi dovunque (solo in Italia 95 entro il 1960) si accertò che i prodotti di fissione nucleare scatenati per esempio in Nevada o nell’Uzbekistan venivano immessi nelle correnti tropo e stratosferiche e ricadevano entro tre-quattro settimane su tutta la superficie terrestre. Una vera tempesta di indignazione provocò la notizia (B. Commoner) che lo stronzio 90, immesso nella catena alimentare umana col pascolo dei bovini sull’erba contaminata dal fall-out, si concentrava nel latte, perciò nel burro e nei formaggi; e il Cesio 137 nelle carni, ossa e cartilagini. A seguito di una violenta campagna di stampa guidata dal prof. L. Pauling, premio Nobel per la chimica nel 1954, e potenziata da motivazioni politiche, si giunse alla tregua atomica nel 1961 successivamente infranta solo dalla Francia, dalla Cina e dall’India.

Sul piano psicosociale la ribellione antiatomica ha conseguito un risultato notevole, dimostrando che l’opinione pubblica può ancora opporsi, se raggiunge in qualsiasi modo l’unanimità, agli interessi anticomunitari di gruppi ristretti ancorché dominanti (questa considerazione, sebbene discutibile nel fatto, fece attribuire a Pauling, stavolta per la pace, un secondo e contrastato Nobel nel 1962, nonché il «Lenin» sovietico nel 1970). Ma sul piano medico-sociale, che è quello fondamentale per la sopravvivenza, il bando atomico ha davvero evitato all’umanità il pericolo nucleare? Una corretta analisi è costretta a negarlo.

Le previsioni di Pauling, secondo il quale «dalle esplosioni atomiche fino al 1961 sarebbero derivati col trascorrere degli anni 100.000 decessi, due milioni di casi di morte embrionale e 20 mila neonati deficienti» si sono rivelate illecite sul piano sperimentale. Il prof. H. Kato, in un rapporto ufficiale della A.B.C.C. (Atomic Bomb Casualty Commission) relativo ad Hiroshima e Nagasaki, dove un totale di quasi due milioni di persone soggiacquero alla atomizzazione, non ha rilevato nei successivi 21 anni le tragedie preconizzate. Ma passando dall’atomizzazione acuta di guerra a quella pacifica d’ogni giorno, il fatto è che, secondo il fisico L. S. Taylor, capo del Radiation Physics del National Bureau of Standards, U.S.A., le radiazioni assorbite dall’organismo umano provengono per un 50% dagli esami radiologici, per il 40% dalla radioattività naturale (suolo, raggi cosmici, potassio radioattivo endoorganico), e solo per il 2,5% globalmente dagli schermi televisivi, dai comuni oggetti fosforescenti, dagli impianti nucleari e dal fall-out. A chi accusi Taylor di fornire percentuali interessate, non resta che scorrere la documentazione medica che si moltiplica da quindici anni sui pericoli delle radiazioni in medicina.

Robinson e Master, in U.S.A., nella stessa epoca del rumore antiatomico (1960), avevano segnalato su 166 pazienti che un precedente trattamento radiante di affezioni benigne (verruche, dermatiti, angiomi, acne…) le aveva cancerizzate nel 29,5% dei casi a distanza media di 15 anni. In Inghilterra anche Golden e Cade dimostrarono che la irradiazione terapeutica delle adeniti tubercolari e della tiroide favorisce, con latenza da 10 a 30 anni, l’insorgenza locale di ca. spinocellulari. E per quanto riguarda il carcinoma tiroideo, il più recente trattato di oncologia clinica (Bucalossi e Veronesi, 1973) registra almeno una quarantina di autori che, dopo Duffy e Fitzgerald, hanno statisticamente accertato, in migliaia di casi, l’influenza determinante della «terapia radiante» praticata per ipertrofia timica o tonsillare nei primi anni di vita. Citiamo infine i due rapporti (1956 e 1960) del Medical Research Council inglese, che su oltre 13.000 pazienti affetti da spondilite anchilosante e trattati, fra quindici e sei anni prima, con cicli curativi di raggi X, hanno rivelato una incidenza di leucemie 10 volte superiore a quella media inglese.

Queste sono certezze statistiche ed autoptiche, non canard pubblicitari; eppure attendono ancora il loro Pauling che riesca a commuovere l’opinione del mondo, sull’onda dei mass media agitata da una convergenza politica contingente. Qualcosa comincia adagio a cambiare ma in modo incongruo e quasi paradossale: i dermatologi si sono spaventati e non irradiano più verruche, ma gli ortopedici no, e continuano a irradiare colonne; si ripetono con minor frequenza le schermografie di massa negli scolari (quasi innocue, corrispondendo la loro singola dose di radiazioni a meno di 1/80 di quelle assorbite in una sola indagine standard del rene); di queste ultime invece nessuna traccia di riduzione numerica, ma al contrario in tutto il mondo un esponenziale aumento, al pari di ogni altro esame radiologico. Il problema dunque resta intatto, e si esprime in termini non equivoci: ammesso volentieri che la scoperta della radioattività artificiale (Becquerel, Roentgen, Curie e Curie) ha salvato in 70 anni milioni di vite, è davvero indispensabile che la sua diffusione universale, abbinata a una acritica e inutile concessione alla moda, finisca oggi per ucciderne altrettante o ancora di più?

Sempre intorno agli anni ’50 si sono versati fiumi di inchiostro su un altro flagello dell’umanità civile, cioè la patologia da traffico (per lo più automobilistico). Le cifre sbandierate erano tali da terrorizzare la comunità: «… negli Stati Uniti avviene una disgrazia stradale ogni 3 secondi, con 1 morto e 25 feriti ogni 10 minuti; …dal 1900 al 1958 i morti da traffico sono stati 1.250.000, i morti in tutte le guerre dello stesso periodo solo 605.000…». Tutto vero; ma una fredda analisi delle cifre dimostra soltanto che le guerre godono ormai a torto del millantato credito millenario di flagelli decimatori dell’umanità (e infatti non riescono a controllare l’eccesso di popolazione…).

Nonostante tutto, l’interesse esagerato proiettato sull’argomento ha avuto alcuni effetti benefici: tra gli altri lo studio dell’auto sicura, e soprattutto una fornitura finalmente razionale dei mezzi e delle tecniche del pronto soccorso responsabile, se mal condotto, di circa la metà (Damia) delle morti cosiddette da traffico. Ma non è riuscito ad evidenziare nel fenomeno alcune componenti (orientate sull’uomo e quindi fatalmente trascurate dalla medicina presente) che condizionano la sua trasformazione da un mezzo di libertà umana, di evasione e di relax (che identifica uno dei richiami inconsci dell’auto), in uno strumento di tortura psicofisica e di frustrazione (la fuga domenicale verso il prato verde e silenzioso, pagate con 2+2 ore di coda autostradale…); con i relativi riflessi dannosi sulla morbilità psicosomatica delle comunità. Ha invece misurato, sul piano fisico, i suoi gas inquinanti, calcolandoli intorno a un quarto degli inquinamenti totali dell’atmosfera. Per gli altri tre quarti invece l’inquinamento atmosferico risale ai fumi industriali e da riscaldamento, ovviamente concentrati nelle aree urbane, dove producono lo smog, talora responsabile di ecatombi improvvise e imprevedibili. Per esempio a Londra, tra il 5 e il 9 dicembre 1952, uno smog altamente tossico provocò la morte di circa 4.000 abitanti; ragione non ultima della successiva approvazione legislativa (1956) del «Clean Air Act» inglese, che è riuscito a far scomparire il tristemente celebre smog londinese. Per l’inquinamento urbano è stata accertata una relazione diretta tra il tasso di S02 atmosferico e l’incidenza della bronchite cronica ed enfisema, ma non con quella dei tumori polmonari (Buck e Brown), che evidentemente comporta una interpretazione assai più sottile e meno meccanicistica.

Caratteristico del traffico moderno è il suo rumore, misconosciuto inquinante del nostro ambiente. Tanto impalpabile quanto esasperante, ci accompagna dalla nascita (e anche prima: sono accertati stress da scoppio supersonico in feti umani). Traffico e industrie fanno superare nelle città (New York) gli 85 decibel, limite al di sopra del quale l’esposizione continuata induce la sordità. È perfettamente noto che il rumore può indurre reazioni generali da stress, con riflessi cardiovascolari, ormonici e respiratori, e persino psicologici (Steinike, Lehmann, Favre, Cazzullo). Le statistiche dell’industria U.S.A. registrano in 5 miliardi di dollari l’anno il suo costo in incidenti, assenteismo, ridotta efficienza di lavoro e cause per danni.

Quanto questo onnipresente «stress» interferisca sulla specifica patologia psicosomatica osservabile nelle città, non è stato finora direttamente indagato. Ma per esempio il rumore da jet (non solo i bang supersonici ma i 130/140 decibel del loro decollo) ha già provocato sollevazioni di massa dei residenti intorno ai principali aeroporti del mondo (da New York a Parigi, da Londra a Milano); con scarso successo tuttavia, visto che il dirottamento su altre rotte di decollo o altri aeroporti provocherebbe ribellioni consimili.

Il boccone avvelenato del benessere. – I veleni sempre più mortiferi, dei quali l’uomo ha riempito il mondo, sono nati sull’equivoco di un alibi tecnologico: dovevano cioè servire a migliorare l’esistenza, in termini di manufatti sempre più raffinati, di cibi a minor prezzo e per tutti, persino di sussidi per la nostra stessa salute. Considerata la tragedia che ne sta derivando il fenomeno è riuscito a dimostrare, su scala sperimentale planetaria, l’errore di una scienza e di una tecnica che, avendo rifiutato per malinteso orgoglio di considerarsi al servizio dell’uomo, sono ormai prossime ad ucciderlo e a suicidarsi con lui.

È sempre avvenuto, nei secoli, che un processo produttivo implicasse un possibile danno per gli uomini che lo usavano. Dal tempo di Bernardino Ramazzini, che con il suo De Morbis Artificum (1713) aprì gli orizzonti della medicina del lavoro, si vanno identificando sempre nuove malattie professionali e parallelamente si studiano i mezzi per prevenirle. I cappellai, per esempio, conciavano nell’800 i feltri di castoro e di lepre con sostanza a base di mercurio. L’intossicazione cronica da mercurio rivela un tipico disturbo mentale con balbuzie, caratteristiche esattamente riprodotte da Lewis Carroll nel personaggio del cappellaio matto in Alice nel paese delle meraviglie. Oggi, naturalmente, si è cambiato il procedimento e i cappellai non sono più proverbialmente matti, come cent’anni fa. Ma l’intossicazione da mercurio, che in loro era riconoscibile e circoscritta, oggi può diffondersi subdolamente su scala di massa, e neppure i medici riescono subito ad accertarla per mancanza di indizi logici. J. Scanlon (1972) riferisce il caso dell’avvelenamento di un neonato del New Mexico, che presentava livelli urinari di mercurio 100 volte superiori a quelli dei soggetti adulti normali. Solo a seguito di una inchiesta approfondita l’origine della tossicosi (endouterina) fu trovata nel fatto che la madre aveva mangiato maiale, contaminate da cereali trattati (come conservante) con un fungicida a base di metilmercurio.

La brillante ipotesi diagnostica di Scanlon si basava sulla tragedia avvenuta circa dieci anni prima nella baia Minamata dell’isola di Kyushu in Giappone, che i medici impiegarono assai maggior tempo a comprendere. In questa località i pescatori cominciarono ad avvertire disturbi visivi, torpore, indecisione, ansietà ingiustificata, ipereccitabilità e depressione, cefalee e persino allucinazioni; alcuni di tali sintomi erano rivelati anche dai gatti. Fu questo a portare l’attenzione sul pesce pescato e mangiato, e vi si riscontrarono quantità impressionanti di mercurio, specie nei molluschi (vongole). Oggi nella baia è vietato pescare ma il provvedimento è giunto troppo tardi per almeno un centinaio di abitanti, morti o permanentemente invalidi. La sorgente omicida fu trovata in una locale fabbrica di polivinilcloruro, che aveva di recente ampliato i suoi impianti, a beneficio della manodopera locale. L’uso industriale del mercurio è infatti in continuo aumento: oltre che nella fabbricazione del PVC (Polivinilcloruro) serve in quella della carta, della soda caustica, nelle lavanderie, come anti muffa e come anticrittogamico sui cereali da semente (come quelli dati in pasto al famoso maiale del New Mexico).

Un altro bel campione nella lista ogni giorno più lunga dei veleni industriali sono i famigerati PCB o bifenilpoliclorurati, dei quali si è parlato sottovoce fino a quando U.S.A. e Giappone ne hanno sospeso la produzione. Essi sono tossici da penetrare direttamente attraverso la pelle senza bisogno di essere inghiottiti o respirati; e nessuno sa ora come liberarsi di alcune tonnellate rimaste inutilizzate, visto che bruciandoli si disperderebbero nell’aria come un gas venefico; seppellendoli finirebbero alla lunga nell’acqua e risalirebbero modificati, lungo tutta la catena alimentare, che ne contiene dovunque al mondo (le aquile svedesi, i delfini e le foche, gli uccelli migratori dell’Artico, la rondine marina del Caspio, il gheppio americano, l’allodola comune europea…). E non hanno neppure l’alibi di essere degli insetticidi, ma solo dei «meravigliosi» additivi dei colori e delle vernici plastiche, degli oli lubrificanti ad alte temperature, dei trasformatori ad altissima potenza. È solo grazie ad essi che viene prodotta quella carta copiativa perfetta, che non sporca le dita. Ma è sufficiente questa irrisoria raffinatezza a giustificare la nostra morte per veneficio?

Almeno il DDT, l’arsenico, il dieldrin, il parathion e simili partivano dal presupposto di evitarci il primo, la malaria (e c’è in gran parte riuscito, donde il premio Nobel al chimico Muller nel 1948 per la medicina e fisiologia!) e gli altri le carestie, incrementando la resa delle colture. Ma anche per essi è lecito discutere se il potere cancerogeno, l’estinzione di molte specie superiori, la devastazione ecologica indiscriminata (un insetto nocivo su 1.000 utili) e finalmente il probabile danno genesico sull’uomo, abbiano pareggiato il conto, oppure no. Ciò che più colpisce – anche secondo G. R. Taylor – è che tanto i profani quanta gli esperti partono dall’allegro presupposto che una sostanza che non uccide all’istante (e inoltre i topi cavia!) sia inoffensiva; ed evitano per doppia comodità la ricerca di qualsiasi altro effetto, meno brutalmente definitivo. Ma per esempio il DDT nelle trote, alla dose del tutto inoffensiva per la vita di 20 parti per miliardo, annulla la capacità di adattamento alle variazioni di temperatura, e l’apprendimento dei segnali di pericolo.

Anche senza ecatombe dirette nei confronti dell’uomo, almeno intenzionali (ma i 5 ragazzini morti nell’inverno ’73 per aver giocato, in un oliveto calabrese, con un sacchetto vuoto di parathion? e la famiglia di nove persone deceduta a Calolziocorte, in Italia, nel maggio 1974, per avere mangiato alimenti accidentalmente inquinati dallo stesso anticrittogamico?) chi può onestamente prevedere gli effetti globali sull’organismo della quota crescente di pesticidi che in mancanza di meglio, cioè non potendocene liberare, fissiamo nei grassi, nei muscoli e nel fegato? Essi sono attivissimi veleni nucleinici, enzimatici e nervosi, cioè capaci di interferire sui più fini regolatori dell’equilibrio organico, quindi sulle sue risposte agli stimoli esterni: chi può escludere che alla loro innaturale presenza risalga quell’aumento progressivo di allergie (stati di reattività anormale) che le comunità presentano costantemente da circa un trentennio?

Comunque un certo numero di psichiatri di autorità internazionale (Requet, Madeddu e Della Beffa, Fouquet, Nachin, Dubineau) di fronte all’aumento enorme dei decessi per cirrosi in alcoolisti negli ultimi venti anni, hanno dovuto registrare una diminuita tolleranza all’alcool, attribuibile con probabilità alle tracce residue, notevolmente elevate, dei diserbanti e antiparassitari usati nelle vigne.

La crisi terapeutica: Ippocrate o Lucrezia Borgia? – Nel quadro generale dei veleni usati dall’uomo nel suo ambiente (che comprende anche lui stesso) è d’obbligo considerare anche quelli che dispongono dell’alibi più solido da millenni, quando l’ellenismo indicava con lo stesso termine di fàrmacon tanto la medicina quanto il veleno. Da allora non sembra che le cose siano molto cambiate, visto che viene condivisa e lodata la seguente affermazione di K. Radenback (1966): «…un farmaco che non provoca effetti secondari (tossici) deve essere considerato con riserva riguardo al suo potere curativo». L’opinione, del tutto gratuita, risulta in linea esatta con il sistema allopatico che considera il farmaco come una realtà autonoma, assurdamente estranea all’uomo al quale solo deve servire e prima di tutto, secondo il fondamentale sigillo ippocratico, senza fargli dell’altro male (prius nil nocere).

Abbiamo già discusso di questa anomala impostazione mentale, che nei secoli ha regalato al malato una serie di inutili sofferenze, tuttora ben lungi dall’essere conchiusa. D’altronde l’allopatia procede con perfetta coerenza: avendo identificato con Pasteur le cause «delle malattie» in agenti estranei all’uomo, lo aggredisce con ogni possibile insulto chimico o fisico per «liberarlo» e farlo guarire. Sennonché, come abbiamo visto, né le malattie sono tutte esterne all’uomo, né i mezzi antibatterici sono tutti innocui, anzi il contrario. Era pacificamente ammesso, fino a un secolo fa, che per liberarsi dalla sifilide si dovesse morire avvelenati dal mercurio e dal bismuto; ma il Salvarsan 606 sembrò aver risolto il problema dell’uccisione dell’ospite senza quella dell’ospitante (anche se il fegato ne portava le nascoste tracce per tutta la successiva esistenza). L’idillio continuò in seguito con i sulfamidici e con gli antibiotici; si registravano ogni tanto, con le sulfapiridine e con le sulfadiazine, le «curiosità» di alcune paralisi da radicolonevrite tossica, difficili a risolversi; e qualche caso «strano» di morte improvvisa da penicillina, la cui colpa era più facilmente caricata – anche penalmente – sul medico e sulla ipersensibilità o allergia del paziente piuttosto che sulle «medicine miracolo». II primo studio di carattere sistematico sulla pericolosità delle medicine fu pubblicato in U.S.A. nel 1952 da L. Meyler (Effetti collaterali dei farmaci), seguito da R. Moser (Malattie del progresso medico) e nel 1957 da L. Schindel della Cornell University (Reazioni inattese alle terapie moderne) relativamente ai soli antibiotici. Da essi risulto chiaro che le nuove potenti medicine agivano esse stesse come veleni, provocando effetti spiacevoli non «eccezionali» ma in una proporzione significativa e prevedibile di casi. Il primo farmaco a essere direttamente accusato (da B. Roueché in La ferita incurabile, 1960) fu il cortisone, del quale questo autore consigliava l’uso assai cauto in ordine agli effetti collaterali, da lui registrati esattamente (tra l’altro il riaccendersi di vecchi focolai tubercolari, oltre a quella grave inibizione delle difese antinfettive naturali, che ha prodotto la morte medica dei trapiantati cardiaci, caricati di cortisone e anti-immunitari per evitare il rigetto).

Poi, nel 1961, fu la tragedia mondiale del talidomide, con il suo raccapricciante corteggio di neonati focomelici (senza gambe e/o braccia) che commossero il mondo, invadendolo fino alla nausea di foto da museo degli orrori. Sennonché, a differenza della contemporanea commozione antiatomica, la tempesta antitalidomide mancò il suo vero obiettivo, cioè quello di difenderci per il futuro da una altrettale possibilità di pericolo. Furono fatti dei processi e imposti alti risarcimenti (!?) alle case produttrici; ai programmi di sperimentazione preclinica furono aggiunti dei test antiteratogeni (cioè di controllo di un eventuale effetto mostruoso, sulle gravidanze degli animali da laboratorio) ma in un paio d’anni tutto si riadagiò nella piena normalità.

In questo clima di pubblica rassegnazione (ma sempre più spesso di privata ostilità) le ondate successive di scandali iatrogeni sono state assorbite senza apparenti sussulti: dall’abolizione del Mer 29 (un abbassatore sintomatico del colesterolo) dopo l’accertamento di casi di cataratta, calvizie, e decessi; dell’Altafur, del Monase e di un’altra ventina di prodotti tra il 1961 e il 1962; alle polemiche sul cloroamfenicolo, sugli anticoagulanti dannosi, sulle decine di antiipertensivi inefficaci e pericolosi, e via all’infinito da allora in poi. Evidentemente manca ancora ai medici e al pubblico la esatta comprensione del nocciolo del problema che tuttavia sta emergendo, sia pure con estrema lentezza, dalle brume di un secolare equivoco: cioè la compressione chimica del sintomo, senza curarsi del danno alla persona intera (su queste stesse linee conduce attualmente una battaglia seguitissima, in U.S.A., il dr. M. Warmbrand).

Rivediamone un conciso flash: all’inizio la «colpa» era del paziente, ipersensibile al farmaco tutto bontà; poi si è trasferita sul medico, non sufficientemente oculato nel somministrarlo; infine su un singolo farmaco cattivo (tutti gli altri restavano buoni per petizione di principio); oggi si registrano pericoli per una quantità crescente di farmaci, tendente anzi alla totalità e inoltre se ne accerta la frustrante inefficacia in una elevata proporzione. Non è dunque più questione di un farmaco occasionalmente sbagliato, ma la documentata bancarotta di un sistema basato sulle «medicine anti» invece che a favore dell’uomo. Cioè insomma dell’allopatia, che rimane l’unica responsabile del ricorso ormai ingiustificabile a metodi terapeutici superati e pericolosi.

Oltretutto la documentazione tempestiva di questo gigantesco e progressivo fallimento è ormai un obbligo legale per ogni medico (Introna, Fornari), cosicché assumono grande interesse i servizi d’informazione su questo paradosso moderno, a seguito del quale il medico può finire anche in carcere (oltre a rovinarsi la professione) per colpe non sue. Queste iniziative di difesa sono nate su base esclusivamente privata: dalle Medical letters che riferiscono ai medici abbonati la verità aggiornata sui farmaci in uso, specie quelli di nuova introduzione, al prezioso volume di un farmacista, M. Spadoni (Pericoli da Farmaci) che in sette edizioni in sette anni è cresciuto esponenzialmente da 76 pagine a oltre 700. Ma cominciano ad apparire, sotto la pressione enorme del problema, anche iniziative pubbliche: «Federazione Medica», che è il mensile inviato a tutti i medici italiani in attività professionale, riporta dal 1972 una rubrica di notizie su farmaci, a cura del ministero della sanità. E persino case farmaceutiche (Essex-Italia, 1975) sentono ormai il dovere di integrare la carente informazione universitaria dei medici distribuendo loro, gratuitamente, delle «Guide» sulle interazioni pericolose tra farmaci.

Il dilemma etico. – Sennonché l’informazione fine a se stessa si rivela una troppo comoda delega di responsabilità, e sa di presa in giro quando alla denuncia di un pericolo non venga fatto seguire l’unico rimedio, cioè la sua abolizione. O piuttosto, in questo caso, il comportamento generale del sistema allopatico esprime l’enorme crisi di indecisione che lo assilla, ma che non gli è consentito di risolvere causalmente se non smentendo ogni sua premessa e quindi ogni suo diritto al potere assoluto. Che senso ha, infatti, di obbligare il medico a recepire un flusso incessante di spaventose avvertenze sui medicamenti allopatici, quando poi lo si costringe a usare solo quelli (a rischio proprio oltre che del paziente) per non farsi accusare di eresia?

Questo cronico conflitto psicosociale conduce inevitabilmente verso il nichilismo terapeutico o la nevrosi professionale e sta maturando i semi di una violenta ribellione di massa. Perché, tra l’altro, le segnalazioni non riguardano farmaci strani o iperspecialistici o di riservato uso ospedaliero, ma quelli più comuni, ogni giorno prescritti quasi come «placebo» inoffensivi. Al medico viene per esempio segnalato che la penicillina può provocare anemia emolitica immune, come pure la cefalotina, l’isoniazide, il PAS, i sulfamidici e la cloropromazina (Pochedly e Ente), che i sulfamidici, la chinina e la chinidina possono causare trombocitopenia, e l’acido acetilsalicilico un difetto irreversibile delle piastrine; che l’ibuprofen può dare ambliopia tossica (Palmer); che le più comuni e diffuse ipotensioni ortostatiche (caduta di pressione in posizione eretta, con possibile deliquio) sono provocate dai farmaci più banali, prescritti in casi di depressione, agitazione, insonnia, ipertensione (Grosgogeat e Drobinski); che la somministrazione protratta di barbiturici ma anche di isoniazide e di etionamide (antibiotici antitubercolari che vengono prescritti per mesi o anni di seguito) sono spesso responsabili di un particolare «reumatismo» (Camus J. Paul); che fenomeni anche gravi di tipo neuropsichiatrico, come confusione, allucinazioni, stato agitatorio, sono stati accertati con farmaci tranquillanti, antiepilettici, cortisonici, sulfamidici, penicillina, isoniazide (Pare); che l’ormone femminile sintetico dietilstilbestrolo, somministrato in gravidanza come antiabortivo, può indurre nelle figlie nate da quelle gestazioni, tra i 15 e i 25 anni, lesioni vagino-cervicali a tipo di adenosi e cancro (Obst. Gynec., 1974); che l’abuso di farmaci in persone anziane ha elevate possibilità di produrre più danni che vantaggi: ulcere peptiche, emorragie gastrointestinali, danni epatici e ittero (Sun); persino che le applicazioni cutanee di una pomata antifungina può provocare – non eccezionalmente – una encefalopatia tossica nei bambini (Vallarino e coll.); infine, per suprema irrisione, che le pomate anti-allergiche al cortisone possono allergizzare esse stesse, producendo una dermatite «ribelle» (!) per la presenza di conservanti come i parabeni! (comunicato Essex-Schering).

Concludiamo l’elenco con due esempi che rimettono crudamente a fuoco la questione. Il primo riguarda un antimicotico (il clotrimazolo) propagandato come il più attivo finora disponibile contro le infezioni da funghi e lieviti, tra l’altro enormemente diffuse dall’uso universale degli antibiotici fino a trasformarsi in serio problema sociale. L’efficacia del preparato è – attualmente – buona, ma esso, com’è scritto in due righe su 30 pagine di un fascicolo informativo ai medici, «può ridurre l’idoneità stradale del paziente» a dosi orali terapeutiche. Ora, a parte il fatto arcinoto che i medici non hanno il tempo di leggere tutto il materiale «scientifico» che ricevono, la sua efficacia lo farà inevitabilmente consigliare da un paziente all’altro, al di fuori di qualsiasi controllo medico. Siamo davvero tutti certi che la distorsione prospettica ch’esso determina non sia la misconosciuta causa (iatrogena!) di qualche incidente da traffico dalla incomprensibile dinamica?

Eppure si vende in farmacia. Come i vari prodotti a base di indometacina, che, inizialmente destinata alla gotta, sono usati per le loro proprietà antidolorifiche da un vasto numero di reumatici e artropatici in tutto il mondo, anche al di fuori di qualsiasi ricetta. Ma quando il medico legge le informazioni fornite da uno dei colossi farmaceutici (e scientifici) che lo producono, dovrebbe proibirla o vivere d’angoscia. Infatti «non deve essere prescritta ai bambini»; «può aggravare disturbi psichici, epilessia o parkinsonismo»; «mascherare i sintomi delle malattie infettive»; «provocare ulcerazione singola o multipla dell’esofago e stomaco, del duodeno o dell’intestino tenue, con perforazione ed emorragia – sono stati segnalati rari casi fatali…»; indurre «reazioni epatiche quali ittero ed epatite; sono stati riportati alcuni casi a decorso fatalc». Però in compenso è chiaramente detto (pag. 1) che «Al pari degli altri farmaci antinfiammatori,… non modifica il decorso della malattia in atto». Di fronte a questa informazione «completa» che dovrebbe essere di promotion, la domanda urgente è: «Ma allora perché se ne permettono l’uso, la vendita e la produzione?». La scoraggiante risposta è che l’industria ritiene onestamente di aver prodotto un ottimo farmaco, visto che il sistema allopatico vigente le chiedeva un «anti-sintomo» ed essa gli ha fornito il migliore a tutt’oggi sintetizzato. Che tra l’altro, come impongono le prove precliniche, «nel ratto ha fatto riscontrare un adeguato margine di sicurezza (oltre 60 volte) tra dosi antiinfiammatorie efficaci e dosi tossiche». Se poi qualche uomo si perfora o ingiallisce o decede a dosi terapeutiche, è una pura questione statistica. E a questo proposito, come insegnava il celebre Lison, «colpa sua se è incappato nel caso al di fuori della media…».

Le responsabilità globali. – Eppure, nonostante qualsiasi sillogismo retorico o calcolo statistico, non possiamo essere d’accordo. Nella causa tra l’uomo e i veleni (industriali e ancor più medicamentosi) ci permettiamo da anticonformisti di parteggiare per l’uomo. Non chiedendo test più rigidi per i farmaci o il «placebo» sociale dei controlli di massa dei veleni già assorbiti, ma imponendo ai responsabili di considerare il problema nella sua globalità, visto che questo ne è ormai il tempo per tutti i fenomeni umani, dalla popolazione alla carenza di acqua, dal petrolio alla disponibilità di ossigeno, pena la vita di specie. A quanto sembra cominciamo persino a non essere più soli. Su una pacifica rivista svizzera («Vita Sana»), la cui stessa ingenua impaginazione evoca idilliche vallette in fiore e cicli puliti, G. R. Brem (1974) constata con disarmante candore che «vi devono essere dei gruppi di interesse non affatto interessati alla buona salute degli uomini, se una industria dannosa molto potente continuerà impunemente a rendere malato l’uomo, per poi affidarlo ad un costoso meccanismo (di difesa) di malattia a carico della comunità». Ed è la stessa posizione culturale – forse l’unica di valore universale – che da un estremo opposto di esperienza umana J. Cl. Polack (in Medicina del Capitale) grida al mondo con il piglio da comizio e l’ostica scrittura della sua esasperata contestazione marx-maoista.

Le correnti rigidamente tecniche, o umanamente passionali, o politicamente impegnate che stanno ormai confluendo in un fiume sempre più largo (G. R. Taylor, R. Vacca, R. Tomatis, G. A. Maccacaro…) riecheggiano un preciso metodo medico, colposamente tradito dall’allopatia a causa del suo peccato originale. Esso insegna che la vera guarigione si ottiene soltanto con le cure causali, ridimensionando quelle sintomatiche al loro ruolo esclusivamente palliativo. Se ad esso si abbina il concetto fondamentale che il soggetto ma anche l’oggetto di tutto lo sviluppo umano sul pianeta Terra è l’uomo stesso, e non le deificate astrazioni extraumane della civiltà e del progresso, ci si avvede che i provvedimenti atti a ridurre la marea montante di veleni esistono, persino nell’ordine del possibile e dell’immediato. Purché essi non vengano ricercati in una ulteriore complicazione tecnologica, a posteriori e a costo proibitivo (come i 26 milioni di dollari necessari a ridurre del 69% i fumi solidi di una sola città U.S.A., citati dai Meadows), ma nella corretta utilizzazione di un sentimento umano illimitato gratuito come l’istinto di sopravvivenza individuale e collettivo; cosa ben diversa da quella vacua mentalità ecologica sulla quale fino ad oggi si è insistito, giustamente senza risultati. Per quanto riguarda i veleni industriali basterebbe che la medicina sociale provvedesse a una urgente revisione dei processi produttivi dal punto di vista tossicologico per la comunità, perché quest’ultima, posta di fronte alla scelta definitiva tra il vivere o il morire, imponesse il ricorso a procedimenti alternativi meno pericolosi, in genere quasi sempre possibili ma finora rifiutati sulla base di una pura convenienza economica. Per i veleni «sanitari» l’intervento causale comporta un profondo esame di coscienza per l’attuale struttura medica, l’abbandono o la rottura del monopolio allopatico, e la nascita della Medicina Integrata.

Anche nel caso dell’universale avvelenamento, riappare dunque la convergenza di fini e di destino che uniscono l’uomo e la medicina nella loro comune crisi di sopravvivenza. È necessario per entrambi che la medicina si riaccolli coscientemente – come in antico – il ruolo non solo «tecnologicamente asettico» ma eticamente coinvolgente di benefica guida delle comunità. Ma non potrà farlo credibilmente, se prima non risolve la sua crisi ultima di significato e di sostanza, ormai palese a tutti; cioè – come è stato auspicato all’inizio – se non accetta di ribattezzarsi per rinascere a nuova vita.

Capitolo VII – Il numero chiuso dell’umanità e le sue implicazioni 

Con lo humor che gli è proprio, il prof. W. H. Eldredge, sociologo del Dartmouth College, mi confidava nel settembre 1972 a Basilea, durante il primo Workshop mondiale sull’avvenire della medicina, di dovere la sua fama di futurologo all’aver dimostrato che il carattere più costante delle previsioni degli esperti risiedeva nella loro completa inattendibilità anche a breve distanza di tempo. È difficile smentirlo quando si pensi che persino in tema di demografia (sui cui valori tabulati si basano le «certezze attuariali» che dettano i premi assicurativi-vita) le previsioni più serie risultano semplicemente raddoppiate in pochi anni. Le prime valutazioni della popolazione mondiale riferite all’anno 2000 (da Notestein nel 1945 e da Woitinsky nel 1953) prevedevano un totale di circa 3.300 milioni, ma nel 1958 l’O.N.U. lo stimava in 6.280 milioni (valore medio) tra un minimo di 5.965 e un massimo di 7.410; dunque in meno di trent’anni è certo che almeno ci raddoppieremo. Che cosa ne deriva? Meadows e collaboratori, del System Dynamics Group del M.I.T., hanno simulato con l’impiego di elaboratori elettronici, in un modello matematico del mondo, le tendenze e le interazioni di un certo numero di fattori dai quali dipende la sorte della società nel suo insieme: l’aumento della popolazione, la disponibilità di alimenti, le riserve e i consumi di materie prime, lo sviluppo industriale e l’inquinamento (I Limiti dello Sviluppo).

Il disastro universale dietro l’angolo. – Comunque si facciano variare i fattori – salvo quelli della popolazione e degli investimenti di capitale – i modelli del futuro prevedono il disastro completo della civiltà planetaria tra il 2020 e il 2075, cioè durante la vita dei nostri figli o, nella più felice delle ipotesi, dei nostri già nati nipoti. Il più importante apporto sperimentale della ricerca – per altri versi criticabile e criticata, sta nell’aver dimostrato la interdipendenza dei sistemi sociali nonché quel che Jay W. Forrester definisce «il loro comportamento contro-intuitivo», cioè la impossibilità di evitare il disastro ricorrendo a provvedimenti singoli basati sul buon senso, apparsi sempre utili in tutta la precedente storia umana: per esempio il raddoppio del rendimento agricolo mondiale (auspicato da J. Knowles, presidente della Fondazione Rockefeller), o la disponibilità illimitata di risorse naturali sperata dalla tecnologia nucleare. Se queste due utopie si avverassero la crisi verrebbe addirittura anticipata, a causa dell’aumento incontrollabile dell’inquinamento. Alcuni degli altri itinerari alla catastrofe previsti dalla dinamica dei sistemi appaiono più opinabili, in relazione al fondamentale punto debole dell’intera ricerca, la quale «considera solamente gli aspetti materiali dell’attività umana» e inoltre «non ha ritenuto di introdurre nei modelli» le modifiche certamente profonde che i fattori sociali e psicosociali subirebbero in prossimità della crisi.

È attraverso quest’unico varco nelle mura – onestamente dichiarato ma non sfruttato – che può offrirsi un disagevole sentiero alla nostra improbabile salvezza, alla quale è tuttavia obbligatoriamente legato il numero chiuso dell’umanità, sui livelli presenti o al massimo raddoppiati. Invece nemmeno su questa esigenza di base esiste una unanimità teorica, anzi essa appare già inquinata di politica, di demagogia e di inconsce pulsioni adleriane (l’istinto di potenza) rischiando di condurci impreparati e rissosi alla catastrofe. Lo si è visto nel corso della prima conferenza sulla popolazione mondiale (Bucarest, agosto 1974) indetta dall’O.N.U. per definire i limiti del problema e una linea comune di intervento. Tradendo completamente le sue dichiarate finalità, essa si è conclusa nel disordine e nell’inazione più sconfortanti, in seguito alla paradossale confluenza di interessi assolutamente difformi: quelli religiosi del Vaticano (difesa dogmatica della libertà della persona, con accettazione aprioristica delle tesi degli ottimisti); dei paesi a dittatura marxista (U.R.S.S. e Cina), che, pur avendo da decenni legalizzato l’aborto, sostengono demagogicamente che il rimedio risiede nella rottura del sistema capitalistico, nella ridistribuzione della ricchezza e naturalmente nelle riforme agrarie (le cui insufficienze sessantennali sono costretti [U.R.S.S.] a integrare con milioni di tonnellate di grano capitalistico); infine di paesi africani come il Kenya, del Brasile e dell’Argentina, che stimolano la natalità per tema di perdere potenza umana nei confronti di vicini più densamente popolati; o addirittura della Polonia e Cecoslovacchia e persino della Francia che vedendo nella diminuita natalità il rischio di una futura scarsità di manodopera, hanno recentemente raddoppiato i premi di natalità e i privilegi per le madri-lavoratrici!

Quando C. P. Snow avvertì nel 1969 che «forse entro dieci anni le nostre televisioni ci faranno assistere alla morte per fame di milioni di abitanti dei paesi poveri…» gli «esperti» lo accusarono di illecito allarmismo. Ma negli ultimi due anni le TV hanno puntualmente diffuso i tragici spettacoli della carestia che ha colpito l’India e il Bangladesh in modo acuto, e la siccità nelle regioni sub-sahariane ha ucciso d’inedia almeno 250.000 abitanti, mentre 800 milioni di terrestri vivono con una cronica dieta da Dachau. Nonostante tutto, l’economista B. Bruce-Briggs dello Hudson Institute di New York, sviluppando le tesi antimalthusiane del londinese prof. W. Beckerman (In Defence of Economic Growth) sostiene che la Terra ha un tale potenziale alimentare – abbinato ai miracoli della tecnologia – da sostentare almeno 30 miliardi di abitanti al presente livello di consumi statunitense. Non riesce tuttavia a spiegarci perché, con circa un decimo di quel totale, debba oggi lasciarne morire di fame una parte sempre maggiore.

Ci riescono invece J. Fourastié e C. Vimont, rilevando che le speranze di P. Ruopp, secondo il quale la sostituzione delle tecniche agricole arcaiche dell’India con quelle moderne avrebbe elevato del 300% il rendimento delle colture, non si sono siffatto avverate (e la recente carestia lo conferma). La causa del fallimento non risiede nella mancanza di mezzi materiali, ma piuttosto in quella di un numero adeguato di tecnici, capaci di comprendere e applicare i metodi moderni: «ma gli uomini che possiedono i mezzi per realizzare le produzioni massive sono gli americani, gli inglesi, i tedeschi, gli scandinavi, e non purtroppo gli indiani o gli egiziani che ne hanno un imperioso bisogno».

Il fatto sembrerebbe dar ragione alla tesi marxista, che propone di ridurre la «povertà numerosa» invece che il «numero dei poveri» (Maccacaro), diffondendo a ritmo accelerato la tecnologia e contando sul progresso per ridurre non solo la povertà ma anche le nuove nascite (estrapolando illecitamente la diminuita fecondità dei popoli più civili e più inurbati). Tuttavia gli esperimenti già attuati smentiscono anche questa illusione. Grazie alla «rivoluzione verde» applicata da vent’anni con l’aiuto di un esercito multinazionale di tecnici agronomi (guidati dal premio Nobel N. Borlaug per conto della Rockefeller Foundation), il Messico ha visto crescere notevolmente la sua produzione agricola. Ma a causa della contemporanea esplosione demografica si è ormai trasformato, da Paese esportatore di alimenti, in un loro stabile importatore a qualsiasi lato si aggredisca il problema dello sviluppo, ci si ritrova puntualmente davanti il misirizzi spettrale delle masse umane in esplosione, che annullano presto o tardi ogni conseguibile miglioramento. Non ancora in termini di spazio, ma di consumi; cosicché, anche solo per quelli alimentari, pur essendo la produzione totale dei paesi meno sviluppati aumentata in dieci anni di quasi il 30%, la loro produzione pro capite è uguale o inferiore a quella di allora; e nel complesso del mondo le riserve di cereali, espresse in giorni di consumo, sono scese in dodici anni da quasi 100 a soli 27 (US Department of Agriculture).

consumi differenziati. – Naturalmente questa è una media statistica, pari a quella del mezzo pollo a testa ottenuto sommando i pochi che ne mangiano due con i tanti che non lo conoscono neppure di vista. Esiste infatti una forte differenza tra i consumi di popoli a diverso livello di vita. Per esempio per i cereali, fatto uguale a 1 il consumo pro capite dell’India, quello dell’U.R.S.S. è 4, quello del Canada 5. Addirittura incredibili le differenze individuali nei consumi industriali: un nordamericano consuma 123 volte più acciaio di un indonesiano o pakistano, un tedesco 116, un giapponese 110; di energia: un russo 77 volte e uno statunitense 191 volte più di un nigeriano, e così via (U.N.O., 1972). È questa la «spalla» statistica sulla quale i paesi poveri negano che esista, per sè, un problema di popolazione, e sostengono che soltanto l’egoismo dei paesi ricchi impedisce a tutto il mondo di raggiungere il loro stesso benessere, attraverso una egualitaria ridistribuzione delle ricchezze.

Invece il problema della popolazione riguarda soprattutto i paesi cosiddetti ricchi. Sono essi quelli più densamente popolati, migliaia di volte più degli altri, e i primi fra tutti a dover combattere contro l’inquinamento e lo spazio.

Inoltre le risorse della Terra non sono infinite. Anche se l’ottimista Wilfred Beckerman sostiene che le stime delle riserve di materie prime si sono sempre dimostrate errate per difetto, ciò che rende inattendibili anche quelle attuali (che segnalano 20 anni per il petrolio, 13 per l’argento, 18 per lo zinco, 21 per il rame, 9 per l’oro, 93 per il ferro, 111 per il carbone…) esiste un elemento limite dalle misure indiscusse, cioè l’acqua. La disponibilità totale del ciclo idrologico terrestre (mare -> nubi -> pioggia) e di 20.000 km cubici di acqua dolce all’anno.

Nel 1963 l’idrologo francese Raymond Furon calcolava su questo il limite massimo di abitanti della Terra, con i presenti consumi: «20 miliardi, previsti nel 2100». Ma si è dimenticato la terribile interdipendenza dei sistemi: se per nutrire l’esplosione demografica si quintuplicano le colture, l’acqua finirà molto prima, anche se abolissimo l’industria per riservarla tutta alla nostra sopravvivenza. Infatti, se per costruire un’auto si consumano 68 tonnellate di acqua (G.R. Taylor) per coltivare una sola tonnellata di granturco ne occorrono 4000. Ed è comunque certo che, anche se la «crescita zero»  iniziasse ottimisticamente nel 1985, la popolazione del mondo raggiungerebbe comunque i 10 miliardi (nel 2030) e la loro spinta al benessere accelererebbe la corsa alla catastrofe sia per l’eccesso di popolazione (tesi dei paesi ricchi) sia per l’eccesso consumistico dei popoli sviluppati (tesi dei paesi poveri).

Sembra perciò spaventosamente esatta l’affermazione di P. R. Ehrlich, biologo della Stanford University e autore del best-seller di qualche anno fa The Population Bomb, secondo il quale «la conferenza di Bucarest è in ritardo di almeno venti anni», ed egli ancora ignorava che essa avrebbe perso l’occasione di respingere ogni pulsione demagogica, ideologica, o di potenza, per cercare di aprire alla nostra comune salvezza il varco trascurato dal computer del M.I.T. Era possibile?

Il bisogno come «status symbol». – Finora una simile strada non è stata esplorata, e l’unica alternativa alle previsioni catastrofiche appare (anche a Bucarest) l’incosciente ottimismo teorico contro ogni risultato sperimentale. La ragione è semplice: del problema si sono interessati settorialmente gli economisti o i sociologi, gli agronomi o la World Bank, i demografi o gli ingegneri atomici, cioè le solite specializzazioni strutturalistiche della scienza avulsa dall’uomo; di quest’ultimo come unità somatopsichica, nessuno. Avrebbe dovuto farlo la medicina – come al tempo di Hammurabi o di Mosé, che pure combattevano contro l’ambiente ostile – ma la sua impostazione allopatica glielo impedisce. Così disponiamo oggi di pleonastiche statistiche sulla densità demografica e sui consumi, che segnalano unicamente il come (sintomatico) dei fenomeni, ma solo di pochi e marginali accenni, non medici (per esempio di Lester Brown) sul perché (causale) che li produce, cioè sulle loro umane motivazioni, che sono invece il nucleo fondamentale del problema.

Cominciamo dunque dai consumi, che sembrano ai superficiali un semplice fatto tecnico, rimediabile con una più giusta distribuzione delle risorse e della tecnica. Naturalmente non è vero, e lo dimostra sperimentalmente il fallimento di tutte le economie marxiste, anche in aree culturalmente omogenee; il che inficia di demagogia l’estensione universale di un metodo che non ha funzionato su scala più ridotta e controllabile.

Assume tuttavia una carica scandalistica e rivoluzionaria il fatto che (Lester Brown) un americano consumi cento volte più risorse globali di un polinesiano, che pure riesce a vivere, così come a Bucarest si è sentito dire (J. Mayer) che «la quantità di cibo che serve per 210 milioni di americani può nutrire 1 miliardo e mezzo di cinesi, con la normale dieta locale». Qualcuno ha voluto giustificare le differenze come dovute a fattori razziali; chiarisce l’equivoco l’analisi compiuta da J. Fourastié su uno stesso popolo, a distanza di tempo. «Se i francesi si contentassero dell’alimentazione tradizionale del XVIII secolo (pane, latticini, qualche legume, pochissimo vino, un piatto di carne la settimana…) sarebbe molto facile ottenere le 3600 calorie giornaliere a testa… Ma chi se ne contenterebbe più?…  È accertato che all’inizio dello sviluppo i desideri primari di un popolo si rivolgono all’aumento delle calorie alimentari disponibili; ma quando la razione supera le 2500 calorie, comincia a manifestarsi una scelta di qualità che complica terribilmente il soddisfacimento elementare del bisogno: meno calorie e più varietà… e lo stesso avviene dei bisogni secondari rispetto a quelli primari: nessuno acquista molto più latte di quanto ne può bere, né molto più pane di quanta ne può mangiare, ma tutti acquistano più libri e più giornali di quanti ne possono leggere; non dà fastidio per niente avere due biciclette, due apparecchi radio o 100 dischi, anche se uno se ne serve 2 ore all’anno» (Storia di domani). Di conseguenza le differenze più grandi tra i popoli non sono quelle già straordinarie viste per l’energia, ma quelle tra i consumi secondari, che raggiungono multipli da 1 a 500 senza che nemmeno ne appaia la saturazione. Per esempio l’americano medio consuma in alimenti solo il 120% dell’europeo, ma il 1.000 per cento (10 volte di più) in tessili, apparecchi domestici e sanitari, radio e televisione, carta stampata e non, telefono, nastri magnetici, cinecamere, automobili. E la richiesta risulta sempre insoddisfatta. Che cosa spinge l’americano medio (inteso quale avanguardia della civiltà dei consumi) al forsennato e insaziabile acquisto di beni, così poco indispensabili alla sopravvivenza fisica quanto il cilindro e la sveglia (al collo!) del capotribù primitivo nelle vignette umoristiche di trent’anni fa?

Il ruolo dei sentimenti. – Esattamente come per quella figura mitica, non altro che la ricerca dello status symbol cioè la gratificazione di un bisogno sentimentale per di più artificiosamente indotto. Siamo arrivati infatti a questo sperpero illimitato sotto la spinta crescente di stimolazioni scientemente inferte ai nostri sentimenti tanto dalle parole d’ordine marxiste «per un domani migliore» (inteso come conquista di sempre maggiori diritti e guadagno con sempre minore fatica e doveri), quanto dalle teorie del capitalismo consumistico: «consumare di più per produrre di più perché il volano del benessere giri sempre più forte…».

Così da una parte si assiste all’escalation di istanze sempre più alienate, da quella del «pane gratis» agitata fino al 1914 (e oggi perfettamente possibile, perciò negletta), a quella dei trasporti gratuiti, della settimana di 32 ore e del salario garantito senza alcuna contropartita di lavoro. Dall’altra al martellamento di messaggi rivolti addirittura all’inconscio (marketing motivazionale), per ipotecare finanziariamente persino il nostro futuro, schiavizzato dalle pulsioni incontrollabili del richiamo sessuale e della emulazione. E nello stesso tempo, per legarci più strettamente al volano dei continui acquisti, la truffa sociale dei manufatti a decadenza programmata (built-in obsolescence) perché durino di meno di quanta la tecnica e i materiali consentirebbero. Perciò le dure ma indistruttibili calze di nylon degli ufficiali inglesi del 1945 passarono agli usi civili mescolate con labile fiocco perché salvassero dal fallimento, smagliandosi, i calzettai. E i pneumatici a mescola morbida. E le maniglie complicate e fragili dei frigoriferi, introvabili ad ogni nuova serie, con obbligatoria sostituzione del tutto. E quando la decadenza non può essere troppo spinta (come per le auto) il pungolo sociale delle mode, che fa decadere di prestigio chi non si aggiorna ogni uno-due anni con i nuovi modelli; e le gonne prima corte e poi mini, poi lunghe e poi mini, studiate apposta perché l’«in» non possa essere ottenuto dall’«out» con un colpo di forbici e qualche gugliata di filo. Per questo il pezzente d’America che acquista una Cadillac di due anni per 150 dollari è un parametro follemente equivoco del paradiso consumistico; in realtà l’altissimo costo della paradossale svalutazione di un manufatto ancora perfetto lo paga la società tutta intera; e appunto ne sta morendo. Senza per questo che l’utente gratuito le sia grato; è anzi frustrato e ribelle perché non può come gli altri averla nuova, il che significa assai spesso solo la stessa, con un filetto cromato in più.

Dopo i consumi, cerchiamo di applicare la stessa analisi dei sentimenti al problema ancora più spinoso dell’eccesso di nascite. Il modulo è il medesimo: abbiamo infiniti «come» e ben pochi «perché» mentre è soltanto in questi ultimi che si cela la chiave motivazionale capace di aprire e di chiudere la diga della popolazione dilagante.

La mitizzazione del «progresso come anticoncezionale» perseguita dagli ottimisti trascura la possibilità che i fenomeni dello sviluppo civile e della ridotta natalità siano soltanto due sintomi contemporanei e non interdipendenti di una causa comune, ma esterna ad entrambi: con tutta probabilità una diversa concezione della vita, cioè ancora un sentimento. Considerato che l’intervento sulla sovrappopolazione ha da essere urgente – pena l’estinzione di specie – mentre lo sviluppo richiede tempi lunghi, è pura follia imbarcarsi planetariamente in un programma a lontano termine, senza il sostegno di qualche esperimento pilota positivo. Come d’altronde sanno di alibi evasivo i tentativi di spiegare l’insuccesso limitativo dei primi vent’anni d’uso della «pillola» con le sue asserite insufficienze tecniche. Di mezzi anti-figli l’umanità ha sempre avuto abbondanza e non penuria: dal coito interrotto (condannato in Onan dalla Bibbia), all’aborto, all’infanticidio, alle virtù chimiche espulsive delle erbe, a quelle antiovulatorie di alcune graminacee delle grandi pianure d’America, ben note alle squaw pellerossa; fino agli stessi modernissimi I.U.D. (Intra Uterine Devices) che vantano a loro capostipite l’anello contraccettivo intrauterino di Graffenberg; ma una versione rudimentale di esso era già usata dalle cortigiane veneziane del XV secolo, e i cammellieri del Sahara, per evitare che le femmine ingravidino nei lunghi viaggi con centinaia di animali, ricorrono all’antichissima pratica di inserire nel loro utero una semplice ed efficace pietra ovale. Solo che gli uomini li usano quando vogliono loro; e ad indurveli non appaiono per nulla sufficienti gli incentivi tecnici fin qui adottati, per esempio in India, dove lo scorso anno il gigantesco programma anticoncezionale ha dichiarato forfait dopo aver vasectomizzato o tubectomizzato in cinque anni 10 milioni tra uomini e donne, con 100 rupie di ingaggio a testa più una bicicletta in lotteria ad ogni villaggio (ma i cerchi colorati per il calcolo dei giorni fecondi si erano trasformati in braccialetti femminili, e i condom gratuiti in palloncini per i bambini…).

Secondo J. D. Rockefeller III, Presidente dell’America’s Population Council, «il problema di limitare la popolazione è assai più complicato di quel che si pensasse». Ma in alcuni paesi, come Formosa (Taiwan) e la Corea del Sud, Singapore, le isole Mauritius e la stessa Cina, i programmi hanno ottenuto successi importanti. Per l’appunto, perché? L. Brown segnala che anche senza piani anti-natalità per esempio in Egitto e Cile, Costarica, Barbados, «il tasso scende dell’uno per mille per ogni anno di aumento dell’aspettativa media di vita». È ormai accertato che questa indiscussa correlazione statistica non dipende dall’abbondanza di manufatti tecnici, ma piuttosto da un fondamentale fattore umano. Nei paesi prima citati, infatti, la riduzione delle nascite si è abbinata non tanto allo sviluppo economico o tecnologico, quanto invece al miglioramento della condizione sociale. Per esempio nella Cina di Mao la rivoluzione è stata accettata perché è riuscita a garantire ai cinesi una monotona ma sufficiente razione di base («adesso mangiamo») e il godimento universale di un elementare ma efficace servizio di difesa della salute, con il milione e mezzo di medici dai piedi scalzi. A Formosa la solidarietà culturale e la pace sociale, la quasi completa uguaglianza dei sessi dopo millenni di tradizionale schiavitù femminile, e la previdenza per la vecchiaia. Nella Corea del Sud, a seguito della tragica esperienza bellica e delle epidemie, una efficiente rete di prevenzione sanitaria, con effetti benefici sulla vita media, e una difesa sociale (malattia, vecchiaia) senza pretese stratosferiche ma di alto rendimento. A Singapore e a Hong Kong la stessa consapevolezza visiva dell’esser troppi ha imposto la ristrutturazione della società, con un’uguaglianza dei sessi finora impensabile in Oriente. In tutti i paesi citati finora, più la Cina, e particolarmente nelle Mauritius, l’alfabetismo è diventato in venti anni quasi totale (più alto addirittura che in molti orgogliosi paesi d’Occidente!) il che oltre a dare un senso di pienezza e di libertà alla vita, rende comprensibile ogni messaggio, e soprattutto consente la corretta informazione sui problemi d’interesse individuale e collettivo.

Il denominatore comune di tutti i miglioramenti sociali elencati risulta soltanto uno: la scomparsa della paura (della fame, della malattia, della vecchiaia, del contatto umano, dell’ignoranza, del futuro…). La costante e confermata sostituzione di questo sentimento negativo (inscritto da sempre in ogni povero, ancora peggio se nasce in una società povera) con quello positivo della sicurezza e della tranquillità, è la motivazione precisa della diminuita produzione di figli. Soprattutto nelle società di misero livello, i figli sono infatti l’unica forma assicurativa possibile contro la fame, dovuta alla inabilità o alla vecchiaia. Qualsiasi altro intervento limitante (dalla penuria di abitazioni in U.R.S.S. e satelliti, al razionamento dell’amore nelle vecchie comuni cinesi, all’elevazione dell’età matrimoniale, alla tessera svedese di stato per due figli a coppia, commerciabili, alle tasse crescenti per ogni figlio oltre il terzo, alla propaganda e distribuzione di mezzi anticoncezionali) dimostra solo un’utilità marginale, inefficace se prima non si è ottenuta la citata modifica sentimentale in ogni individuo della comunità.

La vittoria di Pirro. – O è sufficiente dire nella maggioranza, come alle elezioni? II dilemma è spinoso perché, anche se sembra possibile ridurre gli sperperi e la valanga dei nuovi nati giocando sui sentimenti, il problema si ramifica in cento nuove terrificanti domande sul prevalente piano etico. Per esempio: come potrà essere costretto chi non vuole ad usare la «pillola»? Ammesso un massimo di due figli per coppia (Zero population growth) che cosa si farà, per legge, di un eventuale terzo nato? La sua atomizzazione? E a chi può pagare la «multa sociale» e può permettersi ogni eccesso, si imporrà forse la sterilizzazione forzosa di hitleriana memoria? Ma non è finita. Persino nell’ipotesi di una adesione spontanea al metodo le conseguenze sono più terribili che mai. Infatti in una singola comunità si autolimiteranno prevalentemente i più responsabili e saggi, tra le nazioni quelle più civili e mentalmente avanzate e così via. Perciò – nel caso di successo! – entro un massimo di tre o quattro generazioni l’equilibrio mondiale e comunitario si sposterà sempre più a favore degli irresponsabili, degli incivili, degli ipofrenici, dei geneticamente meno dotati; quasi che ce ne fosse già ora penuria, e non viceversa.

In questo caso per nulla improbabile – considerate le tesi pratiche emerse a Bucarest – potrà porsi ad un certo momento il problema della sopravvivenza delle elite culturali e fisiche residue. Ammesso che lo scopo sia raggiungibile, chi sarà chiamato a farne parte? E chi, soprattutto, dovrà procedere alla loro selezione? E con quali criteri? Il drammatico abbozzo di una simile crisi individuale e sociale è stato redatto da P. Wylie e E. Balmer in termini fantascientifici (When Worlds Collide, 1962), ma la realtà ha già superato – al solito – la fantasia.

Negli anni ’60 in Inghilterra i circoli governativi (come riferisce R. Vacca, in Il Medioevo Prossimo Venturo) progettarono un piano di salvezza in rifugi antiatomici della famiglia reale, del governo, dei vertici delle forze armate, di funzionari e tecnocrati e di una corte di tecnici e di guardie del corpo, nonché delle loro famiglie. Il piano tuttavia saltò perché il movimento per il disarmo nucleare, venutone a conoscenza, cominciò a discutere pubblicamente la liceità e i criteri della selezione dei candidati alla sopravvivenza. E naturalmente la maggioranza (cioè gli esclusi) vinse. Come accadrebbe ogni volta, da qui fino alla fine dell’umanità, impedendole di sottrarre una qualsiasi parte di se stessa all’universale olocausto.

Siamo dunque destinati a morire tutti per fame, o per inquinamento, o per esaurimento di ogni risorsa? Forse no, visto che la natura tiene in riserva un intervento quasi infallibile in casi come il nostro, cioè il rischio di estinzione di una specie per crisi di crescenza. Naturalmente, come tutti i rimedi estremi a mali estremi, appare crudele per l’individuo singolo, che si ribella a una selezione casuale e cieca pur non sapendone attuare una cosciente e finalistica. Tuttavia è collaudato su centinaia di specie da milioni di anni; siamo soltanto noi – forse appena prima di subirlo – ad averlo scientificamente registrato di recente. Lo discuteremo nel prossimo capitolo.

Capitolo VIII – La patologia sperimentale da civiltà 

L’uomo e la sua capsula spaziale. – Per l’universale vizio dei luoghi comuni semantici, chi legge capsula spaziale pensa subito all’Apollo o alla Sojuz. Ma non è di queste capsule per lo spazio che si vuole discutere; invece di quelle capsule di spazio che circondano invisibilmente ogni uomo (e ogni animale, e ogni struttura biologica organizzata) come altrettante bolle difensive, che espandono il confine organico al di là delle superfici libere del corpo. Se ci guardiamo attorno, con i nostri occhi ormai capaci di vedere solo i fenomeni più grossolani, non riusciamo a scorgerne nessuna. Eppure in altri tempi e in altre culture la «bolla» doveva rivelarsi più spesso, come un alone peculiare ad individui di straordinaria forza psichica, gli uomini-guida, i santi di ogni religione. Lo documenta il linguaggio – oggi considerato una miniera di scoperte etologiche – che conserva termini non più confermati dall’esperienza dei sensi, quali l’aura (di potenza, o di fascino), e l’«aureola». Questa «piccola aura», limitata al capo, si ritrova puntualmente nella iconografia tradizionale dei santi; ma la sua rappresentazione grafica è quasi sempre sbagliata. La disegnavano esattamente i bizantini nelle loro icone dorate, e gli ortodossi, e la scuola senese, che ripeteva fedelmente, insieme ai fondi aurei, anche il cerchio luminoso intorno alla testa, tanto se ritratta di fronte quanto di profilo. Ma nelle pitture occidentali successive l’aureola si trasforma in un elegante e inutile cerchietto al neon appiattito in prospettiva, e nelle statue in un patetico berrettuccio da para, sospeso in precario equilibrio al sommo dell’occipite. Tanto per segnalare che i nuovi artisti non l’hanno mai vista di persona (oppure che i nuovi santi sono meno illuminati di quelli di una volta).

La vedono invece – e quella di tutti – alcuni degli yoghi e dei monaci orientali più dotati. A questa supervista essi dichiarano di dovere la loro capacità di essere esattamente informati, in ogni istante, sull’atteggiamento psichico di qualsiasi interlocutore. La spiegazione tecnica è di una sconcertante semplicità: riflettendosi nel colore e nella brillantezza dell’aura lo stato biologico e sentimentale dell’individuo, attimo per attimo, essi possono dedurne il carattere di fondo, nonché il tipo e l’intensità dei sentimenti che lo agitano. Dicono gli yoghi che il tranquillo e benevolo è circondato da un’aura prossima ai contorni organici, a luminosità verde o azzurro pallido, appena appena palpitante; l’iroso, il violento, il nemico che odia (anche se il suo viso di carne si atteggia all’ipocrisia) espande intorno a sè una assai più ampia bolla, corrusca di vampate vulcaniche improvvise, com’esse contesta di gialli incandescenti, di rossi, di neri, di viola.

Tutte fantasie antiscientifiche, naturalmente, come tali squalificate dal sistema meccanicistico dominante. Purtroppo per esso, nel 1939 il tecnico elettronico russo S. Kirlian fu investito senza morirne da una scarica elettrica ad alta tensione ma a bassissimo amperaggio e, incuriosito dalle sensazioni avvertite, cominciò a fotografare usando lo stesso tipo di energia invece che la solita luce. Non soltanto le fotografie riuscirono, ma fornirono la prova tecnica che la scienza aveva torto, e gli yoghi ragione. Infatti mentre gli oggetti inanimati vengono riprodotti come li vediamo, ogni cosa vivente (che il linguaggio già chiama inconsciamente ma esattamente animata) appare circondata da un misterioso alone luminoso, che è semplicemente la già ricordata «aureola», quella che i nostri occhi hanno perduto la capacità di vedere e che quelli degli yoghi conservano. Essa sembra di natura bioelettrica (psicotronica) come riflesso radiante di energie emanate e/o assorbite dall’organismo, che si stanno ormai identificando con il prana yoga, con l’energia yin-yang dell’acupuntura cinese, persino con quegli «orgoni» di W. Reich per i quali quest’ultimo, già neuropsichiatra famoso e allievo brillante di S. Freud a Vienna, fu dichiarato paranoico, le sue opere date alle fiamme (come nel Medioevo) e finì la vita in un carcere americano come truffatore.

I risultati, indiscutibili e sempre riproducibili, hanno convinto i sovietici a fornire a Kirlian mezzi notevoli per le sue ricerche, tenute segrete per oltre vent’anni, oggi tuttavia condotte in tutto il mondo con la sua famosa camera o con modelli più perfezionati. Per esempio, in U.S.A. il dr. Krippner sta approfondendo tutti gli aspetti del problema (con finanziamento statale) per autorizzare l’ingresso definitivo del metodo nel campo universitario e scientifico ufficiale della nuova tecnica d’indagine. Essa è comunque la perfetta dimostrazione della dottrina yoga: l’alone di Kirlian è in grado di segnalare, con variazioni di tonalità e brillantezza, diversi stati patologici prima che se ne manifestino i sintomi organici (infarto, attacco influenzale, malattie intestinali) e persino forme psichiatriche, come documentano le ricerche di Lane, Schachter, Sheinkin e altri, sul ritorno alla normalità dell’aura in pazienti schizofrenici acuti, a seguito della terapia fenotiazinica.

La prossemica, o il significato delle distanze. – Un’altra conferma sperimentale della capsula di spazio intorno a noi (che si estende bene di là del campo di prossimità rilevabile con l’attuale strumentazione) e della sua variabilità a seconda degli stati d’animo (yoghi) è venuta nel 1971 dallo psichiatra di un carcere americano: A. Kinzel. Nei suoi soggetti egli ha potuto determinare, registrando la percezione extrasensoriale (quel «sentirsi guardati alle spalle» che tutti proviamo, senza sfruttarlo coscientemente) la misura lineare del raggio dell’aura pur senza vederla. E ha puntualmente ritrovato, nel suo test della pericolosità, la realtà supervista da millenni dai monaci tibetani: il suo cosiddetto «ottagono vitale» risulta almeno il doppio in diametro e sei volte in area maggiore per i violenti, rispetto ai tranquilli. Per quanto preziose come controllo sperimentale, spiace che le esperienze di Kinzel non ricordino le ricerche fondamentali dalle quali derivano; specie l’immenso materiale raccolto negli ultimi anni dagli etologi, come K. Lorenz e scuola (aggressività animale), o H. Hediger (meccanica degli spazi negli animali), o J. Christian (lemming e cervi di James Island), o dagli antropologi come E. T. Hall, il fondatore della «prossemica sistematica».

È ormai sperimentalmente dimostrato che quando l’affollamento aumenta oltre il limite massimo di popolamento, gli intensificati contatti reciproci provocano una crescente tensione e affaticamento. L’insostenibile sforzo psicologico ed emotivo culmina infine nell’usura dell’organismo, che vede il proprio equilibrio biochimico sottilmente ma radicalmente trasformato. La natalità precipita, mentre la mortalità cresce fino a determinare una situazione nota come «crisi di popolamento». Questi cicli di massimi e minimi di popolazione sono ora generalmente considerati normali per i vertebrati a sangue caldo, ma lo sono probabilmente per tutti gli esseri viventi.

Malthus sconfessato, ma in peggio. – Ma, contrariamente all’opinione popolare, lontano riflesso delle teorie di Thomas K. Malthus – il pastore anglicano sociologo ed economista che sostenne (1798) che la popolazione cresce in progressione geometrica, mentre i mezzi di sussistenza in progressione aritmetica – il fabbisogno insoddisfatto di cibo entra solo indirettamente in questi cicli, come hanno dimostrato J. Christian e V. C. Wynne-Edwards.

Uno dei misteri biologici più affascinanti riguardava il periodico genocidio volontario praticato dai lemming (Lemmus lemmus), genere di roditori topiformi del Nord Europa, che da secoli gli scandinavi osservano, ogni sette-undici anni, migrare ad orde di milioni di individui da est a ovest, per suicidarsi infine, apocalitticamente, nel mare del Nord. Studiando un ripetersi del fenomeno nel 1950, l’etologo (e patologo) J. Christian, sulla base concreta del fatto che anche nei periodi di grande e rapida mortalità, immediatamente precedenti al folle tuffo in mare, i lemming disponevano di molto cibo e non mostravano alcun segno di inedia, avanzò l’ipotesi che il controllo del popolamento dipendesse da meccanismi più intimi della mancanza (malthusiana) di cibo, e che la condotta apparentemente inspiegabile dei lemming dipendesse appunto da questi misconosciuti fattori.

L’occasione di una ricerca sperimentale, di straordinaria eleganza, gli fu offerta da una ormai celebre isola nella baia di Chesapeake (Maryland, U.S.A.), di circa un kmq di superficie, disabitata dagli uomini: James Island. Nel 1916 vi erano stati lasciati liberi quattro cervi Sika che, riproducendosi liberamente, avevano raggiunto nel 1955 il numero di circa 300 capi (densità di circa 3 capi per ettaro), facendo presumere prossima una crisi di popolamento.

In quell’anno Christian uccise, come campione, quattro cervi, e ne registrò minutamente tutti i dati autoptici e istologici. Poi attese gli eventi. Nel 1956 e 1957 non accadde nulla. Ma nei primi tre mesi del 1958 morì più della meta dei cervi. Nel 1959 nuova moria e nuova caduta nel livello di popolamento; infine dal 1960 la popolazione si stabilizzò sugli ottanta capi (densità di 0,8 per ha). Christian raccolse, tra il 1958 e il 1960, dodici cervi, che sottopose ad altrettante ricerche istologiche dei primi quattro del 1955. Il loro studio fu altamente significativo: in precisi e misurabili termini endocrinologici (atrofia delle ghiandole surrenali), risultò che tutti gli animali, dal 1957 in poi, erano stati sottoposti ad una condizione di stress cronico, che finalmente li aveva condotti all’esaurimento, al collasso, alla morte. Non fu rilevata infatti alcuna traccia di infezione, di inedia, o di altre malattie, che potessero spiegare la moria in termini diversi da quelli del cronico disturbo ormonale di relazione.

Nella ricerca di Christian, la fisiologia è pienamente soddisfatta. Mancava tuttavia lo studio comportamentale. Quali riflessi psicologici aveva determinato, nel singolo e nel gruppo, l’ipersurrenalismo cronico?

È noto da pochi decenni, ma ormai indiscusso, che il canto melodioso degli uccelli ha uno scopo ben diverso che di rallegrare la fauna del bosco (uomo compreso, quando gli accade di transitarvi). Esso è invece, tra l’altro, un preciso e periodicamente ripetuto segnale di territorialità occupata, inteso a far rispettare il primitivo utente dagli eventuali intrusi o aspiranti al feudo, della stessa specie. Ciò serve a definire, e a circoscrivere nell’ambiente, una sufficiente stazione di nutrimento che non può essere ridotta senza lotta e sconfitta. Ma oltre al territorio, ciascun animale è circondato da una serie di sfere o bolle grossolanamente circolari, che servono a mantenere lo spazio conveniente tra individui, della stessa o di diversa specie, e il cui uso automatico nelle varie contingenze di relazione è stato accuratamente descritto da H. Hediger (distanze di fuga, critica, di attacco). Sovvertirne l’organizzazione strutturale, con l’artificio o il sovraffollamento, conduce inevitabilmente a danni organici (quali quelli dei cervi di James Island) nonché a riflessi psicosomatici morbigeni e mortiferi, e a irreversibili modifiche nel comportamento individuale e sociale.

Sovrappopolazione e «fogna del comportamento». – L’etologo americano J. B. Calhoun decise, intorno al 1958, che era tempo di risolvere sperimentalmente i dubbi nascenti dalle sue ultradecennali ricerche sul livello di popolazione dalle quali risultava che, nonostante il cibo sovrabbondasse, tale da sostenere la vita «agiata» di oltre 50.000 topi (se posti in gabbiette come quelle usuali dei laboratori), allo stato selvaggio la popolazione si stabilizzava intorno alle 150 unità, e non di più. A questo fine costruì, in un granaio di Rockville (Maryland, U.S.A.) tre unità di abitazione di m 3×4,20, osservabili di giorno e di notte attraverso ampie finestre nel soffitto, senza disturbare i topi. Dopo l’iniziale immissione di femmine gravide, cessò ogni intervento umano, salvo la rimozione della eccedenza dei nati, allo scopo di mantenere la popolazione sotto il limite degli ottanta individui, cioè il doppio (e non di più) della densità naturale per lo stesso spazio. Lo scopo prefisso era quello «di registrare l’esito normale del comportamento individuale e sociale di una qualunque colonia animale costretta a vivere a lungo (tre generazioni) troppo addensata».

L’insieme di impressionanti distorsioni nella condotta della maggioranza dei suoi topi condussero Calhoun a coniare la cruda espressione di «fogna del comportamento» espressa da spaventose varianti nei moduli di comportamento usuali al genere studiato. Per esempio: a) nel corteggiamento e attività sessuale solo i maschi superiori e dominanti (3 in tutto) dimostrarono una condotta normale. Per gli altri fu registrata o una totale passività e disinteresse sessuale, o la perversione accentuata dell’erotismo, persino svolto in gruppo, o a pansessualità (etero-omo); b) nella costruzione del nido: una media o totale disorganizzazione finalistica, che si rifletteva sulla incapacità dei neonati a sopravvivere; c) nell’allevamento dei figli: la indistinguibilità delle varie nidiate, con cure inadatte, abbandono, e divoramento dei piccoli da parte dei maschi estranei; d) nell’organizzazione territoriale e sociale: sviluppo di una quasi totale anarchia e rifiuto di stabili relazioni gerarchiche. Da questo discendevano la necessità di una continua battaglia per i pochi maschi dominanti, e, per gli altri, lo sviluppo di vere bande disturbatrici delle condizioni di vita della comunità. Sul piano patologico. Calhoun osservò un’altissima percentuale di aborti, una impressionante serie di malattie degenerative ai reni, fegato, ghiandole surrenali; all’utero, ovaie, tube falloppiane; infine un numero elevato (di contro all’assenza o quasi nei topi selvaggi) di neoplasie benigne e maligne specie alle ghiandole mammarie e agli organi sessuali. Soprattutto la localizzazione dei danni agli organi della riproduzione e del mantenimento dei neonati si rivelano, per quanto brutali, come metodi anticoncezionali differiti, limitativi della sovrappopolazione.

Studiando l’utilizzazione degli spazi nell’uomo, E.T. Hall conduce un’analisi di straordinaria acutezza, correlando il diametro di ogni bolla al dominio di uno o dell’altro dei sensi in esse prevalentemente sollecitato. Il loro rispetto è necessario per mantenere l’equilibrio psicoorganico nelle varie utilizzazioni particolari dello spazio: visivo e uditivo, olfattivo e tattile, caotico, termico o ambientale, politico o urbanistico. Purtroppo la revisione critica dell’organizzazione spaziale umana, soprattutto quella semideterminata (ambienti di lavoro, di abitazione, residenziali) dimostra che essa è del tutto inadeguata – e perciò stressante – al corretto e soddisfacente godimento delle necessarie distanze umane; meno per quelle intima e personale, in modo assai più grave per quelle sociale e pubblica (soprattutto a livello urbanistico). Da questo punto di vista, disgraziatamente, ci troviamo pressappoco nelle condizioni di cronico stress da sovraffollamento rivelato dai cervi di James Island; ma per l’aggravante del fatto che la nostra civiltà riesce a impedire, sul piano fisico, la catarsi liberatrice della crisi acuta spopolante, ci avviciniamo sempre di più alle condizioni psicosociali dei topi di Calhoun.

Uomini e topi. -Con il vecchio celebre titolo di Steinbeck proponiamo l’argomento della liceità di un parallelo tra le due specie di mammiferi considerate nella ricerca. Le analogie di comportamento risultano comunque fortemente suggestive, tali da non poter essere respinte con leggerezza di fronte a documenti di gravità eccezionale come quelli riferiti. Che cosa sono infatti le nostre strutture predeterminate (le città progettate dagli architetti, nelle quali ci tocca vivere noi) se non altrettante unità di abitazione secondo Calhoun? E infatti, con ossessiva puntualità, ritroviamo in esse, a livello medico-sociale concrete, alcuni elementi pertinenti alle stesse modifiche psicosomatiche dei topi di Rockville: l’ipersurrenalismo cronico, espresso dall’incremento statistico delle malattie ipertensive e circolatorie (con le crisi acute infartuali a base organica sempre meno attendibile); l’aggressività in esplosione gratuita; le alterazioni più o meno importanti della psiche; le neurosi a diffusione crescente; moduli comportamentali esattamente trasferiti nella cultura e nelle possibilità dell’uomo, come le facili perversioni erotiche, l’eterosessualità di gruppo, il gay people omosessuale sventolato come una bandiera, la permissive society come riconoscimento di una moda statistica incomprimibile, e quindi accettata come sanatoria legalizzante; la nascita di bande di «angeli neri» (le farebbero anche i topi se costruissero motociclette!); infine l’evasione negativistica rivelata dal drogaggio progressivo di massa. Nelle nostre grandi unità urbane non siamo ancora arrivati a divorare i neonati, ma riveliamo anche noi tumori in tassi statisticamente superiori alla media generale (ca. polmonare, secondo Montelli 1969, nel 12,3 per centomila di contro al 3,3 per centomila nei nuclei abitati inferiori a 5000 ab.).

Ma c’è di più. L’aumento esponenziale di tutte le malattie appena citate è rimasto finora un mistero, chiuso a qualsiasi ipotesi organica o meccanicistica, che tuttavia si apre con facilità se proviamo la «chiave» psicosomatica, nei confronti delle comunità più civili che ne stanno morendo in massa. Basta ricordare che lo sviluppo comporta la rapida e progressiva urbanizzazione, con l’universale viraggio di ogni altra condizione di esistenza a quella, ben più complicata e stressante, di tipo cittadino. Come giunta peggiorativa le città sono progettate e costruite sempre più gigantesche e sempre più alienanti, e l’isolamento e lo stress dell’uomo singolo e collettivo, compresso nei suoi spazi dall’urbanistica di consumo, diventano ogni giorno più intollerabili; tali addirittura da provocare, per fatale contrappasso, la morte stessa delle città (cfr. «New York’s gasp?» – L’agonia di New York?, in «Newsweek», 1975). Eppure la tendenza alla concentrazione urbanistica è tuttora così enorme e inarrestabile che urbanisti responsabili come L. Llewellyn, D. e P. Cowan (U.K.) prevedono per la fine del secolo l’affollamento di oltre 1800 milioni di uomini in sole cinque immense megalopoli, ciascuna popolata da 300 o 400 milioni di individui. Ma già oggi in Inghilterra, negli U.S.A. e in Giappone la proporzione dei cittadini sul totale della popolazione nazionale è salita dal 16,9 per cento del 1801 (U.K.), dal 32 per cento del 1860 (U.S.A.), dal 18 per cento del 1920 (Giappone), a un uniforme 80 per cento circa del 1965 per tutte e tre.

Dunque conviene considerare i topi di Calhoun, piuttosto che semplici curiosità che non ci riguardano, al pari di un test reattivo, come quelli che ogni giorno la medicina ci prescrive e alle cui capacità di predizione crediamo. Purtroppo non esiste alcuna speranza di errore, e siamo già sbarcati come i cervi Sika nella James Island, forse senza possibilità di uscirne. Chi può allora meravigliarsi se i meno forti (o magari i più lucidi) tra noi inseguono altri tipi di evasione psicologica, per esempio quelle voluttuarie?

Capitolo IX – La contestazione gratificante 

All’assunzione volontaria di droghe si dà genericamente il nome tecnico di intossicazioni voluttuarie. La ricerca del loro intimo significato sociale (appena accennata alla fine dell’ultimo capitolo) allarga invece il fenomeno, nel suo profilo più esatto di «contestazione gratificante», a comprendere non solo le droghe minori, non solo le abitudini ormai socialmente accettate (alcool, tabacco, caffè) ma persino droghe sentimentali come i nuovi culti di massa e la violenza ideologica.

L’alcool. – La scoperta dell’alcool è attribuita dalle tradizioni di molti popoli ai saggi che sopravvissero «per volontà divina» al diluvio universale (l’ebraico Noé e le sue analoghe controparti come il babilonese Xisuthros, il sumerico Ziusudra, l’assiro Utanapishtim, i greci Deucalione e Pirra) forse come contrappasso alla enorme indigestione d’acqua sofferta dal genere umano diecimila anni fa. Seimila anni fa, prima ancora che nascesse il pane, era già famosa la birra egiziana, che si sorbiva con la cannuccia per evitare la pula d’orzo; ma la nascita della alcoologia scientifica è dell’altro ieri. Il termine venne usato per la prima volta nel 1923, in una comunicazione del dottor E. de Cérésale alla Société Vaudoise de Médecine. Come droga, il carattere dell’alcool è stato definito solo nel 1954 da un rapporto tecnico (n. 84) del sottocomitato per l’Alcoolismo della Commissione d’igiene mentale dell’O.M.S.: «dovrà essere considerato come una droga dall’azione farmacologica intermedia tra le droghe inducenti tossicomania e quelle inducenti abitudine… il suo consumo può risultare nocivo per l’individuo, ma soltanto in una minoranza dei consumatori. Come contropartita, tuttavia, il danno sociale che ne deriva non rimane circoscritto ai soli affetti». Basta pensare alla universale collusione dell’alcool con il traffico per convincersene: secondo il National Health Survey (1964) oltre il 30% dei 10.000 incidenti giornalieri U.S.A. da traffico è dovuto all’alcoolismo: McCarrol e Addon di New York (1961) hanno riscontrato che il 73% dei guidatori responsabili di incidenti mortali si trovava in stato di etilismo acuto.

E il Joint Blood Alcohol Study (Illinois, 1966) ha accertato che su 1130 persone coinvolte durante nove mesi in incidenti stradali, l’alcoolemia era superiore a 1,25%o nel 43% dei guidatori, e nel 45% dei pedoni. Il reperto è spiegabilissimo; e si applica tanto al guidatore quanto al pedone: infatti tassi alcoolemici di 0,5% o danno già euforia; dello 0,8% o il raddoppiamento dei tempi di reazione (Forbes), dell’1,15% una forte diminuzione dell’udito e reazioni anormali della visione, e così via.

Tuttavia l’uso moderato dell’alcool è stato sempre riconosciuto come un prezioso compagno dell’uomo, uno dei pochi capaci di rendergli meno pesante la fatica di vivere. Perciò tutti o quasi tutti, d’ogni paese, lingua, civiltà, cultura, beviamo.

Il fenomeno è tanto universale da rendere persino pleonastico chiarire «che cosa»: l’alcool, ovviamente, in qualsivoglia forma o preparazione. Discutendo gli aspetti sociologici delle intossicazioni voluttuarie (droghe, alcool, tabacco) Debré (1964) ha attinto il limite della universalità: non esiste comunità umana – nello spazio e nel tempo – dove non si sia fatto ricorso ad almeno una di queste tre forme di intossicazione volontaria, per la sensazione immediata di benessere che procurano e nonostante i gravi e palesi danni che conseguono al loro abuso. Ma allora, perché? Per quanto riguarda l’alcool, tra le motivazioni individuali risultano preminenti l’imitazione («bevevano i nostri padri?» eccetera della canzone bacchica!), l’uso sociale, l’evasione da una realtà sconfortante, l’espansione della personalità, la ricerca della libertà quale opposizione alla fissità stressante delle gerarchie nel mondo moderno; e infine un ruolo assai pesante per la frustrazione («scacco esistenziale») tanto facile nella società del successo e da consolare gratificandosi privatamente. Su questa linea appaiono penosamente errati i rimedi proposti dai sociologi di qualche decennio fa, per i quali la vittoria sull’alcool discendeva direttamente dall’elevazione del livello di vita. «Avviene che nelle più avanzate società del successo, in U.S.A. e in Europa, i maggiori consumatori di tranquillanti e anfetaminici si trovano nelle classi medio-alte (che ricoprono posti di responsabilità nel mondo politico-economico); la medesima tendenza psicosociale viene confermata dall’aumento del casi di ricovero per etilismo acuto tra gli immigrati meridionali giovani nel Nord-Italia (Virginio Porta); è dimostrato che migliorando le condizioni economiche non si riduce la propensione alle intossicazioni; queste diventano soltanto più raffinate». Ciononostante, in relazione al fatto che (QMS, 1954) «in alcuni paesi il 37% di tutto l’alcool è consumato dal solo 2% dell’intera popolazione», i decessi per delirium tremens sono cresciuti in Francia del 1000% in nove anni (Denux 1959), dai 481 del 1946 ai 4595 del 1955; e i ricoveri in ospedale psichiatrico per etilismo acuto sono aumentati (tanto in Italia, secondo Massignan e Madeddu, quanto persino in Giappone) di oltre il 1100% nel medesimo periodo.

Il tabacco. – Al di là della sua caratteristica organolettica di minidroga collettiva, il fumo presenta una fisionomia psicosociale di estremo interesse, per molti versi preziosa, come «termometro della febbre delle comunità». Da centinaia di millenni – presumibilmente dal primo inizio dell’organizzazione umana in gruppi comunitari – i capi e responsabili delle collettività, religiosi o laici che fossero, giù giù fino ai politici e ai socio-psicologi attuali, hanno ricercato qualche mezzo di informazione sugli stati d’animo della comunità sottoposta, quale indice del loro gradimento o come profilassi verso l’imprevista esplosione di crisi psicosociali.

Per questo sono nati gli informatori privati, le polizie segrete d’ogni tempo e d’ogni paese, le denunce anonime nelle «bocche di leone» della Serenissima, la stampa come riflesso della pubblica opinione, il periodo dei «cento fiori» di Mao, i polls o indagini d’opinione anglosassoni; tutti mezzi comunque imperfetti per carenza di attendibilità, per costo e per pericoli sociali (abuso di potere).

Il metodo ideale, di costo nullo per i governi (anzi finanziariamente vantaggioso), di applicazione continuativa, di attendibilità indiscutibile, e oltretutto ad indice elevatissimo di gradibilità sociale, esiste: è il fumo, espresso con matematica precisione dal consumo di sigarette in un tempo determinato. Per riconoscere questa sua caratteristica psicosociale basta richiamare le più accreditate motivazioni del fumatore. Sorvolando sulle spiegazioni ritualistiche e ripetitive, su quelle estetiche e magiche («il fuoco privato»), sui significati inconsci della sessualità e della virilità e infine sulla «attività di pulizia» secondo D. Morris, per superare in una ritualità condivisa l’inibizione iniziale di un incontro interpersonale, quella veramente sostanziale è la gratificazione psicologica e soprattutto la motivazione psicanalitica della suzione (attività orale elementare,  mondo del poppante «attaccato» alla madre) come possibilità volontariamente reiterabile di rassicurazione, capace di attenuare i fenomeni spiacevoli o dolorosi.

A. Huxley, che inserì nel suo Brave New World la droga perfetta (il «soma»), perché la sua comunità mantenesse graditamente la tranquillità mentale in un mondo totalmente alienante, si è scordato di farne un indice sociale di tensione, sarebbe risultato utilissimo al suo supremo reggitore. L’unico accenno a questa utilizzazione appare in una novella fantascientifica di autrice americana (Il pianeta rosso) dove il responsabile sanitario di una astronave deduce la crescente tensione della sua comunità dal consumo esagerato di soma attinto a volontà dai distributori automatici. Se al soma sostituiamo la sigaretta, e alla cellula chiusa dell’astronave l’intera comunità umana sul pianeta, siamo immediatamente in grado di leggere il «termometro» che da quasi un secolo abbiamo sotto gli occhi, senza guardarlo. E di ricavarne una prima drammatica deduzione; che il mondo soffre da decenni di grave ipertermia, per di più in costante crescendo: nel 1960 sono stati venduti in tutto il mondo 2.227 miliardi di sigarette; nel 1971 oltre 4.000 miliardi. II record di consumo annuale, per individui di età superiore ai 15 anni, è detenuto dagli U.S.A.: oltre 7 kg a testa nel 1971.

Interpretando il fumo come concreto sintomo dell’ansia e della solitudine sociale, questa preminenza non stupisce, tanti e così noti sono i documenti sulla alienazione d’avanguardia della più progredita comunità del mondo. Le curve di consumo U.S.A. consentono (Speciani, 1971) di confortare statisticamente questo carattere medico-sociale (oltretutto non avendo mai subito razionamenti forzosi). La loro crescita è di tipo nettamente esponenziale, dai 40 milioni di pezzi del 1900 ai 660 miliardi di pezzi del 1974. Ma il loro dettaglio è straordinariamente illuminante, in quanto la crescita non è affatto costante, ma precede per successive impennate, sempre connesse con i tempi di crisi psicosociale. Per esempio il primo raddoppio, dai 49 miliardi del 1928 ai 103 del 1932, corrisponde alla grande crisi del 1929; un altro raddoppio, dai 176 miliardi del 1939 ai 376 del 1945, identifica la II guerra mondiale; segue una fase più o meno orizzontale fino al 1954 (rapporto Terry sui pericoli del fumo, ma soprattutto pace); in seguito, nonostante gli avvisi di legge sui pacchetti, («può essere pericoloso») e il grosso rumore sul fumo = cancro, l’ascesa verticale riprende, parallelamente alla guerra di Corea, al Viet-Nam e alla crisi razziale, dai 402 miliardi del 1954 ai 615 del 1970. Altra fase di stanca fino al 1972 (appeasement e Kissinger, non per nulla premio Nobel per la pace) che registra ancora 599 miliardi; ma non appena inizia il Watergate, fino alla sua penosa conclusione, la tensione sociale potenzia il consumo di sigarette: 646,2 miliardi nel 1973, 660 previsti per il 1974, in base ai consumi dei primi cinque mesi (274 miliardi). L’attuale consumo è 16.000 volte maggiore di quello del 1900 e segnala un aumento di migliaia di volte dell’ansietà cronica delle comunità. Questo dato, palese a tutti invece che misterioso e presuntivo, ci dà un preciso indirizzo per interpretare finalmente l’assai più grave fenomeno del vero e omicida drogaggio chimico.

Il drogaggio di massa. – Di quali droghe si compone il parco voluttuario attuale? Per millenni, dal nepente di Elena di Troia ricordato da Omero (oh semplicità arcana della ricetta: vino nero, succo di cipolla, un pizzico di farina di farro e, ovviamente, succo di papavero!) fino a pochi anni or sono, le droghe dell’umanità erano stabilizzate per gruppi di civiltà: oppiacei grezzi in Asia ed Europa meridionali; hashisch in Africa settentrionale e Medio Oriente; tabacco, coca e funghi allucinatori nelle Americhe centrale e meridionale; noci di areca (betel) in Malesia e India; caffè in Arabia, Africa, Medio Oriente e Sudamerica; tè in tutta l’Asia; hierba mate in America meridionale, più alcool dappertutto. Oltre a queste droghe maggiori numerose altre, talvolta ancora più potenti, ma abbinate a un esoterismo magico o sacrale, quindi a un segreto e limitatissimo uso rituale in diverse locazioni etnografiche. Ma per limitarci solo ai veri «stupefacenti», nei tempi moderni i ricercatori di paradisi artificiali si sono visti offrire una lista sempre più lunga di scelte esclusive, ciascuna delle quali raccoglieva i suoi particolari fanatici (morfinomani, cocainomani, eroinomani ecc.), ancora dilatata con i tristemente celebri disassuefatori dalla morfina (metadone, fentanylum, petidina) ciascuno dei quali reclutava invece le proprie schiere di adepti. Si trattava comunque di gruppi umani assai ristretti, di età media o matura, psicologicamente e culturalmente ben classificabili e di fatto schedati dalle polizie criminali di tutto il mondo.

Ma dopo – soprattutto dopo Hiroshima, tanto per datare una tragedia umana da un’altra che aprì una nuova epoca storica – è stato ed è il caos. Non solo il mercato è andato organizzandosi su una base di massima efficienza industriale, di contro ai balbettii artigianali precedenti, ma la sua materia si è diversificata a tal punto da soddisfare qualsiasi esigenza e capacità di acquisto. Il suo attuale campionario (in continua espansione) si estende ormai dagli allucinogeni come l’LSD, la mescalina, la psilocibina, l’hashisch (marihuana), alla yohimbina, le anfetamine e gli STP («specially treated petroleum»); passa per gli stupefacenti di antico e disonorato lignaggio (laudano, oppio e alcaloidi), per gli analgesici centrali morfinomimetici ai quali si è già accennato; per la cocaina; per gli ipnotici dal vecchio idrato di cloralio ai barbiturici di ogni estrazione; e arriva a molti farmaci psicolettici che – preziosi in terapia controllata – sviluppano purtroppo sulla scala di massa una dipendenza che non ha nulla da invidiare a quella delle droghe maggiori. Per completare il quadro nella sua «stupefacente» realtà, non si possono dimenticare le sostanze inebrianti di uso comune e legale, a partire dall’alcool per arrivare all’etere, al cloroformio, all’acetone, alla benzina, allo smalto per unghie e ad alcune colle industriali il cui uso, distorto paradossalmente a finalità voluttuarie, sta facendo decine di migliaia di proseliti tra i ragazzini svedesi, inglesi e canadesi, e riesce persino a spiegare – su una motivazione assai più concreta di quella psicologica – la fortuna eccezionale tra gli infanti di alcuni giocattoli di legno verniciato. Di fronte a questa universalità che da sola annulla qualsiasi ipotesi di divieto per finalità alternative, nasce la necessità di rivolgere l’attenzione più all’utente che alle materie che usa. Cioè alle modalità di arrivo all’uso voluttuario di qualsiasi possibile sostanza.

Il drogaggio di massa. – Di quali droghe si compone il parco voluttuario attuale? Per millenni, dal nepente di Elena di Troia ricordato da Omero (oh semplicità arcana della ricetta: vino nero, succo di cipolla, un pizzico di farina di farro e, ovviamente, succo di papavero!) fino a pochi anni or sono, le droghe dell’umanità erano stabilizzate per gruppi di civiltà: oppiacei grezzi in Asia ed Europa meridionali; hashisch in Africa settentrionale e Medio Oriente; tabacco, coca e funghi allucinatori nelle Americhe centrale e meridionale; noci di areca (betel) in Malesia e India; caffè in Arabia, Africa, Medio Oriente e Sudamerica; tè in tutta l’Asia; hierba mate in America meridionale, più alcool dappertutto. Oltre a queste droghe maggiori numerose altre, talvolta ancora più potenti, ma abbinate a un esoterismo magico o sacrale, quindi a un segreto e limitatissimo uso rituale in diverse locazioni etnografiche. Ma per limitarci solo ai veri «stupefacenti», nei tempi moderni i ricercatori di paradisi artificiali si sono visti offrire una lista sempre più lunga di scelte esclusive, ciascuna delle quali raccoglieva i suoi particolari fanatici (morfinomani, cocainomani, eroinomani ecc.), ancora dilatata con i tristemente celebri disassuefatori dalla morfina (metadone, fentanylum, petidina) ciascuno dei quali reclutava invece le proprie schiere di adepti. Si trattava comunque di gruppi umani assai ristretti, di età media o matura, psicologicamente e culturalmente ben classificabili e di fatto schedati dalle polizie criminali di tutto il mondo.

Ma dopo – soprattutto dopo Hiroshima, tanto per datare una tragedia umana da un’altra che aprì una nuova epoca storica – è stato ed è il caos. Non solo il mercato è andato organizzandosi su una base di massima efficienza industriale, di contro ai balbettii artigianali precedenti, ma la sua materia si è diversificata a tal punto da soddisfare qualsiasi esigenza e capacità di acquisto. Il suo attuale campionario (in continua espansione) si estende ormai dagli allucinogeni come l’LSD, la mescalina, la psilocibina, l’hashisch (marihuana), alla yohimbina, le anfetamine e gli STP («specially treated petroleum»); passa per gli stupefacenti di antico e disonorato lignaggio (laudano, oppio e alcaloidi), per gli analgesici centrali morfinomimetici ai quali si è già accennato; per la cocaina; per gli ipnotici dal vecchio idrato di cloralio ai barbiturici di ogni estrazione; e arriva a molti farmaci psicolettici che – preziosi in terapia controllata – sviluppano purtroppo sulla scala di massa una dipendenza che non ha nulla da invidiare a quella delle droghe maggiori. Per completare il quadro nella sua «stupefacente» realtà, non si possono dimenticare le sostanze inebrianti di uso comune e legale, a partire dall’alcool per arrivare all’etere, al cloroformio, all’acetone, alla benzina, allo smalto per unghie e ad alcune colle industriali il cui uso, distorto paradossalmente a finalità voluttuarie, sta facendo decine di migliaia di proseliti tra i ragazzini svedesi, inglesi e canadesi, e riesce persino a spiegare – su una motivazione assai più concreta di quella psicologica – la fortuna eccezionale tra gli infanti di alcuni giocattoli di legno verniciato. Di fronte a questa universalità che da sola annulla qualsiasi ipotesi di divieto per finalità alternative, nasce la necessità di rivolgere l’attenzione più all’utente che alle materie che usa. Cioè alle modalità di arrivo all’uso voluttuario di qualsiasi possibile sostanza.

Il drogaggio di massa. – Di quali droghe si compone il parco voluttuario attuale? Per millenni, dal nepente di Elena di Troia ricordato da Omero (oh semplicità arcana della ricetta: vino nero, succo di cipolla, un pizzico di farina di farro e, ovviamente, succo di papavero!) fino a pochi anni or sono, le droghe dell’umanità erano stabilizzate per gruppi di civiltà: oppiacei grezzi in Asia ed Europa meridionali; hashisch in Africa settentrionale e Medio Oriente; tabacco, coca e funghi allucinatori nelle Americhe centrale e meridionale; noci di areca (betel) in Malesia e India; caffè in Arabia, Africa, Medio Oriente e Sudamerica; tè in tutta l’Asia; hierba mate in America meridionale, più alcool dappertutto. Oltre a queste droghe maggiori numerose altre, talvolta ancora più potenti, ma abbinate a un esoterismo magico o sacrale, quindi a un segreto e limitatissimo uso rituale in diverse locazioni etnografiche. Ma per limitarci solo ai veri «stupefacenti», nei tempi moderni i ricercatori di paradisi artificiali si sono visti offrire una lista sempre più lunga di scelte esclusive, ciascuna delle quali raccoglieva i suoi particolari fanatici (morfinomani, cocainomani, eroinomani ecc.), ancora dilatata con i tristemente celebri disassuefatori dalla morfina (metadone, fentanylum, petidina) ciascuno dei quali reclutava invece le proprie schiere di adepti. Si trattava comunque di gruppi umani assai ristretti, di età media o matura, psicologicamente e culturalmente ben classificabili e di fatto schedati dalle polizie criminali di tutto il mondo.

Ma dopo – soprattutto dopo Hiroshima, tanto per datare una tragedia umana da un’altra che aprì una nuova epoca storica – è stato ed è il caos. Non solo il mercato è andato organizzandosi su una base di massima efficienza industriale, di contro ai balbettii artigianali precedenti, ma la sua materia si è diversificata a tal punto da soddisfare qualsiasi esigenza e capacità di acquisto. Il suo attuale campionario (in continua espansione) si estende ormai dagli allucinogeni come l’LSD, la mescalina, la psilocibina, l’hashisch (marihuana), alla yohimbina, le anfetamine e gli STP («specially treated petroleum»); passa per gli stupefacenti di antico e disonorato lignaggio (laudano, oppio e alcaloidi), per gli analgesici centrali morfinomimetici ai quali si è già accennato; per la cocaina; per gli ipnotici dal vecchio idrato di cloralio ai barbiturici di ogni estrazione; e arriva a molti farmaci psicolettici che – preziosi in terapia controllata – sviluppano purtroppo sulla scala di massa una dipendenza che non ha nulla da invidiare a quella delle droghe maggiori. Per completare il quadro nella sua «stupefacente» realtà, non si possono dimenticare le sostanze inebrianti di uso comune e legale, a partire dall’alcool per arrivare all’etere, al cloroformio, all’acetone, alla benzina, allo smalto per unghie e ad alcune colle industriali il cui uso, distorto paradossalmente a finalità voluttuarie, sta facendo decine di migliaia di proseliti tra i ragazzini svedesi, inglesi e canadesi, e riesce persino a spiegare – su una motivazione assai più concreta di quella psicologica – la fortuna eccezionale tra gli infanti di alcuni giocattoli di legno verniciato. Di fronte a questa universalità che da sola annulla qualsiasi ipotesi di divieto per finalità alternative, nasce la necessità di rivolgere l’attenzione più all’utente che alle materie che usa. Cioè alle modalità di arrivo all’uso voluttuario di qualsiasi possibile sostanza.

Perché si drogano? – D.B. Louria, professore di medicina preventiva all’Università del New Jersey, ha riassunto (1972) dalle interviste di 20.000 casi elaborate al computer, almeno quattordici cofattori responsabili, che vanno dalla decadenza della famiglia alla disponibilità della droga, dall’edonismo sociale alla reazione alla violenza della vita urbana, dall’imitazione alla noia, al rito iniziatico per inserirsi in un gruppo, e per gli scolari più verdi l’emulazione e lo scacco esistenziale, di piccolo peso per noi adulti ma non per loro. Tuttavia la massima parte di questi fattori (Speciani, 1972) non sono cause, ma semplici effetti. Nella sua più profonda radice, l’abuso della droga non è infatti una malattia, ma soltanto un sintomo (come è stato già detto per il tabacco). Solo per questo risulta così incurabile, come l’asma allergica senza desensibilizzazione specifica; per questo registriamo le eterne ricadute dei drogati, nonostante ogni sforzo, ogni sacrificio, ogni meritoria dedizione sul corno sbagliato della questione. Ma sintomo di che cosa?

I sociologi concordano ormai su una motivazione di massa, che spinge i più giovani alla droga: un malinteso senso di emulazione e l’inevitabile richiamo del rischio, che la società del benessere pianificato fa invece di tutto per sottrargli («il bere è superato, il sesso è scontato, il vero “bang” è ormai solo la droga»). E nessuna chiesa ha sinora codificato esplicitamente i peccati da droga, pur deflazionando quelli del sesso. Inoltre l’uso illegale delle droghe, al pari dei capelli troppo lunghi e scomodi da portare, sono per i giovani una dimostrazione, a se stessi ed agli altri, della possibilità di «sottrarsi all’integrazione nella società» (L. Grispoon), e non a una teorica, ma esattamente a questa. Come ha osservato C. P. Snow, «l’inquietudine sta diventando parte integrante del clima del nostro tempo. È difficile evitare la conclusione che il crescente uso delle droghe di massa sia almeno in parte collegato alle spaventose minacce della sovrappopolazione, dei conflitti razziali e della guerra nucleare». Ma non, come sembra pensare Snow, quale «consolazione»; invece come evasione contestatrice dalla realtà non voluta nella quale sono stati chiamati a vivere. Il rifiuto appare di tale intensità e verità da indurre alla distinzione della società o, in sua carenza o parallelamente, alla distruzione di se stessi. Infatti che le droghe, dalle più «soffici» alle più «dure» non siano altro che strumenti più o meno affilati per un gratificante suicidio differito lo dimostra l’inutilità, a fini profilattici, di ogni lesione repressiva inflitta alla personalità del drogato dal contesto sociale (multe, carcere, disprezzo, persino la compassione).

La percezione sempre più chiara e vissuta dei problemi tremendi contro i quali l’umanità sta collidendo – e nella soluzione dei quali la medicina moderna non sa aiutarla – ci ha posto tutti, ogni giorno di più, in condizioni di squilibrio e di insicurezza. La sofferenza sentimentale che questa coscienza comporta viene risolta in forma esasperatamente negativa dal drogato (caratterialmente assai più sensibile della media) ma quasi con il carattere di punta avanzata dell’umanità, paradigma di un comportamento sentimentale destinato a coinvolgere nel futuro anche tutti gli altri.

Il drogaggio sentimentale. – I quali altri, che esprimono con il disprezzo sociale ai drogati soprattutto la loro paura di essere coinvolti nelle loro medesime motivazioni, stanno ormai seguendone le tracce, senza nemmeno il coraggio della loro contestazione auto-distruttrice. Per esempio si drogano come loro, su scala ben più universale, con mezzi leciti e dignitosi: i tranquillanti e i sonniferi, gli antinevralgici e gli ansiolitici, gli antifame, i ricostituenti, i dimagranti, gli abbronzanti velenosi… Un’inchiesta condotta nel 1973 dal Food and Drug Administration U.S.A. e riferita dal prof. G. Vanzetti, ha rilevato l’assunzione media per persona di 27 diversi preparati medicinali. Il problema è così maturo da aver provocato un convegno internazionale (maggio 1973, Bellagio) della Special Commission on Internal Pollution alla presenza, tra gli altri, di tre premi Nobel (Krebs, Monod, Theorell). Si è discusso delle medicine sotto il profilo anomalo di droghe voluttuarie, e dei loro pericoli organici. Nessuno ha però superato l’impostazione meccanicistica per risalire alla motivazione intima di questa irrefrenabile medicinomania di massa. Essa è invece un sintomo parallelo di quella insicurezza ed evasione sentimentale che abbiamo già ritrovato negli altri maxi e mini-drogaggi, dall’eroina al tabacco. E resterebbe inalterato anche se, per assurdo, tutte le medicine diventassero innocue o addirittura incorporee.

Il che già, di fatto, avviene.

Come definire diversamente che «drogaggio sentimentale» le fortune altrimenti inspiegabili dei «nuovi» culti che il mondo civile assorbe senza curarsi della loro verità, ma solo attratto dalle forme desuete? Come gli Hare Kryshna rapati e vestiti di zafferano che battono i tamburi rituali per le strade di New York e di Roma; come il sedicenne guru Maharaj-ji che raccoglie in Occidente folle e miliardi, ma in India solo disprezzo? E ancora, le mode più folli, dal tanga trasparente al topless (un nudismo con l’alibi), dalla pornografia più dissacrante all’intruppamento ideologico più eversivo e irrazionale. E ancora, lo streaking degli studenti americani, esploso nella primavera ’74 (l’invasione-lampo in nudità completa ma senza fini sessuali, da soli o in gruppo, di qualsiasi ambiente, dalle strade cittadine ai parlamenti), paradossale forma di nevrosi reattiva allo stress nazionale del Watergate. E infine i sequestri di persona e le rapine bancarie e postali, che sempre più si chiariscono come sostanziate di contestazione ideologica antisociale (con l’imposizione di riscatti sempre più pazzeschi, e sempre pagati) prima ancora che di vera industria delittuosa?

Abbiamo citato, come necessaria documentazione, poche tra le mille correnti di anomia (Durkheim) che la comunità degli uomini produce e tollera in quest’ora forse preagonica. Esse nascono sul terreno comune della distruzione dall’interno, voluta o inconscia, di una fabbrica del mondo che si è dimostrata incapace di dare la felicita ai suoi abitanti. Astraendo volutamente da qualsiasi valutazione morale, non può essere questa l’arma che l’umanità sceglie, infettando nei più indifesi di oggi la collettività intera di domani, per conseguire il suo definitivo suicidio sociale, al pari dei lemming quando superano il limite critico di densità biologica? Da questo solo punto di vista la diffusione della droga in qualsiasi forma, concreta o sentimentale, e la sua accertata prevalenza nelle età sempre più fresche, costituiscono un enorme atto di accusa, anzi già una sentenza di colpa, per la nostra attuale società.

Capitolo X – Teoria generale del suicidio sociale 

Nel marzo 1972 furono esposte per la prima volta, durante una conferenza allo Smithsonian Institute di Washington, le linee del rapporto sui «Limiti dello sviluppo» commissionato dal Club di Roma al M.I.T. (Massachusetts Institute of Technology). Ne abbiamo già accettato la validità strumentale di modello, ma segnalato la sua improbabilità di previsione per l’uomo per non avervi inserito (dichiarandolo, ma non basta!) appunto quei fattori sociali, di prevalente ordine sentimentale, che sono invece i veri responsabili dei modelli di comportamento seguiti finora dalla società. La nostra critica al M.I.T. non coincide dunque per nulla con il rifiuto aprioristico degli ottimisti come W. Beckerman (In Defence of Economic Growth); e tanto meno con quello di T. J. Boyle su «una cifra sbagliata», né con R. Boyd dell’Università di California e la sua accusa al M.I.T. di «non aver elaborato, tra le variabili, anche la tecnologia» il cui progresso salverebbe tutto!

Purtroppo i dati desunti dallo sviluppo esponenziale attuale, e la loro interdipendenza nella dinamica dei sistemi, sono inconfutabili; quel che appare illecito – per petizione di principio – è la tesi della inalterata prosecuzione futura della curva esponenziale, fino all’inevitabile collasso. L’errore di base non è dunque operazionale ma speculativo; così è accaduto che il M.I.T. abbia battuto la solita falsa strada del moderno scientismo, e quindi analizzato «l’incastro dei sottosistemi» (K. Lorenz) dimenticando la complessa unità biologica che li racchiude: cioè in questo caso semplicemente il genere umano che abita la Terra, nel cui nome la ricerca era stata commissionata.

Per questo i Limiti dello Sviluppo dedicano ben due capitoli (su sei) alle proprietà matematiche e agli esempi settoriali della esplosiva curva esponenziale (e delle sue esatte conseguenze) ma neppure una riga all’ipotesi che essa – tipica di ogni vita neonata – possa magari descrivere solo la sfrenata adolescenza della specie umana. Se così fortunatamente fosse (e l’alternativa dipende unicamente dalla maturazione psicologica dell’uomo collettivo) la tempesta che si addensa su di noi potrebbe anche non corrispondere al collasso, ma piuttosto ad una cosmica crisi puberale. Dopo di essa, come accade naturalmente in tutti gli esseri viventi, la curva di crescenza si appianerebbe all’orizzontale, integrando quel completo «sigmoide biologico» (v. avanti) che descrive non solo la giovinezza esponenziale1, ma anche la asintotica maturità (e persino la declinante ma tarda vecchiaia) di ogni organismo pluricellulare, sia esso un individuo, o una coltura di cellule o persino una comunità sociale.


[1] Per esempio partendo dall’uovo fecondato, cioè da una cellula singola, si arriva all’organismo completo, al momento della nascita, attraverso 56 generazioni cellulari, che fabbricano un totale di 32.000 milioni di milioni di cellule. Durante tutta la successiva esistenza, compresa la stessa rapida adolescenza, le successive generazioni cellulari sono soltanto altre 50 e non di piu! (Hayflick).

Biologia e antibiologia. – Oltre tre anni prima che il M.I.T. scoprisse il valore socialmente predittivo della curva esponenziale, chi scrive (Speciani, gennaio 1969) aveva già pubblicato una ricerca medico-sociale – con lo stesso titolo del presente capitolo – dove era esattamente censito il fenomeno, ma anche le sue correlazioni (trascurate dal M.I.T.) con le leggi imprescindibili della biologia, nonché il suo tragico significato sulla sopravvivenza della specie1.  Ne riportiamo (da «Panorama Med.», n. 1, 1969) alcuni passi, visto che la sua duratura attualità consente di dilatare il discorso, fino a comprendervi forse la speranza.

«Dopo milioni di anni di faticosa presa di coscienza di sé, dopo migliaia di secoli di preistoria, dopo sessanta smilzi secoli di storia, l’uomo, come individuo e come società, è giunto oggi ad una crisi olistica, possibile preludio di una sua finale catarsi. Il perché della crisi? Sta nell’ambiente dell’uomo, da lui stesso costruito ma che gli è ormai divenuto intollerabile, per il ritmo sempre più frenetico delle sue stesse realizzazioni, ad ogni scoccar di secondo verso l’avvenire. Esempi? Un tipo di vela e di canoa a bilanciere è rimasto immodificato in Polinesia per tremila anni accertati: ma un’automobile modernissima è tecnicamente sorpassata dopo un massimo di diciotto mesi. Le preistoriche Veneri steatopigie di Willendorf, datate nel periodo Aurignaciano, sono state il tributo dell’arte a un modello di bellezza muliebre in voga per venti secoli consecutivi: ma una foggia di capelli, la linea di un seno, l’altezza delle minigonne durano, nell’ambito delle mode presenti, non più di pochi mesi prima di essere dichiarate out. Quasi in ogni settore della vita umana il ritmo si è fatto convulso e insostenibile, ha assunto andamenti di geometrico incremento e non si adegua ormai più ai ritmi fondamentali della vita».


[1] Forse per questa eccessiva priorità essa non compare, sebbene nota, fra le 500 voci bibliografiche in argomento elencate nell’ultimo libro di A. Peccei (Quale futuro?) che iniziano dal luglio 1970.

Il ritmo biologico. – «La biologia in ogni sua manifestazione registra un modulo statistico di comportamento del tutto peculiare, espresso dalla “funzione logistica”

P(t) = K/(1 + Ce-ht)

un caso particolare della quale può essere graficamente riassunto nella cosiddetta “curva logistica” (o del calcolo) ideata nel 1838 da P. F. Verhulst per descrivere la legge di evoluzione di una specie vivente (fig. 3).

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Fig. 3. – Curva a: esponenziale; curva b: logistica.

«Questo caso generale si ripete con minime variazioni, come “sigmoide biologico”, in tutti i casi particolari che hanno a loro radice la vita: dagli incrementi ponderali dell’uomo agli aumenti di statura, dalla densità della popolazione microbica in un mezzo di coltura (fig. 4), al rapporto dose-effetto in farmacologia».

Il ritmo del progresso. – «Di contro, l’ambiente, cioè le cose costruite dall’uomo nel suo evolvere, dalle amigdale di selce alle navi spaziali; insomma le manifestazioni materiali e funzionali del cosiddetto progresso tecnologico. Il loro ritmo di sviluppo è descritto da una funzione esponenziale (y = ax),

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Fig. 4 – Accrescimento di una colonia batterica. Determinando il numero delle cellule viventi per un periodo di tempo sufficientemente lungo si ottiene una curva logistica distinta da sei fasi: a) Fase di latenza: le cellule non si dividono; b) Fase di accelerazione: inizio della divisione cellulare; c) Fase esponenziale: divisione ad intervalli regolari; d) Fase di rallentamento (o decelerazione): diminuzione della velocità di moltiplicazione; e) Fase stazionaria: equilibrio tra moltiplicazione. latenza e morte delle cellule; f) Fase di estinzione e di declino: accrescimento negativo.

e la relativa curva grafica è quella riprodotta nella fig. 3. Il caso generale è documentato da una infinita serie di conferme singole con tendenze esattamente sovrapponibili che vanno dal consumo dell’energia elettrica al numero delle automobili circolanti, dal numero dei telefoni e delle conversazioni telefoniche giornaliere (fig. 5), dalle velocità massime raggiunte dall’uomo alla popolazione globale della Terra, il cui andamento esponenziale esprime, in sintesi, la scomparsa moderna di quasi tutte le resistenze che si opponevano alla sua esuberanza vitale, vinte dalle conquiste tecniche in ogni settore».

«Nella stridente e fatale differenza tra le due curve caratteristiche della biologia e della tecnologia si nasconde l’arma definitiva per il suicidio della comunità umana. Il confronto grafico (fig. 3) ne esprime icasticamente la immediatezza. C’è stato un tempo, esteso all’incirca su due secoli, dalla metà del ’700 ai primi del ’900, durante il quale il sincronismo delle fasi esponenziali delle due curve ha donato all’umanità l’orgogliosa illusione di un totale accordo con la scienza, di una potenza prima sognata e mai raggiunta, di un soprannaturale dominio sulla natura e sulle sue forze. Era l’epoca dell’illuminismo scientifico, dei Lavoisier, dei Gay-Lussac, dei Pasteur, delle scoperte entusiasmanti nella fisica, nella chimica, nella geografia, nell’esplorazione della Terra e del Cielo.

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Fig. 5. – (da: Statistical History of the United States from Colonial Times to the Present, Fairfield Publishers, Inc., Stanford).

«Non era invece lecito dedurne la non dimostrata bontà del progresso civile, e la conseguente beatitudine definitiva dell’uomo. Difatti dall’inizio del XX secolo il progresso comincia a uccidere, invece di regalarci l’attesa felicità perpetua… E non è che il fenomeno discenda da una sua intrinseca “cattiveria”. È solo e sempre questione di ritmo, del disadattamento progressivo tra biologia e tecnologia, destinato a peggiorare in futuro, perché il sigmoide biologico è inderogabilmente legato ad una progressiva riduzione degli incrementi, e la curva si fa asintotica (orizzontale) come indice di una benvenuta stasi, di una fase obbligatoria di “ripensamento” bio-psichico. Forse questa è una necessita dell’anima, ma è inutile cercare o chiedere un’anima al progresso tecnico, che ne risulta privo per petizione di principio».

Cancro, l’esponenziale biologico. -«Tuttavia esiste anche in biologia (umana, animale, vegetale) una curva, ed una sola, il cui andamento è definitivamente esponenziale: è la curva di accrescimento della neoplasia (fig. 6). Quest’unico esempio di

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Fig. 6. – Curva di accrescimento ponderale di animali innestati per via intraperitoneale con 20.000 cellule tumorali.

curva biologica esponenziale rivela una sovrapponibilità estremamente interessante con le curve dello sviluppo tecnologico. Ma, coincidentalmente, anche il cancro, come il progresso, uccide. E, altra coincidenza, non perché sia intrinsecamente “cattivo” ma perché impone dispoticamente al sigmoide biologico un ritmo spiccatamente anomalo, alla lunga insostenibile e omicida. Sta forse in questa asincronia di tendenze curvilinee il mistero, finora non risolto sul piano cellulare, biochimico, virale, respiratorio, genetico, magnetico?».

«A noi basta aver segnalato, qui e per ora, la forse illuminante ma paurosa analogia della curva caratteristica del “cancro” nel clone cellulare definito “organismo”, con quella del “progresso” nel clone umano definito “società”. Con una ulteriore notazione critica: nel caso dell’esponenziale, si tratta veramente di una curva pura oppure della fase esponenziale di una curva immensamente più dilatata, ancora e sempre di tipo “logistico”?… perché in questo caso forse risulterebbe non impossibile – per l’individuo – convivere con le neoplasie, così come – per la società – con il progresso tecnico nelle sue forme omicide…».

A distanza di sette anni da quell’articolo siamo ancora convinti di questa speranza, nonostante che la società abbia sviluppato altre tendenze esponenziali allora ignote, ma anche, di recente, alcuni timidi accenni di appianamento non discendenti dall’esaurimento delle risorse, ma dal mutato atteggiamento psicologico della comunità.

Inizia il ripensamento? – L’interdipendenza ossessionante dei sistemi ha ricevuto una conferma palpabile: nel mese di agosto del 1974 nella Germania occidentale le nascite sono cresciute del 30% rispetto all’agosto ’73 (a Ulm 190 contro 128, a Norimberga 1.482 contro 1.312). È la conseguenza delle prime domeniche senza auto (iniziate qui il 25 novembre 1973): nonostante il «mai di domenica» esse documentano inoppugnabilmente il ricorso di massa al sesso come consolazione sentimentale alternativa, ma peggiora l’esponenziale demografica. Altre esponenziali stanno invece per la prima volta rallentando. Per esempio la città di Tokio, dopo 200 anni di irrefrenabile sviluppo in ogni senso, da due anni non cresce più. E, nonostante che il folle divieto domenicale sia stato tolto in Europa, e le raffinerie affoghino nella benzina, il suo impatto psicologico è bastato a mettere in crisi tutte le fabbriche di automobili (-20%,  -60% di vendite!). Questo non è dunque avvenuto, come prevedeva il computer del M.I.T., per l’esaurimento della risorsa petrolifera; anzi mai come ora si accertano giacimenti immensi in Messico, Norvegia, Mare del Nord, Indonesia, Italia… Ma la gente comincia a non credere più all’equazione consumi = felicità; si è rotto un mito centenario e come per tutti i miti (basati sull’irrazionale) anche per questo la prima rottura è quella definitiva.

Su questa linea si offrono ai computer e alla dinamica dei sistemi infinite occasioni per rendere meno drammatico il viraggio della società dal modulo esponenziale al sigmoide biologico, dal consumismo ai servizi. Per esempio per uno dei consumi più irrinunciabili e insieme uno dei più costosi, cioè l’industria della salute (che in U.S.A. è la terza per importanza finanziaria, dopo l’agricoltura e l’edilizia).

Gli interessi combinati della tecnologia più trionfalistica e della demagogia più sfacciata sono riusciti a distorcere questa naturale aspirazione sentimentale dell’uomo in una pericolosissima illusione sociale: il diritto marxistico alla salute, oltretutto perfetta (che non esiste). Se non riusciremo a chiarire urgentemente alla comunità i termini corretti del problema, è assai probabile che questa «istanza» insoddisfatta possa condurre da sola al disastro sociale e non soltanto – come adesso – alla bancarotta finanziaria di una nazione dopo l’altra.

Senza ricorrere a Freud, che definiva la salute «un’illusione ipocondriaca socialmente tollerata», A. Malleson ricorda che «la vita è un evento terrificante. Pochi di noi hanno la pazienza e la costanza di costruirsi la faticosa “forma”  di un atleta olimpico – e anche gli atleti prendono il raffreddore».

Le ricerche di Logan, Brooke, Pearce, Crocker e degli Horder accertano che ben pochi tra noi godono di salute perfetta a lungo: il 95% dei soggetti intervistati nei sobborghi londinesi di Berdmondsey e Southwark avevano segnalato qualche guaio di salute nelle due settimane precedenti. E diverse statistiche rilevano che solo un terzo delle malattie riconoscibili come tali sono viste da un medico; nella massima parte dei casi la gente aspetta che i suoi mali migliorino da soli, prima di farsi visitare. O meglio, aspettava quando doveva andarci. Ma oggi, e ogni giorno sempre di più, è la medicina che va a cercare i pazienti, sotto il profilo della prevenzione di massa, e i piccoli o grossi guai della quindicina precedente vengono registrati, incasellati, sommati fino a dare un’immagine paradossalmente malaticcia delle comunità moderne; e quel che è peggio mitizzati, con conseguente patofobia (paura delle malattie) per il singolo, costo enorme e inutile per la comunità, aumento dell’angoscia esistenziale e risentimento universale da frustrazione cronica. Troppo? I documenti dicono di no.

Il mito della prevenzione totale. – Di fronte al crescere esponenziale delle spese sanitarie i politici, invece di dedicarsi alla analisi motivazionale del fenomeno, hanno optato per un’altra delle tante fughe in avanti a loro congeniali. Le comunità civili moderne ripartiscono come segue le spese sanitarie: il 75% alla terapia; il 10% alla diagnosi; l’8% alla riabilitazione; il 7% alla prevenzione (inchiesta Delphi, Inst. H. Dunant – Sandoz, Basilea 1972). Perciò i pianificatori sanitari di tutto il mondo tendono ad impegnare larghe risorse finanziarie in faraonici piani di prevenzione di massa, sostenendo (senza alcun conforto sperimentale) che la scoperta precoce dei casi ignorati di malattia consentirà enormi risparmi sociali e terapeutici. Naturalmente è vero tutto il contrario. La visita dei sani, cioè estesa a grandi masse di popolazione, è oggi tecnicamente possibile per due recenti sviluppi: la pianificazione sanitaria da una parte, e dall’altra il perfezionamento tecnologico di mezzi automatizzati, per le analisi biochimiche a basso costo unitario. Abbiamo già discusso le insufficienze tecniche e cliniche degli A.M.H.T. (Automatic Multiphasic Health Testing); qui accenniamo ad alcune conseguenze sociali, che possono trasformare il loro uso in una mina a tempo per le finanze e la tranquillità sociale di qualsiasi comunità. Anzitutto per la loro progressiva incapacità a soddisfare le richieste, una volta convinta a fatica la gente che è suo diritto-dovere sottoporsi a uno screening preventivo. Quando comincia a rispondere positivamente, è la valanga. Su questo è facile costruire una legge neo-malthusiana, dimostrando statisticamente che mentre le attrezzature (costosissime) crescono al massimo in progressione aritmetica, la richiesta da esse stimolata cresce in progressione geometrica (tendenza esponenziale), quindi sempre meno soddisfacibile, con frustrazione e risentimento degli esclusi.

Sul piano medico-sociale ed economico, lo screening dei cosiddetti sani scoprirà appunto i famosi 2/3 di malattie ignorate, e tanto più compiutamente quanto più è universale, multifasico e ben condotto. I controlli di massa sempre più estesi sembrano infatti dar ragione al pessimismo intuitivo di Freud. Un rapporto del 1973 del ministero francese della Sanità accerta che «tre francesi su quattro soffrono di disturbi della vista» (e quindici milioni portano occhiali); le statistiche del centro di medicina preventiva di Firenze, esposte da Maltoni al convegno di Vicenza, settembre 1973, rivelano per l’età scolastica il 18,5% di disturbi visivi, l’11,1% di disturbi dell’udito, il 78,9% di carie dentarie; negli adulti il 190 per mille di malattie bronchiali e polmonari; il 15,6 per mille di diabetici ignorati; il 12 per mille di ipertesi; il 41,8 per mille di ipercolesterolemici. Prineas, Stephens, Lovell, sottoponendo a screening gruppi sani di popolazione australiana, hanno rilevato oltre il 40% di ipertesi nel gruppo di età 50-59 anni, oltre naturalmente al 16% già noti come tali, e perciò scartati dalle visite. E concludono: «le implicazioni di una possibile terapia di massa per evitare le complicanze della malattia ipertensiva, estesa su così ampia scala, sono ovviamente enormi». A parte infatti la mancanza di farmaci antiipertensivi privi di effetti collaterali, una delle più immediate implicazioni è la spesa che ne risulta. L’errore medico, curiosamente inavvertito dai pianificatori sanitari, che presiede alla promozione degli screening multifasici, è di credere che tutte le malattie siano guaribili. Il successo trentennale della schermografia toracica nella lotta antitubercolare è dovuto alla parallela disponibilità di antibiotici finalmente attivi, in grado di guarire bene e presto i casi iniziali ignorati. Ma i test multifasici moderni rivelano una quota sempre più larga di quelle malattie che – anche se scoperte precocemente – l’allopatia non sa guarire: arteriosclerosi e ipertensione, asma e cardiopatie, diabete e sordità, distrofia muscolare e sclerosi in placche, neuro-psicosi, cancro… Questi casi, destinati ad essere «curati» per tutta la vita residua senza mai guarire riusciranno non a ridurre ma a moltiplicare gli attuali carichi di terapia, gettando nel caos finanziario e organizzativo tutto il sistema. Il quale probabilmente dovrà ricorrere, presto o tardi, a un intervento sociale di tipo sintomatico, cioè…

Parte terza – La Medicina-Uomo 

«Esaminate tutto e ritenete ciò ch’è buono…»

Paolo da Tarso (Tess. I5:21), Corinto 50 d.C.

«Compito della medicina è solo di accordare questa meravigliosa arpa del corpo umano e di restituirle la perduta armonia.»

Sir Francis Bacone, Londra, 1605

Il ritorno illuminato alle origini

All’inizio della sua storia come istituzione la medicina si identificò, come abbiamo visto, con il sacerdozio. Anche divisa, mantenne per millenni una dignità quasi preternaturale, quale partecipe di un’analoga sostanza di ponte tra l’uomo e un Tutto a lui immensamente superiore: là l’essenza misteriosa del divino, qui le leggi altrettanto arcane della natura. Nel ’700, quando l’Illuminismo deificò la ragione, si aprì la crisi di significato sfociata finalmente oggi, dopo due secoli di apparenti trionfi, nella solitudine e nella totale dissacrazione della sua esistenza. Ma stavolta senza più «padrini» ai quali ricorrere per aiuto: «dio è morto» e la medicina è degenerata in un opaco marchingegno costoso e inutile, una sbornia di tecnica senz’anima né amore. Così accade che, forse come sigillo finale di questo ciclo cosmico, sacerdozio e medicina si trovino ancora una volta a condividere un parallelo destino.

«All’inizio dell’anno santo, i sacerdoti di Roma sono circa 5.000; ma solo 800 fanno il prete nelle parrocchie, gli altri lavorano come specialisti in Curia o in Vaticano. Per far fronte alle necessità pastorali della diocesi è stato necessario ricorrere… ai preti stranieri, che sono ormai oltre 350. Tre quinti delle parrocchie romane sono dirette da parroci spagnoli, inglesi, tedeschi, africani e indiani. Quindici da parroci o vice-parroci cinesi» (F. d’Andrea, «Corriere della Sera»).

Come risultato del National Health Service, l’Inghilterra perde ogni anno da un quinto a un quarto dei neolaureati in medicina (che emigrano in U.S.A. e in Canada), e importa medici di colore: indiani, africani, giamaicani… Il ministero della sanità del Regno Unito ha accertato (1971) che oltre i 2/3 dei 9.500 assistenti ospedalieri vengono d’oltremare; «…senza l’aiuto di questi dottori-schiavi dal Commonwealth, il Servizio nazionale inglese di sanità quasi certamente crollerebbe». (A. Malleson, H. Miller).

Le vocazioni religiose scompaiono in tutto il mondo cattolico: i seminaristi in Spagna sono scesi da 8.397 a 3.361 in dieci anni; se continua così nel 1980 non ve ne sarà più nessuno.

Le vocazioni mediche non sembrano imitarle, ma è solo un’illusione. Infatti (H. Moss, U.S.A.) «ormai non oltre il 2% dei laureati sceglie la medicina generale», mentre gli altri, come i 4.200 preti romani sui 5.000, si specializzano preferendo affittarsi come tecnici atarassici di uno o dell’altro dei loro isolati «pezzi». Questa paradossale fuga dall’uomo, che rende la medicina sempre più complicata, costosa e insoddisfacente, è favorita dall’errore culturale che conferisce maggior guadagno e prestigio ai tecnici settoriali e meno ai medici della persona, nonostante le enormi difficoltà, i rischi e lo stressante coinvolgimento sentimentale che questi ultimi subiscono. Cosicché, visto che i santi e gli eroi non sono più di moda, ogni anno schiere più fitte di loro si sottraggono al fascino troppo faticoso dell’amore al prossimo.

Chi ha il coraggio di biasimarli? Non lo può certo la società, visto che in U.S.A. le cause legali di risarcimento contro medici e ospedali hanno assunto le proporzioni di un’epidemia. Tra l’altro paradossali le condanne (a cifre incredibili) di medici fermatisi a soccorrere gratuitamente qualche ferito stradale, in seguito accusati di «aiuto tecnicamente inadeguato» e rovinati finanziariamente per tutta la vita. Le società assicuratrici non coprono più i rischi di questo atto di solidarietà, e i medici, come ogni altro automobilista moderno, invece di fermarsi schiacciano l’acceleratore… Diversi stati U.S.A., per incoraggiarli a seguire di nuovo la loro vocazione d’amore, hanno di recente votato «leggi del buon samaritano» che dovrebbero difenderli da future cause per danni (Malleson). Ma sembra che ormai non si fermino ugualmente… Tale è il rifiuto dell’uomo al quale la medicina è costretta a soggiacere nel tempo presente; ma è un problema comune a tutte le scienze umanistiche (politica compresa) che finalmente si accorgono di aver perduto, insieme con il contatto con l’uomo, la loro stessa giustificazione esistenziale.

Almeno per esse si registra l’inizio di un ripensamento, con la fondazione di Centri interdisciplinari, come quello «per una scienza dell’uomo» di E. Morin a Royaumont presso Parigi delle londinesi «May Lectures», della World Federation of Life Sciences di Victoria, Australia; della Menninger Foundation di Topeka, Kansas; del Program in Humanistic Medicine di Stuart e Sarah Miller a S. Francisco… E con la crescente germinazione di seminari umanistici ad altissimo livello, che dimostrano come il vertice culturale stia compiendo un profondo esame di coscienza, alla ricerca delle sue colpe e di una sicura validità morale nel futuro. Da questi seminari umanistici ovviamente la medicina non è assente; né potrebbe esserlo (Prius vivere, deinde philosophari); ma il suo contributo è tuttora essenzialmente teoretico, o settoriale, o di lucida critica, ma negativa. Ne è un esempio l’ultimo (novembre 1974) convegno in Florida su «Condizione dell’uomo in tempo di crisi», chiusosi in un clima di estremo sconforto, con le relazioni del sociologo premio Nobel G. Myrdal, del biologo premio Nobel J. Watson e dello scrittore statunitense Saul Bellow.

La ricetta di Mao Tse-tung. – Quanto al ripensamento dei suoi moduli superati e insoddisfacenti, la medicina è gravemente sfavorita rispetto alle altre scienze dell’uomo. In queste il travaglio speculativo può durare decenni, per decantare in tranquillità le indispensabili modifiche; in medicina, considerata l’urgenza delle presenti condizioni dell’umanità, manca ogni spazio di pausa riflessiva. Solo per questo, mentre i soloni umanistici dibattono l’ontologia dei nuovi approcci, la gente affamata di umanità si intruppa dietro i nuovi culti, affolla gli studi dei chiropratici e degli acupunturisti, si fa ipnotizzare e psicanalizzare persino dai non medici, getta nella spazzatura le medicine pagate con le tasse e compera le erbe, e ingigantisce il risentimento sentimentale verso la medicina, quest’araba fenice moderna che ingombra ogni atto della nostra vita quando non ci serve, e ci svanisce di mano quando abbiamo il bisogno più disperato di aggrapparci a lei.

D’altronde, come esattamente prescrive il metodo scientifico, ogni scoperta o modifica alternativa della scienza va collaudata attraverso un esperimento controllato, di sufficiente ampiezza statistica; ma finora il monopolio pratico e ideologico dell’allopatia aveva impedito la sperimentazione di qualsiasi modello alternativo di medicina. Per fortuna l’esperimento è stato compiuto al di fuori delle sue sfere spaziali d’influenza; ed è di ampiezza così spropositata (su oltre un quarto dell’intera popolazione terrestre!) da avere accecato il monopolio allopatico occidentale, che ne loda diffusamente i risultati senza accorgersi di osannare alla propria definitiva sconfessione. Stiamo parlando del sistema sanitario cinese, sul quale esporremo alcune deduzioni generali non espresse finora da nessuno degli studiosi e visitatori della Cina di Mao. Questi, in genere medici afflitti dai paraocchi delle iperspecializzazioni allopatiche, si sono incantati solo dietro alle novità (per loro) dell’acupuntura o del ricorso alle erbe, o ai ceselli biologici dei reimpianti d’arto, o alla anomalia dei medici dai piedi scalzi; senza riuscire a decifrare lo straordinario messaggio sintetico che il fenomeno portava scritto a chiare lettere (naturalmente cinesi) sulla testata.

Nella Repubblica popolare cinese è in atto, da circa vent’anni, un modello di difesa della salute completamente diverso da quello occidentale. Esso è basato sulla prevenzione di massa attuata con la totale capillarizzazione e la stretta essenzialità degli interventi, affidati al pittoresco esercito del milione e seicentomila medici dai piedi scalzi, ciascun d’essi presente dal 1960, e particolarmente dopo la rivoluzione culturale del 1965, nell’unità sociale più piccola dell’immenso paese, cioè la «squadra di produzione» di circa 500 individui nelle campagne, o il «blocco» di circa 1.000 nelle città. Si tratta di contadini o casalinghe od operai, forniti di una elementare ma precisa istruzione sanitaria contro i flagelli sociali prevalenti nella loro zona di residenza, e – come unico distintivo – di una borsa sanitaria con tanto di croce rossa. Essi, pur continuando il lavoro consueto, dedicano una parte del loro tempo alla diffusione di semplici norme preventive (da alcuni anni anche anticoncezionali) nonchè alla fornitura di presidi medici «tipo famiglia», in gran parte erboristici popolari, alle limitate comunità umane affidate alla loro responsabilità.

Grazie a questa rete capillare di parasanitari a tempo parziale la salute generale della Cina ha compiuto in vent’anni balzi giganteschi, uguagliati in Occidente solo da quelli dei costi delle malattie. Al momento della presa di potere di Mao Tse-tung (1949) la popolazione cinese presentava un pauroso quadro epidemiologico: sifilide, malaria, parassitosi intestinali, tubercolosi (nel 1946 il 60% degli studenti, tutti benestanti, presentavano forme attive e contagianti), schistosomiasi (per contagio dai piedi nudi nelle risaie); più la fame endemica e un tasso di natalità superiore al 50 per mille. Oggi la tubercolosi è a uno dei livelli più bassi del mondo, la malaria è completamente debellata, lo schistosoma quasi; la mortalità infantile è inferiore a molti paesi d’Occidente (tutti i bambini per esempio sono stati vaccinati contro il morbillo), e la natalità non raggiunge il 25 per mille, con minimi del 10 nelle città. Il merito del miracolo cinese non può certo essere attribuito, polemicamente, all’aver ridotto i corsi medici da sei a tre anni, o alla soppressione di tutte le riviste medico-scientifiche tranne una (il Chinese Medical Journal). E nemmeno può spiegarlo il «primato della politicizzazione sulla tecnicizzazione», come pensa nel suo impegno politico G. A. Maccacaro, che pure è l’unico ad aver riconosciuto con la consueta lucidità la «portata fondamentale del rovesciamento» (metodologico).

La vera forza traente della realizzazione cinese (totalmente misconosciuta all’estero) ha origine nella fortunata coincidenza storica di tre elementi medico-sociali e politici singolarmente negativi, abbinata ad una prodigiosa abilità direttiva del popolo più numeroso e povero della Terra. I primi sono: a) l’urgenza e l’enormità dei problemi da risolvere; b) l’estrema povertà che impediva l’importazione del progresso medico sotto la specie dei costosi strumenti allopatici; c) infine la scomoda qualificazione ideologica, per punire la quale l’Occidente non ha voluto regalarglieli. Tutto ciò ha costretto la medicina cinese, sotto la dichiarata guida di Mao Tse-tung (che prima di essere statista è stato ed è filosofo e poeta) a valersi con fantasia e duttilità dei più semplici e gratuiti mezzi disponibili all’interno, dalla acupuntura alle cure folkloristiche, alla parola educatrice dell’uomo. Probabilmente all’inizio il diverso metodo è stato adottato come surrogato temporaneo; ma col passare degli anni la riduzione della medicina alla pura essenzialità si è dimostrata la chiave d’oro del suo enorme successo operativo. Sennonché – ed è questo l’immenso interesse scientifico e umano dell’esperimento cinese di medicina alternativa – esso si identifica esattamente con quei valori sostanziali (e non formali) della medicina che l’Occidente ha dimenticato o reso impossibili per soffocazione tecnica, e il monopolio allopatico combatte o addirittura anatemizza.

I quali sono, tanto per citarne i fondamentali: la riscoperta della dimensione umana; la responsabilizzazione personale del paziente («autogestione della salute»); la responsabilità del medico dai piedi scalzi nei confronti della comunità a lui affidata e di ogni persona in essa, che conosce singolarmente dato il loro numero limitato (come i nostri vecchi medici condotti); le qualità umane del «medico», scelto a diventarlo per elezione della comunità in base alle doti di solidarietà e amore al prossimo che dimostra: quel che in Occidente chiamiamo vocazione (l’entusiasmo politico può essere titolo preferenziale nella scelta, ma non la dote discriminante, altrimenti l’intero sistema sarebbe da tempo fallito); il clima sentimentale di collaborazione comunitaria in umile solidarietà; l’essenzialità tecnica efficace; la sistematica riutilizzazione della natura e dei suoi gratuiti tesori;  infine, il definitivo rifiuto del monopolio allopatico. Con questa dotazione medica, non deperibile ne soggetta ai black-out come tutta la nostra civiltà medica, la Cina si garantisce una tranquilla sopravvivenza nell’eventualità di qualsiasi crisi planetaria. Noi invece affogheremmo nella nostra superbia e nei nostri rottami. Non è davvero possibile sottrarci a questa spada di Damocle, che in ogni istante può piombarci sul capo senza preavviso?

La medicina-uomo. – La risposta è senz’altro positiva. Naturalmente per metterla in pratica occorrerebbe che la medicina occidentale spingesse a tale profonda onestà la sua autocritica da riconoscere (sulle statistiche!) la invalidità e il pericolo sociale del monopolio allopatico e della disumanizzazione che la permeano. Non le sarebbe neppure necessario – considerata la completezza scientifica dell’esperimento cinese – di subire l’affronto di qualche pleonastico field-test alternativo. Né di rinunciare a una qualsiasi delle sue valide conquiste tecniche, e soprattutto conoscitive. Ma solamente di cambiare mentalità e di riscoprire l’uomo, cioè di ribattezzarsi in quel significato essenziale che oggi abiura, e di dare ad esso la priorità che gli compete. Potrebbe persino ottenere tutto questo con gradualità e senza drammi, purché lo facesse presto e spontaneamente, senza attendere che l’esasperazione degli oppressi si concreti in qualche rivolta cruenta; e soprattutto senza bisogno di verniciare di «marx-leninismo-mao-tse-tung-pensiero» il suo indilazionabile ritorno alla realtà dell’uomo in sofferenza. Sarebbe un evento storicamente importante, ma soprattutto felice. Lo tinge di utopia solo la considerazione che l’umanità sembra avere avuto sempre bisogno almeno di una Bastiglia, per ottenere le cose più semplici e naturali alle quali ha diritto. Si tratta in fondo esclusivamente di correlare, in un quadro euristico che gli dia finalmente significato e pregnanza logica (come la famosa tavola periodica degli elementi di Mendeleev) molte delle realizzazioni pratiche già compiute oggi dalla medicina, in assoluto contrasto teoretico con la monopolistica impostazione allopatica.

Abbiamo già avuto occasione di citare von Behring e il suo omeopatico concetto dell’immunizzazione attiva, premiato col Nobel; ma su una linea ben più antinomica si pone l’uso delle gamma-globuline e dell’ormone della crescita (STH o GH) che sono attivi solo se trasferiti all’uomo da un suo simile altrettanto evoluto (quelli estratti persino dalle scimmie risultano inefficaci). E ancora le «banche» degli occhi, delle ossa, della pelle, del sangue; le autoemoterapie e le eteroemoterapie da madre a figlio, gli autoinnesti e gli omoinnesti, i trapianti di cornea, di cuore, di reni, le trasfusioni di sangue (milioni ogni giorno in tutto il mondo)… A questa universale utilizzazione pratica dell’uomo per l’uomo manca il sostegno parallelo di una impostazione teorica esauriente. Sebbene questa sia la regola in medicina (prima la pratica poi la teoria, mai viceversa) è tempo di provvedervi, non per scolastica accademia ma per garantirci la vita in una possibile crisi di civiltà.

Conducendo a fondo un’analisi implacabile e non ipocrita, sembra probabile che queste pratiche si attuino senza approfondirne il significato perché esse infrangono uno dei tabu più radicati dell’umanità, cioè il cannibalismo rituale. Per quanto a prima vista paradossale, non c’è molta differenza – se non di veste merceologica – tra l’uso (in fiale) dell’estratto di ipofisi umana e l’agape tribale con il cervello del capo nemico ucciso per assimilare il suo coraggio e la sua forza (come accertano centinaia di crani fossili con il forame occipitale allargato strumentalmente: Kissmaerth 1973). Ma in tempi come i nostri, nei quali il rapporto di un atto collettivo di cannibalismo (Tabu, sulla tragedia aeronautica delle Ande, 1973) non solo non finisce con lo strangolamento espiatorio dei responsabili ma diventa un best-seller, possiamo forse avvicinare con minori angosce una ipotesi già scontata, la cui accettazione acritica non basta a salvarci l’anima.

Soprattutto perché essa non comporta, né mai comporterà, il ritorno all’antropofagia terapeutica neppure come evento eccezionale; si è voluto tuttavia chiarire che l’estremo limite del concetto, cioè la utilizzazione fisica dell’organismo di un uomo (defunto o vivente) quale serbatoio di medicamenti naturali di insuperabile potenza a vantaggio di altri uomini, è addirittura già applicato nella pratica medica d’ogni giorno. Perché allora non estendere la sostanza filosofica del suo significato a tutta quanta la medicina? Perché ricorrere alla potenza vitale solo negli eventi critici eccezionali, e rifiutarne l’aiuto negli eventi meno drammatici, che potrebbero risolversi più facilmente con i mezzi naturali, inoltre gratuitamente disponibili in ogni possibile futuro? E ancora, perché non valersi della saggezza dell’organismo per sfruttarne le risposte quali test diagnostici estremamente più raffinati e selettivi (a saperli leggere) dei troppi nostri aleatori e artificiali? E ancora perché non riconoscere e usare il miracolo d’ogni giorno, cioè la continua rinnovazione della vita pluricellulare, che non ci stupisce più perché – come al sorgere mattutino del sole – ci siamo troppo abituati? Queste e molte altre, che discuteremo più avanti, sono le facce che il poliedrico concetto della Medicina-Uomo rivela, rivolgendolo appena un poco su se stesso.

Ne citiamo ancora uno solo: il rispetto dell’equilibrio globale dell’individuo. La ricerca computerizzata di dinamica dei  sistemi (J. Forrester) ha ormai dimostrato che esso è l’unico modulo di salvezza per l’organismo sociale; a maggiore ragione esso si applica all’individuo, sintesi univoca dei suoi trilioni di singole cellule. Il peccato mortale della nostra civiltà è di non aver rispettato l’equilibrio né del sistema planetario né del sistema individuale. Appunto per questo corriamo il rischio di morire.

La strada della improbabile guarigione passa (J. Forrester) attraverso l’accertamento imparziale di tutti i fattori che lo mantengono, compresi quelli fin qui trascurati, ignorati o irrisi. Il medesimo discorso vale esattamente anche nei confronti del microcosmo-uomo. Finora ci siamo illusi di studiarlo solo sezionandone le carni e pesando le sue ceneri saline; ma è ormai certo che ciò che di lui ignoriamo può forse essere più importante di quello che conserviamo sotto un’etichetta di comodo nei nostri archivi riduzionistici. Occorre dunque – come si sta facendo per l’intero pianeta – ristudiarlo nella sua difficile e meno evidente realtà; riscoprendo in lui con i mezzi nuovi della scienza le euristiche verità antiche: i ritmi biologici, il cervello non solo anatomico, la potenza insospettata e modificante del messaggio, le motivazioni artificiali dello squilibrio e il possibile approccio riequilibrante; il tutto nel quadro finalmente onnicomprensivo di una medicina per l’uomo e dell’uomo, integrata dalla conoscenza (scienza) della verità del suo essere. Solo in questo tentativo di analisi globale, premessa meno infida dell’attuale alla finale sintesi operativa, può maturare la speranza di una nostra futura sopravvivenza tanto singola quanto di specie. Altrimenti calerà il sipario sulla nostra suicida follia.

Capitolo I – Il metronomo della vita 

Una delle prime revisioni culturali che interessano modernamente l’uomo e lo scoprono diverso dal manichino artificiale costruito dalla scienza per suo uso e consumo, riguarda le relazioni con il tempo, che presiede rigidamente alla sua presenza nel mondo. Che cosa il tempo sia, nessuno a tutt’oggi lo sa ma anche filosoficamente siamo ormai ben lontani dal considerarlo quella comoda intuizione a priori che diceva Kant. Per la relatività einsteiniana il tempo non esiste in assoluto ma è una semplice funzione dello spazio (il «cronotopo»), come lo spazio è funzione della materia-energia (cioè in ultima analisi di onde elettromagnetiche, con apparenze diverse solo per i  nostri imperfetti rivelatori sensoriali). Lo studio dell’interferenza sugli esseri viventi del tempo nei suoi moduli ripetitivi usuali (giorno, mese, anno…) ha dimostrato che la vita è una funzione periodicamente oscillante; così come la ricerca del nostro «metronomo» sta indicando che in fondo non siamo altro che i figli del sole. Infatti sembra ormai indiscutibile che la fabbrica dell’universo compresi noi stessi (dal pulsar all’ARN-messaggero cromosomico, cioè dall’infinitamente grande nel cielo all’incommensurabilmente piccolo dentro di noi) sia tutto e soltanto un intrecciarsi periodico di fasi elettromagnetiche. Su questa linea, ancora più incredibile della più sfrenata fantascienza, le ultime documentazioni scientifiche ci costringono a una più complessa – ma più vera – rilettura della vita.

Il folklore riabilitato. – Quando lo I-sheng («Signor Medico»!) cinese si apprestava, dopo l’accurata diagnosi differenziale condotta sui 74 tipi diversi di polso, a prescrivere la terapia al suo paziente, consultava i tempi degli astri maggiori e dominanti e il loro moto prima di tingere il pennello sulla zolletta di inchiostro e di vergare la ricetta. Questo sotto l’antichissima dinastia Chou di tremila anni fa ma anche, attualmente, se si pratica l’acupuntura per infissione. Medici romani famosi come Galeno, Rufo, Oribasio hanno insegnato per secoli che era pericoloso somministrare i medicamenti attivi (quelli che «pregavano gli umori peccanti») nella canicola mentre il tempo propizio era l’autunno. Non per nulla Orazio cantava nelle Satire: «o me pazzo se mi purgo / la bile a la stagion di primavera».

La nozione dei tempi propizi o sfavorevoli secondo le stagioni (cioè la rivoluzione della Terra intorno al sole) è persistita nel folklore medico universale, e tutti sapevano che le cure depurative (come la salsapariglia) si facevano in primavera, e che lo iodio d’estate non era consigliabile. Superstizioni astrologiche acritiche? Buffonate antiscientifiche? Questa è purtroppo ancora la comune opinione, come sempre irreparabilmente arretrata.

Ma due grandi e famosi ricercatori, A. Reinberg (direttore di ricerca al CNRS francese, e del laboratorio di fisiologia della Fondazione A. Rotschild di Parigi) e F. Halberg (fisiologo e cronobiologo dell’Università del Minnesota, U.S.A.) si sono permessi di scrivere, in un lavoro comune del 1971, esattamente il contrario: «Gli effetti di un agente fisico o chimico (per esempio i medicamenti) dipendono, tra l’altro, dall’ora nella quale il soggetto viene trattato». Perciò «in cronoterapeutica, il medico sceglierà l’ora più favorevole alla somministrazione della medicina, corrispondendo questa, in linea di principio, al massimo degli effetti utili e/o al minimo di quelli indesiderati» (Circadian Chronopharmacology, 1971). È appunto come risultato di questa modernissima specializzazione, la cronobiologia, che tutti i medici sono stati recentemente avvertiti di prescrivere i cortisonici in dose unica o preminente il mattino; e lo fanno, ma purtroppo senza chiedersene il perché.

Naturalmente – e come sempre nella scienza, per straordinariamente nuova che appaia – questo perché è sotto i nostri occhi da migliaia di secoli; addirittura tanto connaturato con noi da essere preso per «naturale». Lo sanno tutti che i fiori sbocciano in primavera (almeno nell’emisfero boreale); che la luna gira nel cielo tredici volte complete ogni anno; che le maree si alzano e si abbassano, come un gigantesco respiro del mare, con il ritmo di sei ore; che le migrazioni degli uccelli (e dei pesci) avvengono ogni anno a date così stabili da servire di fondamento ai proverbi meteorologici; che le costellazioni dello zodiaco si ripresentano puntualmente nel cielo ad etichettare il giro delle stagioni; che d’inverno fa freddo e d’estate si suda; che di giorno si lavora e di notte si dorme; che le donne feconde (ovulano e) perdono sangue con ritmo così quasi-mensile da aver fatto chiamare in ogni lingua il fenomeno con il termine mensilità (mestruazioni). Un po’ meno noto a tutti è che la temperatura corporea scende di notte e sale di giorno; che la pressione di acido carbonico nei polmoni aumenta di notte; che le nascite spontanee (come ogni ostetrica conferma) avvengono in folla nelle primissime ore del giorno, dalle 00.00 alle 05.00. E perché le coliche renali iniziano quasi tutte tra le 4 e le 5 del mattino, infischiandosene allegramente dell’ora legale?

Ma prima di cominciare con i perché sarà bene illuminare lo scomodo significato della nuova branca di biologia quantitativa, la cronobiologia, che sta reintroducendo da 30 anni la nozione e l’importanza del tempo nelle scienze biologiche.

Il Vescovo di Monluc e la cronobiologia. – Fin dal suo primo nascere, la «scienza obiettiva» ammetteva come postulato che, prese uguali la specie, l’età, il sesso (e magari il peso) dei soggetti in esperimento, qualsiasi fenomeno biodinamico fosse costante nel tempo (regolazione omeostatica), e quindi che qualsiasi variazione dimostrata da uno studio comparativo dipendesse esclusivamente da una variabile considerata, sia spontanea sia provocata apposta.

L’opinione era così sicura da godere persino del crisma della teologia. Ad esempio il concilio di Bruges (1528) vietava come superstiziosa e condannabile la pratica di raccogliere i «semplici» in certi giorni e in certe ore, «comme si – scriveva il Vescovo francese di Monluc in una sua pastorale del 1557 – un certain jour ou une certaine heure pouvait changer les vertus des plantes, ou leur donner des nouvelles facultés et des nouvelles forces».

Al contrario, la cronobiologia (iniziata appunto con le ricerche vegetali) insegna ora che «l’attività ritmica è una proprietà fondamentale della materia vivente», dagli esseri unicellulari all’universo cellulare dell’organismo intero, e in quest’ultimo ad ogni livello: organismo in toto, sistemi funzionali, sistemi di organo, organi singoli, tessuti, cellule, fino al materiale nucleare e citoplasmatico (Halberg, Konitz, Haxo, Reinberg, Vanden-Driessche). Ciò significa esattamente che «i processi fisiologici variano nel tempo in modo periodico, regolare e prevedibile». Perciò il concilio di Bruges e il vescovo di Monluc avevano torto, e i «superstiziosi» erboristi empirici, ragione. Ma purtroppo non è soltanto una questione accademica, o di quattrocent’anni fa. Perché fino a questo momento tutto il corpus di conoscenze raccolto dalle orgogliose scienze biologiche, avendo trascurato di considerare giusto la variabile fondamentale della vita, potrebbe risultare basato su statistiche tecnicamente ineccepibili, ma viziate all’origine da un enorme margine di errore (A. Reinberg).

Per un esempio concreto, consideriamo una ricerca ormonale. Nelle ghiandole produttrici di ormoni si sono perfettamente accertate delle ore nella giornata e dei mesi nell’anno, nei quali la secrezione è spontaneamente più intensa, e delle altre ore (o mesi) nei quali è scarsa e persino praticamente nulla. Che valore ha, di conseguenza, qualsiasi conclusione sull’uso di una qualsiasi terapia (dimostrata con reazioni istochimiche finissime e magari con indici di significatività elaborati da un calcolatore) se non è stato tenuto conto della struttura temporale relativa al soggetto in esperimento?

Lo stesso ragionamento, dirompente, si applica alle famose analisi singole delle quali la più avanzata scienza imbottisce le memorie dei computer ospedalieri. La stessa perplessità nasce al riguardo delle ricerche parassitologiche, dopo l’accertamento che la Wuchereria Bancrofti (il sottilissimo verme responsabile della filariasi o elefantiasi) scompare di giorno dal sangue periferico (rifugiandosi in massa nei polmoni) e vi ritorna di notte, quando l’insetto intermedio (Culex fatigans) va intorno a succhiare il sangue degli uomini per nutrirsi. E il medesimo comportamento è accertato (Hawking) anche per il Plasmodium della malaria e chissà per quanti altri parassiti ancora da scoprire. Quando si pensa poi che la nozione esatta (non la sua spiegazione) risale addirittura a Manson (Periodicity of microfilariae, 1879) e fu accolta con lazzi e battute a Londra («Le filarie hanno in tasca l’orologio?»), ci si spiega – amaramente – come la scienza ufficiale riesca a ritardare di secoli il suo progresso, per mancanza di umiltà verso le cose che non comprende ancora.

Laddove il buon senso (sia pure empirico e con approssimazione) accetta senza traumi la nozione che, esistendo il ritmo in tutta la natura, noi stessi (come i fiori) che ne facciamo parte, dobbiamo averlo anche se non lo avvertiamo per esserne tutti pervasi. Ma quando, per adesione al criterio scientifico, vogliamo quantizzare i ritmi, il buon senso non basta più. Stabilito che il ritmo si estende, moltiplicandosi fattorialmente fino a ogni singola molecola del doppio elice cromatinico (Th. Vanden-Driessche), ne risulta la nozione immediata di una complessità così prossima all’infinito da scavalcare qualsiasi capacità umana di registrazione. In buon punto la tecnologia (e per una volta tanto la ringraziamo) ha fornito a questa immensa ricerca lo strumento velocissimo dei computer, i quali hanno potuto dimostrare, attraverso una analisi statistica inferenziale che avrebbe rubato secoli ai matematici-uomini, che le «superstizioni intuitive» corrispondevano all’esatta realtà dei fatti biologici (Halberg e coll.).

Lo «spettro» dei bioritmi. – Questo enorme lavoro, in corso in tutto il mondo da circa dieci anni, ha permesso di costruire una mappa (anzi, trattandosi in fondo di onde, uno «spettro») abbastanza soddisfacente dei bioritmi propri a ciascun singolo o molteplice aggregato di proteine cellulari. Naturalmente la lista è in costante espansione; ma quella esistente fornisce già ora, a chi sa e vuole interessarsene, un codice informativo sempre più approfondito per la rilettura aggiornata del come delle funzioni vitali. Sono stati così studiati i ritmi di alghe, piante, animali, insetti, parassiti umani e animali; dallo scoiattolo Citellus lateralis (Fisher) agli afidi delle piante (Lees), dalle uova di cavallette (Kalmus) ai topi (Beck), dai parassiti della malaria (Hawking) alle piante di pomodori (Hillman), dalla simbiosi tra un piccolo verme marino e l’alga convoluta (dalla famosa R. Carson), dalle ostriche (Brown) al pesciolino Leuresthes tenuis (ancora dalla Carson)… il fenomeno è costante e universale per tutti gli esseri viventi, compreso dunque anche l’uomo. Per limitare in qualche modo il campo, ci fermeremo a considerare solo quest’ultimo. I ritmi in esso quantizzabili si rivelano diversi per frequenza, e divisibili in tre larghe categorie: alta frequenza (ECG, EEG, respirazione, processi enzimatici); media frequenza (alternanza veglia-sonno, sensibilità ai medicamenti, costituenti del sangue, escrezione urinaria, processi metabolici, EEG, ECG, respirazione, temperatura); bassa frequenza (temperatura, ciclo ovulatorio e mestruale, attività endocrine, eliminazione urinaria di metaboliti ormonici, ecc.). Il gruppo dei ritmi finora più studiati, e quindi elencati in numero progressivamente maggiore, è quello dei circadici (o circadiani = pressappoco un giorno) a media frequenza (da 0,5 ore a 2,5 giorni). Per questi è stata determinata una mappa delle acro-fasi (intensità massime) periodiche, la cui utilità applicativa immediata è stata accennata a livello della somministrazione dei cortisonici in fase veramente fisiologica (v. fig. 7).

Naturalmente, in ossequio alla pregiudiziale di base della cronobiologia, i soggetti presi in esperimento per il rilievo statistico delle acro-fasi erano «sincronizzati» il meglio possibile,  affinché la loro struttura temporale risultasse sovrapponibile. Ma per far questo (in apparenza un semplice dettaglio sperimentale) si è dovuto aprire un nuovo e fondamentale capitolo di ricerca: «che cosa è il sincronizzatore?». In altre parole: «da dove nascono i ritmi biologici?».

Attualmente gli specialisti di cronobiologia sono a questo proposito divisi su due tesi: la prima sostiene che i ritmi sono ereditari; ed a riprova riportano una serie di risultati sperimentali, come quelli di Bunning ancora del 1935, il quale, lavorando su cloni di piselli

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Fig. 7. – (da Halberg e coll., 1969, modificata). Acrofasi (e limiti di confidenza) di ritmi circadici nell’uomo adulto sano.

(Phaseolus multiflorus) con periodi naturali di 23 e 26 ore rispettivamente, accertò che anche questo carattere viene trasmesso secondo le regole della genetica mendeliana. Sostenitrice validissima dell’ipotesi genetica, con i suoi straordinari studi sulla Acetabularia, è Th. Vanden-Driessche, del Dipartimento di biologia molecolare dell’Università libera di Bruxelles. Per essa non v’è alcun dubbio che il meccanismo è trasmesso dal codice informativo del DNA ed espresso dall’ARN attraverso modificanti allosterici (1971, «Journal of interdisc. Cycle Res.»). Tuttavia è costretta a dichiarare: «La o le reazioni chiave restano tuttora sconosciute e la loro scoperta, tentando di identificare il supporto molecolare dei ritmi, costituisce uno dei problemi più affascinanti della biologia moderna» («La Recherche», n. 10, 1971).

La seconda tesi afferma che i ritmi biologici sono acquisiti da ciascun individuo di ciascuna nuova generazione. A sostegno rileva l’accertata interferenza di alcune manifestazioni morbose sui bioritmi (morbo di Addison, per esempio, con alterazioni del ritmo circadico del potassio, sodio, acqua, eosinofili), ma soprattutto la possibilità di modificarli manipolando i «sincronizzatori» (uno degli esempi più banali essendo l’accorciamento artificiale del giorno-notte nei polli in batteria, con riflessi economici sull’alimentazione e sulla crescita).

Una via di mezzo come ipotesi di lavoro (genetica + ambientale) è seguita da A. Reinberg, il quale ha addirittura inventato il termine di «a ruota libera» (en libre cours) per definire i bioritmi sottoposti a studio sperimentale in assenza dell’abituale sincronizzatore (speleologi in solitudine protratta nelle grotte profonde, in assenza di alternanza giorno-notte, a temperatura, umidità, pressione costanti; astronauti in assenza di gravità). Sta di fatto che la manipolazione artificiale dei sincronizzatori rivela significative varianti nella struttura temporale dell’uomo, tutte estremamente interessanti dal punto di vista pratico e soprattutto teoretico (per esempio gli speleologi, dopo oltre due settimane di permanenza «a ruota libera», si adattano a un ritmo bi-circadico, cioè vivono 48 ore credendo di viverne 24). Ma il campo nel quale la cronobiologia (e lei sola) ha fornito la chiave quantitativa del mistero è stato quello del malessere (piloti e passeggeri) nei voli transoceanici o transcontinentali che superino almeno cinque meridiani (cioè cinque fusi orari). Esso è conseguente alla «desincronizzazione» rispetto al sole delle funzioni bioritmiche. Si è accertato per esempio che il danno è maggiore volando da ovest verso est (in senso uguale alla rotazione terrestre) piuttosto che in senso contrario; che occorrono da 1 a 3 gg. per risincronizzare il ritmo veglia-sonno; oltre 7 gg. per il ritmo della temperatura; oltre 21 gg. per il ritmo dell’escrezione di 17-OHCS dal surrene. Ne è derivata la nozione della possibile pericolosità di questi trasporti, se non intervallati da un tempo sufficiente di risincronizzazione, e la spiegazione di ulcere gastroduodenali e di ipertensioni altrimenti misteriose. E si è aperto così il nuovo capitolo scientifico della cronopatologia.

Il perché dei bioritmi. – L’aumento statistico delle malattie da alterazione del bioritmo ha finalmente risvegliato l’interesse della medicina ufficiale anche se, per la solita distorsione allopatica, sono ancora in pochi a crederci veramente. Comunque esistono persino ormai congressi annuali della Società internazionale di Cronobiologia, che ha iniziato nell’agosto 1974 la pubblicazione della prima rivista in lingua italiana («Chronobiologia», edita a Milano). Nell’11ma Conferenza Internazionale, Hannover, luglio 1973, sono emerse altre conoscenze utili per chiarire il perché dei bioritmi. T. Riemensperger ha segnalato che i bambini ciechi o decerebrati sono incapaci di recepire gli stimoli forniti dai ritmatori extracorporei. F. Hollwich che la cecità modifica tutta una serie di attività endocrine (cortisolo, tiroxina, STH). In cronofarmacologia, i medicamenti più influenzati dai bioritmi risultano la strofantina, i barbiturici, l’acetilcolina, l’alcool, i raggi X, nonché gli antineoplastici (come l’arabinosil-citosina e l’adriamicina) che appaiono assai più attivi se somministrati nelle prime ore della notte, tempo nel quale le cellule neoplastiche dimostrano una proliferazione più intensa (F. Halberg, H. von Mayersbach).

Di fronte a queste e ad altre acquisizioni più complicate, sembra lecito pensare che il famoso dilemma (ambientale o genetico) in realtà non esista. I famosi «modificanti allosterici» dell’ARN molecolare isolati dalla Vanden-Driessche nell’interno delle cellule appaiono – sul piano logico – nient’altro che i risuonatori elementari di una energia condizionante esterna alla cellula e allo stesso organismo globale, cioè il ritmatore cosmico.

Cosicché, considerata la meravigliosa elasticità della molecola proteica che sostiene la vita, non occorre stupirsi se un certo carattere, oggi trasmissibile geneticamente, è stato acquisito filogeneticamente, cioè nel corso di successive generazioni sempre immerse nello stesso ambiente, e con esso finalmente sincronizzato. Ammesso, neo-darwinianamente, che le 2 gambe o i 2 occhi sono un risultato evolutivo (Reinberg) e vanno bene ora così, non v’è alcuna contraddizione, nella stessa ipotesi evolutiva, nel pensare che il ritmo circadico e i suoi multipli e sottomultipli dipendano dal nostro giro circumsolare. E neppure nel pensare che una eventuale (ancorché impossibile) vita su Giove, con periodo di rotazione di sole 10 h 55′, ma con uno di rivoluzione di 12 anni terrestri. svilupperebbe ritmi circadici di metà durata dei nostri, ma una fioritura vegetale e animale ogni dodici delle nostre primavere.

Ma se si può ammettere questo, risulta che i corpi celesti (sole e tutto quanto il resto) non solo hanno una opinabile interferenza sul nostro destino (come l’astrologia sostiene da millenni) ma addirittura lo condizionano – per lo meno fisicamente – per ciascun individuo e per tutte le specie terrestri e subsolari. È come dire, in termini strettamente cronobiologici, che la struttura temporale sintetica di ogni essere vivente non può essere spiegata se non in riferimento al periodico variare dei fenomeni fisici decorrenti nello spazio che ci circonda, vicini o lontani che siano, purché energeticamente attivi. (Il che, in sostanza, è la medesima proposizione erotica di prima, sennonché gode, modernamente, dell’assenso scientifico). Per dimostrare l’assunto, e trasformarlo da intuizione (risalente ai caldei) a fatto scientifico, occorreva quantizzarlo concretamente. È quanto è riuscito ad ottenere fin dal 1939 (ma oggi finalmente con grande seguito in ogni parte del mondo) il prof. G. Piccardi scomparso nel 1972, Direttore per trent’anni del Centro universitario fenomeni fluttuanti di Firenze, con il suo semplicissimo test del tricloruro-ossicloruro di bismuto, inteso e proposto come rivelatore delle cosiddette «variabili spaziali». Queste, interferendo tutte insieme sui fenomeni ad esse sensibili, conferiscono loro il carattere di una mutevolezza nel tempo (quasi sempre ritmica) e perciò sono definiti ormai universalmente come fenomeni fluttuanti.

Fenomeni fluttuanti ed elettromagnetismo. – La pregiudiziale di base alla raccolta mondiale di dati sui fenomeni fluttuanti è la legge generale formulata da Piccardi nel 1960: «I sistemi eterogenei e fuori equilibrio, quando sono sufficientemente complessi, rispondono a qualsiasi segnale esterno anche se l’energia del segnale è estremamente piccola». (Sembra anzi accertato [1969] che le più importanti siano appunto le azioni di piccolissima energia). Il test chimico di Piccardi è un esempio (riproducibile a volontà) di sistema complesso e fuori equilibrio, e perciò serve egregiamente come rivelatore (statistico) della situazione ambientale, altrimenti ignorata. Esso ha permesso di dimostrare in qualsiasi sede terrestre, Artide e Antartide comprese, l’andamento ciclico delle interferenze spaziali, con ritmi a media frequenza (circadici) ma soprattutto a bassa e bassissima frequenza (circannuali e oltre). L’andamento di questi cicli o ritmi, correlato per esempio al numero di Wolf (ciclo undecennale delle macchie solari) si è dimostrato con esso notevolmente sincrono (Fraunhofer Institut di Friburgo). Inoltre una nutrita schiera di ricercatori, come Gualtierotti e coll. Italia, Neghisev in Russia, Beran in Austria, Fritsch in Germania, Capel-Boute in Belgio, Tarata in Giappone, hanno accertato una stretta correlazione tra il test chimico di Piccardi e vari test biologici.

Né la cosa può stupire, considerato che la più semplice proteina nella più semplice cellula vivente (purtroppo non riproducibile a volontà) costituisce un sistema altrettanto eterogeneo e fuori equilibrio del tricloruro-ossicloruro di bismuto di Piccardi, è assai più dispersa nei suoi comportamenti elementari ed è di tale complessità che a tutt’oggi non siamo ancora riusciti a capirla.

Ma tuttavia possiamo usarla, in adatte condizioni, come «stazioni di ascolto ». All’Università di Vienna (Wiedmann; Beran) è stato studiato a questo fine il tempo di coagulazione del sangue in minuti, fuori e dentro le catacombe del duomo (quale schermatura naturale), dall’aprile al dicembre 1967. L’andamento ciclico è apparso indiscutibile; e assai significative le differenze tra il fuori (massimo 13′, media = 5′) e il dentro (massimo 24′, media = 13′). (Da Cornali e Macaluso, II simp. Bioclimatologia medica, Venezia 1969).

Quanto all’ipotesi sulla più probabile forma di energia che diffonde in tutto l’universo le pulsioni ritmiche del sincronizzatore, ancora nel 1955 l’Istituto di Geofisica di Graz aveva correlato sperimentalmente al magnetismo terrestre i ritmi del test di Piccardi. Comunque quest’ultimo aveva già attribuito le interferenze spaziali al campo elettromagnetico terrestre, periodicamente modulato (a bassa frequenza) dall’alta atmosfera sotto la sollecitazione della energia solare. I purtroppo pochi medici che conoscevano queste linee di ricerca non si sono dunque stupiti – come tutti gli altri – alla notizia pubblicata sulla più autorevole rivista scientifica del mondo («Science», 1974) «che un particolare campo magnetico favorisce la guarigione delle fratture»!

Sarebbe dunque finalmente questo il misterioso metronomo temporale; che raggiunge ogni più profonda intimità della cellula, che spinge le microfilarie e i plasmodi malarici fuori dai capillari polmonari nel sangue periferico alla sera, che agisce probabilmente stimolando i cloroplasti dell’Acetabularia della Vanden-Driessche, o i suoi modificanti allosferici? L’ipotesi è altamente suggestiva, e per altri versi controllabile. A parte le accertate coincidenze delle epidemie infettive con i periodi di massima attività elettromagnetica della fotosfera solare, come il tifo in Austria nel 1874, il colera in Russia nel 1896, e ancora il colera in Europa o Tunisia nel 1973, basta guardare (dove è rimasto qualche albero abitato) come si svegliano i passeri nei mattini d’estate. Non perché la luce gli batta negli occhi, ma alcuni minuti prima che sorga il sole, quando si diffonde nel cielo, per brevissimi istanti, la luce verde zodiacale. Un attimo prima tutti col capino sotto l’ala: un attimo dopo tutti svegli a cantare. Evidentemente è quella particolare lunghezza d’onda, isoritmica e sincronizzata con qualche struttura cerebrale automatica (probabilmente i nuclei cerebrali soprachiasmatici) a farli uscire tutti insieme dal sonno. La nostra vita è davvero diversa, forse, dalla loro? Certo tra strutture spaziali e strutture temporali, tra cronobiologia e crono-farmacologia, tra bioritmi del cloroplasto e onde EEG, tra test di Piccardi e numero di Wolf, risulta che la biologia riposante di un tempo meravigliosa nella sua arcaica ingenuità, è morta e sepolta, costituita da un intrico sempre più indominabile e interdisciplinare di conoscenze analitiche che dovrebbero preludere – ma chissà quando – a una sintesi finalmente comprensibile e rasserenante. La spaventosa complessità odierna di ogni più elementare fenomeno biologico si ripropone ad ogni istante come l’antico supplizio di Sisifo, a chiunque si avvicina a questa a affascinante materia.

Ma chi l’ha mai detto, che la vita è una cosa semplice?

Capitolo II – Il mistero dentro di noi 

Cinquecento anni prima di Cristo, Alcmeone di Crotone localizzò per primo nel cervello la sede delle emozioni e il comando centrale dell’organismo. Abbandonato per venti secoli, lo studio del cervello venne ripreso nel 1500 su basi anatomiche, e nel 1800 su quella base anatomofunzionale che, passando per la mappa delle localizzazioni corticali, è giunta oggi all’estremo limite, cioè alla indagine funzionale ed elettrica di una singola cellula della corteccia. Ma alla fine dell’800 la scienza cominciò ad accorgersi che la neuroanatomia e la neurofisiologia, da sole, non riuscivano a spiegare tutto l’uomo, soprattutto non la sua saggezza né le sue follie, cioè l’imprevedibile comportamento, condizionato dalle pulsioni inconsce assai più che da quelle coscienti.

Fu per questo che esplose la rivoluzione psicologica a cavallo del 1900, con Freud, Jung e Adler, e la psicanalisi, rimasta per decenni nel limbo di un’accettazione sospesa. Oggi si va sempre di più accertando che neppure l’analisi dell’inconscio esaurisce la conoscenza dell’uomo, e in esso permangono aree assai vaste di mistero, che ricordano le macchie bianche «hic sunt leones» delle antiche carte geografiche. Due delle più vaste e importanti riguardano i problemi del sonno e del sogno; e ciò che abbiamo raccolto finora ha solo aperto un’angusta finestra sulla immensità di un mondo affascinante è ancora quasi inesplorato.

Perché ci addormentiamo? – A detta di tutti, e persino d’Ippocrate, le nostre vite sono già troppo corte per tutto quello che ne vorremmo fare. In più un terzo della loro durata ci viene rubato dal sonno, eppure solo negli ultimi trent’anni il problema  ha ricevuto un’analitica attenzione da parte della scienza. E come al solito ha cominciato a complicarsi: perché dormiamo e come dormiamo? Che cosa è il sonno? Sonno del corpo o sonno della mente?

Riconoscendo l’estrema difficoltà euristica del perché del sonno, che tuttavia resta il problema fondamentale (Hess, 1962; Moruzzi, 1966) la ricerca ha preferito interessarsi alla sua mediata finalità. Essa, sintetizzata in termini moderni, riesprime solo l’antica intuizione soggettiva del riposo globale dell’individuo più che delle sue parti. «Chi giace per ore a letto insonne sa che non dormiamo per far riposare i muscoli… il problema centrale è indubbiamente il sonno del cervello» (Moruzzi), «… per una inibizione di natura costruttiva, che riproduce le condizioni ottimali di una completa riabilitazione» (Hess, 1962).

Ma riabilitazione di che? «Il sonno non riguarda le attività stereotipate dei centri nervosi, che proseguono, ma solo le funzioni più elevate che condizionano la nostra attività cosciente» (Moruzzi). Si può dunque intendere il sonno come il periodico riposo della personalità individuale. Lo strumento biologico che presiede ai fenomeni veglia-sonno, secondo la teoria dualista (Moruzzi 1952, Tissot e Monnier 1958) sarebbe il sistema reticolare ascendente. L’ipotesi dualista chiarisce finalmente, in modo abbastanza soddisfacente, perché le stimolazioni del talamo a bassa frequenza e di lunga durata tranquillizzano e addormentano (Pavlov, Hess) e quelle ad alta frequenza e di corta durata (30-200 cicli-secondo) provocano la reazione di risveglio. Spiega dunque perché il dondolio ritmico della culla (meglio se di legno e rumorosa, a frequenza di 0,5-0,8 c.s.) serva egregiamente da millenni come induttore di sonno, e perché le note del Guglielmo Tell emesse in chiusa di programma, dalla TV, riescano a risvegliare gli spettatori e a mandarli finalmente a dormire a letto.

Hess ha scoperto che, anche se nel sonno profondo senza sogni la coscienza è sospesa, la sua disponibilità è un continuo che differisce secondo le circostanze. Lo conferma con gli esempi del sonnambulo (funzioni motorie e di equilibrio spaziale conservate); degli uccelli addormentati sul filo (riflessi posturali mantenuti); del cavallo che, in una stalla estranea, non si accoscia ma dorme in piedi ad occhi aperti; infine, per il settore sensoriale a banda selettiva, della madre addormentata che non reagisce a stimoli acustici elevati provenienti da qualsiasi altra fonte, ma è immediatamente sveglia e cosciente per minimi segni di irrequietezza del proprio bambino.

Prima che Berger inventasse (1929) l’EEG (elettroencefalogramma), i fisiologi accettavano concordemente l’ipotesi che il cervello «morisse» nel sonno, per rinascere ogni volta al risveglio, in seguito alla diminuzione sotto il valore soglia del tono corticale. Ma già Tissot, Hess, Moruzzi hanno accusato tale concetto di ingenuità, osservando che il ristoro dei centri nervosi si misura sulla scala dei millisecondi, e non delle ore. Ma allora, che cosa facciamo durante tutto il resto del tempo,  corrispondente ai 999.999 milionesimi del nostro dormire? Con l’EEG ripetuto su migliaia di soggetti si è visto che il cervello non «dorme» in modo costante, dall’addormentarsi al risveglio. La sua attività, segnalata dall’andamento dei potenziali elettrici, procede per cicli periodici alternati, alcuni con ritmi lenti (sonno ortodosso), altri con ritmi vivaci (sonno paradosso o P), segnalato da Kleitmann e Dement nel 1958, le cui caratteristiche elettrografiche sono del tutto simili a quelle della veglia. Dalle ricerche di Akert, Kleitmann e soprattutto Dement (1960) e Jouvel, che ne ha persino determinato il centro pontino (1962), è emerso che esso coincide esattamente con l’accendersi e lo spegnersi dell’attività di sogno.

Il bisogno di sonno e di sogno. – Il bisogno di sonno (generico) nell’uomo è in media alla nascita di 16,6 ore (limiti estremi 10,5-23,0); in seguito subisce una graduale diminuzione media, dimostrando tuttavia un vastissimo ambito di variazione: su 100 persone, 2 hanno bisogno di 10 ore, 2 solo di cinque. Il significato sostanziale del sonno sembra essere quello della sicurezza ristoratrice e si svolge meglio in ambiente «sicuro».

L’effetto favorevole delle stimolazioni ritmiche a bassa frequenza viene attualmente ricollegato all’ambiente prenatale, ritmato per nove interi mesi dal battito del grande cuore materno immediatamente sovrastante. Ne danno conferma gli esperimenti sulla durata del sonno e sulla rapidità della sua induzione, compiuti su lattanti in presenza di silenzio totale, metronomo a 72 battute al minuto, e registrazione di battito cardiaco, con effetti progressivamente migliori. È questa appunto la motivazione della culla, già citata, e persino del fatto che l’87% delle madri (sia destre sia mancine) tengono inconsciamente il bambino sul fianco sinistro. È più tranquillo perché sente meglio il cuore (D. Morris). La privazione del sonno (globale) consegue sulla personalità gli effetti stressanti più o meno noti a tutti; la privazione selettiva ha invece aperto qualche spiraglio nuovo sul mistero sempre rinnovantesi dell’uomo. Dement (’65) poté infatti accertare che l’interruzione del sonno lento non aveva altro effetto che il successivo recupero senza riflessi sull’umore del soggetto. Ma quando sperimentò la privazione del «sonno P» dovette interrompere la ricerca, dopo quattordici notti, perché il soggetto, mite e controllato fino a quel momento, scatenava senza ritegno durante la veglia impulsi emotivi a sfondo sessuale e aggressivo, così da mettere in pericolo se stesso e gli altri.

Dement ricavò, da una larga statistica, la sua regola dei «cinque periodi di sonno P per ogni notte» al fine di conservare la normalità psichica: dobbiamo cioè scaricarci emotivamente nel sogno ogni notte, per essere quelli che siamo (o ci sforziamo di essere) durante il giorno. Questa è dunque, settanta anni dopo, la dimostrazione finalmente sperimentale del Traumdeutung di Freud (1900), l’«interpretazione dei sogni» che ha dato l’avvio alla dottrina psicanalitica. E, più di tremila anni dopo, della concezione cinese del sogno quale erotismo disinibito, secondo il Tao-tê-ching, opera fondamentale del taoismo, attribuita a Lao-tzû (Dinastia Han occidentale, XI sec. a.C.).

Se tale è insomma la sua importanza psicosomatica, sappiamo almeno cosa è il sogno?

Che cosa è il sogno? – Secondo i neuropsichiatri positivisti è «un turno di predominio dell’attività subcorticale rispetto a quella corticale» (Rubino); secondo la tradizione era considerato un messaggio inviato dagli dei o da esseri soprannaturali; la comparsa nel sogno di persone già defunte intese come reali, sia pure di una realtà diversa, avrebbe originato le prime religioni di sopravvivenza (l’animismo, ad esempio).

Aristotele e Platone furono i primi a considerarlo un fenomeno naturale e non soprannaturale. Hobbes e Schopenhauer lo ridussero al solo effetto di stimoli organici; Delboeuf e Wundt sottolinearono già tuttavia, in esso, l’importanza delle relative stimolazioni psichiche; Scherner ed Emerson vollero ravvisarvi persino autentiche possibilità creative. Per tutto il secolo XIX prevalse l’opinione «scientifica» che fosse privo di significato, perciò inutile e non dignitoso l’occuparsene. All’alba del XX, la dottrina psicanalitica insegnò che i sogni sono dovuti all’azione di stimoli fisici che trovano in essi una eventuale soddisfazione. Gli stimoli, inconsci ma risvegliati da recenti esperienze di veglia (i «residui diurni») originerebbero il «contenuto latente» del sogno, distorto nel «contenuto manifesto» dalle istanze censuranti del «lavoro onirico». La tecnica psicanalitica tende appunto a riconoscere le esigenze inconsce, ritrasformando il simbolico e distorto contenuto manifesto nel suo vero significato profondo. Di fronte alle documentazioni moderne, si può affermare con tranquillità che quasi tutte le interpretazioni parziali del sogno, fin qui citate, contengono almeno un frammento di vero.

La stragrande maggioranza delle scene di sogno è espressa in forma visiva (donde i rapidi movimenti oculari [R.E.M.] abbinati ai ritmi ecografici vivaci del sonno P, che seguono la scena come su uno schermo cinematografico), seguiti a grande distanza da sogni acustici, olfattivi, gustativi e infine persino, ma raramente, concettuali. È documentato infine che il singolo sogno è di durata enormemente inferiore a quanto appare al soggetto, quando se ne ricorda, cioè che nel sogno sono annullati, tra l’altro, i valori usuali del tempo. Celebre a questo riguardo il sogno riferito dal fisiologo francese A. Maury (1868) relativo a un’intera vita da aristocratico, completa di feste, fidanzamenti, matrimoni, nascite e battaglie, e culminata con la cattura, la prigionia e la ghigliottina, la cui caduta sul suo collo provocò l’atterrito risveglio. Ma, portandosi automaticamente una mano al collo, vi trovò un ramoscello d’olivo caduto dalla testiera, il cui contatto epidermico aveva scatenato, in libera associazione con il riconoscimento dello stimolo e il risveglio, la valanga inarrestabile delle «sensazioni» provate.

Incapace di spiegare la sostanza del sogno, la scienza ne registra i cosiddetti equivalenti: la trance spontanea o indotta, il delirio febbrile, le malattie mentali, la telepatia, la chiaroveggenza, la divinazione, le allucinazioni rituali (psilocibina, peyotl, mescalina, ololuiqui) e quelle spontanee come la visione dei fantasmi. L’atteggiamento ortodosso era di negare qualsiasi validità allo studio di queste scomode manifestazioni del mistero dell’uomo; ma sembra che le cose stiano profondamente mutando. Per esempio uno scienziato rigoroso, come il prof. T. Moretti-Costanzi, cattedratico di filosofia teoretica all’Università di Bologna, ha dedicato anni di dottissime ricerche (riassunte in un recentissimo volume: Amore Morte Eternità, 1974) al problema filosofico e ontologico dei «fantasmi», come contributo analitico alla questione della sopravvivenza umana.

Comunque la scienza attuale, per mezzo degli allucinogeni (come l’L.S.D.) è in grado di riprodurre e di analizzare sperimentalmente le allucinazioni e i sogni, per quanto rifugga finora dall’interpretarli. Diversa era l’opinione degli antichi per i quali se il sogno aveva un significato era utile e doveroso accertarlo. Fu solo per l’opinione che i sogni avessero un significato che il retore Artemidoro di Efeso scrisse, nel secondo secolo dopo Cristo, la sua famosa Interpretazione dei sogni («Ompoxpi; Tixa ») che, riscoperta e ripubblicata nel Rinascimento, costituisce la base maggiore dei Libri dei sogni, delle Cabale e delle Smorfie che pullulano tuttora in milioni di copie, popolari e no, nella nostra èra scientifica.

Altra istanza fascinosa, che la scienza tuttora rigetta o si rifiuta di considerare, è il sogno «sintomatico» che raccoglie stimoli patologici in fase ancora pre-clinica, ma che l’inconscio registra, e sulla guida del cui «contenuto manifesto» già l’antica medicina cinese e indù (epoca del tantrismo, XIII sec. dopo Cristo) sapeva «diagnosticare». Per esempio fuoco, luce, incendio nelle malattie circolatorie (scotomi scintillanti per spasmi retinici?); battaglie e armi nella patologia polmonare; foreste inestricabili nella patologia epatica; ruscelli e cascate nell’anemia; impiccagioni, annegamenti nell’asma (ovvio!). Per almeno un equivalente del sogno, cioè la ESP (percezione extra-sensoriale), abbiamo tutto l’enorme archivio delle ricerche che si compiono dal 1920 presso le Università Duke (J. B. Rhine), Stanford e Gröningen, dove il calcolo statistico dei fenomeni parapsicologici di divinazione delle 25 carte simboliche del Rhine accerta spesso probabilità casuali dell’ordine di 1 : 100.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000, laddove la più rigida ricerca biologica si accontenta di una probabilità di 1:20 o 1:100 (P 0,05 o P 0,01). Nonostante tutto questo, i soliti spiriti «positivi» sono sempre pronti a tacciare ogni cosa di fole da bambini. Per fortuna dell’umanità (quindi anche loro) molti di questi «fenomeni psi» ci hanno invece donato una serie assolutamente insospettata di scoperte scientifiche, di realizzazioni tecniche, di apporti culturali preziosi.

Capitolo III – Dal pettegolezzo medico all’esorcismo di massa 

Nella professione medica moderna – anche se nessuno ne parla o assai malvolentieri – accade assai spesso che l’aggiornamento del paziente batta di varie lunghezze quello del medico, sia in accuratezza sia soprattutto in freschezza.

Qualcuno ha voluto ricercare le cause del fenomeno nel fatto ben noto che il medico medio, tanto perché oberato di lavoro fino all’intollerabile, quanto per sua stessa caratteristica, legge assai poco. Ma anche se leggesse (intendendosi per antonomasia «di cose mediche») la sua informazione più fresca, se ricorresse solo agli atti ufficiali dei congressi abitualmente in ritardo di dodici-diciotto mesi, sarebbe almeno di altrettanto stantia, e in molti casi superata. Il paziente invece dispone di un diverso avvicinamento al problema: lo trova risolto a costo irrisorio, in forma piana e comprensibile, di gradevole e interessante lettura, in uno qualsiasi delle decine di quotidiani o di riviste che legge da cima a fondo per essere sottratto dalla malattia alle sue usuali attività. È questo uno dei risultati meno analizzati, ma forse più conturbanti, della divulgazione medica di massa.

In linea accademica, e per il gusto sterile della esercitazione dialettica, ci si può chiedere se la divulgazione medica sia un bene o un male. Ma visto che esiste ed è lì, nella sua presente forma, a complicare per tutti (medici e pazienti) la crisi psicosomatica della malattia, risulta più utile chiedersi il perché della sua esistenza, e analizzare le sue caratteristiche e i suoi risultati. L’interesse per gli argomenti connessi con la salute è inscritto da sempre nel modulo di comportamento umano: sia nei confronti della salute degli altri (istinto di fraternità e di aiuto, ma anche curiosità e fascino per il mistero della morte, e della malattia, e del dolore) sia nei confronti della propria (istinto basilare di conservazione, fino alla sua distorsione e magnificazione nella patofobia).

È per questo che, dal più microscopico bollettino parrocchiale alla più gigantesca rete televisiva, nessun canale informativo manca di una o più rubriche mediche, né di articoli o servizi dedicati alla salute. Considerato che il gradimento dei lettori coincide strettamente con il successo finanziario, si comprende benissimo perché i giornalisti non possano (ne vogliano) rinunciare ad uno dei suoi preminenti fattori, solo perché qualche educatore sanitario ne segnala ogni tanto (e in forme tali da rivelare una completa inesperienza giornalistica) i possibili danni sociali e professionali.

L’atto di accusa. – La precipua caratteristica comune a tutti i mezzi di massa è infatti la contemporanea ed eccezionale validità, sia singola sia collettiva, dei messaggi che diffondono. Se si somma questa all’altrettanto eccezionale livello di interesse proprio agli argomenti della salute, ci si trova senz’altro di fronte a un fenomeno costantemente stabilizzato su una temperatura critica di azione, dove ogni anche minima oscillazione incontrollata può portare, come nelle reazioni termonucleari, a esplosioni psicosociali di incalcolabile danno. Stanno a provarlo reazioni negative e infrenabili di grande massa, come l’abuso di medicinali, la serie degli equivoci di base in tema di salute, la psicosi delle epidemie, le neurosi universali, la diffusa e progressiva sfiducia nei medici e nella medicina, la paura degli ardimenti tecnici irresponsabilmente svelati ai profani, la frustrazione grave di fronte alla irreperibilità di terapie d’avanguardia intempestivamente pubblicizzate, l’aumento dell’angoscia che la malattia presunta o temuta porta con sé, e infine la colpa di omissione nella divulgazione efficace di norme igieniche e profilattiche.

Per scendere dall’empireo concettuale ad almeno un paio di casi pratici, basta ricordare l’effetto conturbante, sulla psicologia sociale, dell’esposizione di sintomi sulla stampa generica. Oltretutto perché i sintomi di molte malattie diverse sembrano ai profani, ed effettivamente di primo acchito anche ai medici, molto simili tra loro. Un mal di testa, la febbre, la gola rossa possono essere indici di un’influenza, ma anche del quadro di apertura di un tifo, o della poliomielite, o di una virus-epatite. Ora che cosa accade? Che se si scrive sui giornali: «Attenzione che l’epatite virale inizia con la cefalea, la febbre alta e la gola rossa», subito tutti gli affetti da una banale angina credono di averla contratta; e fin quando si tratta di epatite, va ancora bene. Ma che dire di quell’articolo (firmato, su una rivista a grande tiratura) che segnalò tranquillamente – e contro la verità statistica – che «l’escreato sanguigno, un tempo tipico della tubercolosi, è oggi assai più indicativo del cancro polmonare»? Se un epatopaziente depresso e dai nervi fragili si suicida perché un mattino sputa rosso dopo essersi lavato i denti e le gengive gonfie, chi l’avrà in realtà ucciso?

E ci siamo fin qui riferiti principalmente alla stampa cioè, secondo le teorie di Marshall Mc Luhan, a un mezzo «caldo», ad alta definizione ma poco coinvolgente (e oltretutto rileggibile dall’utente, se alla prima scorsa il senso non gli è risultato chiaro). Le cose si complicano ancora di più al riguardo del principale mezzo «freddo» altamente coinvolgente, che ha universalmente invaso la nostra civiltà: la TV. Questo «elettrodomestico di concetto», diverso da tutti gli altri nostri schiavi elettromeccanici che alleviano in silenziosa umiltà le nostre fatiche, partecipa oggi al nostro desco e persino al nostro talamo, e interferisce pesantemente nel comportamento sociale e nel modo stesso di pensare dell’umanità. Le sue caratteristiche distintive, esattamente come il fumetto, sono di essere «a bassa definizione» (Mc Luhan) e di trasmettere un messaggio «iconico» (etim. immagine uguale alla cosa) trasferendo quindi all’artificio elettronico il valore integrale della concreta realtà (Ch. Morris, Wertheimer, Werner). Per chi resta perplesso di fronte all’accostamento tra fumetto e televisione, soccorre il seguente dato numerico: dei circa tre milioni di puntini (come quelli delle telefoto) che lo scanning fa apparire ad ogni secondo sullo schermo, lo spettatore è in grado di riceverne in un’occhiata soltanto poche dozzine, con le quali deve formare un’immagine. L’immagine così costituita è sbozzata e imprecisa, esattamente come quella dei fumetti.

È per questo che ciascuno, completandola a suo modo, vi si riconosce, identifica e coinvolge emotivamente. Sommando a questa il carattere già accennato dell’«iconicità» si comprende finalmente perché i personaggi televisivi del dr. Richard Kildare e del chirurgo Ben Casey riuscissero a soddisfare dal 1962 in poi la insoddisfatta fame di medici veri nascosta nelle centinaia di milioni di americani e di europei, e a decretare alle loro serie televisive un successo senza precedenti. Ma c’è dell’altro. Mc Luhan per il primo ha riferito l’azione dei mezzi di massa (e particolarmente della «fredda» TV) al «messaggio per il messaggio» cioè dando peso quasi superfluo al suo stesso contenuto. Anche se la rigidità dell’ipotesi di Mc Luhan è opinabile essa è confermata da documenti sorprendenti: nonostante che in tutto il mondo la difficoltà media dei messaggi televisivi non superi l’età mentale dei 14 anni, l’inchiesta italiana De Rita (1958) ha rivelato che oltre il 18% del campione non era in grado di capire neppure Carosello (citato dai prof. A. Ardigo, Tavola Rotonda sui Media e E. S., Milano, settembre 1969).

«Eppure – si dirà – e le tavole rotonde, i dibattiti sociali, le rubriche dotte, le inchieste scottanti, Tribuna politica…?». D’accordo, rivelano un elevato indice di gradimento e di ascolto, ma il loro rendimento razionale di massa è assai scarso (salvo per una ristretta cerchia di utenti); e le inchieste sul merito fanno emergere un comportamento assai simile a quello delle alte frequenze serali nelle chiese dove un tempo davano spettacolo i quaresimalisti famosi per la loro facondia. Gran parte del pubblico, fedelissimo per quaranta sere di seguito, interrogato sugli argomenti trattali dichiarava candidamente: «Non lo so, ma come parla bene!». Né d’altronde è tutta colpa degli ascoltatori, o della magia onirica propria al massimo giocattolo elettronico sociale. Chi per motivi di studio rilegge i trascritti integrali di una trasmissione di successo, sia pure pre-registrata e riedita, riesce ogni volta a inorridire della costante mancanza di logica, di verità, di significato ch’essi presentano quasi come regola.

Eppure è a un pubblico di centinaia di milioni, con questo pericoloso mezzo, che si propinano ogni giorno in tutto il mondo valanghe di informazioni sanitarie eterogenee e discontinue, affascinanti e angosciose; una specie di pettegolezzo medico elevato alla ennesima potenza, che contribuisce senza soste alla già grave nevrotizzazione della umanità, senza tuttavia indicarle un qualsiasi provvedimento igienico.

Anzi talvolta un messaggio sbagliato, che arriva più o meno distorto al cervello degli utenti, produce quello che in linguaggio tecnico si chiama «effetto boomerang», dalla straordinaria arma preistorica australiana che – se non coglie il bersaglio – ritorna volteggiando a colpire il lanciatore.

Per esempio la TV, di solito attentamente controllata, ci propina a tradimento, magari all’ora di colazione, qualche rubrica cosiddetta scientifica a base di bacilli o di alta chirurgia cardiaca. In essi è comprensibile al pubblico profano soltanto l’ambiente, paurosamente irto di impensabili audacie che spaventano gli spettatori invece di educarli.

In compenso la scienza ufficiale (italiana) al di fuori dei tentativi talvolta riusciti di valersene per fini di promotion, rivolge alla divulgazione medica e ai suoi canali solo un taciuto o esplicito disprezzo o, nel migliore dei casi, un altezzoso disinteresse. Trascura con ciò il fatto, documentabile e serissimo, che essa raggiunge ogni giorno e di continuo un pubblico milioni di volte più numeroso di quello delle aule accademiche, e gli dice quello che vuole o – meglio – quello che più colpisce la forma mentis giornalistica del caporedattore, a fini esclusivi di tiratura o di scoop.

L’esorcismo di massa. – Di fronte alla presente situazione lo svedese L. Werkö, nel già citato Workshop di Basilea 1972 sul futuro della medicina, ha espresso la pessimistica opinione che «il risultato di un’aumentata educazione sanitaria potrà essere solo confusione, cattiva coscienza e malessere generale, in seguito al conflitto tra ciò che la gente desidera e quello che gli amministratori e i politici le possono dare». Tuttavia sembra che Werkö non abbia colto la sottile ma fondamentale differenza tra la divulgazione di nozioni mediche e la vera educazione alla salute. Nell’un caso e nell’altro si tratta sempre di informazione, e quindi il suo materiale di base è sempre il medesimo; ma mentre nel primo la sua diffusione risulta fine a se stessa, nel secondo viene usata come mezzo tendente a una finalità superiore.

L’evoluzione storica del concetto di «Educazione alla Salute» (A.M.A. 1847, Calmette, Viborel 1943, Delore 1946, Seppilli 1959, Ducrey 1962, Speciani 1967…) la definisce oggi come «un intervento psicosociale inteso a conseguire coscientemente una modifica stabile del comportamento igienico dell’individuo o della comunità». Per chiarire con qualche semplice esempio, in tema di difesa antitubercolare non è necessario né utile divulgare la dose di milliampères usati per impressionare un singolo schermogramma, ma invece convincere la comunità a non sottrarsi alla periodica schermografia del torace; e per il test di Papanicolau, lo scopo è di convincere le donne dell’utilità per loro stesse di sottoporvisi, non di discutere in pubblico le varianti citologiche del metodo.

Perché il messaggio modificante sia raccolto (considerato il suo sconfortante livello di ricezione media) deve poi essere espresso nel linguaggio comune, della vita di ogni giorno. Considerata la finalità che esso si propone, non si vede in questo adeguamento alcuna diminuzione di quella pseudo-dignità scientifica, che nasconde spesso dietro lo schermo del gergo tecnico soltanto la vacuità delle intenzioni. Non dunque, come accade talora di ascoltare o leggere: «l’esistenza della profilassi antiparassitaria è imprescindibile per il mantenimento della salute», ma piuttosto: «le mosche diffondono il tifo e la poliomielite: distruggetele, e lavatevi le mani prima di mangiare!».

I medici dai piedi scalzi in Cina si sono comportati così (sapevano ben poco di più di quel che insegnavano agli altri) e abbiamo visto i loro risultati. Mentre infatti le informazioni (specie in medicina) soffrono ormai di una grave inefficacia per la «fibrillazione» da incessante sovrapposizione, a livello del consiglio la gente ha ancora nonostante tutto fiducia nei medici e segue quello che le viene detto, solo che sia in grado di comprenderlo. Di questo ritorno all’origine abbiamo ormai bisogno entrambi, medicina e comunità; e se i mezzi di massa diffondessero corretti consigli sanitari invece di pettegolezzo confusionario, il loro intervento psicosociale non differirebbe minimamente dall’esercizio pratico della medicina individuale di un tempo. Là, in antico (oggi molti medici sembrano averlo dimenticato), al tempo della terapia si affiancava obbligatoriamente l’esorcismo («Ora va in pace, e guarirai»). Era il momento dell’intervento psicologico, altrettanto importante di quello terapeutico per avviare il paziente, ormai senza paura, sulla strada in salita verso la guarigione. Oggi curiamo (o almeno «investiamo medicalmente») la gente a milioni di unità per volta. Perché vogliamo ignorare, nel tempo della medicina di massa, che la divulgazione medica e l’educazione sanitaria possono essere, mentre non sono, quell’esorcismo di massa che il mondo ricerca e non trova? Sta a noi, non ad altri, di fornirglielo. Altrimenti imparerà a farne a meno, come già ora tenta; ma contemporaneamente avrà imparato a disconoscere la nostra guida, per il troppo lungo rifiuto di donargliela.  Pag. 269

Capitolo IV – Le scelte alternative, in medicina e no 

G. R. Taylor (The Doomsday Book) scrive che i governi non possono agire con efficacia sui problemi socio-ambientali perché «né essi né i popoli sono esattamente informati sulla necessità di una drastica riorganizzazione», ma pecca di ingenuità non chiedendosi se questa carenza informativa sia fatale o voluta.

La tragica storia della diga di Assuan, narrata nel dicembre 1974 dal giornale più autorevole del Cairo («Al Akbar») può essere illuminante al riguardo. Costruita nel 1971 col prestito di un miliardo di dollari U.R.S.S. che impegna l’economia egiziana per decenni futuri, doveva aumentare di un sesto le terre arabili, e fornire in abbondanza energia elettrica, nonché proteine alimentari col pesce che avrebbe affollato l’immenso lago Nasser creato dallo sbarramento (km 500 per 15). Ha invece prodotto le seguenti realtà: le acque di infiltrazione fortemente saline, che riaffiorano a valle della diga, minacciano di rendere sterile un terzo della valle del Nilo; il celebre limo nilotico, ragione millenaria della sua favolosa fecondità, si ferma nel lago e sonica i pesci (addio proteine); l’acqua senza limo che scorre più veloce erode i canali di drenaggio (la benefica rete tracciata da Imhotep 48 secoli or sono) e occorrerà rifarli tutti in cemento (che non c’è!); prive del naturale fertilizzante, le acque del delta hanno dimezzato la loro pescosità (e l’industria millenaria delle sardine sulla costa sta morendo); infine delle 12 gigantesche turbine della diga, 6 sono sempre ferme perché l’elettricità che si potrebbe produrre non dispone di una sufficiente rete di distribuzione nel paese. Fatalità? No davvero; queste conseguenze erano state esattamente previste dagli esperti, egiziani e stranieri, al primo apparire del progetto; ma i politici, con Nasser in testa, avevano preferito ignorarle o irriderle, inseguendo tra gli osanna delle masse raggirate un prestigio foriero di catastrofe ecologica, economica e sociale a breve termine.

Non per nulla Platone nella Repubblica sosteneva che a capo di una comunità perfetta dovessero porsi i filosofi e i saggi. Solo un saggio infatti sarà in grado di capire che, talvolta, provvedimenti in sé auspicabili possono rivelarsi null’altro che un placebo sintomatico a danno di tutti; e di resistere serenamente alle più incalzanti pulsioni demagogiche. Per controbattere l’accusa di essere fuori dal tempo, ricordiamo che alle medesime conclusioni operative (implicite in Platone) è giunto, nel febbraio 1970, il Comitato federale U.S.A. di esperti riunito dalla National Academy of Sciences al riguardo della tecnologia. Il suo rapporto (Tecnologia: procedimenti di valutazione e scelta) raccomanda a qualsiasi responsabile di qualsiasi sviluppo o modifica (tecnologica o sociale) l’obbligo di procedere, preliminarmente alla sua messa in atto, ad una esauriente analisi ponderata delle conseguenze per l’intera comunità ed il suo futuro. Sicuramente questo non è stato mai fatto prima del 1970; né per la bomba atomica né per la penicillina, né per l’urbanistica né per la televisione, né per la diga di Assuan né per i servizi nazionalizzati di sanità. E così la penicillina ha scatenato nel mondo i ceppi batterici resistenti agli antibiotici, con la piaga dell’ospitalismo; la bomba atomica ci ha regalato il latte e la carne inquinati dai radionuclidi; l’urbanistica sta uccidendo noi e le città; la televisione ha causato l’anarchia e le nevrosi di massa; e i servizi nazionali di sanità la bancarotta sociale.

Si può restare esterrefatti leggendo in H. Miller di Oxford (Medicine and Society, 1973) che «il NHS inglese era partito dall’idea che un più facile accesso alla medicina avrebbe diminuito malattie e assenteismo, riducendo la domanda sanitaria», mentre è accaduto l’esponenziale contrario. Ma risulta ormai incomprensibile – oppure molto chiaro ma truffaldino – che le attuali scelte politiche verso la nascita di altri consimili sistemi si rifiutino di tener conto non soltanto del contrario parere preventivo dei tecnici, ma persino dell’accertato fallimento finanziario e sociale di queste strutture.

Solo per questo di fronte agli immani problemi medico-sociali le comunità, dominate quasi dovunque da uomini impari ai  loro privilegiati ruoli, sono assolutamente impotenti e qualsiasi «provvedimento» finisce per discendere solo dal caso o dalla necessità (come la vita per J. Monod, ma non è vero).

Sul piano teoretico, si può fare anche di questo argomento un caso particolare di quel conflitto moderno tra l’individuo e l’autorità che persino B. Russell non è riuscito a risolvere. Ma essendo in fondo la medicina per sua natura semplice come la verità che insegue, basterebbe forse a migliorarne il rendimento un maggiore ricorso al buon senso. Ma, trasformato il buon senso in metodologia, la scienza ha poi dimenticato che la valutazione e la scelta dei mezzi alternativi è un momento fondamentale della terapia. Questa è una delle cause apparentemente più banali, ma socialmente più gravi, sia del fallimento economico della medicina organizzata, sia della insoddisfazione collettiva e delle sue conseguenze.

Il buon senso pianificato. – Per esempio chi mai insegna nel corso medico che l’obbligatorio momento della scelta è responsabile e delicato non soltanto nei confronti di chi lo esprime (il medico) ma soprattutto di chi lo riceve (il paziente)? E che oggi è diventato più difficile che mai?

Un tempo, quando la diagnosi era raggiunta, la terapia – unica e accettata nel corso di secoli – seguiva spesso automatica: purga e salasso, e l’alternativa verteva solo su quale dei due fare prima e quale dopo. Ma, oggi le terapie sono innumerevoli e le scelte infinite. Qual è il criterio di guida? Spesso l’abitudine a un nome o a una tecnica già provata; altre volte il flash mnemonico di un articolo scorso la sera prima; persino il suggerimento profano del paziente; nel migliore dei casi l’esperienza professionale o addirittura personale; nel peggiore l’urgenza della necessità o l’interferenza indominabile del caso, al di fuori di un corretto studio e di una precisa nozione di tutte le possibili alternative.

Alcuni criteri di scelta sembrano a prima vista obbligati: per esempio tra terapia medica e chirurgica; tra dosi diverse relative all’età; talvolta, ma non sempre, le differenze del sesso (però, gli anabolizzanti testo-derivati nelle bambine pre-puberi!!). Ma quante volte la scelta tiene conto – a parità di efficacia – delle alternative del costo in denaro (anzi il paradosso mutualistico della «defustellazione» l’ha in pratica quasi soppressa, sia per i medici sia per i pazienti…); del costo in tempo (di degenza o di inabilitazione); soprattutto del costo in sofferenza? Specie per quest’ultimo, anticamente il paziente (e chi piamente lo visitava come «opera di misericordia») si consolava nella speranza di «conquistare il paradiso». Oggi, giunti a tal punto che l’al-di-là è messo in discussione nelle forme tradizionali persino da alcuni preti d’avanguardia, dovremmo almeno valutare serenamente, mettendoci per una volta tanto dalla parte del malato, la convenienza per lui di subire qualche strepitoso progresso medicamentoso o chirurgico che gli renda «più penosa la guarigione del persistere del morbo» (come avvertiva Sir J. Hutchinson, nell’aforisma che abbiamo premesso alla prima parte del libro).

Questa immensa responsabilità umana e morale è stata delegata da sempre dalla comunità ai medici, ed è in sua virtù che le loro prescrizioni hanno avuto valore di legge. Oggi purtroppo la loro fama è usurpata, perché gli «operatori sanitari» moderni evadono sempre più spesso nello strutturalismo spengleriano («È tecnicamente possibile farlo, perciò si faccia»). Non per altro il premio Nobel (in Medicina, 1960) Sir Mac Farlane-Burnet, oggi settantacinquenne, porta sempre con sé una dichiarazione firmata che esprime una critica insuperata nei confronti dell’attuale sistema allopatico di medicina. In essa egli chiede «in considerazione dell’età, di lasciare in caso di incoscienza che la malattia segua il suo corso naturale senza ricoverarlo in reparti di terapia intensiva o di rianimazione». Secondo Mac Farlane, infatti, «i medici non dovrebbero obbligare i vecchi a morire più di una volta».

Ma se l’attuale medicina allunga talvolta illecitamente la vita pulsante del solo cuore in un organismo già morto nel cervello e nella personalità, tal’altra pretende altrettanto illecitamente di accorciarla prima del suo termine naturale. È la cosiddetta eutanasia (la morte per pietà) dichiaratamente applicata in diversi ospedali in Danimarca e Svezia, e già derubricata (cioè configurata nel Codice penale sotto un articolo di minore gravità) nell’ambito della loro previdenza sociale da reato di omicidio ad «atto non incriminabile» (Altavilla, 1974).

Per converso, se questi sono i guasti della esasperazione «scientifica» avulsa dai buon senso, abbiamo un grosso esperimento sul campo dove il buon senso pianificato si è rivelato socialmente prezioso: la Cina. Oltre agli elementi di esso già discussi, risultano essenziali, sul piano psico-sociale, i seguenti:

a) il concetto metafisico che «le cose migliori della vita si hanno gratis, o non si hanno». Per esempio l’amore e l’amicizia, che si snaturano acquistandole per denaro, e persino il consiglio medico, cioè quell’«esorcismo» che difatti non compare mai nelle tabelle mutualistiche delle prestazioni rimborsabili, ma spesso segna il limite tra guarigione e cronicità. Su questo livello, il rifiuto logico del concetto di «inguaribilità» e «incurabilità» che si estende dalle malattie mentali al cancro.

b) la capillarizzazione dell’intervento. La maggiore forza guaritrice dei medici scalzi (come dei nostri vecchi condotti) è la conoscenza personale degli assistiti in virtù del loro numero limitato. I numeri magici del gruppo sociale sono sempre stati, in tutte le culture umane, il 25 (la banda) e il 500 (la tribù) (Birdsell, Birhar, Pfeiffer e Young). Quest’ultimo è il massimo raggruppamento umano dove tutti si conoscono per nome; ed è il massimo consentito in U.S.A. per le scuole elementari; ogni gruppo più numeroso richiederebbe qualche forma organizzativa di carattere poliziesco, cioè coercitiva e non più di libero rapporto personale.

c) la semplicità (= essenzialità) dei mezzi di intervento, per garantire la loro universale diffusione e il massimo rendimento sociale: perciò l’igiene, il consiglio gratuito ma salutare, le erbe e l’acupuntura, praticata dai medici scalzi, dagli operai delle squadre di propaganda, dai soldati (Macciocchi).

d) ai fini della nostra ipotesi di lavoro (una possibile, imminente crisi di civiltà) importantissimo lo spirito informatore di tutta la riforma: «in medicina dobbiamo prepararci in previsione di una guerra o di calamità naturali…». Che questa sia per essere una guerra nucleare antisovietica o il crollo della civiltà, non fa alcuna differenza per le condizioni di vita che ne risulterebbero. Per questo abbiamo già detto che, di fronte a una eventuale catastrofe da sviluppo, la Cina ha assai più probabilità dell’Occidente di sperare in una larga sopravvivenza.

Curiosamente anche chi loda l’esperienza cinese si chiede (come Maccacaro e Nahon, 1974) se il sistema sia esportabile. Le perplessità nascono solo dal fatto che il modello è visto attraverso gli occhiali deformanti della gestione politica della medicina, invece che nel significato umano delle scelte, e quindi la sua politicizzazione impone l’evocazione di una fantomatica classe dominante che purtroppo non esiste. D’accordo sulle infrastrutture di potere, dai baroni agli imperi farmaceutici multinazionali e alle loro scandalose conseguenze interne ed esterne. Ma il problema è ancora più grave, e più a monte. Se bastasse abbattere un fantoccio dittatoriale per risanare la medicina, viva la rivoluzione. Ma se la crisi del conformismo allopatico non si risolve nell’interno tormentato della medicina, qualsiasi «gestione alternativa» lascerebbe i suoi guasti tali come sono, anzi peggiorati dai caos riformistico.

Le scelte per sopravvivere. – è invece perfettamente possibile, e urgente, importare il significato e il collaudo sperimentale della medicina cinese, prima di tutto con un esame di coscienza, poi con l’impegno umanistico delle scelte. Secondo Murray Gell-Mann, premio Nobel per la fisica, «d’ora in poi non basterà chiedersi se l’uomo può fare qualche cosa, ma anche se sia conveniente che la faccia. Perciò un elemento essenziale del progresso della tecnica sarà quello della scelta…», il che identifica, persino nelle scienze non umanistiche, l’obbligatorio rifiuto dell’acritico strutturalismo, che invece nella medicina (anche marxista) è la regola di ogni giorno. In vista di una auspicata sopravvivenza in qualsiasi condizione operativa, la medicina dovrà d’ora in poi esercitare le sue scelte tecniche sul triplice binario della loro riproducibilità, convenienza per l’uomo, superamento del monopolio allopatico. Scendiamo sul campo con qualche esempio.

a) Riproducibilità: chiarito con Ménetrier che «qualsiasi cosa ne pensino i fanatici e gli analfabeti, la medicina dell’anno 2000 non sarà né una pura tecnica né un nuovo ramo delle cosiddette scienze esatte di natura fisica» si potrà cominciare a perdere la paura che una crisi di civiltà annulli la medicina, abolendo per breve o lungo tempo i calcolatori e l’universale pratica tecno-assistita. Una volta riconosciuto il suo nucleo essenziale che abbiamo cercato finora di illuminare, ogni mezzo tecnico, dal più semplice al più complesso, andrà inteso come facilitazione tecnologica artificiale e contingente a servizio dei mezzi naturali dell’uomo-medico, che restano la base irrinunciabile del suo intervento. Quindi l’insegnamento medico non dovrà trascurare l’uso e il potenziamento anche di questi ultimi, sotto pena di una loro progressiva atrofia, e del pericolo sociale di una loro definitiva perdita. Con questi mezzi il medico dovrà essere in grado di assicurare alla società l’essenziale dell’arte del guarire, visto che essa si pone assai in alto nelle esigenze di libertà umana. «La nostra prima emancipazione è il potere socialista – dice il contadino cinese che dirige il comitato rivoluzionario di un ospedale, alla Macciocchi – la seconda è la medicina collettiva.»

La «ricetta di Mao Tse-tung» ha collaudato sul campo la validità di una mozione presentata nel settembre 1972 al Workshop di Basilea sul futuro della medicina, congiuntamente da chi scrive (medicina sociale), dal dr. Ph. S. Woodruff (direttore generale di sanità del Sud Australia) e dal dr. J. Fry (presidente dei General practitioners d’Inghilterra): «Il problema tecnico principale della medicina moderna e futura è di garantire alla società una buona cura. Ma cosa è in realtà “una buona cura”? ».

Non certo la costruzione costosissima di centri-modello di medicina spaziale, né di AMHT stupefacenti, né di mostruosi acceleratori positronici per la radioterapia mirata e così via, ma la conoscenza e l’uso universale dei metodi più semplici e meno costosi dei quali la medicina già dispone. I primi possono anche esistere, se le risorse lo consentono, ma non hanno che una minima interferenza favorevole sulla salute generale della comunità. È l’errore più comunemente riscontrabile nella medicina dei paesi civili, che lascia coesistere senza vergognarsene i centri di chirurgia cerebrale e gli slums colerigeni, ignara della scandalosa omissione per cui, con il costo di due giornate operative del prestigioso centro, si potrebbero stipendiare tre studenti in medicina che, in attesa della ricostruzione utopica delle fogne della città, potrebbero eradicare il colera insegnando ai baraccati a lavarsi le mani prima di mangiare e a bere acqua bollita! Sulla stessa linea è meglio accantonare l’illusione che un alto numero di medici (università aperte a tutti) possa risolvere il problema di una buona assistenza medico-sociale. E neppure la forzosa irreggimentazione della professione medica in servizi nazionali, o il cartellino orario negli ospedali (Werkö). O il sacrificio della libertà del medico sull’altare demagogico della libertà di tutti gli altri membri della comunità. Non è l’adesione all’orario o il distintivo di stato che garantiscono il «buon medico», ma la sua vocazione e la sua preparazione tecnica e umana. Il risentimento e la costrizione non le aiutano certo; e questo non è più il tempo delle forme soddisfatte ma della sostanza, pena il disastro.

b) La convenienza per l’uomo. Il secondo binario applicativo riguarda il criterio della utilità dei progressi medici (e dell’attuale patrimonio) di fronte alla sua fondamentale finalità, che è il vantaggio per l’uomo. A parte Sir J. Hutchinson che prevede il caso limite, quante volte il medico cosciente si scontra nella pratica giornaliera con il caso morale espresso dal pericolo di una somministrazione o di un intervento che sarebbe forse meglio non consigliare? Ne abbiamo già discusso, all’interno della allopatia, con J. Hamburger. Ma esiste un ulteriore risvolto del problema: chi saprà mai l’angoscia del medico, di fronte alle «cure» ufficiali dannose, prima che la maggioranza del corpo sanitario attui finalmente il viraggio verso la verità? O nei confronti delle terapie irreparabilmente mutilanti, di prevedibile inutilità statistica, ma imposte dalla linea dominante (o dai pazienti medesimi, illusi dalla pubblicità scientifica a loro riguardo)? Considerate che l’attuale preparazione del medico tende a renderlo sempre più disponibile alle suggestioni (Bert) e sempre meno formato a scegliere liberamente, da solo con se stesso, il vantaggio del suo paziente, il comportamento prevalente è l’adesione acritica al metodo in auge, garanzia di un totale «assenso delli superiori» che diventa il fine ultimo, paradossale, dell’atto medico ed evita spiacevoli conseguenze professionali. Ma naturalmente la verità si vendica: perché mai, se no, la categoria dei medici segnalerebbe una quota di infarti cardiaci tre volte e mezzo più alta di quella generale?

Inoltre la «sanzione delle vittime» sta per finire: i pazienti cominciano a prendere coscienza del fenomeno e, sulla guida dei movimenti e associazioni in difesa del consumatore iniziati in U.S.A. dopo il 1919, e ormai approdati anche in Europa (Gran Bretagna: «Consumer Commission» presso il ministero del Commercio; Belgio: «Consiglio Naz. del consumo»; Danimarca: «Comitato per i problemi dei consumatori»; Francia: «Comitato Naz. del consumo»; Germania: «Fondazione per le prove comparative») stanno estendendo la loro critica anche al consumismo medico, di prodotti e tecniche terapeutiche. A questa punto è facile che il monopolio perda di presa, incappi in incidenti giuridici e finanziari assai spiacevoli, e il medico finisca per trovarsi non tra due fuochi («li superiori» e la coscienza) ma addirittura fra tre.

c) Il superamento del monopolio allopatico. Proprio questo potrà essere il cuneo che infrangerà il centenario monopolio allopatico, visto che – rifiutato come inutile o dannoso un metodo scientifico – l’allopatia sarà finalmente costretta a dichiarare la sua, almeno episodica, incompetenza. Risulterà allora ben chiaro a tutti che il monopolio di verità era illecito e usurpava la gestione esclusiva della medicina. E l’umanità sarà costretta dalla forza dei fatti a superarne i limiti, nella speranza di vivere al di fuori dell’allopatia, invece che morire con la benedizione dell’ortodossia del momento. Questa è già oggi la motivazione della fortuna dei maghi e dei ciarlatani; e delle centinaia di «cure» per esempio contro il cancro, delle quali la massima parte è truffa ma qualcuna forse no, ma che la scienza sdegna di discriminare respingendole in blocco, per difesa non dei malati ma del suo esclusivo monopolio.

Sennonché il problema che qui interessa non è questo, ma piuttosto il rilievo del paradosso nel quale il monopolio allopatico ha imprigionato la medicina, riservando l’esclusiva al marchio «scientifico» e rifiutando qualsiasi diversa alternativa che l’umanità ha scoperto nella sua storia millenaria. Come imporre per accettabilità sociale nel campo dei trasporti l’uso esclusivo dell’automobile, e dichiarare colpevole il ricorso al cavallo, alla vela, alla bicicletta, e più che mai ai piedi. Ma come nelle domeniche senz’auto tutti questi trasporti alternativi sono ricomparsi (e ne sono stati riscoperti i dimenticati vantaggi!) così in un futuro senza tecnologia le diverse alternative mediche riprenderebbero posto e dignità, esattamente com’è accaduto in Cina per l’acupuntura, le erbe e l’esorcismo da uomo a uomo. Nell’ipotesi della crisi di civiltà, non possiamo permetterci il lusso di trascurarne nessuna, almeno provvedendo a conservarne la nozione e una sommaria informazione nell’educazione dei medici, molto più utile di quelle relative a qualche iperspecializzazione allopatica, che forse solo uno su cinquemila medici applicherà.

Infine s’impone un’ultima considerazione, presente già in Ippocrate (Delle acque, delle arie e dei luoghi), ma offuscata nell’ultimo secolo dall’impostazione riduzionistica dell’allopatia.

Molte volte le cause di un disordine biopsichico, al quale la clinica incolla un’etichetta individuale o sub-individuale relativa ai soli sintomi, si trovano al di fuori dello spazio corporeo, nell’ambiente esterno. Lì solamente sono ritrovabili i fattori che condizionano tanto la salute quanta la malattia dell’individuo singolo e collettivo; e lì vanno studiati, per accertarne l’importanza causale, e correggerli se possibile. Tanto per fare un esempio, già digerito dalla allopatia perché coinvolge una realtà esterna all’uomo e concreta (anche se microscopica, come il plasmodio della malaria), dove il clinico diagnostica la malaria, l’entomologo la zanzara, l’igienista le reti protettive, l’epidemiologo il plasmodio che invade il circolo sanguigno, il medico preventivo la fornitura del chinino; il medico sociale propone, dall’inchiesta ambientale, la bonifica della palude, e la malaria scompare causalmente. Qual è la «cura»? La bonifica dell’ambiente, che annulla il sintomo «uomo con la febbre» in modo completo e definitivo.

Nonostante i millenni di mistero che hanno preceduto la sua diagnosi causale, la malaria è un esempio elementare dell’interferenza dell’ambiente con l’uomo. Le interazioni moderne sono ben più complicate e difficili, e alcune assai meno digeribili per la mentalità allopatica. Tuttavia è certo che il problema fondamentale della società moderna resta la soluzione del dilemma: difesa della salute o assistenza di malattia? I medici del concerto marxista contrappuntano di recente un tema loro congeniale, perché consente l’attacco tendenzioso al sistema capitalistico attraverso le verità epidemiologiche dell’inquinamento lucrativo del mondo. È assai utile la loro continua raccolta di fattori patogeni nel campo del lavoro, e il loro rifiuto del «placebo sociale» (Maccacaro) espresso dalle cosiddette visite preventive sui sintomi (cioè sulle malattie professionali) senza una parallela modifica dei processi industriali dannosi. Ciò coinvolge il concetto della responsabilità globale della società, e sarebbe ora che di fatto questa smettesse di produrre malattie per pagarsi l’alibi a posteriori della loro prevenzione medico-sociale.

Ma – al solito – siamo certi che basterebbe la modifica dei processi industriali del consumismo per guarire i flagelli, dell’umanità? Anche se il congresso sul cancro di Firenze 1974, ha ruotato il riflettore dall’esaurito campo dei virus a quello intonso degli inquinanti ambientali, come ipotesi dernier cri dei tumori, l’approccio si rivela parziale e soprattutto ancora sintomatico. L’inquinamento dell’ambiente è il risultato di una scelta umana che si chiama progresso civile. Siamo davvero convinti che di questo fenomeno sia solo l’inquinamento «delle acque, delle arie, dei luoghi» l’unico o anche prevalente fattore del terribile aumento moderno del cancro, ma anche delle ipertensioni e degli infarti cardiaci, e di tutto il restante fascio della patologia psicosomatica?

Evidentemente anche qui l’umanità ha scelto il progresso senza essere adeguatamente informata delle sue terribili conseguenze. È bene chiarirgliele, per quanto sia tardi e forse senza speranza di rimedio.

Capitolo V – Le malattie interne da civiltà 

In un capitolo precedente abbiamo censito quelle malattie provocate dal progresso che rilevano cause esterne all’uomo (in gergo tecnico esogene), dall’inquinamento alle radiazioni dal rumore alle medicine: avvertendo che difendersene era difficile, ma non impossibile ancorché estremamente costoso.

Abbiamo però detto che c’era di peggio, cioè le malattie inferte dalla civiltà all’uomo ma stavolta nascenti dal suo interno (endogene); per esse l’allopatia si dimostra del tutto incompetente a fornire una difesa causale cosicché il loro aumento è tale da accorciare statisticamente la probabilità di vita. La domanda cruciale che si pone alla medicina sociale è la seguente: «Perché, mentre la mortalità infettiva scende allo zero, quella degenerativa nonché del cancro rivela in ogni comunità “sviluppata” un enorme aumento, che nessuna ipotesi tradizionale ha saputo finora interpretare?» Solo la rilettura in chiave psicosomatica delle statistiche mondiali consente forse di aprire un nuovo spiraglio sul mistero, con la speranza di svelarlo.

Il sospetto che il progresso dell’uomo non si identifichi con la sua felicità è esploso universalmente solo insieme alle atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Nel successivo trentennio, contesto di allarmi sempre maggiori, si sono indagati prevalentemente i danni da fenomeni fisici, chimici o biologici concreti, dalla radioattività, all’inquinamento, al sovraffollamento. Quasi nessuno – neppure la psicosomatica tradizionale – ha correlato la patologia moderna con il comportamento umano nell’ambiente modificato dalla civiltà. E nessuno ha finora tentato di isolare analiticamente, nella nozione globale di progresso civile, i suoi fattori elementari di danno, e tanto meno di misurarne l’intensità. È stata perciò condotta (Speciani, Basilea 1972) un’analisi dettagliata sulle malattie cardiovascolari e sul cancro, che oggi costituiscono rispettivamente la prima e la seconda causa di morte nei paesi sviluppati, così da risultare quasi paradigmatiche della civiltà.

Le illuminanti statistiche globali. – Le recenti statistiche hanno reso ormai superate le discussioni sul loro aumento reale o solo apparente (per migliori disponibilità diagnostiche o maggiore coscienza sanitaria). L’annosa e sterile controversia era basata su un vizio di selezione, consistente nel porre a confronto i numeri relativi a uno o più singoli settori di questa patologia, arbitrariamente isolati dal complesso. Per esempio, l’emorragia cerebrale o l’infarto cardiaco o l’arteriosclerosi da una parte; dall’altra i tumori dello stomaco o del rene o del cervello (che ancora nessuno ci ha spiegato in che cosa siano causalmente diversi l’uno dall’altro). Confrontando invece le curve globali, anche della sola mortalità, risulta che il profilo medico-sociale di una comunità, a mano a mano che il suo sviluppo si accentua nel tempo, tende a comporsi in uno schema fisso: mentre la mortalità infettiva decresce fin quasi a zero e le morti da traffico, dopo un iniziale aumento, seguono una asintote orizzontale, si registra un aumento esponenziale della patologia degenerativa; in particolare diabete, turbe ormonali, ulcera  gastroduodenale e coliti non infettive, malattie mentali, patologia cardiovascolare, e infine cancro.

Nel diagramma della fig. 8, – espressione grafica di una legge generale che non presenta eccezioni – è interessante non solo la tendenza delle curve, ma anche l’area variabile ad esse attribuita, che riflette una precisa realtà statistica. Così la patologia infettiva non solo procede con diminuzione esponenziale, ma registra costantemente una tipica riduzione numerica delle malattie tradizionali. Chi muore più infatti, nelle comunità civili, di lebbra o di vaiolo, di colera o di peste, di difterite o di morbillo o di salmonellosi?

Tabella

Fig. 8 – Profilo medico-sociale della civiltà

Il fenomeno è ormai tanto eccezionale da fare notizia. Per la patologia degenerativa diventa vero l’inverso: non solo si registra un aumento esponenziale, ma crescono costantemente di numero le malattie ad essa correlate. Il decorso della mortalità da traffico esprime un comportamento umano addirittura ovvio: essa si orizzontalizza quando la comunità ha pagato – in morti – il prezzo di una esperienza sufficiente a padroneggiare mediamente gli strumenti tecnologici posti a sua universale disposizione.

La legge descritta risulta applicabile tanto allo sviluppo temporale di una singola comunità, quanto al confronto contemporaneo di comunità a differente livello di sviluppo socio-economico. Per il primo caso si riporta la fig. 9, relativa agli U.S.A. dal 1900 al 1970.

Tabella

Fig. 9. – (Historical Statistics of the U.S.A.).

Per il secondo si riporta la fig. 10, nella quale la nozione di «sviluppo» è stata agganciata, nonostante la sua certa limitazione, al parametro del prodotto industriale lordo pro capite (Regioni italiane, 1969).

L’impressionante parallelismo delle curve della mortalità cardiovascolare e dei tumori, e il loro concorde aumento correlato all’elevarsi progressivo del p.ind.l., propongono considerazioni generali di estremo impegno, che saranno svolte più avanti. Si riportano intanto alcune risultanze statistiche, che documentano l’interferenza modificante del cosiddetto sviluppo civile o meglio tecnologico-industriale sul profilo medico-sociale di una comunità. A): nella tranche di evoluzione storica 1940-69, l’Italia (totale) ha visto decrescere la mortalità per tbc da 78 a 5 per 100.000 ab., e quella infettiva e parassitaria da 185 a 24. Ma con tendenza esattamente inversa la mortalità cardiovascolare è salita da 326 a 453; quella per diabete (nonostante i notevoli perfezionamenti di terapia) da 6 a 22; quella per tumori da 80 a 184. B): nella tranche contemporanea dalla quale è stata estratta la fig. 10 (Regioni italiane, 1969) la Liguria, terza su 18 nella graduatoria del p.ind.l., risulta prima nella graduatoria di mortalità per patologia cardiovascolare, neoplastica e diabetica. Basilicata, Puglie e Calabria, rispettivamente al 15°, 16°, 18° posto nel p.ind.l., risultano parallelamente al 13°, 15°, 16° posto nella mortalità cardiovascolare; al 16°, 17°, 18° in quella neoplastica; al 13°, 17°, 18° per il diabete; ma del tutto inversamente al 3°, 4°, 6° posto nella graduatoria della mortalità infettiva.

Fig. 10

Le statistiche di tutto il mondo, che rivelano un andamento sovrapponibile, sono da decenni a disposizione universale ma incomprese a causa della sterile limitazione a puri fattori medici, mentre il confronto con almeno un fattore sociale, come il p.ind.l., riesce finalmente a dar loro un significato logico e illuminante.

Alla ricerca delle cause. – Ma quello che più importa è il tentare di analizzarne le cause più probabili e la presunta correlazione con la «civiltà». E cominciamo con le malattie cardiovascolari.

Considerato che lo studio delle cause esterne all’uomo ha prodotto risultati così scarsi nella interpretazione scientifica del loro espandersi, esso è stato rivolto, in alternativa, al comportamento dell’uomo nelle aree di rischio statistico preferenziale. Il profilo medico-sociale della civiltà ci permette di confermare coi numeri le opinioni di Chavéz («non appena le condizioni sociali migliorano, il tasso di arteriopatici aumenta…»), di Lian («l’infarto cardiaco è una malattia della civilizzazione»), e la profezia di Osler (U.S.A. 1896!) («a seguito delle tensioni e delle angosce della vita moderna, una degenerazione arteriosa diventa molto comune e si sviluppa spesso in età precoce…»). Il che è stato puntualmente confermato dalle autopsie di soldati ventenni U.S.A. in Viet-Nam e persino (Friedberg) dall’aumento di dieci volte in trent’anni della sclerosi coronaria nei mammiferi dello zoo di Philadelphia. Quasi senza limiti è la letteratura degli ultimi trent’anni segnalante che l’infarto, l’ipercolesterolemia, l’ipertensione colpiscono preferenzialmente i dirigenti e i professionisti, l’età più attiva (30-60 anni), le aree urbane rispetto a quelle rurali, i paesi più progrediti rispetto a quelli sottosviluppati. Invece di fare un elenco di nozioni già scontate, si riportano solo alcune notazioni, interessanti perché contrarie alle ipotesi patogenetiche più accreditate. Per esempio Gsell e Mayer (Svizzera) ritrovano livelli di colesterolemia minori nei montanari del distretto di Basilea, a dieta sovrabbondante di grassi, piuttosto che in comunità dello stesso gruppo etnico, abitanti in città. Bradlow (Sudafrica) trova la medesima incidenza di infarti cardiaci nei bianchi e nei non-bianchi; in una stessa cultura non è dunque possibile rilevare differenze genetiche o razziali. Ancora più significativi i reperti di Lennard, Mc Donough e Donnison (U.S.A.) che registrano un tasso assai basso di ipertensione nei negri in Africa, mentre negli U.S.A. la malattia è più grave e diffusa che tra gli stessi bianchi. Per la maggiore importanza delle tensioni, rispetto alla razza, depongono le ricerche di Keys, Kumura e Kusukawa (U.S.A.) secondo le quali l’ipercolesterolemia e la malattia coronarica sono rare tra i giapponesi in Giappone, un poco più elevate alle Haway e negli immigrati a Los Angeles; ma nella seconda generazione (Nisei) l’incidenza raggiunge gli stessi valori dei bianchi (ovviamente i neo-immigrati si contentano di sopravvivere, i loro figli lottano per il successo…). Jan J. Kellermann (1974) rileva da una statistica di 4.000 israeliani in 35 kibbutz che «gli uomini di mezz’età presentano una incidenza di malattie coronariche superiore alla media, pari a quella dei manager che lavorano nelle città». Caceres (New England) ha seguito per molti anni i livelli colesterolemici di 39 monaci trappisti (ritualmente vegetariani) e li ha visti corrispondere a quelli medi dei laici statunitensi.

Una luce peculiare proviene dalle statistiche raccolte in situazioni critiche di stress psico-sociale. Già Barnes e Ball, Gould e Cawley, e McCaine (U.S.A.) avevano rilevato l’aumento delle malattie cardiovascolari durante e dopo la crisi economica del 1929 (cfr. anche la fig. 9); ma recentemente in Jugoslavia, che non ha propriamente goduto una vita facile nell’ultimo quarto di secolo, l’aumento dell’ipertensione di massa e delle malattie cardiovascolari è stato così rilevante (40% di tutte le cause di morte, a Belgrado, 1970), che il servizio nazionale di sanità ha concesso a questo tipo di pazienti – contrariamente a tutti gli altri – ogni possibile medicina a titolo gratuito (Legge 29 aprile 1969). Infine, secondo il famoso cardiochirurgo M. De Bakey (1974) «Bisognerebbe spiegare anche i troppi casi di infarto senza colesterolo» (e infine perché, parallelamente all’affermarsi della parificazione dei sessi, i tassi d’infarto femminili stiano avvicinandosi a quelli maschili).

L’interferenza dello sviluppo. – Per quanto riguarda l’interferenza dello sviluppo con questa patologia, sono state riviste le statistiche italiane di mortalità dal 1887 al 1970. Esse concordano con quelle mondiali per l’aumento globale delle malattie cardiovascolari: + 150%, sulla media nazionale. Sennonché le singole curve regionali non dimostrano un decorso parallelo: in Piemonte e Lombardia rimangono pressappoco orizzontali fino al 1920-24, dopo di che salgono decisamente, diventando infine esponenziali. In Abruzzi e Molise l’incidenza resta quasi la medesima dal 1887 al 1950, ma il suo valore si è raddoppiato nei successivi 15 anni, poi si esponenzializza (cfr. fig. 10). Per chi non sia ignaro della situazione socio-economica italiana, risulta chiarissima la esatta correlazione temporale con le differenti date di «decollo» regionale: per le prime due dopo la prima guerra mondiale, per le ultime due dopo la seconda. Perfettamente documentata com’è, questa enorme massa di contributi non riesce ad esprimere una ipotesi soddisfacente circa l’incremento, per tre gravi pecche operative. La prima è il rifiuto a superare la pur dichiarata insufficienza delle ipotesi tradizionali; la seconda il vizio di selezione accennato all’inizio; la terza il non considerare adeguatamente il sottofondo psicologico e sentimentale del loro universo di ricerca. Così accade al famoso patologo Aschoff (1932) di non sapersi spiegare la forte diminuzione dell’arteriosclerosi in Germania dopo la I guerra mondiale «nonostante – dice – il ritorno dei grassi nella dieta» (si è lasciato semplicemente sfuggire l’enorme fattore psico-sociale della fine della guerra!); e a Toor e Katchalsky (1960) nella ricerca sugli ebrei immigrati in Israele dallo Yemen, di indicare «forse» nello zucchero (citando Yudkin) la causa dell’enorme aumento delle malattie coronariche e del colesterolo; trascurando il gravissimo stress del loro trasferimento da un paese tuttora medievale e deserto in uno ad elevatissimo livello di vita ma superaffollato, e dove la lotta armata per la sopravvivenza è la realtà angosciante, e per loro aliena, di ogni ora diurna e notturna.

Al contrario l’analisi psicosomatica delle situazioni umane di rischio statistico cardiovascolare (dall’attività dirigenziale alla vita urbana, dalla immigrazione alle situazioni socio-politiche frustranti) evidenzia almeno tre fattori costanti di «rischio preferenziale»: 1) la fatica decisionale; 2) la densità di popolazione; 3) lo stress da mutamento. Le tre condizioni descritte, operativamente, presentano per l’uomo un denominatore comune, non concreto né esterno ma psicologico e interno. Si tratta in ultima analisi dell’«aumento di intensità e di numero dei rapporti tra i vari livelli interni della persona»cioè, sinteticamente, dell’aumento enorme del tono psicosomatico basale.

Espresso in linguaggio comune, non si tratta d’altro che di quel fenomeno finora definito come alienazione, tensione, angoscia esistenziale ecc., che accompagna cronicamente la condizione dell’uomo quando i suoi abituali modelli di vita vengano violentemente e rapidamente alterati (in meglio o in peggio!). Esempi? I sei telefoni sulla scrivania del dirigente vengono subito in mente a tutti, ma non altrettanto l’angoscia della massaia nella scelta di uno tra i venti detersivi altamente pubblicizzati, ammiccanti dallo scaffale del supermercato. E per quanto riguarda l’aumento dei contatti umani di ogni tipo (e dei loro riflessi intimi) col crescere della densità di popolazione, Alfred Korzybski ha dimostrato che esso è al di là di ogni valutazione intuitiva. Il calcolo accerta che le possibili relazioni tra 5 individui e un «capo» sono 100; nel caso di 10 individui, sempre con un solo capo, la cifra sale a 5210.

L’indice che esprime il coinvolgimento psicologico dell’individuo dimostra dunque un andamento esponenziale, esattamente come le curve della patologia cardiovascolare (e del diabete, e dell’ulcera gastroduodenale ecc.), quando la sua comunità di appartenenza «decolla» sul piano socio-economico, cioè quando è benedetta dalla civiltà sotto la specie moderna dello sviluppo tecnologico-industriale, con il suo imprescindibile corteggio di vortice consumistico e di vertigine informativa. Cosicché, sulla scorta delle statistiche più inoppugnabili, si può confermare la non tanto ironica asserzione del fisiologo A.C. Ivy (1973): «La principale ragione per cui al cane non viene l’ulcera duodenale è che non legge i giornali».

Cancro malattia psicosomatica? – Riprendiamo ora in esame le considerazioni impegnate proposte dal dimostrato parallelismo delle curve di mortalità delle malattie cardiovascolari e dei tumori (fig. 10). Effettivamente, nel profilo medico-sociale della civiltà, il fascio esponenziale della patologia degenerativa comprende costantemente anche la malattia neoplastica. Il rilievo, di eccezionale interesse, sembra indicare, anche per il più terribile parametro della civiltà, una correlazione dello stesso segno e valore di quella gia esposta per le malattie cardiovascolari, cioè almeno prevalentemente psicosomatica piuttosto che esterna all’uomo. Per quanta azzardata possa apparire una simile proposizione, sta il fatto che nessuna delle ipotesi finora avanzate per spiegarlo – e soprattutto per svelare le ragioni del suo moderno aumento – ha tenuto per più di una stagione; al punto che da diversi anni la scienza sembra avere abbandonato gli interventi dichiarati, su un tema tanto deludente. È interessante tuttavia ricordare che le uniche certezze almeno patogenetiche in tema di malattie neoplastiche sono state ottenute esclusivamente con metodo epidemiologico: dal cancro scrotale degli spazzacamini riscontrato da P. Pott a Londra alla fine del ‘700 (per azione della fuliggine) all’adeno-ca. nasale dei boscaioli francesi, dal ca. vescicale da betanaftilamina al linfoma di Burkitt. È stata perciò applicata anche alle eteroplasie la stessa ricerca delle «aree di rischio preferenziale» già descritta per le malattie cardiovascolari, usando come materiale di base le più aggiornate statistiche mondiali del cancro, raccolte ed elaborate dalla massima autorità in materia di epidemiologia tumorale, cioè da Sir Richard Doll, presidente, e dalle commissioni di lavoro dell’U.I.C.C. (Union Internationale contre le Cancer).

Già dai due monumentali volumi pubblicati da Doll sull’argomento (Cancer incidence in five continents) nel 1966 e nel 1970, registranti le cifre relative ad ogni tipo di tumore per ciascun gruppo di età in ogni paese, è possibile ricavare alcune linee interpretative di significato altamente probabile. Per esempio l’incidenza globale (per 100.000) si rivela assai più alta nella Germania federale (387,2) e democratica (319,4), in Svezia (306,8), nel sud-ovest industriale inglese (352,2) e a Birmingham (300,0), piuttosto che a Bulawayo in Rhodesia (66,0), a Bombay (69,7) o ad Ibadan in Nigeria (38,7). Lo stesso modulo differenziale si riscontra tra l’incidenza di Varsavia (239,9) e quella della Polonia rurale (153,1), tra la Norvegia urbana (291,1) e quella rurale (218,0). L’interferenza dello sviluppo industriale sembrerebbe fin qui abbastanza ovvia. Ma, come spiegare i numeri variabili in un medesimo ambito culturale e socioeconomico, per esempio El Paso: per i latini 128,4, per gli anglosassoni 234,2? E più imbarazzante ancora, l’incidenza globale per Israele (171,6) che riferita alle singole componenti etnosociologiche rivela 369,2 per gli ebrei di immigrazione europea e U.S.A.; 132,7 per gli ebrei asiatici e africani; 63,6 per gli arabi d’Israele ma 30,7 per i Sabrà (ebrei nati in Israele)? Difatti il gruppo di ricerca dell’U.I.C.C. non riesce a spiegarlo, neppure ricorrendo alla registrazione dettagliatissima di tutte le possibili variazioni ambientali: dalla densità di popolazione per kmq alla altezza sul mare, dalla latitudine alla temperatura media, persino dal numero di letti al numero di medici per 1.000 abitanti.

Nasce perciò, in chi rilegge queste statistiche con sensibilità avvertita, il lecito sospetto che il fattore o i fattori d’interferenza non si ritrovino semplicemente inscritti nell’ambito concreto finora tradizionalmente analizzato. Effettivamente l’epidemiologia dei tumori riconosce già aree di rischio preferenziale coincidenti con i distretti a forte sviluppo industriale dove – di regola – anche l’inquinamento è maggiore. Tuttavia lo stesso Doll (Epidemiologia del cancro, 1967) dubita del suo ruolo unico, persino nel ca. polmonare, scrivendo: «È comunque impossibile considerare il suo effetto isolatamente dagli altri fattori associati con le condizioni di vita urbane». Infatti Buck e Brown (citati anche da Doll), sempre per il ca. polmonare hanno riscontrato una correlazione più stretta con la densità di popolazione che con il tasso atmosferico di anidride solforosa, contrariamente a quanto riscontrato per la bronchite cronica. Ancora Montelli (Roma, 1969) documenta che la mortalità per ca. polmonare è del 12,3 per 100.000 nelle grandi città, ma solo del 3,3 per 100.000 negli agglomerati urbani sotto i 5.000 ab., rurali o industriali che siano. E già prima Haenzel, Marcus e Zimmerer avevano segnalato per lo stato agricolo U.S.A. dello Iowa il 32,8 per centomila di tumori nelle zone urbane (non industriali) contro il 12,1 per centomila in quelle rurali.

Per contro l’importanza predominante dei fattori di stress sociale emerge, assai più pesante di un semplice sospetto, dalla rilettura in chiave psicosomatica delle statistiche ancora più recenti di Doll (Cancer in five continents in «Proceed. Roy. Soc. Med.»; Jan 1972). In esso, alla ricerca della sempre sfuggente significatività, Doll ha registrato per 99 paesi l’incidenza dei cinque tipi di tumore più diffusi e più esattamente rilevabili (esofago, stomaco, colon, polmone, mammella), nell’ambito del gruppo di età più colpito, e più rappresentativo di una singola comunità, cioè il 35-64 anni. Purtroppo ha conservato anche qui l’arbitraria distinzione tra le «diverse» forme, che annulla qualsiasi guida alla significatività del fenomeno. Ma se invece che l’incidenza delle singole forme si considera la somma globale delle incidenze dei cinque tumori, i più elevati tassi di rischio compaiono, sviluppo o no, nelle aree e nei gruppi sociali sottoposti ai più violenti stress esistenziali. Per quanto straordinaria, infatti, la differenza tra l’incidenza del 228,7 dei polacchi a Varsavia e il 39,8 a Lourenço Marques potrebbe ancora essere viziata da differenti livelli di opportunità diagnostiche. Tuttavia si rilevano differenze ben più significative, da confronti non sospetti di vizio di selezione.

In Sudafrica i bianchi registrano 224,2 ma i negri (apartheid) 242,1; in U.S.A. i bianchi 217,0 contro il 262,5 dei negri, dopo la diffusione dei Black-power movements; in Nuova Zelanda i bianchi 249,0 ma i nativi e decaduti Maòri il 293,2. E nel singolo territorio delle Haway (U.S.A.), a parità di ogni condizione sanitaria, i bianchi dominanti 292,2; i cinesi, che pescano e commerciano, 233,3; i giapponesi, che si portano dietro ovunque la loro ben bilanciata autarchia familiare, 192,1; i filippini, per i quali ogni giorno è nuovo, un esiguo 87,9; ma i nativi hawayani, ancora settanta anni fa «signori del mondo» (così chiamavano le loro isole), e oggi precipitati nel ruolo fisicamente felice ma frustrante di semplici marionette turistiche, un terrificante 375,0 per centomila.

L’infelicità patogena. – Se ci prendiamo la cura di approfondire in dettaglio, di fronte all’esatto ma muto messaggio delle cifre, la condizione psicologica dei gruppi interessati, possiamo sciogliere persino l’ormai facile mistero delle statistiche israeliane. Tenendo a fronte i tre fattori di «rischio preferenziale» già desunti dalla patologia cardiovascolare (e validi per tutta quella psicosomatica), le condizioni umane dei vari gruppi etnici d’Israele si rivelano – quali sono – assolutamente dissimili. Trasferiti in un paese inquieto e contestato, con l’angoscia cronica di un passo irreversibile e forse errato, precipitati dal sistema capitalistico-monetario in quello socialista senza neppure la moneta dei kibbuzim, nel rischio sempre immanente della morte violenta, gli ebrei ex-europei ed ex-americani soggiacciono a uno stress esistenziale straordinario e incessante. Parallelamente la loro incidenza di tumori si rivela la più alta di tutte. Le condizioni di stress diminuiscono per gli ebrei ex-asiatici ed ex-africani (visto che nei paesi d’origine erano ancora di moda i pogrom) e sono ancor più ridotte (fatalismo!) per gli arabi d’Israele; e all’altro estremo della scala troviamo i Sabrà, gli ebrei nati ed abitanti, magari da diverse generazioni, in Palestina. Per essi il vivere pericolosamente, o il modello sociale del kibbuz, è addirittura l’«aria di casa» anche se già per arrivare alla scuola materna dovevano imparare a defilarsi dalle mitragliatrici giordane. La loro incidenza del 30,7 per centomila dimostra che, dentro, sono sereni, e magari anche gratificati dalla rinascita dello Stato nazionale dopo duemila anni di diaspora, il che rende loro accettabile e «normale» qualsiasi attuale turbamento ambientale.

È forse dunque il cancro, come le malattie cardiovascolari, un ulteriore sintomo biologico della infelicità individuale e di gruppo? In ogni modo una seria difesa sociale contro i tumori non dovrebbe trascurare di dare rilievo (e ricerche) anche alla sua ipotesi psicosomatica, sostenuta da indubbie statistiche epidemiologiche che esprimono, tra l’altro, una durissima condanna per l’attuale modo di vivere dell’umanità. In esso è compreso il mancato padroneggiamento di quell’ambivalente fenomeno della civiltà tecnologica che, se non regolato e imbrigliato, come l’acqua, il fuoco e l’energia atomica, minaccia di travolgere e di distruggere dall’interno il genere umano. Il primo passo da compiere è di tipo diagnostico. Esso consiste nel misurare quantitativamente l’intensità dello stress psicosomatico inferto all’individuo dai moduli esasperati del progresso tecnologico-industriale, che oggi si somma a quello esistenziale basale; e di determinare finalmente il livello massimo della tolleranza globale umana, al di là del quale si scatena tutta la patologia psicosomatica; nell’ambito di essa, probabilmente assai più estesa di quanto oggi crediamo, le malattie cardiovascolari e i tumori costituiscono solo gli spunti più drammatici e più significativi.

È appunto quanto tenteremo di fare, nel prossimo capitolo.

Capitolo VI – La misura dell’anima e l’ipotesi psicosomatica del cancro 

Nei romanzi dell’epoca romantica – che scoprì il ruolo del sentimento nelle cose umane – c’era spesso un protagonista (o almeno un comprimario) che moriva di «crepacuore». Non sempre a seguito di una tragedia; talvolta anche di una gioia, troppo improvvisa e intollerabile. All’intuizione letteraria si riconosce oggi una precisa validità scientifica, anche se il crepacuore lo chiamiamo infarto miocardico; ma il buon senso popolare aveva già imparato, da millenni, a somministrare ai vecchi, agli ammalati, e ai più diretti interessati le cattive notizie in concentrazione crescente e non di botto. («Papà ricoverato stop vieni subito»… ed è già morto da due ore). Qual è la finalità inconscia delle cosiddette pietose bugie, in realtà messaggi convenzionali estremamente trasparenti? Non altro che quella di interporre, tra la psiche del ricevente e la brutalità dell’impatto improvviso, la schermatura ammorbidente di un residuo di speranza.

Basta questo (tanta è la complessità meravigliosa della macchina somatopsichica dell’uomo) per ridurre a limiti non immediatamente intollerabili la tempesta nervosa, umorale, organica della «reazione di allarme», fase precoce dello stress, scoperto e documentato da H. Selye nel 1940. La risposta allo stimolo è immediata e totale, cioè coinvolge tutta la personalità individuale, sul piano fisico oltre che su quello emotivo. Le pupille si dilatano e la vista diventa momentaneamente più acuta per cambiamenti fotochimici nella retina; l’udito si intensifica; i muscoli aumentano la richiesta di sangue e la tonicità; per soddisfare la maggiore richiesta il battito cardiaco accelera e la pressione arteriosa sale; nel cervello si modificano le onde elettriche (attenzione!) e scorre più sangue; per ossigenare meglio i globuli rossi la respirazione aumenta di ritmo e d’intensità; il sangue infine – come difesa contro possibili ferite – tende ad abbandonare la superficie e a raccogliersi nei visceri interni.

È per questo che tutti noi nelle forti emozioni, e i soggetti iperemotivi sempre, avvertiamo la testa imbottita, le mani e i piedi freddi e sudaticci, e le palpitazioni. Selye ha dimostrato che le infinite modifiche dell’organismo stimolato (ne abbiamo indicate solo alcune delle principali) dipendono dall’interessamento dell’asse ipofisi-surrene che comanda l’immediata iniezione nel torrente sanguigno di potentissimi ormoni: l’adrenalina e noradrenalina, le catecolamine e molti altri. Nel corso degli studi successivi, l’acutissimo ricercatore (e umanista) austriaco-canadese ha considerato sempre più nitidamente questi reperti fisici o chimici come sintomi secondari di una modificazione primaria ancora più sottile e difficile da registrare, che purtroppo circoscrive al solo piano concreto (i preormoni ipofisari). Ma già nel 1970 K. F. Bauer, l’anatomico universitario di Erlangen Nürnberg, integrando le ricerche di Kraus (1922) e del premio Nobel R. Hess (1948) sulla personalità della corteccia cerebrale e personalità profonda, ha potuto documentare sperimentalmente che i due sistemi cerebrali non operano solo «affiancati e in sincronia» (Hess), ma in intimo rapporto biochimico, con una neurosecrezione che dalla porzione ghiandolare dell’ipofisi sale ai nuclei ipotalamici; ma da questi al talamo ottico (sede delle emozioni) e infine alla corteccia cerebrale, non è più rilevabile nulla di biochimico ma solo una «modulazione» dell’eccitamento nervoso. Dunque il primo motore, localizzato indiziariamente nella misteriosa area diencefalica della ipofisi-ipotalamo-talamo, sembrerebbe di fatto non concreto, e Bauer scrive esplicitamente: «Ciò che noi misuriamo sono per lo più le conseguenze apparenti del fenomeno nervoso, che in gran parte ancora ci sfugge; forse vi è anche qui un limite, oltre il quale la scienza (biochimica, neurofisiologica, d’istologia ultramicroscopica) non potrà progredire».

L’anima e la sua misurazione. – Questo tuttavia si verifica perché la finissima ricerca di Bauer è tuttora incatenata al meccanicismo e alla concretezza e ripropone, modernamente, il vecchio sofisma degli anatomici positivisti dell’800, che sezionando l’uomo riuscivano a trarre da un’osservazione esatta delle generalizzazioni false. Difatti dicevano: «Abbiamo cercato l’anima nel cadavere, e non l’abbiamo trovata» (il che era vero) «dunque essa non esiste neppure nel vivente» (il che era illecito, visto che l’anima, cioè il principio vitale di ogni organismo, è giusto l’unico elemento che distingue il vivo dal morto). Una impostazione così grossolanamente antiscientifica rifletteva la polemica della «nuova scienza» verso le soluzioni finalistiche e spesso equivoche date al problema dell’anima dai filosofi e teologi di ogni religione. Ma ha impastoiato per decenni il cammino della scienza dell’uomo; finché l’anima (sotto molti diversi neologismi) ha dovuto di nuovo essere presupposta da tutti gli studiosi – anche positivisti! – dell’uomo intero e non a pezzi: neurologi e psichiatri, psicologi e neurofisiologi, psicanalisti e ipnotisti, studiosi dei riflessi condizionati e del comportamento. A noi, sul piano rigorosamente medico-sociale, interessa l’anima nel suo significato più semplice, universale ad ogni tempo e cultura, di «principio immateriale, localizzato nell’organismo, che vi mantiene la vita» negandoci ogni elucubrazione ontologica a suo riguardo. Amputare la realtà dell’uomo di questo elemento rende infatti misteriosi molti suoi fenomeni individuali e collettivi, nonostante tutti i progressi della scienza meccanicistica; esattamente come il tenerne conto consente la loro spiegazione scientifica.

D’altronde già ventotto secoli or sono l’indiano Susruta nel Sutrasthana riconosceva la sua grande importanza nel mantenimento non solo della vita, ma della salute («Le cause delle malattie o la loro origine possono nascere dal conflitto non solo degli umori fisici, ma anche di quelli morali»). E tra i modernissimi persino Harlow, McGaugh e Thompson (Psychology, 1971) affermano che «tutte le cose viventi si sviluppano ciascuna secondo un proprio modello» che non è solo di derivazione cromosomica. Si arriva ormai a presupporla e a dimostrarla nelle piante, registrando il riflesso psico-galvanico con la macchina della verità, comunemente usata nelle istruttorie giudiziarie U.S.A. (Cleve Backster). Ne identifichiamo infine una caratteristica fondamentale con le parole di B. Disertori (De Anima, 1959): «Il suo finalismo intrinseco è comunque una ipotesi, vorrei dire un fatto, comprovato da fenomeni elementari come la struttura organizzata, il metabolismo, l’irritabilità, la riproduzione cellulare; e da fenomeni più complessi come lo sviluppo embrionale, la restaurazione di parti lese, l’adattamento attivo degli organi tra loro e dell’organismo con l’ambiente (per cui l’essere vivente si dimostra un tutto organismico) e infine la condotta negli animali che ne sono dotati e nell’uomo» (pag. 375, corsivo nostro).

Quando un fenomeno esiste, la scienza cerca di misurarlo (questa è addirittura la sua unica validità, secondo Aristotele, Galileo e Einstein!); e l’anima non si è sottratta al comune destino. Dalla fine dell’800 in poi la si è misurata qualitativamente, prima con i colloqui clinici, con le interviste e con i giudizi valutativi (lo faceva già nel 1540 S. Ignazio di Loyola, fondatore della compagnia di Gesù, con «l’esame generale» dei suoi novizi), poi con i test della personalità in fioritura addirittura eccessiva: dal vecchio Rorschach (suggestioni indotte da macchie simmetriche) al più recente T.A.T. (Tematic Apperception Test), al M.P.I. (Maudsley Personality Inventory), al B.R.A.T. (Bahnson Rythmical Apperception Test), al T.M.A.S. (Taylor Manifest Anxiety Scale), all’H.F.D. (Human Figure Drawing cioè «disegno di un uomo»), al M.M.P.I. (Minnesota Multiphasic Personality Inventory), al H.S.P.Q. (High School Personality Questionaire), e a tanti altri, compresa l’analisi psicologica della scrittura, largamente applicata dall’industria (all’insaputa dei candidati) sulle domande obbligatoriamente manoscritte dagli aspiranti all’assunzione. Ma la stessa infinita proliferazione dei metodi qualitativi esprime la loro insufficienza e controvertibilità. Per questo si è cercato di quantizzare in numeri le «grandezze psicologiche», ed è nata la psicofisica con G. T. Fechner, professore di fisica all’Università di Lipsia, autore (1850) della prima legge della nuova disciplina:

S = K loge M + c

che significa in chiaro: «la grandezza soggettiva di una sensazione è misurata dal logaritmo della grandezza fisica del suo stimolo». Molto meno affollato della controparte qualitativa, il campo quantitativo delle misure della psiche registra poi i nomi di L. L. Thurstone (1920), di S. S. Stevens (1961) e di pochi altri.

Quanto «pesa» la vita? – D’altra parte, nonostante le grandi difficoltà, l’accertamento diretto e confrontabile (numeri!) del carico psicologico avrebbe un valore personale e sociale enorme. La medicina psicosomatica ha dimostrato che un sovraccarico cronico della psiche, che superi una certa soglia di tollerabilità annuale, determina in un individuo l’insorgere di quelle malattie psicosomatiche (colite spastica, ulcera gastrica, asma, allergie, ipertensione, infarti… cancro) che costituiscono la maledizione predominante del nostro tempo, delle quali abbiamo studiato nel capitolo precedente il «misterioso» aumento, responsabile dell’accorciamento della vita probabile. Su questa linea il primo ad avere correlato nella sua «carta vitale» il «peso» dei fenomeni biologici, psicologici e sociali con la salute e la malattia è stato A. Meyer (Commonsense Psychiatry, 1945). Nel 1967 T. H. Holmes, Rahe, Masuda, Wyler, Harmon e altri, di Seattle, hanno proposto la S.R.R.S. (Social Readjustment Rating Scale) che dovrebbe misurare il «valore stressante degli eventi» o almeno di un elenco di 43, che vanno dalla morte della moglie al licenziamento alla multa. Le grandezze numeriche di ogni evento – ricavate statisticamente da inchieste campione – variano da un minimo di 40 a un massimo di 1.080.

Nonostante la loro affascinante novità e la sovrabbondante elaborazione statistica, le scale di Holmes hanno suscitato recentemente molte critiche (Rubin, Gunderson, Arthur, Aponte e Miller, Dekker e Webb, Bieliauskas) soprattutto per la dimostrata insufficienza al fine dichiarato della loro nascita; cioè la previsione misurata del sovraccarico psicologico induttore di malattie psicosomatiche, e quindi della necessità di un intervento fisico o psichico riequilibrante. Ma nessuna critica ha saputo cogliere l’errore di base delle scale di Holmes. Esse misurano soggettivamente solo l’evento, cioè lo stimolo esterno portato sull’uomo, ma non la sua reazione ad esso, cioè il «coinvolgimento psicosomatico» che è la radice dello stress e delle sue conseguenze, e in più hanno dimenticato la sua ambivalente polarità: +, che carica e —, che solleva. Per esempio, se una bozza in testa vale per un bambino 30 stress e una consolante carezza materna 20, non è vero che la somma dei due eventi sia 30 + 20 = 50 stress; al contrario, come insegnano l’esperienza e il buon senso (A. Meyer!) il loro risultato è algebrico: +30 —20 = + 10! Inoltre non hanno tenuto conto del fatto che molti eventi sono notizie, coinvolgenti non per se stesse, ma per la maggiore o minore «vicinanza» del ricevente al diretto interessato, e da ultimo nemmeno della fondamentale relazione dello stress iniziale con il tempo.

Per questo chi scrive (1973) ha proposto, partendo dalla metodica iniziale di Holmes, uno strumento logico-matematico che misura finalmente non l’evento ma la variazione del «tono psicosomatico basale» (inteso come costante organica, simile ad ogni altra costante biologica, dal tono arterioso o muscolare alla glicemia al metabolismo basale…) tenendo conto delle variabili accennate1. La legge si esprime come segue in termini verbali: «L’intensità della variazione del tono psicosomatico (cioè il coinvolgimento psicosomatico) indotta da un evento e calcolabile con il quadrato del valore naturale dell’evento stesso, corretto per i parametri di prossimità, mediazione, reattività; ed è una funzione esponenziale decrescente del tempo, a costante temporale caratteristica dell’evento».

La tabella 1 riporta 100 eventi esemplificativi, il cui valore naturale è stato desunto statisticamente da 182 interviste condotte col metodo di Holmes; la tabella 2 i parametri correttivi. I conteggi finali sono espressi in arbitrarie «unità psi (ψ)» così chiamate perché relative al «tono psi»; in questa scala di misura, la soglia superiore di tolleranza giornaliera si aggira intorno ai 5.000 psi.

Tab. 1 – Eventi, valore naturale. Tempo di estinzione (tω) e costante temporale (τ), in giorni. Polarità (direzione di «carico psicosomatico»).

EVENTO Pol. Val. Natur. τ
1. Morte + 1000 364 52
2. Sonno (in-) ± 30% ? ?
3. Malattia grave + 500 150 21
4. Condanna prigione + 500 200 30
5. Divorzio ± 300 150 21
6. Innamoramento ± 300 100 14
7. Matrimonio - 250 180 26
8. Amicizia - 250 90 13
9. Licenziamento + 250 60 9
10. Adulterio subito + 200 180 26
11. Pensionamento + 200 210 30
12. Aborto o figlio morto + 150 90 13
13. Abolizione fumo ± 150 35 5
14. Rapina ± 110 14 2
15. Rottura relazione ± 110 60 9
16. Fidanzamento - 100 100 14
17. Gravidanza ± 100 90 13
18. Inizio scuola ± 100 60 9
19. Inizio relazione - 100 30 4,5
20. Successo (in-) - 100 90 13
21. Difficoltà sessuali + 90 35 5
22. Esame ± 90 14 2
23. Confessione - 60 7 1
24. Angoscia + 60 21 3
25. Vacanza - 50 35 5
26. Raccolto - 50 60 9
27. Furto + 50 14 2
28. Compagnia - 50 7 1
29. Agonismo ± 50 14 2
30. Debito grosso + 50 60 9
31. Solitudine + 50 90 13
32. Frustrazione + 50 35 7
33. Menopausa ± 50 200 28
34. Cambio residenza > 50 a. + 50 90 13
35. Rapporto sessuale - 45 14 2
36. Cambio dieta ± 40 14 2
37. Offesa + 40 14 2
38. Eredità - 40 35 5
39. Immobilità forzata + 40 3 0,5
40. Calunnia + 35 35 5
41. Confidenza intima - 35 7 1
42. Insuccesso singolo + 35 14 2
43. Stanchezza mentale + 35 12 1,7
44. Ira + 35 3 0,5
45. Invidia + 35 14 2
46. Gelosia + 35 21 3
47. Lite + 35 3 0,5
48. Tristezza + 35 14 2
49. Gioia - 35 7 1
50. Sirena allarme + 35 3 0,5
51. Sinistro personale + 35 14 2
52. Soddisfazione (in-) ± 30 14 2
53. Scelta ± 30 7 1
54. Paura ± 30 7 1
55. Regalo + 30 7 1
56. Consolazione - 30 4 0,5
57. Noia + 30 14 2
58. Contrasti di lavoro + 30 7 1
59. Ambulanza + 30 3 0,5
60. Novità - 30 3 0,5
61. Gratificazione estetica - 30 3 0,5
62. Libro - 30 7 1
63. Stanchezza fisica + 30 7 1
64. Musica - 30 7 1
65. Vincita + 30 7 1
66. Istruzione (docente) - 30 14 2
67. Disgusto + 30 3 0,5
68. Traffico + 30 3 0,5
69. Dedizione - 30 35 5
70. Affanno + 30 7 1
71. Bagno - 25 3 0,5
72. Cambio residenza < 20 a. - 25 35 5
73. Irritazione + 25 3 0,5
74. Fastidio + 25 7 1
75. Discussione + 25 3 0,5
76. Viaggio - 25 30 5
77. Multa + 25 7 1
78. Lavoro ± 25 7 1
79. Debito piccolo + 20 21 3
80. Semina - 20 14 2
81. Distacco + 20 10 1,5
82. Divertimento - 20 3 0,5
83. Sinistro cose + 20 7 1
84. Lettura ± 20 7 1
85. Gioco - 20 4 0,5
86. Istruzione (allievo) ± 15 14 2
87. Invito - 15 4 0,5
88. Incontro ± 15 7 1
89. Pranzo - 15 2 0,3
90. Pulizia personale - 10 2 0,7
91. Vincita - 10 3 0,5
92. Defecazione - 10 1 0,2
93. Bacio - 10 2 0,3
94. Minzione - 5 0,4 0,1
95. Saluto ± 5 0,4 0,1
96. Carezza - 5 1 0,2
97. Pipa - 5 0,4 0,06
98. Sigaretta - 4 0,3 0,05
99. Telefonata ± 3 0,5 0,07
100. Caramella - 2 0,2 0,03

Tab. 2 - Parametri correttivi e loro valori numerici.

Definizione Simbolo Categoria Valore
PROSSEMICO (di Vicinanza) π
(pi)
Intrapersonale
Intrafamiliare
Intraclonale
Intraculturale
Alieno
2,0
1,0
0,25
0,05
0,0025
di MEDIAZIONE μ
(mu)
Diretta
Indiretta (privata)
Mediata (pubblica)
1,0
0,25
0,0025
di REAZIONE ρ
(rho)
Iperreattivo
Normoreattivo
Iporeattivo
4/3
2/3
1/3


[1] Esso ha la forma della seguente equazione generale:
Δψ(t) = E0 • U0 • e-t/τ (1)
la cui elaborazione matematica conduce a questa formula operativa:
Δψ  = E2 • (πμρ) • e-t/τ (2)

Quanto costa una multa? Da un sorriso a otto mesi di carcere. – Vogliamo fare qualche esempio concreto? Consideriamo l’evento morte (val. nat. 1.000) dato come invariabile. Nessuno invece può negare che morti «diverse»  inducono in noi, soggettivamente, coinvolgimenti emotivi ben diversi, a seconda che colpiscano un familiare, un amico, o un qualunque sconosciuto.

È il problema che Holmes, e prima ancora Meyer e Wolff, avevano cercato di risolvere assegnando valori diversi alle morti « diverse», senza peraltro esaurirne la casistica (la morte del cagnolino, quanto coinvolge la vecchia zitella sola?). In psicosomatica quantitativa il problema di calcolo della realtà è risolto con i parametri correttivi descritti, che modulano una variazione del «tono psi» adeguata alle variabili circostanze oggettive e soggettive dell’evento-stimolo. Per questo, nonostante che il valore resti sempre 1.000, il coinvolgimento psicosomatico di chi riceve la notizia varia su scala amplissima. Calcoliamo per esempio l’immediato coinvolgimento relativo alla morte: del coniuge, di un amico, di un alieno, per nozione diretta in un soggetto normoreattivo1. Risultano, per:

coniuge = (1.000 • 1.000) • 1 • 1 • 2/3 ≈ 660.000 psi, pari pressappoco allo stress di una malattia personale grave;

amico = (1.000 • 1.000) • 0,25 • 1 • 2/3 ≈ 160.000 psi;

alieno = (1.000 • 1.000) • 0,0025 • 1 • 2/3 ≈ 830 psi.

Ma se la nozione è mediata pubblica, la morte dell’alieno vale solo (1.000 • 1.000) • 0,0025 • 0,0025 • 2/3 = 6,25 psi, corrispondenti a circa 1/1.000 del carico psi tollerabile giornalmente.

E questo spiega benissimo perché i due milioni di morti del maremoto del Bangla-desh, rovesciati sulle nostre mense dalle immagini televisive, non riuscivano a coinvolgerci neppure tanto da respingere la bistecca al sangue!

Chiarito il meccanismo operativo, consideriamo un evento altrettanto universale, ma di bassa intensità, come la multa (val. nat. 25). Essa vale, se nostra, a nozione diretta, cioè comminataci di persona dal vigile, e noi normoreattivi: (25 • 25) • 2 • 1 • 2/3 = 834 psi. Un modesto fastidio e niente di più. Come accade invece che una multa, recapitataci per posta 5 giorni dopo il fatto, ci coinvolge così poco che talvolta la lasciamo persino scadere nei termini; o al contrario che una medesima multa finisca in cronaca nera per aver provocato un alterco o uno schiaffo al vigile, quando non addirittura un sorpasso in un omicidio con cacciavite? Evidentemente perché il coinvolgimento psicosomatico, pur essendo sempre lo stesso all’istante di inizio, subisce l’interferenza modificante del suo rapporto col tempo, definito dalla legge come «esponenziale decrescente» .

Ciò significa, come l’esperienza conferma, che il tempo guarisce ogni ferita. Ma come e di quanta? Non tutti gli eventi vengono «digeriti» nello stesso tempo; e nemmeno due intensità inizialmente uguali di coinvolgimento psicosomatico svaniscono in un tempo uguale (odio e ira, per esempio). Ciò conferma che ogni evento presenta una sua caratteristica lunghezza di estinzione temporale, che è stata determinata sperimentalmente e compare nella tab. 1. La tipica curva esponenziale di estinzione è tracciata nella fig. 11, che descrive la multa arrivataci per posta, cioè sempre nostra, sempre non normoreattivi, ma a mediazione indiretta privata, il che rende il fastidio già molto più lieve: (25 • 25) • 2 • 0,25 • 2/3 = 208,5 unità psi. Se ci raggiunge dopo 5 giorni dal foglietto sotto il tergicristallo, vale ormai solo 1,4 psi, cioè circa 1/4.000 della tolleranza giornaliera (5.000 psi) di carico psicosomatico, ed è assai facile che dimentichiamo una simile inezia.

[ IMMAGINE ]

Fig. 11. – Curva di estinzione temperale (• e- t/τ ) del Δψ: multa isolata.

Ma se la multa ci viene contestata direttamente, per non aver compiuto l’obbligatorio stop all’ultimo incrocio sotto casa, dopo magari sei ore a passo d’uomo sull’autostrada, con i ragazzini e il cane strepitanti sul cumulo delle valigie, sotto un sole implacabile, allora le condizioni nelle quali l’ultimo stimolo eccitatorio. E agisce sono assai probabilmente di iper-reattività, e il rischio di esplosione quasi certo. Infatti (vedi fig. 12), essendo ciascuno degli eventi stressanti quasi immediatamente successivo al precedente, le singole curve esponenziali di estinzione hanno appena il tempo di accennare la discesa, prima che sul loro ancora altissimo livello si innesti il nuovo coinvolgimento psicosomatico, risultandone fatalmente il superamento della soglia superiore di tolleranza e del controllo personale!

[ IMMAGINE ]

Fig. 12. – Grafico di «carico Ψ» con multa come evento n-esimo.


[1] Secondo la semplice formula: ΔΨ0 = E2 (πμρ)        (3)

Il sovraccarico psicosomatico da civiltà. – Giunti a questo punto, risulta fortemente suggestivo trasferire la misura quantitativa nello studio del coinvolgimento psicosomatico di un gruppo o di una comunità. È quanto si propongono le ricerche sperimentali in corso, discusse nello Workshop sulla «Psicosomatica quantitativa: l’approccio individuale e sociale» presieduto da chi scrive nell’ambito del congresso internazionale di Psicosomatica, Roma, settembre 1975. Di fatto lo stimolo alla ricerca qui riassunta è derivato dall’accertamento statistico-epidemiologico della patologia medico-sociale, trattato nel capitolo precedente. In esso il fattore di più intenso disequilibrio patogeno risultava la civiltà tecnologica, con conferme universali e peso ben maggiore delle casistiche di clinica psicosomatica, che pur si vanno accumulando. Consideriamo esattamente questo il vero nucleo del problema, per le incalcolabili conseguenze teoriche e pratiche che potrebbero derivare da una misura dell’anima collettiva, forzosamente e intempestivamente sottoposta a modifiche stressanti. Anche se risulta non ancora rigorosa – in termini di modello matematico – l’esatta misurazione del «Δψ sociale» (il coinvolgimento psicosomatico di una intera comunità) è possibile delineare razionalmente, con approccio quantitativo, la problematica da aggredire.

Eccone un esempio. Il tempo di estinzione necessario all’uomo per «digerire» ogni subentrante ondata di progresso tecnologico (le scoperte) con le conseguenti modifiche nel modo di vivere, e i relativi coinvolgimenti psicosomatici è stato fissato dai socio-psicologi in circa 20 anni. Perciò, per assimilare tutto l’impatto tecnologico moderno, i popoli occidentali hanno avuto a disposizione circa un secolo. In questi cento anni i «coinvolgimenti psicosomatici iniziali » (ΔΨ0) di ciascuna delle scoperte più antiche (telaio meccanico, telegrafo, ferrovia, piroscafo, telefono, automobile…) si sono ridotti, col ritmo di 20 anni ciascuno, ad entità praticamente trascurabili. Ci coinvolgono invece ancora, più o meno pesantemente, quelle degli ultimi 40-20 anni (velocità aerea, radio, televisione, bomba atomica, supermercati, traffico, razzi spaziali, inquinamento, affollamento…) al punto da modificare, come abbiamo visto, il profilo medico-sociale delle comunità tecnologicamente più avanzate.

Ma i popoli in via di sviluppo, trasferiti da un giorno all’altro dal Medioevo al nostro «futuro» alieno ed alienante, a quale intensità di coinvolgimento dovranno sottostare? Anche se la loro a torto vituperata povertà sociale li salva dalla indigestione contemporanea di tutti i benefici tecnici della civiltà, non ci si può sottrarre all’impressione che, per la troppa frequenza degli stimoli, il loro grafico sociale di carico psicosomatico debba ripetere quello, foriero di tragedia, della fig. 12. Ciò spiegherebbe agevolmente perché queste comunità siano, dalla emancipazione in poi, facile preda delle più gravi intolleranze sociali, fino al genocidio abituale. Una esatta misura del fenomeno consentirebbe di prevedere e descrivere, con il calcolo della esponenziale decrescente, la durata probabile nel tempo futuro del presente stato di squilibrio e delle sue conseguenze interne e internazionali.

Per esempio, sia pur valendosi di uno strumento matematico ancora imperfetto sul piano della «macropsicosomatica» è stato possibile determinare, un anno prima della guerra del Kippur 1973, che il sovraccarico psicosomatico inferto dalla nuova civiltà del petrolio e dall’incontrollabile ricchezza ai paesi produttori era talmente elevato da poter provocare, in ogni istante, una esplosione irrazionale di violenza. E più ancora che il tempo occorrente perché esso scenda, nella media generate per la comunità, al di sotto dei 5.000 psi giornalmente tollerabili, e di altri 9 anni almeno. Ma lasciamo volentieri agli specialisti di politica internazionale queste collaterali utilizzazioni dello strumento di misura dell’anima. A noi interessa principalmente l’uomo e la constatazione che il suo tormento esistenziale lo mette a rischio della vita, con l’incremento statistico della patologia psicosomatica, incurabile dall’allopatia. Ciò finalmente trasferisce l’aumento «misterioso» delle malattie cosiddette moderne dal rango di tabu maledetti a quello più scientifico di problemi razionali, con cause forse scomode ma documentabili e modificabili. D’altronde già da qualche anno per esse si presuppongono motivazioni simili a quelle qui esposte, universalmente accettate almeno per una o l’altra, singolarmente, delle malattie psicosomatiche. Per esempio, L. Delius, direttore del Gollwitzer-Meier Institut, all’Università di Münister, Bad Oeynhausen, insegna da anni, per le malattie cardiovascolari, che l’uomo va considerato come realtà globale nella sua unità psicofisica; tanto nella diagnosi, quanto nella prognosi e nella terapia. Ed è di banale riscontro che ogni medico, di fronte a un’ipertensione o un infarto miocardico, ordina al paziente, oltre alle medicine chimiche, l’abolizione più o meno protratta delle emozioni. Ormai questo concetto è di dominio pubblico; non è ancora arrivata invece al medesimo livello di coscienza la correlazione del coinvolgimento psicosomatico con il secondo (e più terrificante) flagello dell’umanità moderna, cioè il cancro, per quanto la sua ipotesi sia da anni scientificamente dibattuta è ormai sempre più riconosciuta nella sua validità.

L’ipotesi psicosomatica del cancro. – La sterilità della ricerca di una causa esterna e concreta del cancro è dimostrata dai deludenti risultati degli ultimi cento anni, nei quali l’umanità ha dedicato ad essa più soldi e più scienziati che a qualsiasi altra malattia dalla preistoria ad oggi. Tuttavia la mentalità meccanicistica che ancora domina la scienza non sa fare altro che insistervi, con sempre minori speranze. Per esempio dall’ultimo Congresso internazionale, Firenze 1974, è emerso a questo proposito solo che: a) l’ipotesi dei virus è decaduta (e con essa le illusioni di una cura immunologica); b) «il cancro non è una malattia, ma centinaia di malattie diverse è» (?!); c) «la sua causa va ricercata nell’ambiente» (intendendone tuttavia solo il concreto inquinamento…) (J. Higginson).

Una strada finalmente nuova e alternativa sta invece aprendosi da alcuni anni, lontano dai congressi meccanicistici, per opera di studiosi globali dell’uomo come gli psicologi e gli psichiatri, in base all’accertata interferenza della psiche con i tumori. Non soltanto nei devastanti risvolti psicologici della malattia su chi ne è affetto e su quanti lo circondano, compresi i curanti, ma nella interpretazione del cancro come conseguenza organica secondaria (Cagossi, della scuola di L. Ancona, dice «variabile dipendente») di una precedente e primitiva alterazione psicologica. Ormai numerosissimi studiosi (da Le Shan a Kowal, da Tromp a Petschke, da Herring ancora nel 1931 a Muslin, Gyarfas, Pieper, Paloucek e Graham, Kissen, Klopfer e i Bahnson…) hanno rivelato con i test qualitativi la presenza nei soggetti cancerosi di una tipica personalità psichica (contesta di frustrazione, disperazione, repressione e denegazione) prima dell’esplosione organica della malattia. Questa linea di ricerca, paradossalmente più seguita nei paesi materialisti dell’est europeo che in occidente, ha già stimolato diversi congressi internazionali sul «Cancro malattia psicosomatica» (l’ultimo della EUPSYCA, a Kranjska Gora in Jugoslavia nell’ottobre ’73).

Il lavoro degli psichiatri in tema di cancro soffre tuttavia di due gravi insufficienze: la prima è la mancanza di misure quantitative del coinvolgimento psicosomatico; la seconda il  ricorso a modelli stereotipati, esclusivamente psicologici o psicanalitici, per sciogliere il nodo cruciale del problema, cioè la «conversione somatica del disturbo psichico». Dissertano così di «crescita cellulare cancerosa come tentativo di regressione allo stadio vitale dell’embrione» oppure (Stevenson) di «localizzazione organica dell’ansietà vitale come riflesso paleobiologico, cioè come tentativo di una riproduzione asessuata, quale avviene nei vermi turbellari, nelle planarie, nelle oloturie…», delegando a vaghe «interferenze ormonali e immunologiche» la effettiva «stimolazione» della crescita neoplastica.

La vacuità tautologica di queste «spiegazioni», in stridente contrasto con il fascino logico dell’intuizione originaria, rivela solo la maledizione che pesa su chiunque tenti la conoscenza dell’unità psicofisica dell’uomo. Quando gli psichiatri si scontrano con l’anatomia patologica, accade che da una parte la loro monca (specialistica) preparazione gli neghi l’accesso personale alle illuminanti realtà del corpo; dall’altra gli specialisti esclusivi di quest’ultimo disconoscono e rifiutano la componente psicologica dell’uomo. Per questo vizio sostanziale, che va caricato sul conto già troppo lungo dello scientismo allopatico dell’uomo a pezzi, le spiegazioni degli psichiatri non riescono a scalfire il mistero, perché evadono nella metafisica senza prima avere esaurito tutte le ipotesi operative inscritte nell’ambito, difficile ma concreto, dell’unità psicosomatica dell’uomo integrato.

L’unità psicofisica dell’uomo, nella salute e no. – Se dalla metafisica «scendiamo» alla realtà dell’uomo (ma è già un millenario errore semantico, perché essa non ha nulla di inferiore) il problema diventa razionale, cioè logicamente risolvibile, e il suo approccio di una semplicità sconcertante. L’errore di base che ci trasciniamo dietro da millenni, complicandolo analiticamente da quando la scienza è nata, è l’artificiale rottura dell’unità psico-fisica, il che ha reso impossibile ogni soluzione ricercata specialisticamente in qualsiasi parte staccata dal tutto globale.

È come se un alieno studiasse, ritrovando fra diecimila anni una nostra comune lampadina, esclusivamente le sue apparenze concrete: il vetro e l’ottone, le spirali e lo stagno e così via. E un altro l’elettricità, ma senza collegare le due conoscenze specialistiche: per quanto portato al livello atomico, il mistero non farebbe che infittirsi, e forse la banale lampada finirebbe (come infiniti reperti di troppe arcaiche culture) per essere classificata come «un misterioso oggetto rituale». Ma sarebbe sufficiente collegare l’elettricità al suo supporto operativo (appunto la lampada) perché il mistero si illuminasse, come di fatto avviene persino per i nostri più verdi scolari.

L’artificiale mistero dell’uomo (non soltanto dunque del cancro e delle altre malattie psicosomatiche, ma dello stesso confuso concetto di malattia e di quello ancora più insoddisfacente di salute) può essere risolto solo con il ritorno scientifico alla sua unità psicofisica. Il problema del cancro è semplicemente il caso limite, l’unico che non ha consentito le facili soluzioni sintomatiche nell’ignoranza della sua verità totale; l’enorme e benvenuta importanza del suo studio non risiede dunque nella sua tragedia sociale, ma nell’imporre la ricerca di una conoscenza meno imperfetta dell’uomo e di tutta la vita pluricellulare organizzata. Paradossalmente il pragmatismo scientifico ha già fornito quasi tutti gli elementi idonei ad interpretarlo; è mancato finora solo il loro collegamento (come l’elettricità alla lampadina!) ma sarebbe ora che avvenisse. Per esempio, se il cancro è veramente un «male dell’anima» (come sostiene la sua ipotesi psicosomatica) converrebbe rallentare la ricerca a livello cellulare – ormai esaurita e ripetitiva – per studiarlo più intensamente (insieme con l’uomo) non a pezzi ma tutto intero, come complesso psicofisico. Se anche il comportamento e la personalità non precipitano nelle provette, la statistica ci fornisce gli strumenti per accertarne l’importanza sui grandi numeri, e collegare finalmente i due fenomeni, fin qui artificialmente disgiunti in compartimenti stagni specialistici. È quanto abbiamo già fatto nel capitolo precedente. Ma le leggi statistiche e della probabilità consentono una ulteriore apertura a livello dell’individuo singolo, che in realtà non è tale, ma un mondo di elementi cellulari socialmente organizzati.

L’applicazione del calcolo delle probabilità alla «organizzazione» di questo universo cellulare conduce a una deduzione tanto contro-intuitiva (nel senso esatto di J. W. Forrester) da risultare paradossale. Quando una cellula «prolifera», il risultato più altamente probabile è una massa amorfa e non organizzata di cellule uguali, tendente a volume infinito purché sufficientemente nutrita. Come di fatto accade per qualsiasi coltura di batteri o di infusori, e per le stesse colture di «tessuti» (in realtà di cellule prelevate da un tessuto) che vengono dimezzate ogni pochi giorni, altrimenti riempirebbero l’universo. Questo è il comportamento genetico obbligato di ogni singola cellula normale, purché autonoma. La formazione di un qualsiasi «tessuto», o più ancora di un «organo» per non parlare di un «organismo» completo, funzionante e addirittura capace di riprodurre se stesso, rivela livelli di probabilità sempre più esigui, fino a raggiungere, nell’ultimo caso considerato, i limiti di una quasi totale improbabilità matematica.

Eppure da un contatto sessuale fecondo (che stimola la singola cellula-uovo a «proliferare») non ci attendiamo una massa amorfa di singole cellule non organizzate (cioè non altro che un cosiddetto «tumore») ma invece la nascita normale – ancorché matematicamente impossibile – di un figlio con occhi, braccia, gambe, cuore, dita, nel numero «giusto», e che assomigli sinteticamente ai genitori persino nel colore della pelle nella voce e magari nel comportamento! In rigidi termini probabilistico-statistici è invece indiscutibile che la crescita tumorale identifica la «normalità cellulare autonoma» e che siamo noi, gli «organizzati», ad essere straordinariamente improbabili, come il sole che pur nasce ad ogni alba.

Un’altra deduzione statistica (stavolta desunta dalla elementare «curva a campana» o di Gauss) riguarda i singoli elementi cellulari dell’organismo.

Quanti biondi o ricciuti, zoppi o albini, longilinei astenici o brachitipi con sei dita nasceranno quest’anno, per esempio tra i 55 milioni di italiani? Il problema, risolvibile (incertamente) solo a posteriori se si procede per individuo singolo, può essere risolto in anticipo, con approssimazione attendibile, dal calcolo delle probabilità. Analogamente, nella comunità di sessanta trilioni di cellule che compongono un uomo, che continuamente muoiono e si rigenerano, quante ne nasceranno ogni anno di imperfette o anomale, totipotenti invece che differenziate, veri «scarti di fabbrica» nel processo comunitario cellulare che chiamiamo vita normale e sana dell’organismo? Nessuno le potrà mai contare una per una; ma la statistica potrebbe dircene il numero, tutte insieme; e certo sarebbe imponente, su una comunità di singole vite ventimila volte più numerosa dell’intera popolazione terrestre. Chi dunque le controlla, le espelle o le rifonde (come i piombi sbagliati di linotype) prima che sviluppandosi anarchicamente possano far danno all’intera comunità cellulare? Evidentemente la medesima «entità» che organizza e differenzia, che sviluppa e rigenera, che mantiene l’equilibrio delle altre costanti biologiche delle quali questa, morfologica e funzionale, è la più concreta e basale. Ma questa entità normativa ed equilibratrice, che postuliamo esistere ma tuttora ignoriamo persino se sia concreta o immateriale, endocellulare od extracellulare, fatta di carne o di semplice messaggio interrelazionale (come la «struttura assente» di U. Eco), non è altro che il principio della vita organizzata. E il cancro il semplice sintomo organico della sua insufficienza periferica.

La sede dell’anima e le sue conseguenze. – Fantasie? No, persino la scienza tradizionale accetta ormai il concetto della immunosorveglianza, presupposta da von Behring nel 1900 e specificamente per il cancro nel 1909 da P. Ehrlich, secondo il quale nell’organismo compaiono molto spesso dei «germi di cancro», che restano latenti perché tenuti sotto controllo dal sistema immunitario; se questo non esistesse, registreremmo «moltissimi» cancri. Dopo sessantacinque anni di sonno, il concetto è stato risvegliato dai moderni immunologi, da Burnett a Kline a Ceppellini (Brooke Lodge Meeting, Milano, gennaio 1974).

In questa ipotesi è accettabile la conferma del cancro come malattia generale e non locale; è invece illecita l’identificazione della sorveglianza organica con il solo meccanismo immunitario, che è semplicemente uno dei tanti possibili sintomi periferici della sorveglianza medesima (anticorpi, T-cells, B-cells, nullcells, linfociti, macrofagi) e da solo risulta perfettamente efficace nelle malattie da infezione, ma non abbastanza nei tumori. Un altro importante apporto della moderna immunologia, che è un ottimo strumento di conoscenza della realtà dell’uomo non di cura del cancro, è che gli antigeni di superficie osservabili nei tumori sono non solo diversi da cancro a cancro, ma persino diversi per un medesimo cancro in due diversi animali, rivelandosi quindi il tumore solo un altro sintomo biologico della individuale e irripetibile «personalità» di ogni singolo organismo, come le impronte digitali. Il che ci riporta direttamente all’ipotesi psicosomatica della malattia, cioè all’«anima incorporea» degli psichiatri, che usa le strutture concrete dell’organismo per modulare i suoi interventi, nella salute e nella malattia.

Quali siano queste strutture è da tempo ben noto alla scienza: lo sviluppo fisico del corpo e il ritmo mestruale, l’equilibrio delle costanti biologiche (sali, zucchero, metalli, ormoni…) e l’allattamento, lo stress e la difesa anti-infettiva, ritrovano il centro originario nella solita «misteriosa» zona del cervello (ipotalamo, ipofisi, talamo) le cui funzioni abbiamo già discusso citando Bauer. L’obiezione comune è che nessuna analisi ultramicroscopica o umorale, centrata su questa zona, ha potuto finora rilevare alterazioni discriminanti. Ma è sempre lo stesso sofisma dei vecchi anatomici a proposito dell’anima. In questo frangente la scienza, accecata dal materialismo, ha fin qui usato molti strumenti e poca logica. Accertata la probabile stazione emittente di tutti i comandi dell’organismo, pretende di raccoglierne una concretezza che non le sfugge, come crede, ma semplicemente non esiste. Quando le bombe atomiche sono esplose su Hiroshima e Nagasaki, è stato molto facile risalire al B29 portatore, poi ai comandi strategici, e finalmente al «telefono rosso» del presidente Truman (cioè l’ipofisi del sistema). Ma qualsiasi analisi anche ultramicroscopica del filo e della cornetta, e persino dei granuli di carbone nel microfono, non avrebbe potuto rivelare nulla di concreto o di diverse da qualsiasi altro telefono: il comando scatenante la tragedia è consistito solo in una modulazione istantanea della corrente elettrica, provocata dalla parola d’ordine del presidente americano; ed è puerile, non trovandone un residuo concreto, negare la bomba atomica, o l’interferenza di Truman nell’usarla.

Da migliaia di reperti su ogni livello organico o psichico la scienza ha ormai identificato il nostro «telefono rosso», in continua funzione nella salute e no. Finché non deciderà di riconoscere l’enorme valore esterno e interno all’organismo del «messaggio» la sua conoscenza della vita organizzata (e conseguentemente del cancro) resterà sempre un mistero insoluto. Fortunatamente può avverarsi anche il contrario, e ne discutiamo a proposito del caso-limite cancro, gettato dal destino tra le ruote del carrozzone della scienza a dimostrarne la sua attuale non-verità nei riguardi dell’uomo.

Nel 1947 chi scrive vinceva una borsa biennale di ricerca del C.N.R., in anatomia patologica, proponendo il seguente programma: «Interpretazione delle neoplasie quale sintomo polimorfo di una univoca alterazione centrale dell’organismo, localizzazione diencefalo-ipofisaria». Poteva sembrare una follia senza precedenti, tuttavia il C.N.R. non la considerò tale. Anzi negli anni successivi il ruolo dell’ipofisi nei tumori emerse più chiaramente, finché a metà degli anni cinquanta Walker e Le Beau proposero l’ablazione chirurgica dell’ipofisi nei tumori metastatici ormono-dipendenti della mammella, della tiroide e della prostata. Da allora l’asportazione o la distruzione radiologica dell’ipofisi sono usate in tutti i centri anticancro, con risultati discreti. Il dolore, per esempio, scompare o si riduce nel 30-50% dei casi. Ma nel 1964 G. Moricca, dell’Istituto Regina Elena di Roma, cominciò ad alcoolizzare la «sella» (la nicchia ossea che ospita l’ipofisi), e la sua casistica raggiunge ormai i duemila casi. Con questo semplice intervento non solo scompare sempre il dolore, ma si riducono le masse neoplastiche, sia in casi classificati ormonodipendenti sia non tali.

Purtroppo su questo punto – di enorme interesse conoscitivo – sia Moricca sia quanti usano la sua tecnica di cosiddetta «neuroadenolisi» (Melzack, Lipton, Madrid Arias, Bonica ecc.) preferiscono evitare uno scontro diretto con il tabu-cancro sul terreno delle cause e della patogenesi, che potrebbe portarli troppo in contrasto con le idee ortodosse. Ma le loro spiegazioni sono insoddisfacenti: non è possibile pensare che l’alcoolizzazione «domini meglio» dell’asportazione la situazione ormonica, «per diffusione dell’alcool ai centri ipotalamici». Il semplice buon senso suggerisce che deve qui intervenire un meccanismo d’azione diverso, per il quale la spiegazione concreta di tipo ormonale non basta più. Inoltre le ricerche di Bauer hanno accertato la correlazione dell’ipofisi e ipotalamo con il talamo cioè la sede anatomica dell’anima» sulla quale l’azione schermatrice dell’alcool potrebbe esplicarsi meglio perché ne rispetta la ancora misteriosa integrità biologica, a differenza del brutale trauma mutilante dell’asportazione chirurgica o della distruzione nucleare. La conseguenza di questo riequilibrio, per quanto ancora empirico, è l’immediata riduzione (stupefacente ma reale) del suo sintomo organico, cioè le masse tumorali disperse nell’intero organismo.

La casistica di Moricca conferma perciò, serendipicamente1, la piena validità dell’ipotesi psicosomatica dei tumori. Ma se essa è vera, ne discendono alcune conseguenze di importanza eccezionale, conoscitiva e pratica. Prima di tutto la spiegazione della angosciante imprevedibilità nei risultati delle cosiddette «cure» (ortodosse e anche eterodosse) dei tumori; esse infatti agiscono, chirurgicamente, radiologicamente, o chimicamente soltanto sul tumore, che nonostante la sua tragicità è solo un sintomo e non l’intera malattia (come si fa purtroppo, in ordine all’erroneo ma imperante concetto allopatico, con il cortisone nell’asma allergica e nel prurito, dimenticando i pollini o l’insufficienza renale).

In secondo luogo l’impostazione finalmente razionale di una vera cura dell’uomo integrata – sintesi indissolubile di carne e d’anima – il cui disequilibrio psicosomatico abbia consentito (non «stimolato»!) la comparsa, tra gli altri, anche del sintomo secondario e periferico del «tumore». Considerata la irripetibile individualità di ogni uomo (documentata, come abbiamo visto, persino dalla individualità immunitaria di ogni tumore) non esiste ne mai esisterà la «medicina-miracolo» del cancro; è invece sperabile la possibilità di un trattamento preventivo degli stati di rischio statistico (sovraccarico di Δψ!) che condizionano lo sviluppo di qualsiasi malattia psicosomatica, cancro compreso.

Ma anche nello stadio clinico dell’esplosione già avvenuta; il trattamento di questo squilibrio globale deve essere appunto globale, se vuole ottenere risultati meno aleatori di quelli oggi consueti. Perciò oltre all’intervento patogenetico sul sintomo (con i mezzi attuali o con altri meno tossici e più attivi) deve provvedere meglio alle componenti lesive parallele della malattia: quindi ad una difesa generale antitossica ed immunitaria, e ad uno stimolo selettivo di riparazione istogena. Ma soprattutto non deve trascurare sul piano etiologico (cioè delle cause) la reintegrazione di quell’equilibrio centrale della personalità (strumentalizzato biologicamente nel sistema ipofisi-ipotalamo-talamo) la cui rottura è la base più intima e fin qui misconosciuta dell’affezione.

Infatti la terza e più importante derivata sociale dell’ipotesi psicosomatica del cancro è il riconoscimento (a livello gnoseologico) che le situazioni squilibranti la diencefalo-ipofisi cioè il supporto dell’«anima» (dagli insulti chimici a quelli psicologici) possono sostenere un ruolo effettivo nella diminuzione o scomparsa di quella sorveglianza immunitaria e no che mantiene lo stato di salute, nonostante la continua produzione statistica di cellule potenzialmente cancerogene, anche secondo P. Ehrlich.

Siamo davvero certi che la civiltà tecnologica, per altri versi favorevole all’uomo, abbia rispettato più che in antico le funzioni e l’equilibrio della sua unità psicofisica? O non è piuttosto l’esatto contrario la causa dell’esplosione dei flagelli moderni, tutti riconosciuti a correlazione psicosomatica? Se ne esistesse anche solo il sospetto, sarebbe interesse di tutti accertarne la reale interferenza nel nostro suicidio, imporre un maggiore rispetto dell’uomo ai responsabili politici delle comunità (o col voto o con la rivoluzione!) e provvedere comunque alla ricerca e all’uso immediato di qualsiasi mezzo individuale e collettivo che risultasse utile al fine di una migliore sopravvivenza.


[1] Cioè «inseguendo un diverso scopo»; da Serendip, leggendario Principe di Ceylon che salvò il paese cercando, e non trovando, il brano perduto di un’antica lirica.

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