Luigi Fiori

FBF San Maurizio Canavese 1


Luigi Fiori

Salute mentale 2 jpg

Chi potrà varcare Signore, la tua soglia?

Chi fermare il piede sul tuo monte santo?

Uno che per vie diritte cammini,

uno che in opere giuste s’adopri,

uno che conservi un cuore sincero,

uno che abbia monde le labbra da inganni,

uno che al prossimo male non faccia,

uno che al fratello non rechi offesa,

costui mai nulla avrà da temere.  (Salmo 15 (14)


Fiori Luigi medico psichiatraLaureato in medicina a Torino, specializzatosi in neuropatologia e psichiatria, Luigi Fiori era già presente dal 1968 al Fatebenefratelli di San Maurizio Canavese come Clinica Universitaria; assunto in modo stabile nel 1971, è stato primario presso il Reparto diagnosi e cura dell’U.O. Alcolfarmaco Dipendenze e direttore sanitario dal 1992 al 1998.

Attualmente era responsabile delle comunità psichiatriche riabilitative San Benedetto Menni e San Giovanni di Dio. Psicoterapeuta junghiano, è stato professore a contratto per l’insegnamento della psicoterapia alla Scuola di specializzazione in psichiatria dell’Università di Torino dal 1988 al 2000.

È stato autore di numerosi studi scientifici pubblicati su riviste italiane e straniere. I confratelli dell’Ordine di S. Giovanni di Dio, insieme con i loro collaboratori, ricordano con affetto questo medico, specialista, maestro e compagno di tanti anni di lavoro e di collaborazione, spesi nel promuovere un’attività dedicata al miglioramento delle condizioni dei più deboli.

Coloro che lo hanno amato vorrebbero che rimanesse vivo il ricordo di un uomo che, con bontà e signorilità, ha dedicato la sua vita a tutte le persone che ha incontrato sul suo cammino. Amici, parenti, colleghi, pazienti si sono stretti in un forte abbraccio intorno alla moglie Vanda, alle figlie Bianca e Nicoletta.

Salute mentaleLa salute mentale

Coloro che vorranno ricordarlo in modo concreto potranno fare una donazione al progetto
“Nuove Povertà” dell’Ordine Fatebenefratelli di S. Maurizio Canavese (TO)  (CCP n° 29398203)

Video results for PSICOTERAPIA JUNGHIANA

Psicoterapia junghiana intervista al Dott Zambello

BETLEMME CASA DEL PANE

Posted on Dicembre 25th, 2008 di Angelo

Presepe Milano S.Marco-Londonio-Presepe_(ca_1750)-_Foto_G._Dall'Orto_-_14-Apr-2007

MEDITAZIONE DAVANTI AL PRESEPE

«Oggi ci è nato un Salvatore, che è il Cristo Signore, nella città di Davide» (Lc 2,11). Questa città è Betlemme ed è là che dobbiamo accorrere, come fecero i pastori appena ebbero udito l’annunzio.


«E’ questo per voi il segno: troverete un bambino, avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2,12).


Egli è il Salvatore, egli è il Signore: è poi una cosa straordinaria essere avvolto in fasce, giacere in una mangiatoia?
Non si avvolgono in fasce anche gli altri bambini?
Che segno è questo? Grande certamente, se però riusciamo a comprenderlo. [...]

Betlemme, «casa del pane» è la santa Chiesa, in cui si dispensa il corpo di Cristo, il vero pane.
La mangiatoia di Betlemme è l’altare in chiesa. Qui si nutrono le creature di Cristo.
Di questa mensa è scritto: «Hai preparato una mensa dinanzi a me» (Sal 22,5).
In questa mangiatoia c’è Gesù avvolto in fasce.
Le fasce sono il velo del sacramento.


Qui sotto le specie del pane e del vino, c’è il vero corpo e sangue di Cristo. In questo sacramento noi crediamo che c’è Cristo vero, ma avvolto in fasce ossia invisibile. Non abbiamo nessun segno così grande ed evidente della natività di Cristo come il corpo che mangiamo e il sangue che beviamo ogni giorno accostandoci all’altare: ogni giorno vediamo immolarsi colui che una sola volta nacque per noi dalla Vergine Maria. Affrettiamoci dunque, fratelli, a questo presepe del Signore ma prima, per quanto ci è possibile, prepariamoci con la sua grazia a questo incontro, perché ogni giorno e in tutta la nostra vita, «con cuore puro, coscienza retta e fede sincera» (2Cor 6,6) possiamo cantare insieme agli angeli:


«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14).

Dai Discorsi di sant’Elredo, abate Discorso 2 per Natale (PL 195, 209-210)

BUON NATALE A TUTTI !  Silvia

Inviato: 25/12/2008 4.29

Cara Silvia, nella meditazione che ci hai proposto, riecheggia quanto in tempi più recenti ebbe a dire Giovanni Paolo II proprio la notte di Natale del 2004.

Il Papa fa una constatazione ed una preghiera, fa memoria e rende attuale l’Evento che, se non è contemporaneo, cessa di essere evento ma soltanto una bella fiaba da tramandarci vicino al caminetto.

“Latens Deitas: la nascosta Dvinità, dietro poveri segni. Oggi come ieri.

Il Papa:

”stanotte nasce il

pane della vita”

Città del Vaticano (AsiaNews)

Giovanni Paolo II Epifania-01[2]In lingua ebraica Betlemme significa “casa del pane”, là doveva nascere colui che si è definito “il pane della vita”. L’ha sottolineato il Papa, nel Natale dell’Anno eucaristico, durante la messa celebrata a mezzanotte, nel corso della quale Giovanni Paolo II ha pronunciato l’intera omelia.

“Adoro Te devote, latens Deitas”. “In questa Notte - ha detto il Papa – mi risuonano nel cuore le prime parole del celebre Inno eucaristico, che mi accompagna giorno dopo giorno in quest’anno particolarmente dedicato all’Eucaristia.

Nel Figlio della Vergine, “avvolto in fasce” e deposto “in una mangiatoia” (Lc 2,12), riconosciamo e adoriamo “il Pane disceso dal cielo” (Gv 6,41.51), il Redentore venuto sulla terra per dare la vita al mondo.

2. Betlemme! Nella lingua ebraica la città dove secondo le Scritture nacque Gesù significa “casa del pane”. Là, dunque, doveva nascere il Messia, che avrebbe detto di sé: “Io sono il pane della vita” (Gv 6,35.48).

Giovanni Paolo IIin braccio alla mammaA Betlemme è nato Colui che, nel segno del pane spezzato, avrebbe lasciato il memoriale della sua Pasqua. L’adorazione del Bambino Gesù diventa, in questa Notte Santa, adorazione eucaristica.

3. Adoriamo Te, Signore, realmente presente nel Sacramento dell’altare, Pane vivo che dai vita all’uomo. Ti riconosciamo come nostro unico Dio, fragile Bambino che stai inerme nel presepe! “Nella pienezza dei tempi, ti sei fatto uomo tra gli uomini per unire la fine al principio, cioè l’uomo a Dio” (cfr S. Ireneo, Adv. haer., IV, 20,4) .

Sei nato in questa Notte, nostro divin Redentore, e per noi, viandanti sui sentieri del tempo, ti sei fatto cibo di vita eterna.

Ricordati di noi, eterno Figlio di Dio, che nel grembo verginale di Maria Ti sei incarnato! L’intera umanità, segnata da tante prove e difficoltà, ha bisogno di Te.

Resta con noi, Pane vivo disceso dal Cielo per la nostra salvezza! Resta con noi per sempre. Amen!”

Nel 2005 il Papa torna sull’argomento

parlando ai GIOVANI DI ROMA

‘Adoro Te devote, latens Deitas!’

eucaristia

. Carissimi giovani di Roma e delle Diocesi del Lazio, il vostro incontro nella Basilica di San Giovanni in Laterano per adorare l’Eucaristia, in quest’anno ad essa dedicato, vuole essere un’occasione per meglio prepararvi alla Giornata Mondiale della Gioventù. Desidero unirmi spiritualmente a voi ed esprimervi tutto il mio affetto: so che voi mi siete sempre vicini e non vi stancate di pregare per me. Vi saluto e ringrazio di cuore.

Saluto con gratitudine il Cardinale Vicario, i Vescovi, i sacerdoti e le religiose che vi accompagnano, come pure quanti hanno organizzato questo vostro importante momento di riflessione e di preghiera.

2. ‘Adoro Te devote, latens Deitas!’. Eleviamo insieme lo sguardo a Gesù Eucaristia; contempliamolo e ripetiamogli insieme queste parole di san Tommaso d’Aquino, che manifestano tutta la nostra fede e tutto il nostro amore: Gesù, Ti adoro nascosto nell’Ostia!

In un’epoca segnata da odi, egoismi, desideri di false felicità, da decadenza dei costumi, assenza di figure paterne e materne, instabilità in tante giovani famiglie e da tante fragilità e disagi di cui non pochi giovani sono vittime, noi guardiamo a Te, Gesù Eucaristia, con rinnovata speranza. Nonostante i nostri peccati, confidiamo nella tua divina Misericordia. A Te ripetiamo con i discepoli di Emmaus: ‘Mane nobiscum Domine!’, ‘Rimani con noi Signore!’.

Sant’Elredo ci mostra come il Natale sia una festa eucaristica.
Nella grotta di Betlemme Gesù ha celebrato la sua prima eucaristia, attorniato da Maria, Giuseppe, i pastori e gli animali portati in dono. Tutta la creazione era presente alla prima Messa di Gesù: gli angeli in cielo, uomini e animali in terra.Nell’Eucaristia Tu restituisci al Padre tutto ciò che da Lui proviene e si realizza così un profondo mistero di giustizia della creatura verso il Creatore. Il Padre celeste ci ha creati a sua immagine e somiglianza; da Lui abbiamo ricevuto il dono della vita, che tanto più riconosciamo preziosa dal momento del suo inizio fino alla morte, quanto più è minacciata e manipolata.

Noi Ti adoriamo, Gesù, e Ti ringraziamo perché nell’Eucaristia si rende attuale il mistero di quell’unica offerta al Padre che Tu hai compiuto duemila anni fa con il sacrificio della Croce; sacrificio che ha redento l’intera umanità e tutto il creato.

3. ‘Adoro Te devote, latens Deitas!’. Ti adoriamo, Gesù Eucaristia! Adoriamo il tuo corpo ed il tuo sangue donati per noi e per tutti in remissione dei peccati: o Sacramento della nuova ed eterna Alleanza!

Mentre Ti adoriamo, come non pensare alle tante cose che dovremmo fare per darti gloria? Al tempo stesso, però, come non dare ragione a san Giovanni della Croce, che soleva dire: ‘Quelli che sono molto attivi e che pensano di abbracciare il mondo con le loro prediche e con le loro opere esteriori ricordino che sarebbero di maggior profitto per la Chiesa e molto più accetti a Dio, senza parlare del buon esempio che darebbero, se spendessero almeno la metà del tempo nello starsene con Lui in orazione’?

Aiutaci, Gesù, a capire che per ‘fare’ nella tua Chiesa, anche nel campo tanto urgente della nuova evangelizzazione, occorre imparare innanzitutto ad ‘essere’, a stare cioè con Te in adorazione, nella tua dolce compagnia. Solo da un’intima comunione con Te scaturisce l’azione apostolica autentica, efficace, vera.

Una grande Santa, che entrò nel Carmelo a Colonia, santa Benedetta Teresa della Croce, al secolo Edith Stein, amava ripetere: ‘Membra del corpo di Cristo, animati dal suo Spirito, noi ci offriamo vittime con Lui, per Lui, in Lui e ci uniamo all’eterna azione di grazie’.

4. ‘Adoro Te devote, latens Deitas!’. O Gesù, Ti chiediamo che ogni giovane qui presente desideri unirsi a Te in un’eterna azione di grazie e s’impegni nel mondo di oggi e di domani per essere costruttore della civiltà dell’amore.

Metta Te al centro della sua vita: Ti adori e Ti celebri. Cresca la sua consuetudine con Te, o Gesù Eucaristia! Ti riceva, partecipando con assiduità alla Santa Messa la domenica e, se possibile, ogni giorno. Da questa intensa frequentazione nascano impegni di donazione libera della vita a Te, che sei piena e vera libertà. Scaturiscano sante vocazioni al sacerdozio: senza il sacerdozio non c’è l’Eucaristia, fonte e culmine della vita della Chiesa. Crescano numerose vocazioni alla vita religiosa; sboccino generose vocazioni alla santità, che è la misura alta della vita cristiana ordinaria, specialmente nelle famiglie: di questo oggi più che mai la Chiesa e la società hanno bisogno.

5. O Gesù Eucaristia, Ti affido i giovani di Roma, del Lazio e del mondo intero: i loro sentimenti, i loro affetti, i loro progetti. Te li presento per le mani di Maria, tua e nostra Madre.

  • Gesù, che ti sei offerto al Padre: amali!

  • Gesù, che ti sei offerto al Padre: sana le ferite del loro spirito!

  • Gesù, che ti sei offerto al Padre, aiutali ad adorarti nella verità e benedicili. Ora e sempre. Amen!

A tutti con affetto imparto la mia Benedizione.

(Giovanni Paolo II) 2005

Queste parole fanno bene anche ai non più giovani. razie per averci introdotti

in questa dimensione contemplativa.

Adóro te devóte, látens Déitas,
Quæ sub his figúris, vere látitas:
Tibi se cor meum totum súbjicit,
Quia, te contémplans, totum déficit.

Visus, tactus, gustus, in te fállitur,
Sed audítu solo tuto créditur:
Credo quidquid díxit Dei Fílius;
Nil hoc verbo veritátis vérius.[2]

In cruce latébat sola Déitas,
At hic látet simul et humánitas:
Ambo támen crédens átque cónfitens,
Peto quod petívit latro pœnitens.

Plagas, sicut Thomas, non intúeor,
Deum támen meum te confíteor.
Fac me tibi sémper mágis crédere,
In te spem habére, te dilígere.

O memoriále mortis Dómini,
Panis vivus, vitam præstans hómini,
Præsta meæ menti de te vívere,
Et te illi semper dulce sápere.

Pie pellicáne, Jesu Dómine,
Me immúndum munda tuo sánguine,
Cujus una stilla salvum fácere,
Totum mundum quit ab ómni scélere.

Jesu, quem velátum nunc aspício,
Oro fíat illud, quod tam sítio:
Ut, te reveláta cernens fácie,
Visu sim beátus tuæ glóriæ. Amen.

Traduzione italiana

Adoro Te devotamente, oh Deità che Ti nascondi,
Che sotto queste apparenze Ti celi veramente:
A te tutto il mio cuore si abbandona,
Perché, contemplandoTi, tutto vien meno.

La vista, il tatto, il gusto, in Te si ingannano [3]
Ma solo con l’udito si crede con sicurezza:
Credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio,
Nulla è più vero di questa parola di verità.

Sulla croce era nascosta la sola divinità,
Ma qui è celata anche l’umanità:
Eppure credendo e confessando entrambe,
Chiedo ciò che domandò il ladrone penitente.

Le piaghe, come Tommaso, non veggo,
Tuttavia confesso Te mio Dio.
Fammi credere sempre più in Te,
Che in Te io abbia speranza, che io Ti ami.

Oh memoriale della morte del Signore,
Pane vivo, che dai vita all’uomo,
Concedi al mio spirito di vivere di Te,
E di gustarTi in questo modo sempre dolcemente.

Oh pio Pellicano, Signore Gesù,
Purifica me, immondo, col tuo sangue,
Del quale una sola goccia può] salvare
Il mondo intero da ogni peccato.

Oh Gesù, che velato ora ammiro,
Prego che avvenga ciò che tanto bramo,
Che, contemplandoTi col volto rivelato,
A tal visione io sia beato della tua gloria. Amen.

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« STATUTI GENERALI FBF – Appunti per una proposta di revisione LETTERA A DIOGNETO – Principio monastrico e principio domestico

PER UNA CHIESA AUDACE – P. Bartolomeo Sorge s.j. legge Martini

Posted on Dicembre 26th, 2008 di Angelo  

 martini-carlo-maria-card-arciv-300x283OGGI, fra le persone care, oggetto di ricordo nella mia preghiera si è ripetutamente presentata l’immagine del Card. Carlo Maria Martini  a cui mi lega affetto filiale per avere alimentato la mia fede lungo tutti gli anni del suo ministero epicopale in Milano.

 Non ho ancora letto il suo ultimo libro.  

 Nell’augurargli le benedizioni del Bambino Divino, mi sovvengono le calde Notti di Natale passate con la mia famiglia in Duomo. Affido le considerazioni sulla Chiesa che tanto ama e che mi ha insegnato ad amare, al commento di Padre Bartolomeo Sorge, suo confratello gesuita.

 A TUTTI un rinnovato augurio natalizio di non cedere alle delusioni che il tempo presente non ci risparmia.

Angelo Nocent

  

PER UNA CHIESA AUDACE

  

bartolomeo_sorge s.j. jpgDi Bartolomeo Sorge S.I.

 Direttore di «Aggiornamenti Sociali»  

  

  

 martini-stemma-cardinalizio-268x300Che fine ha fatto la Chiesa coraggiosa e aperta, di cui il Concilio Vaticano II aveva tracciato il profilo?

È la domanda che oggi molti si pongono. Le risposte manifestano più delusione e preoccupazione che fiducia e speranza. La Chiesa – si dice – oggi non guarda più al futuro, ma al passato. E si citano l’involuzione in atto nei confronti della riforma liturgica; l’impasse del movimento ecumenico; l’insistenza sui «valori non negoziabili» che ostacola il dialogo; gli interventi della Gerarchia che condizionano l’autonomia dei laici in politica. In realtà, non ci si può fermare a questi (e altri) casi, per quanto significativi. La questione è più di fondo.

 
Con la parresia evangelica che lo contraddistingue, il Cardinale inizia rilevando che oggi «vi è un’indubbia tendenza a prendere le distanze dal Concilio. Il coraggio e le forze non sono più grandi come a quell’epoca e subito dopo».

Una risposta seria viene ora dal volume, fresco di stampa, del card. Carlo Maria Martini, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede (Mondadori, Milano 2008).

È un condensato della ricca esperienza dottrinale, spirituale e pastorale del Cardinale, che si traduce in un chiaro invito al coraggio e alla speranza. Non è senza significato che, per lanciare questo messaggio, egli si rivolga ai giovani. Infatti, il volume contiene una serie di risposte alle domande di ragazzi, ospiti in un Centro per giovani in Romania, animato dal gesuita Georg Sporschill, che nel libro svolge la funzione di intervistatore. Il vero pregio della lunga intervista sta certamente nella sensibilità pastorale che Martini dimostra verso il mondo giovanile e i suoi problemi, ma in realtà il messaggio riguarda tutti.

 

Come mai? «È indubbio – riconosce – che nel primo periodo di apertura alcuni valori sono stati buttati a mare. La Chiesa si è dunque indebolita»; pertanto non devono sorprendere le paure e le resistenze di molti: «Posso ben comprendere le loro preoccupazioni se solo penso a quanti in questo periodo hanno abbandonato il sacerdozio, a come la Chiesa sia frequentata da un numero sempre minore di fedeli e a come nella società e anche nella Chiesa sia emersa una sconsiderata libertà» (p. 103).

Tuttavia, i limiti del postconcilio non tolgono nulla alla grandezza dell’evento conciliare. Nonostante tutto – conclude Martini – «Dobbiamo guardare avanti. [...] credo nella prospettiva lungimirante e nell’efficacia del Concilio» (p. 104).

 
Talune riflessioni contenute nel libro potranno risultare ostiche e discutibili. Non è un caso che i mass media insistano soprattutto su quanto Martini ha detto circa l’ordinazione di viri probati per fare fronte alla crisi di sacerdoti (p. 100); a proposito della «timidezza» della Chiesa nella valorizzazione piena della donna (p. 108); sulla ripresa del dialogo ecumenico e interreligioso (p. 112); intorno al tema della sessualità (p. 91 ss.). In realtà, il contributo più importante del libro è la «ventata» di fiducia e di speranza che da esso emana e si trasmette a chi legge. Il vero messaggio del lungo dialogo con i giovani si può riassumere in tre prospettive, che costituiscono la chiave dell’intero colloquio: 1) la necessità per i cristiani di «pensare in modo aperto»; 2) il bisogno che la Chiesa ha di riscoprire il ruolo dei giovani; 3) l’urgenza di costruire una nuova «cultura della relazione».

  1. «Pensare in modo aperto»

 

L‘invito a «pensare in modo più aperto» (p. 21) è esplicito e continuo. Esso richiama alla mente il «sogno» di cui l’Arcivescovo parlò, nel 1999, al Sinodo dei Vescovi d’Europa.  Martini non chiedeva un Concilio Vaticano III, come erroneamente gli attribuirono i mass media; auspicava invece la convocazione, di tempo in tempo, di assemblee rappresentative di tutto l’episcopato per affrontare i nodi che il Concilio non aveva risolto. Oggi, a dieci anni di distanza, il Cardinale fa rivivere con parole diverse il medesimo «sogno» di una Chiesa coraggiosa e aperta.

«Un tempo - dice – avevo sogni sulla Chiesa.

  • Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà,

  • una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo. Sognavo che la diffidenza venisse estirpata.

  • Una Chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto.

  • Una Chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori. Sognavo una Chiesa giovane.

Oggi non ho più questi sogni. A settantacinque anni mi sono deciso a pregare per la Chiesa» (p. 61 s.).

Il libro, però, lo smentisce. Dal lungo colloquio con i giovani traspare un cardinal Martini capace, come sempre, di «pensare in modo aperto». Nonostante gli anni e la malattia, continua a «guardare avanti», a sognare, esortando i cristiani a fare altrettanto. Questa volta, però, insiste sul criterio educativo fondamentale a cui ispirarsi perché il «sogno» divenga realtà: «Il fondamento dell’educazione cristiana - dice - è la Bibbia [...]. Non pensare in modo biblico ci rende limitati, ci impone dei paraocchi non consentendoci di cogliere l’ampiezza della visione di Dio» (p. 20). Il pericolo nel quale si può incorrere (anche nella Chiesa) è quello di lasciarsi condizionare dalla «mentalità ristretta» dell’individualismo imperante, dalla paura del diverso e dall’indifferenza per i bisogni dell’altro, preoccupati soltanto di guardare a se stessi, fino a fare di se stessi un assoluto.

È necessario, dunque, formarsi alla scuola della Parola. Infatti, spiega Martini, «in tutta la Bibbia, Dio ama gli stranieri, aiuta i deboli, vuole che soccorriamo e serviamo in diversi modi tutti gli uomini» (p. 20). Secondo la Bibbia, neppure le istituzioni, comprese quelle ecclesiali, sono un assoluto: certo, ne abbiamo bisogno, ma Dio non si può ridurre a esse: «Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo» (p. 20). «Per proteggere questa immensità [di Dio] non conosco modo migliore che continuare sempre a leggere la Bibbia» (p. 21). È importante la formazione biblica, per imparare a «pensare in modo aperto». Questa, oggi, è una necessità, se «dobbiamo aiutare il mondo a trovare una direzione [...], [se] dobbiamo decidere dove la società debba andare» (ivi); altrimenti si rimane asserviti alle mode culturali del momento e a tendenze ideologiche, che rendono incapaci di discernimento e di iniziative efficaci.

Ugualmente, se manca una formazione biblica, non è possibile progredire nel cammino con le altre confessioni religiose: non basta infatti essere informati, leggere e studiare. In proposito, Martini dà ai ragazzi un consiglio molto pratico: «Fatti invitare a una preghiera dal tuo interlocutore e un giorno portalo con te a messa. Se vuoi entrare in un altro mondo religioso, hai bisogno di un amico che ti accompagni. Questo non ti allontanerà dal cristianesimo, anzi renderà il tuo essere cristiano più profondo. Non avere paura dello straniero» (p. 28). Più conosceremo i fedeli di altre confessioni, più saremo tenuti a dare ragione della speranza e della fede che sono in noi. Così facendo, ameremo ancora di più la Chiesa: «Sarai felice di essere cattolico, e altrettanto felice che l’altro sia evangelico o musulmano. Queste diverse famiglie esistono per aiutare il maggior numero possibile di persone a trovare una patria in Dio» (p. 33). «Nella gioventù, cristiani e musulmani possono imparare con ancor maggiore facilità a convivere, a comunicare nella fede e a servire insieme l’umanità» (p. 46).

Ma il fondamento di questo «pensare in modo aperto» dovrà sempre essere la formazione biblica. Solo così infonderemo nei giovani gioia e coraggio, proponendo loro non solo riflessioni teoriche, ma anche grandi traguardi concreti.

 

2. Riscoprire il ruolo dei giovani

 

Il libro rende ragione di questo approccio positivo verso i giovani da parte del Cardinale. Esso sta sostanzialmente nella capacità di ascolto. Nessuno – spiega Martini – può essere considerato «oggetto» di pastorale. Tanto meno i giovani: «Sono soggetti che stanno di fronte a noi, con cui cerchiamo una collaborazione e uno scambio. I giovani hanno qualcosa da dirci. Essi sono Chiesa, a prescindere dal fatto che concordino o meno con il nostro pensiero e le nostre idee o con i precetti ecclesiastici. Questo dialogo alla pari, e non da superiore a inferiore o viceversa, garantisce dinamismo alla Chiesa» (p. 47). Il Cardinale insiste molto su questa metodologia pastorale per avvicinare i giovani d’oggi: «Il metodo giusto non è predicare alla gioventù come deve vivere per poi giudicarla con l’intenzione di cercare di conquistare coloro che rispettano le nostre regole e le nostre idee. La comunicazione deve cominciare in assoluta libertà [...]. L’essere umano che incontro è fin dal principio un collaboratore e un soggetto. Dialogando insieme giungiamo a nuove idee e a nuovi passi condivisi» (p. 59 s.).

A questo proposito, Martini fa due affermazioni coraggiose. La prima riguarda l’importanza del ruolo critico (o profetico) che i giovani, per loro stessa natura, sono chiamati a svolgere nella Chiesa e nella società: «La generazione più giovane verrebbe meno al suo dovere se con la sua spigliatezza e con il suo idealismo indomito non sfidasse e criticasse i governanti, i responsabili e gli insegnanti. In tal modo fa progredire noi e soprattutto la Chiesa» (p. 60). Ovviamente la funzione critica non contrasta con la necessità che i giovani hanno di essere aiutati e accompagnati. Il problema, appunto, è come formarli: non imponendo loro una educazione, quasi siano incapaci di giudicare e di scegliere – insiste il Cardinale -, ma considerandoli sul serio collaboratori responsabili della loro stessa crescita umana e spirituale.

La seconda affermazione, che farà discutere, è contenuta nella risposta a un giovane che gli chiede se non abbia mai avuto paura di prendere decisioni sbagliate: «Alcune decisioni prese sono senz’altro da riconsiderare – risponde -. Ma [...] ritengo che una scelta sbagliata sia preferibile a non scegliere affatto», perché, in fondo, una decisione sbagliata si può anche correggere; «mi angustiano, invece, le persone che non pensano, che sono in balìa degli eventi» (p. 64).

Lo stesso – pare di capire – si deve dire dei giovani: è meglio che abbiano un ideale sbagliato, piuttosto che non ne abbiano alcuno; l’ideale sbagliato certo è pericoloso, perché conduce fuori strada; ma si può correggere. Invece, un giovane senza ideale, è già vecchio; non nel senso che gli anziani non abbiano ideali, ma nel senso che senza ideali la giovinezza è bruciata. «Vorrei individui pensanti – conclude perciò Martini -. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti» (ivi).

 

3. Costruire una «cultura della relazione»

 

La terza prospettiva aperta dal dialogo di Martini con i giovani costituisce il cuore di tutta l’intervista. Non è un caso che essa si trovi nella risposta alla difficile domanda sull’enciclica Humanae vitae e sulla barriera che il divieto della pillola e della contraccezione affermato da Paolo VI avrebbe eretto tra la Chiesa e la gioventù. «L’enciclica – risponde il Cardinale – ha posto in giusta evidenza molti aspetti umani della sessualità. Oggi, tuttavia, abbiamo un orizzonte più ampio in cui affrontare le questioni della sessualità» (p. 92). E qui il Cardinale introduce la prospettiva di una «nuova cultura della tenerezza» (o della relazione), che si dovrà elaborare nella direzione di una convivenza cristiana; di essa il Cardinale coglie i primi segni nei discorsi che oggi si fanno in tema di sessualità. In che cosa consiste questa nuova cultura?

Movendo dal principio evangelico secondo cui ogni rinuncia può essere solo conseguenza di amore e abnegazione, Martini parla di un modo positivo – migliore di quello seguito fin qui dalla Chiesa – per affrontare i temi delicati della sessualità, della vita e dell’amore. «In confronto a quando ero giovane, oggi il mondo è assai diverso, quanto meno più aperto e sincero. Una volta non si poteva e non si voleva quasi parlare dell’argomento sessualità, era relegato al confessionale e all’ambito della colpa. Non è quello il posto che gli compete, lo è solo quando si tratta davvero di colpa e di problemi. Oggi c’è una grande spigliatezza. Nell’incontro e nel dialogo tra genitori, figli e figlie, adulti e bambini, vedo un’opportunità per una sessualità sana e umana» (p. 96).

«La dedizione – dice – è la chiave dell’amore: questo per me è fondamentale. L’essere umano è chiamato ad andare oltre se stesso. Ciò significa essere presente per gli altri e avere bisogno di loro. La dedizione, tuttavia, riguarda anche la trascendenza. Possiamo salire da un livello a un altro superiore. Nell’amore coniugale è insita questa dinamica, che parte dall’elemento animale e dalla riproduzione della specie, ma ha uno scopo. Tramite l’amicizia e la collaborazione, la protezione dei deboli e l’educazione, la trascendenza conduce al regno di Dio. Nella dedizione di sé gli esseri umani si aprono a Dio. Nell’incontro fisico si tende verso questo traguardo. Guardare la meta è più importante che domandarsi se sia permesso o se sia peccato» (p. 95).

«Se vogliamo proteggere la famiglia e promuovere la fedeltà coniugale, dobbiamo rivedere il nostro modo di pensare. Illusioni e divieti non portano nulla» (p. 96).

«Soprattutto in queste problematiche profondamente umane, come sessualità e corporeità, non si tratta di ricette, ma di percorsi che iniziano e proseguono con le persone» (p. 97). Ecco perché «la Chiesa deve lavorare a una nuova cultura della sessualità e della relazione» (p. 99).

 

4. Conclusione

 

Abbiamo offerto solo alcuni assaggi della lunga intervista, sperando di aver invogliato a leggere il libro. In conclusione, per realizzare la Chiesa coraggiosa e aperta, annunziata dal Concilio, Martini insiste sulla necessità di prendere la Bibbia come punto di riferimento, consapevole che ciò condurrà ineluttabilmente – come è successo a Karl Rahner, Pierre Teilhard de Chardin, Henri de Lubac tra altri grandi teologi -, a «confrontarsi con chi nutriva timori e voleva salvare qualcosa della teologia neoscolastica» (p. 103). In altri termini, è maturo il tempo di riaprire la questione ermeneutica sul Concilio Vaticano II.

Infatti, di fronte alla svolta antropologica della cultura postmoderna, le categorie filosofiche e teologiche neoscolastiche, usate dai Padri conciliari, si rivelano insufficienti per rispondere agli interrogativi di oggi. Il suggerimento di Martini sta nel superare (o integrare) le categorie ecclesiastiche tradizionali, attraverso un ricorso maggiore a quelle bibliche. Del resto, lo suggerisce anche la costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II, quando riconosce che per la Chiesa la Bibbia ha valore normativo:

«È necessario, dunque, che la predicazione ecclesiastica come la stessa religione cristiana sia nutrita e regolata dalla Sacra Scrittura» (n. 21). «In ultima istanza – commenta il Cardinale -, la Chiesa può e deve tuttavia richiamarsi alla Bibbia» (p. 97). Dunque, la «novità» delle prese di posizione di Martini non sta nel supposto tentativo di prendere le distanze dalle posizioni ufficiali della Chiesa, bensì nel ripensarle prendendo a punto di riferimento la Sacra Scrittura e renderle così più comprensibili alla cultura moderna.

Occorre, cioè, – come fa la Bibbia – enunciare con chiarezza alcuni principi e riferirsi poi alla responsabilità dei singoli. Il Cardinale è convinto che la valorizzazione della responsabilità della coscienza personale faciliterà il dialogo e la mutua comprensione tra culture. La ragione è che la verità di Dio è accessibile solo attraverso le mediazioni storiche e culturali. Pertanto, alla luce della Bibbia, l’«inculturazione» della fede non è la rigida trasmissione, da una generazione all’altra, di un sistema dottrinale certo e immutabile (il depositum fidei), ma è fare storia e cultura attraverso le necessarie «mediazioni». Il discorso sulla verità non si può disgiungere da quello sulla prassi pastorale.

È molto diverso intendere la nuova evangelizzazione come mero adeguamento della verità rivelata (intesa come un sistema dottrinale astorico) ai problemi del mondo moderno, oppure intenderla nel senso di quel «pensare in modo più aperto» (e biblico), di cui Martini offre un esempio nelle sue risposte ai giovani. Ciò consente di ampliare gli orizzonti pastorali e di entrare in dialogo con la cultura dei nostri giorni, anche se molte riflessioni del libro difficilmente saranno condivise da quanti sono fermi all’impostazione scolastica, prevalente negli stessi documenti conciliari.

Ritorna il dilemma di sempre: primato della verità o primato della carità? Cultura della presenza o cultura della mediazione? Il contributo del card. Martini può aiutare a superare questa contrapposizione, in realtà più artificiale che reale. La soluzione va cercata nella direzione indicata da san Paolo, quando parla di «fare la verità nella carità» (Efesini 4,15). La verità, cioè, non «s’impone»; la verità «si fa» nel servizio, nella vita, nella storia, nella cultura. Il modo più efficace di trasmettere la verità evangelica alle nuove generazioni è testimoniarla con la parola e con la vita, mediandola nel linguaggio, nella storia e nella cultura.

Inverando la fede nella carità, direbbe Benedetto XVI: «Il cristiano sa - scrive nell’enciclica Deus caritas est – quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore. Egli sa che Dio è amore (cfr I Giovanni 4,8) e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare» (n. 31 c).

Questo, appunto, chiede Martini ai cristiani adulti, rispondendo all’ultima domanda: come tramandare ai giovani il cristianesimo e farlo rifiorire? Conclude lapidariamente il Cardinale: «Consegna ai tuoi figli un mondo che non sia rovinato. Fa’ sì che siano radicati nella tradizione, soprattutto nella Bibbia. Leggila insieme a loro. Abbi profonda fiducia nei giovani, essi risolveranno i problemi. Non dimenticare di dare loro anche dei limiti. Impareranno a sopportare difficoltà e ingiurie se per loro la giustizia conta più di ogni altra cosa» (p. 126).

 

 

LE STRADE APERTE DEL CELESTE IMPERO

Posted on Dicembre 27th, 2008 di Angelo

Il REPORTAGE DALLA CINA

a confronto con il nostro cristianesimo facile.


Una riflessione che a Natale deve aprire gli0rizzonti della COMPAGNIA. E’ il sogno di Dio che va realizzandosi con noi o senza di noi.

LE STRADE APERTE

DEL CELESTE IMPERO

Viaggio nelle chiese di Pechino e Shanghai. Dove anche i cristiani vivono alle prese coi nuovi scenari di un Paese lanciato verso il futuro e che deve fare i conti con la recessione globale. Tra incertezze, occasioni nuove e inattese prossimità

di Gianni Valente

Una donna col figlio in preghiera in una chiesa cattolica
[© Reuters/Contrasto]

È già sera da un pezzo, quando un po’ alla chetichella le strade e gli incroci intorno a Zhengyi Road si riempiono di guardie, vigili urbani, macchine della polizia con le luci intermittenti blu, accigliati figuri in borghese provvisti di ricetrasmittenti. Alle otto scatta l’ora X, il traffico viene bloccato per qualche minuto. Una piccola folla di curiosi assiste al veloce rito quotidiano del ritorno a casa di Wen Jiabao, che è il premier della Repubblica Popolare Cinese, e quindi è per statuto uno degli uomini più potenti della terra. Lì vicino, la Pechino più glamour di Wang Fu Jing Avenue continua indisturbata a celebrare i suoi fasti postolimpici. All’ombra del Beijing Hotel, l’albergo storico della nomenklatura maoista, rilanciato dal restyling come albergo extraluxe, va a spasso tra megastore sempre aperti e ristoranti affollati di un’umanità allegra e appagata, che non appare affatto disperata.

Vicino al primo ministro abita anche padre Giovanni. La chiesa di San Michele, dove è parroco, è a pochi numeri civici dal compound che ospita l’importante vicino di casa. Capita anche a lui di dribblare biciclette e vigilantes, quando torna a casa trascinato come gli altri nel viavai anonimo della sera, uno dei tanti. Eppure un giorno, qualche mese fa, tutti gli occhi della Cina, per qualche istante, sono stati idealmente puntati su di lui. La fiaccola olimpica era arrivata nella capitale dell’Impero, e lui era uno degli ultimi tedofori, quelli incaricati di portare il fuoco olimpico per poche decine di metri per le strade di Pechino. Quando è toccato a lui, senza starci a pensare, ha colto al volo l’occasione. Ha alzato la fiaccola davanti alla città in festa, e con quell’arnese-simbolo della nuova grandeur cinese, senza enfasi, ha tracciato veloce nell’aria il segno della Croce. Il gesto più semplice che gli è venuto in mente, per dire tutta la sua simpatia al pezzo immenso di mondo che si assiepava ai lati della sua breve corsa.

Quattrocento anni fa, già il grande gesuita Matteo Ricci era rimasto impressionato dalla grandezza umana del disegno politico che sorreggeva il Celeste Impero. Anche lui, guardando alla Cina del suo tempo, cercava un punto d’incastro, un’affinità minimale, una risonanza familiare anche lontana da cui partire affinché il seme cristiano fosse sparso in quella terra, senza venire subito respinto come un corpo estraneo.

Come allora, anche oggi, nella grande mutazione che la Cina sta vivendo, l’avventura dei cristiani sparsi nel grande Paese passa anche attraverso prossimità occasionali. Spiragli di simpatia gratuita che il buon Dio può destare tra i contadini del Sichuan e i manager di Shanghai, gli studenti universitari coi vestiti griffati e i pescatori di Fuzhou. E anche tra quelli che hanno il potere.

Una processione davanti alla statua di Matteo Ricci a Pechino [© Associated Press/LaPresse]

Dopo la Lettera

Al Seminario nazionale di Pechino, la pergamena con la benedizione di Benedetto XVI è appesa al muro in posizione defilata ma strategica. La vedi solo se scendi le scale che dalla chiesa portano alla cripta. Ma di lì, almeno una volta al giorno, ci passano tutti. I quasi ottanta seminaristi, la quarantina di sacerdoti e le quindici suore fanno una vita scandita con orari e disciplina da seminario modello: sveglia alle cinque e mezza, un’ora di preghiera, messa, colazione, mattinata di studio, ginnastica, letture spirituali durante i pasti, fino alla meditazione serale sul Vangelo e sui Padri fatta in silenzio, tutti insieme, nella chiesa. La vita che scorre nel seminario è un concentrato di tutti i paradossi che segnano le vicende anomale della cattolicità cinese. Nei dépliant informativi si ripete che il seminario è finanziato dal governo ed è sotto l’egida dell’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, lo strumento con cui il regime vuole assicurarsi il pieno allineamento della Chiesa alla propria leadership politica, interferendo anche nella selezione dei vescovi. Ma poi, i preti e i seminaristi studiano senza censure il Codice di Diritto canonico, compresi i canoni dove è scritto che solo il Papa «nomina liberamente i vescovi, oppure conferma quelli che sono stati legittimamente eletti». E se viene portato in visita al seminario qualcuno dei pochi vescovi cinesi consacrati senza mandato pontificio, gli fanno il vuoto intorno e nessuno dei preti scende in cappella a dir messa insieme a lui.

A più di un anno dalla sua pubblicazione, anche la Lettera del Papa ai cattolici cinesi fa registrare reazioni ambivalenti e paradossali. «Per tutti noi», dice padre Giuseppe Jinde Lin, uno degli assistenti spirituali del seminario, «il Papa ha detto la parola definitiva su tante questioni che da decenni erano controverse. La Lettera ci dice che non è necessario contrapporsi a quelli che ci governano: adesso nessuno può più dire che chi dialoga con il governo non è per questo motivo un buon cristiano». Sono già una decina – e le richieste di questo tipo sono in continuo aumento – i seminaristi provenienti da comunità non registrate presso gli organismi governativi che hanno chiesto di proseguire la propria formazione presso il Seminario nazionale di Pechino, uscendo dalla condizione di clandestinità più o meno tollerata in cui era maturata la loro vocazione sacerdotale: uno dei tanti segnali della silenziosa riconciliazione che dentro la cattolicità cinese sta lentamente sanando le ferite e dissipando i rancori tra quelli che avevano già accettato di collaborare con la politica religiosa del regime e quanti rifiutavano il suo controllo sulla vita della Chiesa.

Le reazioni meno entusiaste davanti alle indicazioni e ai suggerimenti contenuti nella Lettera del Papa si registrano – ennesimo paradosso – alcuni isolati elementi dell’area clandestina, che magari per decenni avevano fatto dell’obbedienza al Papa la bandiera della propria fedeltà senza compromessi alla Sede apostolica. Un irrigidimento non sempre motivato da ragioni ideali. Qualcuno dei preti cosiddetti “clandestini” vive una condizione di paradossale privilegio: gestisce senza controllo le offerte per le messe che riceve dai fedeli, fruisce delle donazioni delle organizzazioni americane che sono contro il governo cinese, si muove di diocesi in diocesi, senza troppi vincoli da parte dei superiori.

Ma si tratta – ribadiscono anche al Seminario di Pechino – di poche eccezioni, singoli elementi che fanno molto rumore coi loro interventi scomposti affidati ai blog dei siti internet, dove scrivono anche che il Papa ha sbagliato o è stato ingannato. «La riconciliazione dei cuori, quella che conta, è già cominciata», assicura padre Giovanni Tian della chiesa di San Pietro a Shanghai.

«Anche i clandestini ora riconoscono che c’è piena comunione di fede coi cattolici che frequentano le chiese “aperte”. Sono spesso persone anziane, che certo non vanno a chattare su internet per criticare il Papa, a cui sono così devoti. Anche con loro va usata comprensione e misericordia. Le cose si risolveranno col tempo e con la pazienza.

Se non c’è il perdono, gli altri non possono accorgersi che tra di noi c’è Gesù». Intanto, la parrocchia di don Giovanni è tutta in subbuglio per i lavori di restauro. Ma nella piccola sala adibita a cappella c’è sempre il Santissimo esposto, e c’è sempre qualcuno che prega in silenzio, senza scarpe, davanti alla statuetta di Maria Rosa Mistica, quella con le tre rose sul petto. Lì fuori, anche il cuore indaffarato di Shanghai non si ferma mai, coi suoi ritmi tachicardici.

Il Seminario nazionale di Pechino

Un sogno a rischio


I guru del Fondo monetario internazionale vanno a Hong Kong e dicono di star tranquilli, ché la Cina, con le sue robuste riserve monetarie, sarà una un’ancora di stabilità per il mondo intero, nell’uragano della recessione globale che spazzerà i prossimi due anni.

Ma a Pechino non si fidano troppo degli alchimisti finanziari d’Oltreoceano. Nel Guangdong, già a fine ottobre, è cominciata la morìa delle fabbriche di giocattoli. Chiuse a decine, una dopo l’altra, e i lavoratori mandati a casa. «Aumenteranno i fattori contro la stabilità sociale», pronosticava proprio Wen Jiabao, già a inizio novembre.

La Cina è una locomotiva lanciata a bomba verso il futuro. Negli ultimi anni i tassi globali di crescita economica del Paese erano costantemente a due cifre. Se adesso deragliasse in piena corsa – lo sanno tutti – le conseguenze sarebbero devastanti in ogni angolo del pianeta. La leadership cinese ha davanti a sé problemi dalle dimensioni ciclopiche, ed è meglio tenerne conto, anche quando si guarda alle vicende del piccolo gregge dei cattolici cinesi – tra i dieci e i dodici milioni, una goccia nebulizzata nel mare di un miliardo e trecentomila anime.

Negli ultimi due anni, con il gradualismo rituale che la contraddistingue, la dirigenza cinese aveva realizzato passaggi teorici interessanti riguardo alla questione religiosa. Nel 2007, all’ultimo congresso del Partito comunista cinese, la parola “religione” era stata inserita nella costituzione del Pcc. Per la prima volta, nella storia della Cina comunista, anche nella pianificazione teorica delle strategie politiche i soggetti religiosi praticanti venivano riconosciuti come componente sociale compatibile col modello di sviluppo del Paese, alla stregua delle minoranze etniche. Poi, a fine 2007, lo stesso Hu Jintao aveva sdoganato ai massimi livelli l’idea che le religioni possono tornare utili per costruire la società armoniosa, formula-chiave nel lessico recente del potere cinese: «Noi dobbiamo unire bene i credenti e le figure religiose presenti tra le masse intorno al partito e al governo, e lottare insieme con loro per costruire tutt’intorno una società prospera, mentre si affretta il passo verso la modernizzazione del socialismo», aveva detto il presidente cinese a conclusione di una sessione di studio del Politburo dedicata alla questione religiosa. Per questo, prima delle Olimpiadi, sembrava che il nuovo scenario teorico elaborato ai piani alti della nomenklatura cinese potesse per effetto domino far avanzare di qualche passo importante la marcia estenuante per la normalizzazione dei complessi rapporti tra governo comunista, Chiesa cattolica cinese e Santa Sede. Poi, passata l’eccitazione olimpica, i segnali provenienti di là dalla Grande Muraglia si sono fatti di nuovo rari ed enigmatici (vedi box). Tornano al pettine i vecchi nodi ancora irrisolti, come la pretesa degli organismi governativi di pilotare le nomine dei vescovi. Ma il contesto è cambiato, e conviene a tutti tenerne conto, per cogliere davvero come stanno le cose.

Il rapporto tra la Chiesa e il Celeste Impero ha sempre avuto le sue complicazioni specifiche. Ben prima di Mao, chi comanda in Cina ha sempre trovato difficoltà a riconoscere che il vescovo di Roma non è una specie di monarca spirituale universale, e i vescovi sparsi nel mondo non sono i suoi mandarini. Adesso, come ulteriore fattore di complicazione, la “questione cattolica” è inquadrata dai funzionari cinesi nel multiforme revival religioso che attraversa il Paese: fenomeno articolato, tenuto sotto controllo dal regime, che negli ultimi anni, accanto alle tradizionali “aree critiche” – come la questione tibetana o quella degli uyguri, l’inquieta popolazione musulmana del Xinjiang –, punta la sua attenzione anche sull’impressionante escalation della fluida galassia evangelico-protestante. Le comunità evangeliche militanti, legate in maniera più o meno diretta alle Chiese libere d’impronta nordamericana, col loro miracolismo emozionale espandono la loro rete di “chiese domestiche” con ritmi e metodi di difficile monitoraggio. La loro proliferazione sottotraccia ha certo superato di schianto la cifra di 16 milioni di fedeli che le statistiche di regime attribuiscono alle comunità protestanti “storiche” (luterani, calvinisti, riformati). Una crescita esponenziale celebrata come una vittoria dalle centrali d’informazione attive negli States, come la China Aid Association, che accredita la cifra inverificabile di 130 milioni di cinesi già diventati “cristiani rinati” nelle agguerrite house churches, presentandoli tutti come potenziali attivisti di battaglie antigovernative in nome della libertà religiosa e dei diritti umani.

Per ora, il ritorno del “fattore religioso” come fenomeno sociologicamente rilevante viene scrutato dai piani alti del potere cinese con cautela. Gli organismi culturali filogovernativi, come l’Accademia delle Scienze sociali, hanno ricevuto dall’alto l’input esplicito di studiare il fenomeno. Se il criterio-guida scontato del governo è la stabilità politica e la coesione sociale, le spie d’allarme sono pronte a scattare davanti a ogni realtà religiosa che punti a un impatto sociopolitico non assimilabile alle nuove parole d’ordine sulla “società armoniosa” e che sia percepita come forza antagonista. E il livello d’allerta non può che aumentare, con la recessione globale che minaccia anche il miracolo economico cinese.

Non è un caso che negli ultimi tempi la rete sfuggente delle chiese domestiche evangelical sia entrata stabilmente nel mirino dei controlli da parte degli apparati di polizia. E, in parte, le incertezze del momento potrebbero spiegare anche il temporaneo décalage di comunicazione nelle relazioni sino-vaticane. Dove il nodo più controverso resta quello delle nomine dei vescovi, coi funzionari cinesi che prendono tempo ed evitano di confrontarsi con soluzioni di compromesso accettabili anche per la Santa Sede. «Se il governo non molla la presa», spiega a 30Giorni un giovane prete cinese, «è anche perché sono abituati a considerare il vescovo come un uomo di potere, in grado di dettare la linea politica agli altri battezzati». Così, anche in una situazione anomala e complessa come quella cinese, l’attenzione concentrata al parossismo sul problema delle nomine episcopali produce alla lunga effetti deformanti. Con giovani preti contagiati da un paradossale carrierismo, «che passano il tempo a fare cordate e cercare sponde ecclesiali e anche politiche per diventare vescovi. E perdono di vista tutto il resto».

Bambini cinesi in preghiera [© Associated Press/LaPresse]

Quelli della soglia

Giuseppe Xing dev’essere stanco, se si addormenta come un bambino lungo il breve tragitto che lo porta a Jiading, a quaranta chilometri da Shanghai. Il cambio di fuso si fa sentire: è appena tornato dalla Terra Santa, pellegrinaggio fatto in compagnia dei funzionari dell’Ufficio Affari religiosi. Ma nella cittadina dell’hinterland shanghaiese lo aspettano: deve celebrare più di cento cresime, e lui – lo sanno tutti – non mancherebbe mai a un impegno del genere. In fila, a farsi ungere la fronte, ci sono vecchie nonne ingobbite dagli anni, cinquantenni azzimati col vestito bello, madri di famiglia con i figli in braccio. E tanti ragazzi e ragazze, che si avvicinano all’altare con l’aria lieve e il cuore giovane, come quello della Cina urbana e moderna di cui sono figli.

Nessuno qui prende sul serio le fantasiose teorie di qualche intellettuale nordamericano, che vede all’orizzonte la conversione accelerata al cristianesimo di metà del popolo cinese per via “culturale”. Ma è un fatto che a Pechino, Shanghai e in qualche altra megalopoli cinese sono migliaia i battesimi di giovani e di adulti impartiti ogni anno nelle chiese cattoliche. Alcuni tra loro, uno a uno, si affacciano alla vita cristiana per caso, attirati anche dai richiami più fortuiti e apparenti: le luminarie che addobbano le chiese a Natale, la musica dell’organo e i canti liturgici ascoltati passando per caso davanti a qualche parrocchia; o addirittura la curiosità di capire bene chi sarà mai questo san Valentino che gli innamorati di tutto il mondo festeggiano il 14 febbraio.

Non fanno discorsi, non riescono a spiegare cosa li attrae. Per molti, all’inizio, è solo l’emozione di aver sentito parole di promessa e speranza che hanno toccato il cuore, la stessa su cui fanno affidamento gli evangelicals d’importazione. «Una volta entrati in chiesa», aggiunge padre Giovanni, «ci sono altre cose che misteriosamente lavorano: la liturgia, le storie di Gesù ascoltate durante la messa, la vista della gente che prega in silenzio, con tutta calma». Non sanno nulla della grande storia di testimonianza e martirio che ha custodito in terra cinese il dono della fede, quello che potrebbe arrivare fino a loro senza sforzo e senza alcuna tensione. Anche per questo, per non scandalizzare la loro inconsapevole simpatia da principianti – ripetono tutti –, è ora di mettere da parte le scorie tossiche dei conflitti ecclesiali del passato, e i carrierismi di nuovo conio che ancora li alimentano.

Per il resto, la schiera di preti e vescovi quarantenni che stanno assumendo il carico delle responsabilità nella Chiesa di Cina non sanno troppo bene che pesci pigliare. E i perduranti condizionamenti a cui è sottoposto il legame di comunione con il Papa sono solo una parte del rebus che hanno davanti. «Prima o poi, in un modo o nell’altro», dice ancora padre Giovanni, «la normalizzazione dei rapporti tra Pechino e il Vaticano arriverà. Ma intanto, qui tutto sta cambiando troppo in fretta. I vecchi testimoni se ne stanno andando, noi abbiamo davanti un mondo in continuo movimento. Non sappiamo bene cosa fare». L’assimilazione cinese della postmodernità globale sta mutando tutti i paradigmi sociali e culturali del passato. E a loro è toccato in sorte di portare il nome di Cristo nell’immenso cantiere della Cina, proprio mentre il grande Dragone sta di nuovo cambiando pelle. Con la tentazione di essere all’altezza, elucubrare strategie che siano adeguate al momento. E con la chance di non accorgersi che anche adesso, come sempre, per cogliere l’occasione che passa, basta che la Chiesa sia sé stessa.

A modo suo, è questo che il vecchio vicario generale Ai Zuzhang vorrebbe suggerire ai giovani preti di Shanghai. Lo fa con delicatezza, accennando di nuovo alla sua storia, mentre celebra con loro una messa per ricordare i quattrocento anni della diocesi shanghaiese: «Io ero ricco», dice, «così ricco che la mia famiglia pagava i domestici che mi accudivano anche quando ero già diventato prete. Avevo problemi di salute, non sapevo fare niente, non sapevo cosa fosse il lavoro. Quando sono finito nei campi di rieducazione, mi chiedevo: come farò a resistere? E invece, poi, è stato il dono di Dio che ha fatto tutto per me. Pure la salute è migliorata… La stessa cosa potrebbe capitare adesso a voi, davanti al compito che vi aspetta. Sul futuro che avete davanti, ci metterà le mani il Signore».

DA 30 GIORNI DICembre 2008

BUON ANNO 2009 DA ANGULO

Posted on Gennaio 2nd, 2009 di Angelo

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BUON ANNO !

Dopo gli auguri di buon anno al diacono Vittorio di Ravenna, un augurio rinnovato di Buon Anno a tutti con le parole che ha lui ho indirizzato:

san bartolomeo Duomo di Milano

SAN BARTOLOMEO

IL PATRONO DEGLI SCORTICATI VIVI


Ciao, Vittorio, Buon Anno a te e famiglia “allargata”. Adesso su SKYPE mi chiamo ANGULO perché ho dovuto riassettare il PC.

Angulo  si chiamava un giovane, carissimo amico di San Giovanni di Dio, che voleva seguirlo nel suo lavoro. Con lui si confidava e da lui riceveva preziosi consigli, alcuni dei quali sono immortalati in una lettera molto persuasiva:

“…Voi [Angulo] mi sembrate essere ancora come la pietra che rotola.

Sarebbe bene invece, che iniziaste a mortificare la vostra carne, a sopportare le miserie della vita:fame, sete, disonori, obbrobri, dispiaceri, pene, noie, il tutto per Dio poiché se veniste qui dovreste sopportare tutto ciò per suo amore.

Per tutto ciò che vi accade, in bene o in male, dovete rendere grazie a Dio.

Ricordatevi di nostro Signore Gesù Cristo e della sua santa Passione. Egli ha reso il bene per il male…

Venendo qui, dovreste obbedire e lavorare molto più di quanto abbiate fatto; dedicarvi tutto alle cose di Dio, prodigarvi senza sosta per il servizio dei poveri…

Deciso a venire qui, dovreste lavorare con profitto per Dio e, per ciò, spendere bene la vostra “PELLE” e le vostre forze.

Rammentate San Bartolomeo: scorticato vivo, portò la sua pelle sulle spalle. Non venite dunque qui con l’intenzione di condurre una vita tranquilla, ma per lavorare: i lavori più penosi sono il retaggio del figlio più amato.

Venite se  pensate che è  qui ciò che avete di meglio da fare  e se Dio ve lo ispira. Se, al contrario, vi sembra vantaggioso vagabondare ancora per il mondo e cercare qualche situazione in cui possiate servir Dio, fate in tutto come vi piacerà, sull’esempio di coloro che vanno nelle Indie a cercar fortuna…”

NON HO PAROLE !

Mi devi scusare; volevo solo inviarti due righe. Poi faceva bene a me la rilettura di questa lettera, di cui ti ho citato solo una parte, e così ho pensato di condividerla.

I santi non scherzano! E neanche tu, caro Vittorio. Gesù è il Signore, Alleluia!”

FRA MARCO FABELLO IN AVANSCOPERTA – Angelo Nocent

Posted on Febbraio 12th, 2009 di Angelo

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Ospedale Sant’Orsola – Brescia

Qui il medico San Riccardo Pampuri ha fatto il noviziato, la professione religiosa ed esercitato la medicina. Ma ha svolto anche le mansioni più umili ed introdotto la dispensa della minestra ai poveri della città che accedevano dalla stradina che fiancheggia la chiesa.

E’ un vero peccato che la Città di Brescia non si ricordi di dedicargli quel misero vicolo, senza via d’uscita, dove Fra Riccardo ha esercitato l’opera di misericordia del dar da mangiare a chi ha fame. Erano gli anni ‘30 !

SAN RICCARDO biografia

SAN RICCARDO intercessore

Ospedale santorsola FBF Brescia

Ospedale Fatebenefratelli – Sant’Orsola BRESCIA

Milano, 12 Febbraio 2009

Caro Fra Marco,

ho ricevuto il tuo messaggio che pubblicizzo affinché i SOS, ossia i Silenziosi Oranti Solidali, ti sostengano nell’impresa di imprimere una svolta storica all’Ospedale che già conosci ma che ora sei chiamato a servire in modo diverso:

Oggi mi è stato chiesto di occuparmi della formazione, dell’animazione e della pastorale del Sant’Orsola. Mi sento fortunato anche se non sarà facile data la situazione e dato il tempo da dedicare all’IRCCS del S. Giovanni di Dio. Una nuova esperienza da vivere e praticare per tentare di mantenere viva l’Ospitalità. Una preghiera e un caro ricordo. Fra Marco

Mi complimento per la nomina molto più importante della precedente: è come se ti avessero affidato il diaconato che non ha paragoni con altre cariche amministrative, anche se elevate.

Mi  hai fatto venire in mente che, quarant’anni fa, senza ricevere incarichi formali, priore il Padre Giulio Gatti, con una grande carica di entusiasmo giovanile e spirito Conciliare, avevo tentato di fare in piccolo quanto tu stai per mettere in moto alla grande.

Ricordo di aver costruito a caratteri cubitali e in rosso, il motto che faceva sorridere alcuni: “COMUNITA’ DI UOMINI NUOVI”. Ha avuto una certa buona adesione. Ma erano altri tempi. Poi tutto è andato per un altro verso. Ma, guarda caso, siamo ancora qui a parlarne.

Ci leggo lo zampino di Fra Riccardo nel 20° anniversario della sua canonizzazione. Brescia la porta nel cuore e, comunque le cose vadano, il segno del suo passaggio resterà indelebile.

In questi ultimi anni ho faticato tanto a mettere insieme, con tutti i miei limiti, una biblioteca dell’Ospitalità. Tante volte mi è sembrato di lavorare per nulla e per nessuno. Ma covavo nel cuore che, prima o poi, qualcuno l’avrebbe utilizzata. Perché il Web è il futuro. Ora che mi illudo di aver costruito una piccola Università Virtuale, la “S. RICHARD PAMPURI UNIVERSITY”, come mi piace chiamarla, con un pizzico di civetteria, sognando però quella vera che forse un giorno nascerà,  mi auguro che ti possa servire di appoggio per far attingere a chi ti seguirà il vasto materiale condensato negli anni. Si tratta di passare dai denti da latte ai cibi solidi. Se capirò come intendi muoverti, potrò adattare e migliorare il supporto, sempre che t’interessi.

Spero proprio che il tuo sia l’inizio di un nuovo processo contagioso. Ho un solo timore: che tutto duri una stagione. Poi ci sono gli spostamenti e, se la pianta non è ben radicata, si secca abbastanza in fretta. Poi chi vi ha aderito ci resta male e non si lascia coinvolgere una seconda volta.

E poi, l’ Ospitalità è un frutto che nasce dall’albero della Fraternità. E questa è più difficile ancora da impiantare. Perché l’Ospitalità è carisma che viene donato; la Fraternità invece è un parto, con la fatica della gestazione e comporta le doglie.

Epperò c’è sempre una prima volta. E io ti faccio i migliori auguri.

Con Fra Riccardo, hai dietro le spalle anche tuo fratello Fra Raimondo che lo Spirito ti ha piazzato come sentinelle affinché l’impresa riesca.

Fra le tue tante opzioni, non dimenticare che, sulla scia di tuo fratello, anche tu hai scelto di essere “schiena a disposizione di Dio“, dove ti chiamerà.

Buttati senza paura e fai opere che siano ispirate, dal sapore di profezia.

Non è importante che vi chiamiate “GLOBULI ROSSI” ma che siate davvero dei “portatori di ossigeno”, dentro e fuori le mura della “cittadella ospedaliera“.

Fraternamente

Angelo

LA RISPOSTA DI FRA MARCO

NON SI E’ FATTA ATTENDERE

Fra Marco Fabello 02Caro Angelo, non pensavo di attirare tanta attenzione ma ti ringrazio per quanto scrivi. Non so cosa farò, ma so che devo pensare umilmente e cercare la collaborazione di persone che possano condividere piano piano il campo di una Ospitalità che possa crescere nella condivisione di comuni riflessioni.

Mi parli di San Riccardo proprio oggi in cui ricorre per la prima volta anche la memoria Liturgica del nuovo Beato Olallo Valdes: un binomio prepotente di santità.

Spero che sia un binomio di potente protezione per cercare di dare senso alla quotidianità di un impegno che vorrebbe portare la misericordia del Signore tra i poveri e i malati.

Manca poco alla Santa Quaresima, manca poco all’inizio della novena in onore di San Giovanni di Dio: pare proprio che nulla avvenga a caso!

Viste le circostanze di tempo penso proprio che non avrei potuto aspettarmi un momento migliore per passare dai numeri  di una gestione alla somma dei valori da condividere e distribuire nel nome dell’Ospitalità.

E anch’io lancio un SOS a tutti coloro che vorranno sostenere questa nuova esperienza con la preghiera e più concretamente nei modi che ciascuno vorrà perché pare proprio giunto il tempo di doversi attrezzare della Fantasia di Dio.

Un saluto a tutti i membri della Compagnia dei Globoli Rossi dal “globulino” fra Marco.

La Cripta con il Corpo di San Riccardo Pampuri
cicca sull’immagine

PREGHIERA DEI GIOVANI

San Riccardo siamo venuti sulla tua tomba
perché ci aiuti a metterci sulla tua strada.

Riccardo, come noi hai sognato: prega Dio
perché dia compimento alle nostre speranze.

Riccardo, come noi hai studiato: prega Dio
perché ci sveli la sua verità.

Riccardo, come noi hai tribolato: prega Dio
perché ci renda più forti nella vita.

Riccardo, come noi hai atteso di comprendere le vie del tuo futuro:

prega Dio perché sappiamo essere sempre vigilanti

e riconosciamo la strada della Sua chiamata.

A somiglianza di Gesù, hai saputo sperare anche nelle difficoltà,

pregare pur tra mille preoccupazioni, voler bene in ogni circostanza.

Ottienici dal Signore l’entusiasmo e la generosità della tua vita.

III CONFERENZA REGIONALE D’EUROPA – 1-5 Settembre 2008 – Documento

Posted on Giugno 25th, 2009 di Angelo


III Conferenza Regionale d’Europa

1 – 5 settembre 2008


Lunedì 1 settembre 2008

Nella Chiesa e nel mondo al servizio dell’Ospitalità. Priorità dell’Ordine nell’Europa di oggi”, è il tema che è stato scelto per la III Conferenza Europea dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, che è iniziata oggi presso il Centro San Giovanni di Dio di Los Molinos (Madrid, Spagna), dove proseguirà fino al 5 settembre.

La Conferenza vede la partecipazione di oltre sessanta persone, provenienti da diverse nazioni, ed è presieduta dal Priore Generale dell’Ordine, Fra Donatus Forkan, con l’animazione di Fra Rudolf Knopp e Fra Jesús Etayo, Consiglieri Generali responsabili per l’Europa. Svolge le funzioni di Moderatore dell’incontro Suor Lourdes Fernández, della Congregazione dei Sacri Cuori.

Le sessioni di lavoro della Conferenza sono iniziate oggi con la celebrazione della S. Messa, presieduta da Fra José María Bermejo, Provinciale di Castiglia, che successivamente ha rivolto ai presenti alcune parole di benvenuto. Ha poi preso la parola Fra Rudolf Knopp, ricordando che gli obiettivi dell’incontro sono quelli che si riferiscono al rinnovamento e alle sfide dell’ospitalità nell’Europa di oggi, oltre allo studio del documento di base dei nuovi Statuti Generali.

Nel suo discorso di apertura, il P. Generale, Fra Donatus Forkan, ha sottolineato, tra gli altri aspetti, che il cambiamento e l’aggiornamento sono stati una costante nell’Ordine e soprattutto nel continente europeo: ieri, oggi e anche nel futuro. Ha ricordato le origini e l’evoluzione dell’Ordine; ha evidenziato il ruolo insostituibile dei Collaboratori nel portare avanti la missione; l’importanza della formazione permanente; l’ospitalità come linguaggio comune e la trasmissione dei valori di San Giovanni di Dio ai nostri Collaboratori. Ha poi concluso con queste parole: “Credo che questa Conferenza costituisca una svolta nel processo di integrazione e di cooperazione dell’Ordine in Europa, che non dovrà essere una sorta di ‘fortezza’ impenetrabile, ma piuttosto proiettarsi all’esterno, con la volontà di condividere con gli altri le conoscenze, le risorse e le esperienze che ha accumulato nei suoi 500 anni di storia. A questo proposito, dovremo cercare dei modi per cooperare con i Paesi in via di sviluppo, in un rapporto scambievole che dia energia e sia stimolante”.

Nella sua esposizione sulla Scuola di Ospitalità, sulle iniziative di formazione della Curia Generalizia per i Collaboratori che rivestono ruoli dirigenziali, Fra Rudolf Knopp ha illustrato le diverse azioni formative intraprese dalla Curia Generalizia per realizzare gli obiettivi del Capitolo Generale, come ad es. il corso che si realizzerà a Granada nel marzo del 2009, i suoi contenuti, la struttura e i destinatari. Ha proseguito facendo una valutazione della gestione carismatica, e illustrando gli altri strumenti per la trasmissione dei principi e dei valori dell’Ordine. Dopo il dibattito che è scaturito dall’esposizione e la presentazione dei partecipanti alla Conferenza, si sono concluse le sessioni della mattina.


Lunedì 1 settembre

Sessione del pomeriggio

CREARE IL  FUTURO ATTRAVERSO UN PROCESSO DI RINNOVAMENTO

P. Alejandro Fernández Barrajón, dei PP. Mercedari e Presidente della CONFER Spagna, ha dato il proprio contributo alla riflessione per identificare le priorità dell’Ordine nell’Europa di Oggi. Il suo intervento, che aveva per titolo: “Creare il futuro attraverso un processo di rinnovamento. La vita consacrata, sfida e passione. Una chiamata al rinnovamento”, ha messo in evidenza, dopo una breve descrizione dell’attuale situazione della vita religiosa in Spagna, i valori e le sfide irrinunciabili che si intravedono nella nuova forma di vita consacrata che si sta delineando, come ad es. il punto centrale dell’esperienza di Dio, la vita fraterna, la missione carismatica, la collaborazione inter-congregazionale, la missione condivisa con i laici e l’importanza della formazione permanente.

L’intervento è terminato con la lettura di un paragrafo del suo libro “Brisa y Arena” (La brezza e la sabbia): “La Vita Consacrata vuole mettersi a disposizione della brezza divina affinché il suo cuore non rimanga sordo di fronte alla povertà e insensibile alle grida di dolore dei più piccoli. Se a volte sembra avere un cuore di pietra, è solo per farlo uscire fuori, affinché lo prenda la gente; viceversa, ciò che desidera è essere inviata dalla brezza di Dio verso il sud, fino ai luoghi di frontiera, per riempire di vita e di frutti la sua dedizione totale e colmare di contenuto i suoi voti. Vento e sabbia si danno la mano ogni giorno nei sentieri inquietanti della vita. Spirito e Vita Consacrata si uniscono ogni giorno nell’Eucaristia per camminare insieme attraverso questi sentieri di Dio che ci portano agli uomini e alle donne del nostro tempo, per essere offerta gratuita di vita. Tutto deve dare colui che tutto ha ricevuto” (Tratto da: Alejandro Fernández Barrajón. Brisa y Arena; traduzione libera in italiano).

Di seguito si è passati ai lavori dei gruppi, suddivisi in base alla lingua di appartenenza, per identificare le priorità del processo di rinnovamento, secondo quanto esposto dall’intervento del P. Generale e da quello del P. Alejandro Fernández Barrajón, oltre ad individuare le azioni che l’Ordine dovrà intraprendere a livello generale, interprovinciale e provinciale per portare a compimento questo processo. Con l’esposizione in riunione plenaria si sono concluse le sessioni di lavoro della giornata.


Martedì 2 settembre

Sessione della mattina

IL RUOLO DEL CONFRATELLO E DEL COLLABORATORE NEL FUTURO

La mattina è iniziata con un ricordo della figura di Fra Pierluigi Marchesi, Profeta dell’Ospitalità, animata dalla Sig.ra Rina Monteverdi, della Provincia Lombardo-Veneta.

Il tema della sessione, “Il ruolo del Confratello e del Collaboratore nel futuro”, è stato trattato in una tavola rotonda che ha visto gli interventi di Fra Marco Fabello, della Provincia Lombardo-Veneta, del Sig. Karl Fries, della Provincia Bavarese, di Fra Eduardo Ribes, della Provincia Aragonese, e del Sig. Kris Cummings, della Provincia Inglese. Seppure prendendo in esame profili diversi, tutti hanno dato il proprio apporto alla riflessione sulla funzione che devono assumere Confratelli e Collaboratori nella pratica dell’ospitalità.

Si è poi passati ai lavori di gruppo, nei quali è stato sottolineato in particolare: l’importanza della trasmissione dei valori, la partecipazione a processi di formazione comune per Confratelli e Collaboratori, l’accompagnamento alle nuove incorporazioni, e l’importanza dei dirigenti e dei quadri direttivi nella trasmissione dello stile assistenziale di San Giovanni di Dio.


Martedì 2 settembre

Sessione del pomeriggio

IL SERVIZIO DI PASTORALE NEI CENTRI DELL’ORDINE

La Pastorale è un aspetto fondamentale dello stile di assistenza integrale che il nostro Ordine vuole offrire alle persone che usufruiscono dei suoi servizi.

Fra Jesús Etayo, Consigliere Generale con la responsabilità dell’area a livello generale, nella sua riflessione “La configurazione della Pastorale nei Centri dell’Ordine”, ha sottolineato la dimensione-missione evangelizzatrice delle opere apostoliche, evidenziando che l’evangelizzazione è la missione e la ragion d’essere dell’Ordine. Infatti, è attraverso l’ospitalità che evangelizziamo, e proprio per questo l’intera struttura di gestione, lo stile assistenziale, la politica delle risorse umane e la formazione devono essere orientati verso questo fine ultimo.

La seconda parte della riflessione ha riguardato l’attenzione spirituale/religiosa nell’ambito dell’assistenza integrale, distinguendo la dimensione spirituale e quella religiosa nell’essere umano, per seguire con il modello di attenzione spirituale e l’apporto terapeutico dell’agente di pastorale. Ha concluso poi ribadendo la necessità di un programma di base per offrire un servizio di attenzione spirituale e religiosa.

Di seguito, la Sig.ra Rina Monteverdi, della Provincia Lombardo-Veneta, ha parlato della sua esperienza come coordinatrice del Centro Pastorale Provinciale, che sin dalla sua creazione, nel 1992, ha la finalità di incrementare e sviluppare il servizio di accompagnamento umano, spirituale e pastorale dei malati e dei loro familiari. Ne ha illustrato la composizione a livello centrale e locale, così come i programmi di formazione che sono stati realizzati.


Mercoledì 3 settembre

REVISIONE DEGLI STATUTI GENERALI

Il LXVI Capitolo Generale dell’Ordine, celebrato a Roma nell’ottobre 2006, ha approvato la proposta di creare una commissione per la revisione degli Statuti Generali e dei punti delle Costituzioni che ne conseguono.

Fra Jesús Etayo, Consigliere Generale, ha presentato la prima stesura della revisione degli Statuti, frutto del lavoro della commissione istituita nel 2007, un tema che sarà affrontato in tutte le Conferenze Regionali. Ha poi illustrato i criteri seguiti per il lavoro che ha portato alla stesura del documento, e che tra gli altri sono stati: gli Statuti devono raccogliere norme generali, aperte e universali, che devono essere verificate e basate su fonti proprie e della Chiesa, i Collaboratori come parte integrante della famiglia ospedaliera, specialmente per quanto si riferisce alla missione dell’Ordine, la dimensione universale dell’Ordine, l’esperienza di altri istituti, la partecipazione dei Confratelli e l’incorporazione dei nostri documenti più recenti, come la Carta d’Identità, il libro sulla Spiritualità, le Dichiarazioni dei Capitoli Generali, il Progetto Formativo dei Fatebenefratelli e lo studio sullo Stato della Formazione nell’Ordine.

Ha poi continuato con la struttura degli Statuti, che si compone di un’introduzione e sei capitoli: Consacrazione, Collaboratori, Comunità, Formazione, Governo e Fedeltà alla nostra vocazione ospedaliera. Ha concluso con la spiegazione dei cambiamenti proposti e il lavoro di gruppo per l’esame e gli apporti del caso.

Il pomeriggio è stato dedicato ad una visita turistica alla città di Madrid, che dista circa 60 chilometri da Los Molinos, e la giornata si è conclusa con una cena tipica e uno spettacolo di musica e di flamenco.


Giovedì 4 settembre

Sessione della mattina

LA BIOETICA NEL MOMENTO ATTUALE DELLE ISTITUZIONI OSPEDALIERE E SOCIALI.

Quello della Bioetica è stato il tema affrontato durante le sessioni della mattina.

Esigenze e situazioni di conflitto in bioetica” è stato il tema della relazione presentata dal Dr. Juan Luis Trueba Gutiérrez, Neurologo e Presidente della Associazione di Bioetica Fondamentale e Clinica di Spagna. Ha iniziato la sua relazione enumerando alcune caratteristiche della società attuale come la priorità del valore della vita di ispirazione ‘borghese’, la secolarizzazione, il laicismo, la pluralità assiologia e la religiosità geocentrica, per continuare con i valori che sono attualmente validi, come il valore della vita e della libertà, il rispetto per la cosiddetta ‘privacy’, la libertà d’espressione e di opinione, l’obiezione di coscienza…In questo contesto, ha mostrato la necessità di un’analisi bioetica ed ha detto che la bioetica dovrà essere un’etica razionale che, partendo dall’analisi di un dato scientifico, biologico e medico, analizzi razionalmente la liceità dell’intervento umano sull’uomo. Ha poi aggiunto che la bioetica è chiamata a prendere delle decisioni nell’incertezza; ed è imprescindibile un dibattito aperto, razionale, plurale e critico. Da ultimo, ha segnalato che attualmente i principali conflitti bioetici emergono relativamente agli aspetti che riguardano la fine della vita umana.

Il secondo intervento è stato quello del Dr. Reinhard Pichler, Direttore del nostro Ospedale di Vienna, che ha presentato il “Codice Etico” della Provincia Austriaca dell’Ordine. E’ stato nel 1994 che un gruppo di Confratelli e Collaboratori, soprattutto Dirigenti e Esperti, guidati dall’allora Provinciale, Fra Florentin Langthaler, scomparso da qualche anno, hanno elaborato sotto la direzione del Dr. Valentin Zsifkovits, professore universitario di Etica Sociale, il primo codice etico di carattere sanitario per i Paesi di lingua tedesca.

Il Codice si compone in due parti. La prima riguarda i fondamenti: principi etici di rilevanza medica, principi della tradizione cristiana, principi del ‘duplice effetto’, principi della dignità dell’essere umano e il principio della coscienza ben formata. La seconda parte affronta esempi etici per facilitare la risoluzione delle questioni problematiche nella pratica clinica, relative all’inizio della vita e al suo termine, oltre ad altre questioni attinenti la ricerca e l’ingegneria genetica. Il codice viene rivisto periodicamente, ed è di grande aiuto per la pratica professionale. Altri ospedali lo hanno preso a modello per elaborare il proprio codice etico.

L’ultima esperienza condivisa è stata quella della Sig.ra Anna Plunkett, della Provincia Irlandese, dal titolo “Questioni etiche nell’assistenza e persone disabili mentali”. Ha iniziato con una breve introduzione, nella quale ha detto che l’oggetto di questo tipo di riflessioni in Irlanda è quello di dare un sostegno alle persone disabili, affinché possano esercitare i propri diritti, idea che ha avuto un notevole sviluppo nei servizi di salute mentale e che si occupano dei disabili psichici della Provincia Irlandese dell’Ordine. E’ poi passata a descrivere le questioni che sono attualmente oggetto di dibattito, tra le quali la capacità di queste persone di dare un consenso informato, la durata dei trattamenti coercitivi e le pratiche restrittive.

Ha definito in modo generale la bioetica assistenziale come gli studi sistematici della condotta umana nell’ambito delle scienze della vita e della salute, analizzati alla luce dei valori e dei principi morali. Questi studi non si possono ridurre alla deontologia medica né alla medicina legale, né alla semplice considerazione filosofica.

DOCUMENTO CONCLUSIVO:

http://www.oh-fbf.it/Objects/Pagina.asp?ID=2631

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SAN GIOVANNI DI DIO NEL QUINTO CENTENARIO DELLA NASCITA – Di Angelo Nocent – 1995

Posted on Giugno 30th, 2009 di Angelo

MELOGRANA e chicchi

SAN GIOVANNI DI DIO

Nel v° centenario della nascita

Di Angelo Nocent –

1995

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Cinque secoli fa, l’otto Marzo 1495, nasceva a Montemor o Novo, in Portogallo, Giovanni Cidade, l’attuale San Giovanni di Dio.
Qual è il modo possibile di lettura di una vita così insignificante, (se si esclude l’ultimo decennio) quale appare quella del Santo, e lo straordinario messaggio che si tramanda nei suoi figli spirituali?
Tralasciando [qui] la biografia, [Nei fratelli vedeva Gesù] resta, comunque, la straordinaria figura di un uomo qualsiasi, che ha fatto di tutto nella vita e che, improvvisamente, a quarantacinque anni, rompe i confini della nostra visione terrena e conquista di colpo un’altra dimensione. Tutte le volte che si scandagliano gli atteggiamenti di questo innamorato pazzo di Dio e dei suoi simili, si registra un primo atto di profonda umiltà, un atto che davvero lo prostrava fisicamente ai piedi della croce del Salvatore.
D’altra parte, l’efficacia di questo suo atteggiamento è confermata dal fatto che in nessun momento veniva sfiorato il pericolo di mettersi come esempio, di proporsi, di fare scuola. Al contrario, si deve aggiungere che, più andava avanti in quest’opera di totale dedizione a Dio e al prossimo, più si allargava e si arricchiva il suo spirito di umiltà. Prova ne sia che non si è mai sognato di fondare un ordine religioso, bensì di sopperire con tutti i mezzi alle necessità di coloro che incontrava sul suo cammino. (*) Bisogna ammettere che di strada ne ha fatta tanta e tutta a piedi, nel vero senso della parola.
Rileggere trent’anni dopo – come sto facendo – le lettere di chi ha affascinato la mia giovinezza, è come scoprire un tesoro dimenticato in un vecchio baule riposto in solaio. Tali, infatti, mi appaiono i suoi scritti, i pochi rimasti. [lettere di san giovanni di dio] Devo riconoscere che allora, pur attratto dal Santo, le sue lettere mi apparivano prolisse, datate, non più di tanto rivelatrici del suo animo. Erano i tempi avvincenti del Concilio Vaticano II e del vino nuovo in fermento nelle nostre coscienze. Dei vecchi libri di spiritualità si faceva volentieri senza e, nel tentativo di eliminare la bigiotteria poteva succedere di scartare involontariamente anche pietre preziose. Oggi, proprio grazie al Concilio, tralasciando le considerazioni stilistiche sulla prosa che risente inevitabilmente del tempo, esse mi appaiono rivelatrici di una spiritualità essenziale, robusta, capace di resistere ai mutamenti delle variabili storiche.
L’itinerario spirituale di uno dei più curiosi scherzi della Grazia manifestatisi nel XIV secolo e tutt’ora palese negli eredi spirituali, i Fatebenefratelli, è attuale perché la sua risposta alla chiamata assomiglia a quella di Abramo, nostro padre nella fede. Ma anche a quella di Paolo di Tarso. Ed è un peccato che nessuno abbia tentato una lettura della sua vita alla luce delle Scritture.
Il nostro Patriarca è un vero discepolo del Signore Gesù la cui esperienza umana andrebbe riletta non soltanto accostandola alla parabola del Buon Samaritano, come s’è fatto fin’ora. Tale è certamente il motivo dominante della sua conversione ma il suo poema sinfonico di carità è costellato di passaggi meno sottolineati ma altrettanto interessanti.
La sua è un’esistenza tempestata di divine chiamate fin dalla fanciullezza che, apparentemente, sfociano in vicoli ciechi. La conversione si manifesta in forme che il senso comune definisce follia, cioè malattia mentale. Quest’uomo fatto a suo modo, quasi inimitabile, frequenta case principesche e tuguri, l’arcivescovado ma anche il carcere, il manicomio e le case di prostituzione. E’ un persistente indebitato per Dio fin sul letto di morte, sempre in affanno per onorare gli impegni e farsi aprire nuovo credito, ogni volta con l’acqua alla gola e col rischio di insolvenza che puntualmente svanisce per mani caritatevoli di nobili soccorritori. Lascia debiti in eredità ai primi discepoli che resteranno contagiati nei secoli dalla stessa malattia. I primi discepoli? Nessuno può immaginarlo: si tratta di gente strappata alla galera, al facile guadagno, all’odio, alla vendetta e segnata, come lui, nel profondo, dal marchio indelebile della carità inarrestabile.
E’ uomo di grandi intuizioni e animato dal senso pratico, ma segue umilmente anche la direzione spirituale ed i consigli del Santo Giovanni d’Avila e mantiene costanti legami con il suo Vescovo. Nel suo ospedale l’altare è al centro della corsia. Il Vangelo è il metro di valutazione e di giudizio degli avvenimenti. Preghiera e penitenza sono le quotidiane sue armi di difesa interiore ed esterna. L’ospitalità, l’accoglienza, la condivisione sono pane quotidiano. I doni dello Spirito, la sua unica ricchezza.
Uno sforzo di lettura approfondita in tali direzioni, lo renderebbe ancor più attuale nel nostro contesto storico, per certi versi molto simile al suo.
  • Si pensi al terzo mondo che i paesi progrediti si ritrovano in casa, incapaci di risposte adeguate, un fiume in piena che nessuno riesce ad arginare.
  • O alla pestifera droga, destinata chissà fino a quando a mietere giovani vite, avvilite esistenze.
  • O ancora agli ospedali che sembrano aver proprio dimenticato la lezione profetica del Santo e riducono il malato a caso clinico e la struttura a deficit amministrativo da colmare.
La nostra sanità ed assistenza sociale occidentale, perenne mediatrice di interessi contrapposti e alla ricerca di consenso, avrebbe davvero bisogno della fantastica incoscienza di un San Giovanni di Dio. Infatti, ciò che accade sotto i nostri occhi smarriti non è che l’inevitabile risultato derivante dalla limitata prospettiva ottica di cui dispone l’uomo psichico, ossia l’uomo laicizzato e secolarizzato, rispetto alla vastità di orizzonti che si aprono all’uomo pneumatico ( 1 Cor. 2,14-15).
La dimensione spirituale e divina della persona, gratuito dono di Dio, abbraccia tutto ciò che nell’uomo è iscritto e all’uomo appartiene a partire non dalla sua psiche ma dai desideri dello Spirito secondo i disegni di Dio (Rom. 8,26-27). Nessun progresso scientifico o tecnico può mai sperare di giungere a scoprire le profondità divine dell’uomo. La sapienza laica di questo mondo (1 Cor.2,6) può al massimo concepire di liberare l’uomo mediante la umanizzazione del mondo, della società, delle sue strutture, delle relazioni sociali e internazionali, “ ma quel che nasce da carne è carne, e quel che nasce dallo Spirito è Spirito “ (Gv. 3,6). I risultati sono sotto gl’ occhi di tutti.
Si dirà che ognuno è figlio del suo tempo e che San Giovanni di Dio è un caso irripetibile. Ma forse no: la sua lezione è ripetibilissima. A patto di restare con lo sguardo assorto, in attesa di una rivelazione che appartiene soltanto allo Spirito e al cuore.
L’uomo d’oggi, il vecchio piccolo dio di se stesso che consuma l’esistenza in tragiche contraddizioni, talvolta si pone una domanda fondamentale e importante: è possibile riscattare attraverso i nostri atti terreni la lezione di Cristo? E se sì, in che modo dobbiamo regolarci? La tendenza a spegnere il fuoco interiore per accontentarsi di una religione intesa soltanto come ragione ed esaltazione dell’uomo è sempre in agguato.
l segreto del cristianesimo è questo: i discepoli di Cristo devono diventare non divini come Dio ma umani come Dio.
Giovanni di Dio è l’uomo che non ha alcuna illusione e presunzione di imitare Cristo. Egli sa, per esperienza interiore, di essere in Cristo Gesù (Fil.2,1,5. Il quarantacinquenne sradicato, proveniente da un paese insignificante del Portogallo, accostabile a un altro paese un tempo irrilevante, Betlemme, ha potuto mettere in atto un’esplosione nucleare di carità i cui effetti perdurano, semplicemente perché si è lasciato trascinare nell’umanità di Dio. Ecco descritta la miopia umana di allora e di ogni tempo che vede nella sua conversione i sintomi della follia di un esaltato schizofrenico, invece di magnificare Colui “che innalza i miseri”. Di qui l’estrema attualità della sua proposta di “dare per darsi”, il fascino di questa storia d’amore tra un uomo e il suo Dio e, nello stesso tempo l’evidenza della nostra tragica cecità .
Il rischio dei Fatebenefratelli oggi è di lasciare in piedi lo scenario delle grandi strutture ospedaliere mentre il palcoscenico si svuota delle voci significative e creative indispensabili.
Il punto vero da difendere è quello della sostanza e della continuità della fede. Sul resto permane un grande margine di confusione che può produrre rotture e devastazioni locali e storiche anche oggi come in passato. Giocare d’astuzia sui numeri del silenzio e delle troppo facili allusioni non paga. Sta in noi cercare il Vangelo. Epperò il confronto spirituale interiore tra il nuovo e la tradizione s’impone.
La misura dell’eterno, la conferma di una speranza che va ben oltre l’attualità e il contingente, sono ben presenti nel vecchio cristianesimo, quello di Giovanni di Dio, di cui si è tentati di cantare la morte e la sconfitta.
Nella sua tomba si conserva una luce di vita, un segno eterno di attesa che nessuna riforma umana, pur auspicabile, necessaria, urgente, riuscirà mai a sostituire. Giovanni si è presentato a Dio in tutta la sua fragilità di uomo ma anche in tutta la coscienza dell’ultima, della sola verità: Cristo, e Cristo crocifisso.
Strumenti essenziali d’ogni vera rivoluzione cristiana sono sempre due: carità e preghiera. Giovanni di Dio li ha usati per compiere il miracolo, per noi così ovvio, dell’ospedale moderno di cui, a buon diritto è ritenuto l’ideatore.
Ma di quale ospedale? Quello sotto i nostri occhi, più che un gioiello di famiglia, sembra un’eredità lapidata.
Angelo Nocent

AFFETTIVITA’ – Raffaella Iafrate

Posted on Febbraio 14th, 2009 di Angelo |
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Foto di Riccardo Revello
1. locandina (cliccare sopra ogni foto per ingrandire)
2. La dott.ssa Raffaella Iafrate con mons. Piero Pigollo – direttore dell’Ufficio per la Famiglia e la Vita dell’Arcidiocesi di Genova
3.  La dott.ssa Raffaella Iafrate con Aldo Delfino – Presidente dell’Associazione Aiuto Famiglia Onlus
4.  La dott.ssa Raffaella Lafrate con una parte di pubblico

Sintesi della serata

di Graziella Merlatti – Riproduzione parziale da “Il Cittadino” del 9 dicembre 2007
(…) Una conferenza intrigante, tenuta di fronte a un pubblico attento e partecipe da Raffaela Iafrate, psicologa e docente di Psicologia sociale presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, già relatrice al Convegno Ecclesiale di Verona per l’ambito “Vita affettiva”.

Accolta dal saluto di mons. Piero Pigollo, direttore dell’ufficio Diocesano per la Famiglia e la Vita, è stata introdotta da Aldo Delfino (…). Avuta la parola, l’illustre Relatrice, esperta in “legami familiari” si subito è addentrata nel tema, con parole semplici e profonde, offrendo una chiara indicazione di percorso, umano ed educativo. I genitori si preoccupano spesso di “come dire”, ma – ha ribadito – più importante, è “ciò che si vive” e “come si vive”.Ciò che è essenziale non è l’informazione, ma la relazione: è la sua “alta qualità” quella che permette alle persone di crescere, di maturare, di vivere in maniera armoniosa e adulta. Ha invitato i genitori a esprimere il loro affetto reciproco con gesti di tenerezza davanti ai figli, icona di un amore/sacramento che dura e che edifica.

Quattro i passaggi del suo dire incisivo: il primo, su “la sfida dell’individualismo”, in una cultura che gli da molto spazio, con una “mentalità un po’ narcisistica e un po’ predatoria”; il secondo, sulla “perdita dell’orizzonte escatologico”, con un generale appiattimento sul qui e ora, senza progettualità. Terzo passaggio affrontato, quello su “una tendenza diffusa ad opporre l’affettività alla norma, con la frequente riduzione dell’uomo a passione, solo a ciò che sente”, come appare dalla frequente risposta dei giovani, “non me la sento”, che “non è una risposta di ragione e di volontà, per soddisfare il bisogno del mondo”. “Viene a mancare l’idea della persona, dove le due realtà hanno importanza pari: corpo/passione e volontà/ragione.

E’ una sfida alle relazioni”. A relazioni autentiche, talora faticose, ma necessarie. Quarto passaggio toccato, “l’analfabetismo relazionale”. Per educare i sentimenti occorre progettualità. Invece “all’ educo si oppone il seduco”, invece di uscire da sé per andare verso l’altro, si tenta di catturare l’altro solo per sé. “La persona però nasce psicologicamente quando entra in relazione con l’altro, e cresce nelle relazioni lungo tutta la vita, anzi, è relazione”.
Se è vero che “per soddisfare la parte di sé mancante, in tutte le relazioni c’è una dimensione affettiva e passionale, emotiva e sentimentale, una relazione che si riduca all’emotività al qui e ora, è senza speranza”: non può avere futuro. “Oggi impera la dimensione matrifocale senza norme”, mentre urge una dimensione etica capace di dare una direzione.

I giovani vanno aiutati a superare l’analfabetismo educativo in cui sono immersi, perché possano indirizzare positi­vamente le loro pulsioni affettive, sapendo che, come canta Nicolò Fabi, “non tutte le strade sono un percorso”.
La coppia, e la famiglia, educa semplicemente esistendo. E’ questo il suo primo compito, con la sua stabilità è oggi una vera profezia. Nella certezza che ogni istante della vita familiare è un tacito atto di fiducia, un piccolo tratto di un disegno che sovrasta.
Dopo l’intervento della Lafrate vi è stato ampio spazio per condividere esperienze, di genitori o di educatori, di approfondire il delicato e importante argomento, di avere dei suggerimenti in merito.

Appunti della relazione


  1. Sfide attuali alle relazioni affettive
Nel nostro clima culturale ci troviamo di fronte a diverse sfide che mettono alla prova la speranza nelle relazioni affettive.
  1. Abbiamo a che fare con una cultura dell’individualismo  senza spazio per l’incontro con l’altro, che diviene così qualcosa di minaccioso da cui difendersi o del quale appropriarsi per non esserne a propria volta fagocitato
  2. b. Osserviamo inoltre la perdita di un orizzonte escatologico, espressa da un generalizzato appiattimento sul “qui ed ora”, il tramontare dell’idea che la storia abbia una direzione, un senso .
  3. c. Assistiamo  ad una tendenza a contrapporre affetto e norma, passione (patos) e ragione (logos) e a ridurre a pura emotività l’esperienza di relazione. Tale dicotomia ci parla di un vero e proprio stravolgimento a livello antropologico. In evidenza c’è una concezione di uomo che nel campo delle relazioni tende sempre più a diventare “ciò che si sente”, frutto di una separazione tra corpo e mente; una concezione dalla quale ciò che viene a mancare è l’idea stessa di Persona.
  4. d. A fronte di tale “analfabetismo relazionale”  domina inoltre paradossalmente la convinzione che gli affetti non siano educabili, che non ci sia bisogno di una formazione e di una crescita sul piano relazionale.
Vediamo come è possibile rispondere a tali sfide
  1. La cultura contemporanea sembra incapace  di pensare la “relazione”, ossia di pensare a ciò che lega le persone tra loro. E’ come se oggi -al contrario- si affermasse che dove c’è relazione con l’altro  non ci può essere spazio per il soggetto ed i suoi diritti individuali. In nome della libertà individuale pare venga sacrificato ogni significato che riconduca al legame con l’altro, con il diverso da sè. Ciò che questa concezione individualistica non considera, è che  in realtà tra identità individuale e relazione con l’altro esiste un legame indissolubile, al punto che si può affermare che la capacità di relazione non è un’abilità, ma l’abilità che definisce l’essere umano.
Anche la psicologia lo conferma. L’essere umano nasce -per così dire- “psicologicamente”  nel rapporto con l’altro (la madre) e cresce grazie alla sua capacità di stabilire altre relazioni adeguate con le persone che costituiscono il suo ambiente familiare e sociale.  Francoise Dolto ci ricorda (e chi ha vissuto l’esperienza della maternità può’ solo confermarlo) che il bambino è da subito, fin da quando è nel ventre materno, un soggetto capace di comunicazione e relazione. Studi recenti hanno inoltre mostrato come il neonato sia già “socialmente competente”, possieda cioè  una grande conoscenza delle regole del dialogo e dello scambio con gli altri.

Ma spingiamoci ancora oltre: la persona non può neppure definirsi se non in relazione agli altri: anche quando si tratta di dare una definizione di sé, rispondendo alla domanda  “chi sono io ?”, ci accorgiamo che tale definizione (figlio/figlia, moglie/marito, madre padre, fratello, amico, professionista…)  è fondata su relazioni e legami con l’altro.  La dimensione relazionale è connaturata con l’umano e anche l’individuo più isolato e solitario porta i segni di un’appartenenza sociale che è prima di tutto familiare (già presente nel nostro nome e cognome). La relazione con l’altro è dunque una parte inevitabile dell’esperienza umana: gli esseri umani sono “esseri relazionali” e questa è una profonda verità  peculiare dell’essere umano, che non si spiega  dentro ad una prospettiva individualistica.

  1. A fronte dell’appiattimento attuale sul “qui ed ora”, occorre ribadire che la relazione sia nei suoi aspetti di  vincolo  (re-ligo), sia di riferimento di senso (re-fero-latum) non è pura interazione con l’altro, ma rimanda ad altro rispetto a ciò che si osserva, rimanda ad un legame che precede l’interazione in atto e ne costituisce il contesto significativo. Le numerose interazioni e scambi che costellano la vita quotidiana delle persone che si amano, si possono comprendere appieno solo se si considera che i  soggetti sono profondamente legati a monte, hanno una storia comune. Caratteristica della relazione,  a differenza della interazione contestualizzata nel qui ed ora, sono dunque i tempi lunghi o meglio la connessione tra i tempi, è la storia personale e sociale che lega un uomo  e una donna, due amici, un genitore e un figlio, un educatore e un discepolo. Parlare di relazionalità dell’umano significa pertanto uscire da una visione egocentrata e  proiettarsi in una prospettiva che non può essere esaurita nell’istante dell’interazione di scambi immediati e di bilanci frettolosi,  come quello che giudica la bontà di una relazione in base alla gratificazione immediata o da ciò che se ne ricava.
  2. A proposito della dicotomia tra affetto e norma riconducibile alla dissipazione antropologica di cui si è detto, osserviamo che oggi le relazioni appaiono fragili perché, fuori da un orizzonte etico e religioso, esse sono ridotte a sentimentalismo ed edonismo relativistico.
La relazione ha certamente un profondo significato affettivo-emotivo e porta con sé una componente di piacevolezza e appagamento, ma senza una dimensione etica, senza una direzione verso cui tendere si riduce a puro sentimentalismo  ed emotività. (ma una relazione senza obiettivo e direzione verso cui tendere è una relazione senza speranza). La struttura portante di tutte le relazioni è dunque una combinazione di qualità  etico-affettive.  E ciò ha a che fare  con gli aspetti fondativi  dell’umano. Il prototipo della qualità affettiva è la fiducia-speranza, il matris-munus, il dono della madre che dà la vita, la protegge e la contiene; il prototipo della qualità etica è la lealtà-giustizia, il patris-munus, il dono del padre, che guida,  dà coraggio, regola, apre al mondo.

Va certamente riconosciuto al nostro tempo una valorizzazione degli aspetti affettivi ed espressivi del legame, rispetto ad una società del passato certamente più restia a riconoscere la bontà di queste dimensioni e maggiormente orientata a sottolineare gli aspetti vincolanti e normativi delle relazioni interpersonali e sociali, con rigidità che condizionavano fortemente anche le relazioni affettive e  familiari.
Pensiamo ad esempio  ai matrimoni combinati dalle famiglie di origine o dalle comunità di appartenenza che correvano il rischio di una polarizzazione sull’aspetto normativo e esitavano spesso in forme contrattualistiche e formali di pattuizione; o  al rapporto   genitori-figli delle generazioni  del passato in cui le manifestazioni affettive erano molto contenute (si diceva: “i bambini vanno baciati solo quando dormono”!),  soprattutto nella relazione padre-figlio spesso  lontana e autoritaria. Positiva è dunque la conquista del nostro tempo che ha saputo ridare spazio alla dimensione affettiva dell’uomo, al riconoscimento delle potenzialità del suo cuore.

Ma noi sappiamo che il cuore dell’uomo, con tutta la ricchezza e la profondità di cui è ricolmo, se non è  educato da un ethos che gli indichi una direzione  che ne finalizzi le potenzialità, si corrompe. Occorre infatti sottolineare che  fiducia/speranza da una parte e lealtà/giustizia dall’altra, in una certa misura, convivono con il loro opposto: nessuna relazione umana  è infatti perfetta (occorre fare i conti con il limite) e una certa quota di mancanza di fiducia e di prevaricazione vive nelle nostre relazioni affettive. Nelle relazioni circola la speranza di bene con la sua forza unitiva, di passione e di compassione e circola il male con la sua forza disgregante, di sfruttamento dell’altro e di dominio su di lui. Nessuna relazione ne è immune; per questo motivo i legami affettivi possono essere la sede del benessere della persona, ma anche la sede della grave patologia e della sofferenza psichica (come molti  fatti di cronaca di questi ultimi anni stanno dimostrando drammaticamente).

Occorre dunque ribadire che la vocazione etica delle relazioni non si aggiunge dall’esterno all’esperienza umana, non è un insieme di divieti o di precetti moralistici, ma risponde al “grido inesauribile del cuore” e ne costituisce l’orientamento profondo. Come è stato detto a Verona : “pri­ma ancora di una questione etica si pone l’urgenza della questione antropologica”.

  1. Ricorrente nei gruppi di lavoro di Verona è stata  l’espressione “analfabetismo affettivo” per significare lo stato di immaturità personale diffuso in particolare tra adolescenti, ma anche tra giovani o adulti, in difficoltà ad assumersi impegni e responsabilità, in particolare quando devono compiere scelte che richiamano il “per sempre”, peraltro elemento costitutivo dell’amore. La condizione di immaturità affettiva emerge anche nelle stesse comunità cristiane, spesso caratterizzate da relazioni formali e che faticano a pensarsi come luoghi di relazione affettiva e di condivisione delle responsabilità e a volte anche tra quanti aspirano alla vita religiosa e al presbiterato.
Noi  oggi ci troviamo davanti ad un grave rischio: assistiamo su tutti i fronti ad una sorta di “ipertrofia” dell’affetto, uno sbilanciamento a favore degli aspetti emozionali a discapito di quella valoriale con un’affettività  sradicata  dall’ethos, da una prospettiva di senso, percepita come pura saturazione di un bisogno, senza direzione e scopo, ridotta a puro sentimentalismo, a  “ciò che si sente”, si prova.
Anche a livello educativo  si osserva tale equivoco sbilanciamento: gli affetti e le relazioni paiono non bisognosi di educazione. Già nelle prime relazioni con i bambini piccoli, si educano i bambini sul piano cognitivo e –al limite- comportamentale, ma si ritiene l’affettività come “non educabile”, a favore di uno spontaneismo che si risolve in un puro soddisfacimento dei bisogni immediati.  E tale atteggiamento viene poi mantenuto anche lungo il percorso di crescita, dalla scuola che si occupa di educare cognitivamente e culturalmente, ma che riserva poco spazio alle dimensioni affettive e relazionali, alla formazione degli adolescenti, sempre più seguiti ed emancipati sul piano intellettuale e sempre più disorientati  e in balia delle proprie dirompenti emozioni sul fronte relazionale ed affettivo.

Sintomatica -a questo proposito- la percezione di anacronismo che suscita oggi la parola “fidanzamento”. Il tempo dell’affetto messo alla prova, della verifica, orientato ad un futuro attraverso una promessa di impegno, fiduciosa nei confronti dell’altro, ha lasciato spazio ad esperienze  “usa e getta” o tutt’al più a reiterati tentativi per “prove ed errori”, vissuti sostanzialmente  come sperimentazioni narcisistiche della propria capacità di  seduzione o  come conquiste per confermare la propria identità e  soddisfare i propri bisogni.  Tutto ciò mette a dura prova la tenuta delle relazioni affettive e ancora di più la loro forza generativa e benefica.

E’ quantomeno curioso, se non inquietante,  osservare come il mondo moderno, così attento a promuovere la crescita intellettuale delle nuove generazioni, così aperto all’investimento di energie sul piano culturale, si accontenti di  formare personalità che pur essendo cognitivamente evolute, sono affettivamente incistate in uno stadio evolutivo infantile, in un’affettività primordiale e incontrollata, spesso fonte di sofferenza se non di vera e propria patologia relazionale.

Il mondo relazionale chiede dunque di essere formato e per così dire “raffinato” da un lavoro educativo, non meno lungo e impegnativo di quello richiesto per la formazione delle menti  e delle cognizioni.
A fronte di questi aspetti problematici della vita di relazione, si registra però un profondo bisogno di relazioni autentiche e una volontà e desiderio di vivere legami e amicizie significative. C’è l’esigenza ineludibile di ritrovare il senso delle relazioni che si vivono.

  1. Il Legame di coppia ed il suo itinerario educativo
Cerchiamo allora di rispondere a questa ricerca di senso, riflettendo oggi in particolare sul legame di coppia e sul suo itinerario educativo.
La reciprocità originaria dell’uomo e della donna e la loro potenzialità generativa, rendono il legame di coppia il “paradigma” delle relazioni orizzontali paritetiche. Nel “mistero grande” della comunione tra uomo e donna (“non più due, ma una sola carne”) si rivela la persona come segno, immagine di Dio. La sfida all’impoverimento degli affetti e del valore della relazione a favore di un solitario quanto inesistente astratto individuo, ha dunque nella relazione di coppia l’espressione più alta ed impegnativa.

Per questo l’educazione alla vita di coppia è un lavoro di accompagnamento che deve partire da lontano: noi facciamo fatica a parlare di matrimonio ai ragazzi e ai giovani; anche l’educazione sessuale è spesso trattata come un problema di tipo puramente tecnico o in un’ottica di conoscenza e controllo individuale. La coppia rimane una questione da adulti.

Sfugge troppo spesso la portata educativamente rivoluzionaria dell’esperienza dell’amore coniugale che testimonia al mondo la possibilità di realizzare sulla terra un legame che ha qualcosa di divino, che parla di eternità in un mondo dominato dalla precarietà, di fiducia e speranza alle nuove generazioni così spesso diffidenti, scoraggiate e rassegnate; di futuro e di generatività ad una società schiava dell’immediato e spaventata dal domani.
Educare all’affettività e alla vocazione matrimoniale è educare alla formazione della Persona nella sua interezza; è educare al senso del limite e della propria finitezza: l’altro ci aiuta a superare l’illusione di onnipotenza narcisistica di cui oggi il mondo è malato. E’ educazione al dono gratuito, alla capacità di sacrificio e alla riconoscenza per il dono dell’altro non dovuto, ma liberamente elargito: tutti atteggiamenti oggi tanto rari quanti necessari alla nostra convivenza sociale.

E’ educare a puntare in alto e a non bruciare le tappe sprecando esperienze di vita fondamentali per la crescita: in questo senso, l’educazione alla gestione ordinata e finalizzata della propria sessualità e dei propri desideri, liberati dalla prigione individualistica e riconosciuti nella loro natura relazionale e generativa, è una garanzia di formazione di persone autentiche, capaci di coniugare sentimento e volontà, passione e ragione e di dare un senso alle proprie scelte.

L’educazione alla relazione di coppia consente dunque un percorso di crescita vocazionale che può guidare i giovani a scelte più consapevoli sia verso l’esperienza generativa della coniugalità e della famiglia, sia nella complementare, e non meno generativa scelta vocazionale verginale e di speciale consacrazione.

La vita di relazione rientra dunque in un percorso di scoperta della propria vocazione, di risposta ad una chiamata da parte di un Padre a realizzare un disegno personale pensato per ciascuno di noi. Questa è l’origine della vera speranza: la sicurezza che la risposta a tale chiamata è un destino buono, prepensato da una paternità che ci precede e ci ama da sempre.  Questa è anche la forza che sorregge i percorsi vocazionali più incerti ed accidentati e gli itinerari più difficili.

Nella confusione antropologica attuale, dove la libertà individuale pare essere l’unico criterio guida nelle scelte, dove si arriva anche a confondere i modelli di identificazione sessuale, mettendo sullo stesso piano le scelte eterosessuali e quelle omosessuali, sganciando quindi l’affettività dalla sua portata relazionale, sociale  e generativa, porre l’educazione affettiva al di fuori degli aspetti valoriali e vocazionali può condurre a gravi difficoltà, specie per gli adolescenti ed i giovani sempre più disorientati nelle loro scelte affettive e nel loro percorso di costruzione dell’identità.

A fronte di tali problemi, la scelta di sposarsi oggi è sottoposta a innumerevoli ostacoli.
La diminuzione dei matrimoni, l’aumento delle unioni libere, le separazioni e divorzi ne sono chiara testimonianza. Alla fragilità del legame coniugale pare contribuire, da una parte, quella che potremmo chiamare la “tirannia dell’intimità”, che teorizza una fusionalità senza incrinature tra i due partner, spesso abbagliati da aspettative reciproche troppo elevate e pertanto facilmente soggette a delusione; dall’altra parte, la perdita dell’aspetto sociale del vincolo coniugale, che va sempre più sullo sfondo, lasciando in primo piano una coppia autoreferenziale che si vive in uno spazio totalmente privato, svincolato da appartenenze familiari e sociali: in altre parole una coppia sola.

Tuttavia, nonostante questi segnali allarmanti, il matrimonio rimane, soprattutto per i giovani, secondo quanto evidenziato da diverse ricerche, una meta ideale altamente desiderabile.  E’ dunque su questo desiderio di felicità che occorre puntare per lanciare senza remore alle nuove generazioni il messaggio di speranza e di gioia insito nell’amore tra l’uomo e la donna. Occorre pertanto rintracciare gli aspetti fondanti dell’identità di coppia per individuare ciò che in questo panorama socio-culturale necessita di maggior cura e sostegno.

La relazione coniugale è fondata su un patto fiduciario, su base affettiva (attrazione, soddisfacimento dei bisogni reciproci) ed etico-valoriale (impegno e promessa –in presenza di testimoni- di coltivare e mantenere nel tempo il legame “nella buona e nella cattiva sorte”). Ciò significa che gli ingredienti di un rapporto di coppia soddisfacente e stabile saranno al tempo stesso
  • l’intimità,
  • la comprensione,
  • una buona capacità di comunicazione e in generale tutte le dimensioni affettivo-sessuali,
  • ma anche le componenti “etiche”, quali l’impegno e la fedeltà verso il legame,
  • la dedizione e il supporto reciproco,
  • la capacità di accettare e perdonare anche i limiti dell’altro,
  • lo spirito di sacrificio,
  • la forza di affrontare insieme le prove della vita.
Lo sbilanciamento sul versante emozionale dei legami, a scapito di un riconoscimento della loro ineludibile valenza etico-sociale di cui si è detto, affida completamente alla discrezionalità dei partner la libertà di decidere l’ufficialità, la durata, la possibile interruzione o frattura del patto. E’ su questo aspetto che pare pertanto urgente supportare e educare la coppia, spesso legata da patti fragili, senza progetto, contingenti ed emozionali, in cui la scelta reciproca è priva di impegno. In particolare, il salto critico è quello che va dall’innamoramento all’amore, ma la coppia abbisogna di supporto non solo nella fase della sua costituzione, ma anche nel tempo.

Aver cura del patto coniugale comporta, infatti, non tanto il costruire una volta per tutte un armonico equilibrio tra aspetti etici ed affettivi, ma attuare un rilancio continuo del legame di coppia: la costruzione del patto è un processo costante, continuamente modificato e messo alla prova dagli eventi della vita, intrinsecamente esigente per la sfida implicita che porta dentro di sé nel tendere a fare di due persone “una cosa sola”, ossia nel ricondurre ad unità due differenze.

D’altra parte non ci sarebbe bisogno di un patto (la cui radice etimologica rimanda a pax-pacis) se non ci fosse nulla da “pacificare” se nella relazione coniugale l’accordo fosse “automatico” e “spontaneo”. Infrangere il mito del “naturalismo” dell’amore coniugale (se due non stanno bene insieme “naturalmente” senza sforzi, significa che non si amano), superare la visione idealizzata della relazione tra partner (l’altro deve essere a tutti i costi colui che soddisfa ogni mio bisogno in ogni momento della vita), per approdare ad una consapevolezza realistica e serena del diritto di ogni persona (anche del proprio partner!) di avere dei limiti, di poter cambiare, di non vivere ogni evento allo stesso modo, si pone allora come una delle sfide più intriganti del percorso di una coppia che decida di investire sul futuro del proprio legame.

Prendersi cura reciprocamente implica dunque un riconoscimento ed una legittimazione dell’altro, amato per ciò che è, riconosciuto nella sua unicità, rispettato nella sua differenza. Non a caso l’esito più evidente del buon funzionamento di una coppia si esprime nella generatività (sia essa biologica o sociale), che si realizza proprio grazie all’incontro di differenze e rappresenta ciò che di più vitale ed appagante l’essere umano adulto possa sperimentare.

Da : Enciclica Deus caritas est (Benedetto XVI)

“Tra l’amore e il Divino esiste una qualche relazione: l’amore promette infinità, eternità — una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma al contempo è apparso che la via per tale traguardo non sta semplicemente nel lasciarsi sopraffare dall’istinto. Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è rifiuto dell’eros, non è il suo « avvelenamento », ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza.

Ciò dipende innanzitutto dalla costituzione dell’essere umano, che è composto di corpo e di anima. L’uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida dell’eros può dirsi veramente superata, quando questa unificazione è riuscita. Se l’uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se, d’altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza. L’epicureo Gassendi, scherzando, si rivolgeva a Cartesio col saluto: « O Anima! ».

E Cartesio replicava dicendo: « O Carne! ».Ma non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l’uomo, la persona, che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima. Solo quando ambedue si fondono veramente in unità, l’uomo diventa pienamente se stesso. Solo in questo modo l’amore — l’eros — può maturare fino alla sua vera grandezza.

Impressioni su questo incontro rilasciate a fine della serata

  • Relatrice bravissima, ha saputo trattare l’argomento usando termini appropriati.
  • Questo incontro mi ha dato la possibilità di ricevere una risposta esauriente a molti degli interrogativi sulla coppia che mi ero posta.
  • Serata mondiale!
  • Utilissimo – Bravissima la relatrice – Peccato non aver fatto più pubblicità ai giovani.
  • Molto stimolante, riesce a farti mettere in discussione. … (non si legge chiaramente il resto)
  • Veramente istruttivo. Ho compreso molto su di me e su quelle persone a cui voglio un mondo di bene. Fate + spesso di questi incontri !!!!
  • Coinvolgente. Attento ai nostri tempi. Grazie.
  • La tematica è stata molto interessante e affrontata con semplicità e profondità.
  • Molto interessante. E’ stata una conferma x noi come sposi che stiamo camminando bene ed un aiuto per cambiare quello che ci manca. Ci piace tanto quell’idea di dare aiuto (prevenzione) alle coppie “normali” nel loro cammino, non solo a quelli con problemi.
  • Molto interessante ed incoraggiante. Sarebbe interessante riprendere il tema dell’enrichment coniugale. Grazie.
  • Molto positivo. Relatore eccezionale. Argomento molto interessante. Grazie.
  • Bello!
  • Sono molto soddisfatta. Forse sarebbe bello avere del materiale da portare a casa, come una fotocopia sunto, per ricordare, meditare, condividere. Grazie.
  • Molto positivo ed efficace per la mia persona e relazione con l’altro. Ringrazio la dott.ssa Iafrate per il suo prezioso contributo e tutti coloro che hanno organizzato tale serata.
  • E’ stato molto di aiuto sotto tutti gli argomenti trattati. Credo che sia sempre importantissima la testimonianza seguita dalla crescita interiore rapportata sempre e comunque di fronte a Gesù e Maria.
  • Ricco di spunti, riflessioni.
  • Relatrice molto preparata, che ha utilizzato un linguaggio adatto a tutti e che ha espresso diversi concetti nuovi con esempi e, talvolta, soluzioni concrete ed attuali. Grazie.
  • Interessante. L’ideale sarebbe una frequenza maggiore ed una pubblicità anche alle zone limitrofe.

http://www.aiutofamiglia.it/affettivit%C3%A0.htm

SUL BENEDICTUS [Terapia contro il sordomutismo] Pino Stancari s.j.

Posted on Dicembre 15th, 2008 di Angelo |

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SUL BENEDICTUS

di Pino Stancari

Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo, e profetò dicendo:

  • “Benedetto il Signore Dio d’Israele,
    perché ha visitato e redento il suo popolo,

  • e ha suscitato per noi una salvezza potente
    nella casa di Davide, suo servo,

  • come aveva promesso
    per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:

  • salvezza dai nostri nemici,
    e dalle mani di quanti ci odiano.

  • Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri
    e si è ricordato della sua santa alleanza,

  • del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre,
    di concederci, liberati dalle mani dei nemici,
    di servirlo senza timore, 75in santità e giustizia
    al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.

  • E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo
    perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade,

  • per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza
    nella remissione dei suoi peccati,

  • grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio,
    per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge

  • per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre
    e nell’ombra della morte

  • e dirigere i nostri passi sulla via della pace”.

Il fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele. (Luca1,67 -80)

La profezia per eccellenza

Il Benedictus (Lc 1,67-79) è sempre presente nella preghiera quotidiana della chiesa: il popolo cristiano tutti i giorni, all’alba di un giorno nuovo, saluta il sole che sorge cantando come Zaccaria. Il Testo evangelico afferma che «Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo, e profetò dicendo..» Non dice: cantò, dice: profetò. Non è un verbo usato a caso da Luca. Profetò dicendo… Nella tradizione benedettina, che è poi la tradizione ispiratrice di tutta la storia della preghiera e della ricerca spirituale nella vita cristiana del mondo occidentale, quando si dice “profezia”, si intende il cantico di Zaccaria, Il Benedictus, dalla prima parola che in latino apre il canto. Il Benedictus, è la profezia per antonomasia, è la profezia per eccellenza.

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la crisi del sacerdozio

E’ importante ricordare il contesto dell’episodio in cui si colloca il cantico: siamo giunti all’ottavo giorno della nascita del bambino e si tratta di circonciderlo e di imporgli il nome. C’è un problema per quanto riguarda il nome da assegnare al bambino, i parenti vorrebbero chiamarlo Zaccaria, il nome della famiglia, mentre la madre insiste: si deve chiamare Giovanni. Nessuno si capacita di questa sua determinazione. Interrogano Zaccaria, il padre, e lo interrogano passando attraverso quella distanza segnata dallo stato di mutismo e di sordità in cui Zaccaria si trova. Zaccaria è muto, e deve essere anche sordo, se è vero che gli domandavano con cenni come voleva che si chiamasse il figlio. Zaccaria per rispondere scrive: Giovanni è il suo nome. Tutti furono meravigliati: «In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio».

Il cantico riportato successivamente è l’ingrandimento di questo versetto, esso affiora sulla bocca di Zaccaria nel momento in cui lo stato di mutismo e di sordità, di cui è prigioniero, viene rimosso. Non è più muto e non è più nemmeno sordo. Non è più distante dagli altri e dall’ambiente che lo circonda. Non è più prigioniero di quell’ incomunicabilità in cui si è trovato relegato. Zaccaria canta, o meglio, Zaccaria sta profetando.

Il cantico segna il passaggio dal silenzio profondo in cui Zaccaria si trovava ad una nuova capacità di relazioni con gli altri, con l’ambiente, con il mondo, con la storia umana. Questa nuova relazione che rimuove lo stato antecedente di mutismo e sordità, dipende certamente dalla relazione con il Signore. Che cosa è successo? Ma chiediamoci prima ancora: come mai Zaccaria è muto?

Dopo il prologo del suo vangelo Luca ci informa che «al tempo di Erode, re della Giudea, c’era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abìa, e aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Elisabetta. Erano giusti davanti a Dio, osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. Ma non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni».

Questa è la situazione: Zaccaria è sacerdote, sposato con Elisabetta, non ci sono figli. Sterilità di ordine biologico. Altri casi del genere sono segnalati nella storia della salvezza, non è una novità. Ma questa sterilità ha delle caratteristiche del tutto singolari: Zaccaria viene messo in scena nel racconto evangelico nel momento in cui svolge una funzione pubblica. Zaccaria è sacerdote, Zaccaria svolge un ministero che ha un significato strutturale nella vita e nella storia del popolo, nella relazione tra Dio e il suo popolo, relazione sintetizzata nella dinamica dell’alleanza. E’ per un motivo di amore che Dio ha scelto il suo popolo e ha donato la legge, per ottenere dal suo popolo la risposta secondo il suo gradimento: da Dio al popolo il dono della legge, dal popolo a Dio la risposta del culto, la risposta con cui le creature umane possono accostarsi a colui che è il Santo. Ed è in questo incontro con il Santo che è possibile prendere contatto con la sorgente della vita, dall’incontro con il Santo scaturiscono, infatti, tutte le benedizioni.

Il sacerdozio è quella struttura di mediazione che garantisce il buon funzionamento del culto. Il popolo è in grado di presentare a Dio l’offerta che Dio gradisce, attraverso il ministero sacerdotale; è attraverso la presenza, il gesto, la parola, il servizio del sacerdote che dal Santo viene riversata sul popolo la benedizione di cui tutti hanno bisogno per vivere.

Sono due movimenti fondamentali che caratterizzano il funzionamento del sacerdozio. Il primo è un movimento ascensionale: il sacerdote avanza, sale, porge l’offerta. Se non ci fosse il sacerdote non sapremmo come procedere, non sapremmo quale itinerario seguire, come presentarci. E’ necessaria la presenza del sacerdote che svolge un ruolo imprescindibile nel contesto dell’alleanza: attraverso di lui l’offerta viene presentata fino a prendere contatto con il Santo.

Il secondo movimento è discendente. C’è un movimento ascensionale, o offertoriale e c’è un movimento benedicente. Il sacerdote ritorna al popolo e impartisce la benedizione. E’ in quanto esiste questa struttura di mediazione, che consente il contatto tra il popolo e il Dio vivente, che l’alleanza realizza i frutti che erano stati programmati fin dall’inizio. Per questo Dio ha fatto alleanza con il suo popolo, per coinvolgerlo in una relazione di vita. Questo dinamismo è realizzato in pienezza tramite la funzione del sacerdote, che avanza e ritorna, che offre e benedice, che ascende e discende. Se il sacerdozio non funziona, tutto il meccanismo salta per aria, o comunque è inutile: è sterile. Qui è in questione non semplicemente la sterilità biologica di una coppia, una storia privata, qui è in questione la sterilità dell’alleanza che è sintesi di tutta la storia della salvezza, per come Dio si è rivelato al suo popolo.

Zaccaria viene colto nel momento in cui sta compiendo un atto ufficiale, l’atto più prestigioso che possa mai possa essere compiuto da un sacerdote.

zaccaria-nel-empio

Quel giorno «Zaccaria officiava davanti al Signore nel turno della sua classe». I sacerdoti non sono sempre in funzione. Entrano in funzione due volte in una settimana, nel corso dell’anno. Sono 24 classi, composte da alcune centinaia di sacerdoti, che si avvicendano di settimana in settimana. E’ un lavoro piuttosto massacrante quello che svolgono, oltre alle altre cose da fare, come la famiglia, i loro interessi ecc. Ogni classe entra in funzione per una settimana. Sono 24 classi, 48 settimane in un anno lunare, nel corso dell’anno 2 settimane, e ogni giorno viene sorteggiato il sacerdote che entrerà nel Santo, ne varcherà la soglia, il primo velo, e offrirà l’incenso alla sera di quel giorno. Un unico sacerdote compie questo gesto. Viene sorteggiato appositamente. Può darsi che ci siano sacerdoti che nel corso della loro vita una volta hanno compiuto questo gesto.

E’ un momento solennissimo, di forte commozione, il popolo è in attesa, poi vengono i momenti di partecipazione corale.. Ecco: il sacerdote entra nel santuario, varca il primo velo. Questo avviene ogni giorno. Il sommo sacerdote, lui solo, una volta all’anno entra nel Santo dei Santi, varca il secondo velo per la festa della grande espiazione, il Kippur, ma quotidianamente un sacerdote varca il primo velo ed entra nel santuario. Lì c’è la lampada a 7 braccia, la Menerà, lì c’è l’altare dei profumi, là il tavolo su cui vengono esposti i pani e sull’altare dei profumi viene bruciato l’incenso. Questo è il gesto che Zaccaria sta compiendo. Non è casuale che sia messo in scena all’inizio del vangelo secondo Luca proprio in questo in questo frangente, nell’atto di compiere un gesto così solenne dal punto di vista liturgico, che fa del sacerdote il centro della relazione tra il popolo e Dio.

Quando il sacerdote esce dal santuario, proclama la grande benedizione. Il testo della benedizione sacerdotale è nel libro dei Numeri al cap. 6, il Signore ha spiegato queste cose a Mosè, e Mosè le ha insegnate a sua volta ad Aronne, che è il capostipite di tutti i sacerdoti:

«Voi benedirete così gli Israeliti; direte loro:

Ti benedica il Signore e ti protegga.

Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.

Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace».

Questa è la formula della benedizione. Per 3 volte viene proclamato il nome del Signore sul popolo. Non si sa bene se in epoca antica il nome del Signore fosse pronunciato. Certo dall’epoca rabbinica in poi il nome del Signore non viene più pronunciato. «Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò». La benedizione è descritta in questa maniera: è il nome del Signore che cala, che si posa, che prende contatto con la presenza del popolo:

«Ti benedica il Signore e ti protegga.

Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.

Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace».

Questo testo torna nella nostra preghiera liturgica, e ritorna anche nella devozione cristiana nel corso dei secoli, basti pensare a san Francesco di Assisi.

Il sacerdote esce. Quando Zaccaria esce dopo avere compiuto il gesto della offerta del profumo d’incenso bruciato sull’altare, è muto. Questo vuol dire che non può benedire. Il mutismo e la sordità di Zaccaria mettono in evidenza una situazione sconvolgente: se la benedizione non viene pronunciata sul popolo, l’alleanza non funziona più, la relazione fra Dio e il suo popolo deve arrestarsi dinanzi a una contraddizione, c’è un ostacolo, c’è una barriera invalicabile, c’è una distanza incolmabile: sterilità.

In questione non è semplicemente la sterilità di Zaccaria o di sua moglie; è una coppia di gran brava gente, credenti impegnati nelle cose di Dio, che invecchiano senza figli. Il punto è che sterile è il funzionamento del sacerdozio nell’ambito di una storia che è stata predisposta proprio per rendere fluente e intenso un rapporto di amore, di vita tra Dio e il suo popolo. Ebbene il sacerdozio non funziona…. E perché non funziona? Perché Zaccaria è muto. Appena Zaccaria ritrova l’uso della parola benedice Dio, gli è rimasta la benedizione bloccata in bocca. E non è un guaio semplicemente suo, è un problema del popolo in quanto tale, di una storia che sembra sfumare nella intimità più tragica; una storia inutile, una fatica inconcludente.

Zaccaria è muto. Mentre si trova nel santuario per offrire il profumo, incontra l’angelo Gabriele che gli annuncia la nascita del figlio. Non si tratta semplicemente dell’annuncio che deve dare consolazione ad un povero anziano che oramai si era messo l’animo in pace, e forse stava scivolando sempre più tristemente nella disperazione.. L’annuncio dell’angelo a Zaccaria riguarda il senso della relazione tra Dio e il suo popolo, riguarda l’impostazione di tutta la storia della salvezza, riguarda il funzionamento dell’alleanza. A questo riguardo Zaccaria è in ritardo; in un certo senso, il fatto che l’angelo gli annunci che nascerà a lui e a sua moglie un figlio, non sembra scomporlo più di tanto. E l’angelo insiste: vedi che io ti parlo di queste cose non per manifestare un segno di benevolenza a tuo riguardo, ma proprio perché è in questione il tuo sacerdozio. Tu ora sei muto. Zaccaria è muto, è il sacerdozio che non si può più esprimere come strumento di benedizione. Zaccaria esce fuori dal santuario, il popolo sta in attesa, si meraviglia, è sconcertato per il suo indugiare nel tempio. Uscito, il sacerdote non può parlare loro. Nel racconto è messo in risalto questo particolare: non poteva benedire, allora capirono che era successo qualcosa di strano. Se ne vanno quatti quatti, con la coda tra le gambe, perché non c’è la benedizione.

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l’annuncio della salvezza

Zaccaria torna a casa con tutti i giorni del suo servizio e dopo quei giorni Elisabetta concepì. Anche qui una stranezza. Noi diremmo: dovrebbe fare salti di gioia, dovrebbe telefonare a tutte le amiche e le parenti, anche più lontane, tutto il mondo dovrebbe conoscere questa novità straordinaria che ha consolato la sua vita. E invece non è così: concepì e si tenne nascosta per cinque mesi. Elisabetta dice: qui è in questione la mia vergogna tra gli uomini. Strano. Noi sappiamo che la situazione si sblocca nel momento in cui l’angelo Gabriele si presenta a Maria nella casa di Nazaret e le dice: vedi, tu sei madre e tua cugina ha concepito ed è giunta al sesto mese. Maria fa la visita a sua cugina. La situazione si sblocca così, ma per 5 mesi, siamo giunti al sesto, Elisabetta si è tenuta nascosta, perché deve fare i conti con la sua vergogna. Fosse soltanto la soddisfazione di mettere al mondo un uomo, dovrebbe gongolare, lei e, accanto a lei, suo marito, il quale è addirittura muto e sordo, quasi una specie di larva umana, accantonata in un angolo della casa, che non serve più niente e non solo come sacerdote. Il fatto è che ha senso mettere al mondo un uomo solo nella prospettiva dell’alleanza; ha senso mettere al mondo un uomo solo nella storia della salvezza, una storia di amore. Al di fuori da questa prospettiva, mettere al mondo un uomo è una vergogna prolungata, diffusa, di vergogna in vergogna. Perché mettere al mondo un uomo quando la vergogna domina la scena della storia umana?

La situazione si sblocca quando Elisabetta riceve la visita di Maria, e il bambino che Elisabetta porta in grembo sussulta, si agita, le trasmette un impulso di gioia che subito Elisabetta sa interpretare. Da parte sua si rende conto che Maria è madre, nessuno l’ha informata: tu sei madre. Tra madri si intendono nella prospettiva di una maternità che non è semplicemente la soddisfazione di mettere al mondo una creatura, ma è generata per quella storia di amore che Dio ha voluto e realizzato. Siamo madri in obbedienza ad un bisogno di fecondità che è per la vita, non per la vergogna; che è per la salvezza, e non per il fallimento. Tu sei madre del Signore, dice Elisabetta, il bambino che porto in grembo ha esultato di gioia, benedetta tu fra le donne. Maria, che è stata visitata dall’angelo, da Dio, porta in grembo il figlio che ha concepito, visita sua cugina Elisabetta.

La scena evangelica è icona rappresentativa di quel disegno che si compie nel corso di tutta la storia della salvezza fina alla pienezza dei tempi: è la visita di Dio che entra nella storia umana per portare a compimento la sua intenzione di amore. E’ questa visita di Dio che diventa evangelo, che diventa quel particolare modo di entrare nella casa di Elisabetta, quel particolare modo di salutare, di cantare con cui lei stessa, Maria, madre del Signore, si esprimerà nel Magnificat.

L’evangelo rompe la sterilità. Fosse semplicemente un problema di ordine fisiologico, si potrebbe ancora affrontare e risolvere, ma non è così. L’evangelo rompe, apre, l’evangelo interviene con l’urgenza della visita che porta in sé la misteriosa potenza, tutta la travolgente dolcezza del Dio vivente. Maria nella casa di Elisabetta e di Zaccaria, è giunta nella montagna di Giuda, saluta.

Arriviamo così al Benedictus, Elisabetta esce dallo stato di vergogna in cui era nascosta. Ancora 3 mesi di gravidanza, poi il parto: nasce. E nasce non semplicemente il figlio, nasce il figlio redento, nasce il figlio che appartiene a quella novità che Dio ha introdotto nella storia umana, visitando le sue creature per la salvezza. Questo figlio che nasce è profeta, cioè colui che prende posizione in rapporto alla visita, si accorge del fatto che Dio è presente, che Dio è operante, e si atteggia di conseguenza. Sarà col suo vissuto, sarà con le parole i gesti di cui è capace, sarà anche assumendosi delle responsabilità, ma queste sono tutte specificazioni ulteriori. Profeta nella sua forma primigenia è ogni uomo che scopre di essere chiamato da Dio, di essere coinvolto in una relazione, di essere destinatario di una visita e spettatore di una visita che riguarda la storia umana. Magari il profeta queste cose non le sa dire, non sa come spiegarle, ma ci è calato dentro con tutta la sua vita.

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la visitazione

Nella nostra tradizione devozionale il mistero cui siamo dinanzi si intitola: visitazione. E’ una visita. E’ un latinismo usato non casualmente, proprio perché si vuole dare al significato di quella visita un’intensità teologica: non è una visita qualunque, non è un segno di benevolenza, non è la disponibilità di una donna servizievole, come Maria, che, informata della gravidanza della cugina, la soccorre. Tutte queste sono considerazioni di contorno, ammennicoli dolciastri che servono alla predicazione più onesta. Non è una visita, è una “visitazione”, proprio perché quella visita ha un significato più cogente, più intenso, ha un significato teologico: è la visita di Dio che rende benedetta la fecondità della donna che genera un uomo, perché genera un profeta. Non genera più un uomo, ma un profeta. Genera un uomo coinvolto in quella novità di cui Dio è l’autore, un uomo salvato, un uomo redento, un uomo messo in grado di reagire, di corrispondere, di accogliere la visita e di adeguarsi ad essa.

Elisabetta già lo dice nel momento in cui accoglie il saluto di Maria: il bambino che porto in grembo si è agitato. Fino a quel momento sembra che il bambino sia rimasto tranquillo e pacifico, avvolto nel suo nascondimento e nella sua invisibilità nel grembo di sua madre, madre assai problematica, come si è visto. Adesso il bambino si è scatenato. Ed è questo scatenarsi della gioia nel grembo di Elisabetta che le dà motivo di reinterpretare totalmente la sua maternità, e, di riflesso, la maternità di Maria: a che debbo che la Madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo.

Facciamo un passo indietro: l’angelo aveva detto a Zaccaria: sarà profeta fin dal grembo di sua madre. Già eravamo orientati in questa direzione. Il testo rievoca quanto già si diceva nell’AT a proposito di altre grandi figure profetiche, come Geremia o il deutero Isaia: profeta fin dal grembo di sua madre.

Il bambino è nato, la circoncisione 8 giorni dopo, e Zaccaria è interpellato: si chiama Giovanni. Così l’angelo lo aveva presentato al padre: nascerà il figlio, si chiamerà Giovanni, si chiamerà profeta fin dal grembo di sua madre. Zaccaria non si rendeva conto, scalpitava, sprofondato in quello stato di mutismo che lo aveva isolato in maniera sempre più amara. Adesso il figlio è nato: si chiama Giovanni. Zaccaria ritrova l’uso della parola. E’ finito il tempo del grande silenzio, è finita la notte, il tempo del buio. La tradizione orante della chiesa, come si è detto, colloca il Benedictus ogni mattina, all’alba.

Siamo veramente usciti fuori dal tunnel, innanzi a noi la luce che sorge, alla quale non ci si può più sottrarre. Ormai il tempo del silenzio, della vergogna, della solitudine, il tempo della storia umana come successione di fallimenti senza risultati è finito.

L’evangelo fa di ogni bambino che nasce da grembo di donna un profeta, un uomo chiamato ad accogliere la visita di Dio. Zaccaria, ritrovato l’uso della parola, pieno di Spirito Santo profetò dicendo… Non è tornato indietro, non è semplicemente tornato nei suoi panni prima di quel disastro, di quella malattia, di quell’ictus che gli ha tolto l’uso della parola in modo così inopinato e sconveniente, tra l’altro impedendogli di esercitare il ministero sacerdotale.

Adesso ha trovato l’uso della parola, ha acquisito dignità di profeta. Questa profezia che adesso contrassegna Zaccaria viene messa in risalto in rapporto a quella che sarà la profezia di Giovanni. Un bambino, per ora, appena nato. E’ una novità profetica quella che segna la vita di Zaccaria, da cui dipende il suo stesso sacerdozio e da cui dipende ogni altra vocazione nel popolo di Dio, e nella storia dell’umanità. Non c’è vocazione che non sia segnata da questa stretta profetica.

Ogni chiamata degna di Dio fa di un uomo nella sua particolare condizione, nella sua particolare situazione, nel suo momento, nel suo luogo, nelle sue responsabilità, un profeta.

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il cantico: passato e futuro

Il cantico si può dividere in due parti: la prima parte (vv. 68-75) è caratterizzata dall’uso di verbi al passato; la seconda parte (vv. 76-79) è caratterizzata dall’uso di verbi al futuro. C’è un perno tra la prima e la seconda parte:

«E tu bambino sarai chiamato profeta dell’Altissimo».

Il cantico è incorniciato all’interno di un doppio uso del verbo episkeptomai, che vuol dire visitare: “Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato..”, al passato, all’inizio; “verrà a visitarci”, al futuro. E’ la cornice che inquadra tutto il cantico: è la visita. Ci ha visitati, ci visiterà. E’ il senso della storia umana, dal passato all’avvenire, ogni memoria e ogni aspettativa. Tutto prende senso in quanto diventa interpretazione di una storia ormai visitata da Dio, che recupera, visitandolo, il nostro passato e già imposta il nostro avvenire. La memoria ci riconduce a Lui, visitatore nostro, episkopos; la nostra spinta verso l’avvenire ci conduce fino ad incontrarlo come colui che viene a visitarci. Non c’è altra storia. L’evangelo fa di noi dei profeti e Zaccaria sta profetando.

Ritorniamo indietro. Prima parte del cantico, tre brevi strofe. Prima strofa: vv. 68-69:

«Benedetto il Signore Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi una salvezza potente nella casa di Davide, suo servo».

Questo è il motivo per cui benediciamo il Signore, perché ha visitato. E’ una visita operosa, efficace: ha redento il suo popolo, ha suscitato per noi una salvezza potente. Il termine soterìa, salvezza, ritorna altre 2 volte nel cantico nel v. 71 e nel v. 77. La visita di Dio determina questo effetto nella storia degli uomini: si chiama salvezza. Quando Dio ci ha visitati, questo è stato il risultato che abbiamo potuto cogliere e di cui siamo stati destinatari. Salvezza è un termine che qualche volta per noi diventa un poco vago, astratto. Salvezza è il termine che serve ad indicare la situazione in cui si trova qualcuno che era stretto in un angolo, in uno spazio circoscritto, in un ambiente un po’ soffocante, ed ecco gli si fa largo d’intorno, gli si aprono delle strade, si spalanca l’orizzonte..; una barca e un bastimento in secca e poi ecco di nuovo galleggia e può intraprendere le rotte più impegnative. Salvezza. Per coloro che erano intrappolati dentro situazioni di ristrettezza, di avvilimento, di schiacciamento, di soffocamento, adesso uno spazio nuovo.

il cantico: i nostri nemici

Seconda strofa: vv. 70-71. Questa seconda strofa precisa che l’effetto dalla visita di Dio, ossia la salvezza, è quanto già era stato promesso fin dall’epoca più antica; promesse che adesso siamo in grado di ricordare, rievocare, di ricostruire, promesse di cui forse ci eravamo dimenticati, che forse avevamo addirittura trascurato, forse addirittura considerato come degli imbrogli, per cui le avevamo messe da parte. Ed invece quelle promesse vanno rievocate perché si sono compiute.

«Come aveva promesso per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo: salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano».

Tutti quanti ci odiano: questa è una citazione del Salmo 106, il cantico è un intarsio di citazioni anticotestamentarie. La salvezza è criterio che ci consente di reinterpretare tutta la storia del passato, è la storia impostata a partire da delle promesse che adesso si sono compiute: salvezza dai nostri nemici.

I “nemici” compaiono qui nel cantico. I “nemici” compaiono in lungo e in largo nel libro dei Salmi. Li incontriamo tanto spesso e qualche volta ci sentiamo un po’ imbarazzati. Possibile che ci siano tanti nemici e che sbucano in tutti gli angoli e ce li troviamo sempre tra i piedi? Vorremmo insomma affrontare il cammino della vita cristiana, almeno il cammino della preghiera in modo un po’ più pacifico, un po’ più disinvolto, un po’ più amichevole e senza inimicizie. E lì, invece, nemici da tutte le parti. Per “nemici” bisogna intendere situazioni di fatto dalle quali noi comunque non possiamo prescindere, ossia i limiti della nostra condizione umana che comunque ci contengono, ci stringono: limiti di ordine fisico, psichico, emotivo; limiti nel tempo e nello spazio; limiti nelle relazioni, in cui certamente sono implicati anche gli altri, relazioni di tipo familiare, sociale, politiche. Limiti, insufficienze, slittamenti, regressioni, contraddizioni: i nostri “nemici”. Io sussisto nel tempo e nello spazio, ma il tempo e lo spazio che mi definiscono e mi delimitano. La storia a cui appartengo, la lingua che parlo, la cultura di cui sono impregnato: tutti limiti. Ebbene, quando si parla della salvezza dai nostri “nemici”, vuol dire che non sono più i miei limiti che mi definiscono. I limiti ci sono, certo, ma io non sono più prigioniero dei miei limiti: salvezza.

Terza strofa: vv. 72-75.

«Egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre».

Tutto questo già lo sappiamo, è la storia della salvezza già impostata fin dall’inizio, mediante il dono delle promesse: Abramo, i Patriarchi, e poi ecco lui si è ricordato, lui ha portato a compimento. Il giuramento, la promessa «di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni».

il cantico: liberàti dalla paura della morte

Qui Zaccaria sta considerando il nemico per eccellenza: quel limite che contiene tutti i limiti, che li sintetizza tutti, che li attrae a sé, li sottolinea, li esalta, in modo definitivo, quel limite è la morte. Non soltanto la morte come scadenza ultima che sta dinanzi a noi, ma la morte in quanto anticipata dalla nostra paura di morire. La nostra paura di morire fa di noi dei prigionieri, degli ambulanti che sono preda dei nemici e del nemico che incalza e domina la scena della nostra cosiddetta vita: abbiamo paura di morire. Lo dice san Paolo in 1Cor 15: è l’ultima nemica, la morte. E’ la nemica estrema, è la nemica che ricapitola tutte le altre forme di inimicizia, è il limite per eccellenza: la mia morte. Ed è un limite anticipato nella paura di morire che diventa condizionamento intrinseco di quelle che pure sono le manifestazioni vitali della mia esistenza. Ma già è come se l’ombra della morte mi intrappolasse.

Ecco qui esplicitato il contenuto di quella salvezza che è effetto della visita: la liberazione dalla morte, liberazione dalla paura di morire, il giuramento «di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza paura (aphobos, è un avverbio), in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni». Noi non siamo più trattenuti dalla paura, siamo ormai sottratti alle grinfie della morte, che sta dinanzi a noi, ma già incalza dall’interno il procedere dei nostri giorni. Noi siamo liberati dalla paura per servirlo, e qui il verbo ha un significato liturgico nella traduzione in greco dell’AT.

E’ interessante che questo verbo compaia adesso sulla bocca di Zaccaria, che è un esperto a riguardo di queste cose. Noi siamo messi in grado di avvicinarci a Lui, di superare le distanze: in santità e giustizia, al suo cospetto per tutti i nostri giorni. Siccome siamo liberati dalla paura, possiamo farci avanti. Questo è il gesto che è prerogativa del sacerdote: si fa avanti.

Questo gesto viene prospettato da Zaccaria a tutti coloro che sono stati salvati in seguito alla visita di Dio. Siamo stati liberati dalla paura di morire e siamo messi nella condizione di comparire dinanzi alla presenza del Santo e del Vivente per servirlo. Questa nostra esistenza umana, limitatissima con tutte le contraddizioni che porta in se stessa, con tutti i compromessi da cui non veniamo mai fuori interamente, questa nostra esistenza umana è liberata e noi ne possiamo fare un’offerta gradita al vivente, al Santo, per servirlo senza più paura, in santità e giustizia, al suo cospetto per tutti i nostri giorni. Questo è il tema tipico della teologia sacerdotale: comparire davanti alla sua presenza, al suo cospetto, varcare il velo per comparire là dove il Santo ci attende. Ed è Lui stesso che ci viene incontro, ed è lui stesso che irrompe con tutta la ricchezza gratuita della sua benedizione.

E qui il perno centrale:

«E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo».

Zaccaria si sofferma a considerare il bambino che è nato da otto giorni. E’ Giovanni Battista, sarà il profeta per antonomasia. E’ interessante questa identificazione tra il bambino e il profeta: i bambini sono profeti, sono i primi a reagire, a percepire le cose nuove, a intuire che una visita è in corso. Ed è anche vero che se non ci sono tanti bambini in circolazione, questo inevitabilmente vuol dire che ci sono pochi profeti. Viceversa il profeta è sempre bambino. E’ nella sua apertura di cuore pronto ad accogliere la visita. Giovanni Battista viene descritto in questo modo.

vv.76-77: «E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati».

Adesso i verbi sono al futuro. Chi è il profeta? Profeta è colui che va incontro al Signore. Non è precursore nel senso che lo precede, che gli fa strada, ma nel senso che gli va incontro. Il profeta è colui che trascina dietro di sé un popolo di peccatori, in questo senso è veramente consolatore per antonomasia; è colui che spinge, che si prende cura di testimoniare a tutto un popolo come la strada sia aperta per andare incontro al Signore. Non c’è motivo per restare a distanza, per temere l’incontro. Il suo compito è “dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati». Il profeta è nel popolo per testimoniare che la strada è aperta in vista di quell’incontro che realizza la remissione dei peccati.

santafamiglia2.smallLa Santa famiglia con Santa Elisabetta e San Zaccaria

il cantico: per viscera misericordiae

Seconda strofa: vv. 78-79: «grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace».

L’ultima parola del cantico è il termine pace, che è anche l’ultima parola della benedizione sacerdotale in Numeri 6. E’ come se Zaccaria, avendo ritrovato l’uso della parola, avesse veramente ritrovato il gusto della sapienza e della benedizione sacerdotale: cantando così e profetando così, sta realizzando in pienezza il suo ministero sacerdotale.

La prima strofa ci presentava il profeta come colui che trascina dietro a sé un popolo di peccatori, perché la remissione dei peccati è già realizzata e nessuno può tenersi in disparte, tenersi indietro, rifiutare l’incontro. E adesso dice: per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre. Espressione interessante. In greco dice: dia splankna eleous, la traduzione in latino alla lettera diceva: per viscera misericordiae, attraverso viscere di misericordia. Per cui egli verrà a visitarci dall’alto come un sole che sorge. Attenzione a questo “dall’alto”: è dall’alto, ma anche dal profondo, dal di fuori, ma anche dal di dentro. Che vuol dire dall’alto? Da destra, da sinistra? Dal passato, e dall’avvenire, viene a visitarci, come sole che sorge. Perché? Perché il profeta sta spiegando al popolo che il cammino nel quale siamo impegnati è l’attraversamento di un grembo, il grembo della misericordia di Dio. Non è soltanto un incontro che si prospetta dinanzi a noi peccatori che possiamo farci avanti perché c’è colui che viene e che ci ha rimessi i peccati.

Noi ci guardiamo attorno, guardiamo al passato e guardiamo all’avvenire, guardiamo fuori e guardiamo dentro di noi, guardiamo ai lontani e guardiamo ai vicini, guardiamo a quelli che fanno parte di noi, guardiamo a noi stessi e in tutte le direzioni, dovunque guardiamo il nostro sguardo, comunque ci muoviamo, in qualunque direzione ci smarriamo e precipitiamo, noi cadiamo nel grembo della misericordia. Noi stiamo attraversando il grembo. Anzi, se abbiamo l’impressione di essere ancora la buio è perché non siamo ancora nati; se urtiamo contro una barriera, è la parete del grembo; e se stiamo inciampando, è perché stiamo ruzzolando come il piccolo Giovanni nel grembo di sua madre. E la madre non ha alcun dubbio: quel razzolamento del bambino nel suo grembo è espressione di una gioia profetica.

Noi stiamo attraversando le viscere della misericordia, ci stiamo dentro: terreno sotto i miei piedi, soffitto sopra di me. Il cielo, l’abisso più profondo. Da dove venga e dove va, fuori e dentro, noi stiamo percorrendo l’itinerario della creatura che viene alla luce e il grembo che già ci avvolge, ci contiene, che già ci fa vivere e che già preme su di noi per farci nascere, è il grembo della misericordia, il mistero del Dio vivente. Così verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre. In questo sta il significato della uscita dalle tenebre, dall’ombra della morte per dirigere i nostri passi sulla via della pace. E’ la luce del giorno che sorge per non tramontare mai più ed è quella luce che sorge per spiegarci come le tenebre erano già in modo straordinariamente fecondo e pacificante rivelazione della misericordia eterna del Dio vivente.

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Santuario della Visitazione

Sul muro posto di fronte a questa facciata sono esposte due versioni del Magnificat

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in lingua ebraica

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e in lingua italiana

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Monastero francescano di S. Giovanni Battista.
Sul muro posto di fronte a questa facciata sono collocate le versioni
nelle varie lingue del Cantico di Zaccaria, il Benedictus (Luca 1,57-80).

IMMAGINI di Claudio Elidoro

http://digilander.libero.it/elidoro/terrasanta/ainkarem_2.html

E’ autorizzato il libero uso di queste immagini per fini non commerciali.
Nel caso di utilizzo è comunque gradita la segnalazione della provenienza.

CARTA 08 PER I DIRITTI UMANI IN CINA

Posted on Gennaio 27th, 2009 di Angelo |

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CARTA 08

PER I DIRITTI UMANI IN CINA


TESTO INTEGRALE

Riportiamo il documento temuto dal governo cinese e censurato, perché chiede maggiore democrazia e rispetto dei diritti. Cosa fare per aderire.

Pechino (AsiaNews) – Per celebrare i 60 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, 303 cittadini cinesi (intellettuali, imprenditori, contadini, semplici cittadini) hanno sottoscritto il documento “Carta 08”, che chiede al governo maggiore democrazia e rispetto di tutti i diritti umani. “Carta 08” si richiama a “Carta ‘77”, il documento firmato da intellettuali e attivisti cechi e slovacchi nel 1977, che premeva sul governo est-europeo per il rispetto dei diritti umani.

A distanza di un mese e mezzo nel Paese proseguono le adesioni al documento, ma anche censura, persecuzioni e arresti contro autori e firmatari.

Uno dei firmatari più in vista, l’intellettuale Liu Xiaobo è stato arrestato dalla polizia lo scorso 8 dicembre e continua ad essere detenuto in un luogo sconosciuto, in violazione alle stesse leggi cinesi (nella foto: Bao Tong, firmatario della Carta).

Per aderire, si può scrivere un messaggio all’indirizzo:

2008xianzhang2008@gmail.com.

Traduzione italiana a cura di AsiaNews.

I. Introduzione

Sono passati 100 anni dalla stesura della prima Costituzione cinese. Il 2008 segna anche i 60 anni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, i 30 anni dall’apparizione del Muro della democrazia a Pechino, i 10 anni dalla firma, da parte della Cina, della Convenzione internazionale dei diritti civili e politici. Ci avviciniamo anche ai 20 anni dal massacro  di Tiananmen del 1989 contro le proteste degli studenti pro-democrazia. In questi stessi anni, il popolo cinese ha sopportato disastri nel campo dei diritti umani e innumerevoli lotte; ora molti di essi vedono con chiarezza che la libertà, l’uguaglianza e i diritti umani sono valori universali di tutta l’umanità e che democrazia e governo costituzionale costituiscono l’ossatura per proteggere questi valori.

Allontanandosi da questi valori, il governo cinese ha compiuto un approccio alla “modernizzazione” che si è rivelato disastroso. Esso ha privato la gente dei loro diritti, distrutto la loro dignità, corrotto le normali relazioni umane. Per questo ci domandiamo: Dove va la Cina in questo 21° secolo? Vorrà continuare la “modernizzazione” dominata da un governo autoritario o abbraccerà i valori umani universali, si unirà alla corrente delle nazioni civilizzate, edificando un sistema democratico? Si tratta di una scelta fondamentale, che non può più essere rinviata.

L’impatto con l’occidente nel 19° secolo ha prodotto uno shock che ha portato alla caduta di un sistema autoritario decadente, segnando per la Cina l’inizio di quella che spesso si definisce “il più grande cambiamento in migliaia di anni”. È seguito un movimento di “auto-rafforzamento”, che però ha avuto come scopo solo l’appropriarsi della tecnologia per costruire cannoniere e altri oggetti materiali occidentali. L’umiliante sconfitta navale per mano dei giapponesi nel 1895 ha confermato l’anacronismo del nostro sistema politico. I primi tentativi di trasformazioni politiche in senso moderno sono avvenute nella tragica estate del 1898, duramente schiacciate  dagli ultraconservatori della corte imperiale.

Con la Rivoluzione del 1911 che ha inaugurato la prima Repubblica in Asia, si è creduto di aver messo nella tomba il sistema autoritario imperiale  che era durato per secoli. Ma, conflitti sociali all’interno e pressioni dall’esterno hanno fatto sì che esso durasse ancora; la Cina è caduta in un mosaico di piccoli regni dei signori della guerra e la nuova repubblica è divenuta un sogno sfuggente.

Il fallimento del processo di “auto-rafforzamento” e delle trasformazioni politiche ha spinto molti nostri concittadini a domandarsi se la nostra nazione non fosse afflitta da un “malessere culturale”.

Questo sentire, intorno al 1910, ha portato al Movimento del Quattro Maggio, che ha fatto della “scienza e democrazia” il suo vessillo.

Ma anche questi sforzi si sono dissolti davanti al persistere del caos dei signori della guerra e la crisi nazionale causata dall’invasione giapponese [cominciata in Manciuria nel 1931].

La vittoria su Giappone nel 1945 ha dato una nuova possibilità ala Cina di fare un passo verso un governo moderno, ma la sconfitta dei Nazionalisti nella guerra civile contro i Comunisti, ha gettato la nazione nell’abisso del totalitarismo. La “nuova Cina”, nata nel 1949 [anno di fondazione, da parte di Mao Zedong, della Repubblica popolare cinese - ndt] proclama che “il popolo è sovrano” ma nei fatti ha edificato un sistema in cui “il Partito ha tutti i poteri”.

Il Partito comunista cinese ha preso il controllo di tutti gli organi dello Stato e di tutte le risorse politiche, economiche, sociali e usandole ha prodotto una lunga scia di disastri verso i diritti umani, compresi – fra l’altro – la Campagna contro la destra (1957), il Grande balzo in avanti (1958-1960), la Rivoluzione culturale (1966-1969), il massacro del 4 giugno a piazza Tiananmen (1989). Tutto ciò, insieme agli attacchi ancora oggi in atto contro le religioni non autorizzate e la soppressione dei movimenti che difendono i diritti umani [un movimento che vuole difendere i diritti dei cittadini  promulgati dalla Costituzione cinese e combattere per i diritti umani riconosciuti dalle convenzioni internazionali e che la Cina ha sottoscritto]. In tutto questo periodo il popolo cinese ha pagato un prezzo esorbitante. Decine di milioni di persone hanno perso la loro vita e diverse generazioni hanno visto azzoppata in modo crudele la loro libertà, felicità e dignità umana.

Negli ultimi due decenni del 20° secolo, la politica governativa della “Riforma ed apertura” ha dato al popolo cinese un po’ di sollievo dalla diffusa povertà e dal totalitarismo di Mao Zedong, portando un incremento sostanziale nella ricchezza e nel livello di vita di molti cinesi, come anche ad un parziale recupero della libertà economica e dei diritti economici. É cominciata a crescere una società civile e la richiesta da parte del popolo di più diritti e più libertà politica. Anche l’elite al governo, muovendosi verso la proprietà privata e l’economia di mercato, ha cominciato a muoversi da un rifiuto totale dei “diritti” a un loro parziale riconoscimento.

Nel 1998, il governo cinese ha firmato due importanti convenzioni internazionali sui diritti umani; nel 2004, ha emendato la Costituzione per includere la frase “il rispetto e la salvaguardia dei diritti umani”. E quest’anno, il 2008, il governo ha promesso di promuovere un “Piano d’azione nazionale per i diritti umani”. Purtroppo, tutti questi progressi politici non vanno al di là della carta su cui sono scritti. La realtà politica evidente a tutti, è che la Cina ha molte leggi, ma nessuno sttao di diritto; ha una costituzione, ma non un governo costituzionale. L’elite dominante continua a rimanere aggrappato al suo potere autoritario combattendo ogni mossa verso un cambiamento politico.

I folli risultati sono una endemica corruzione dei quadri, un minare lo Stato di diritto, mancanza di tutela dei diritti della popolazione, perdita di etica, capitalismo grossolano, polarizzazione della società fra ricchi e poveri, sfruttamento e abuso dell’ambiente naturale, dell’ambiente umano e storico, un acutizzarsi di una lunga lista di conflitti sociali, in particolare  un indurimento dell’animosità fra rappresentanti ufficiali e gente ordinaria.

Mentre questi conflitti e crisi crescono di intensità, mentre l’elite al potere continua imperterrita a distruggere e privare i cittadini del loro diritto alla libertà, proprietà, alla ricerca della felicità, noi vediamo i senza-potere della nostra società – i gruppi vulnerabili, gente che viene schiacciata e controllata, coloro che soffrono crudeltà e perfino torture, che non hanno spazio adeguato per far sentire la loro protesta, né tribunali che ascoltino le loro richieste – divenire sempre più decisi, accrescendo la possibilità di un violento conflitto sociale dalle proporzioni disastrose. Il declino del sistema attuale è giunto a un punto in cui il cambiamento non è più opzionale.

II. I nostri principi fondamentali

Questo è un momento storico per la Cina e da esso dipende il nostro futuro. Rivedendo il processo di modernizzazione politica negli ultimi 100 anni e più, noi riaffermiamo e sottoscriviamo i seguenti valori universali fondamentali:

Libertà. Essa è il fulcro dei valori umani universali. Libertà di parola, di stampa, di credo, di raduno, di associazionismo, di movimento, come anche la libertà di sciopero, di dimostrare e protestare, sono le forme in cui essa si esprime. Senza libertà, la Cina rimarrà sempre lontana dagli ideali della civiltà.

Diritti umani. Essi non sono concessi benevolmente dallo Stato. Ogni persona nasce con specifici diritti alla dignità e alla libertà. Il governo esiste per la protezione dei diritti umani dei suoi cittadini. L’esercizio del potere dello Stato deve essere autorizzato dal popolo. La serie di disastri politici nella storia recente della Cina è una conseguenza diretta del disprezzo da parte del regime verso i diritti umani.

Uguaglianza. L’integrità, dignità, libertà di ogni persona – senza guardare al livello sociale, l’occupazione, il sesso, le condizioni economiche, l’etnia, il colore della pelle, la religione o il credo politico – sono uguali per tutti. Bisogna sostenere i principi di uguaglianza di fronte alla legge e nei diritti sociali, economici, culturali, civili e politici.

Repubblica. La forma repubblicana sostiene che il potere deve essere bilanciato fra rami differenti del governo e deve [comporre e] servire i diversi interessi. Esso ricorda l’ideale politico della tradizione cinese  della “bellezza di tutti sotto il cielo”. Permette a differenti interessi di gruppo e assemblee sociali, persone di varie culture e credo, di esercitare un auto-governo democratico e decidere in modo da raggiungere soluzioni pacifiche a problemi del pubblico, sulla base di un uguale accesso al governo e a una libera e onesta competizione.

Democrazia. Il principio fondamentale della democrazia è che il popolo è sovrano e che il popolo sceglie il suo governo. La democrazia ha queste caratteristiche: 1) il potere politico comincia con il popolo e la legittimità di un regime deriva dal popolo. (2) Il potere politico va esercitato attraverso scelte fatte dal popolo. (3) Le cariche nei posti più importanti a tutti i livelli del governo sono determinate attraverso libere e competitive elezioni periodiche. (4) Onorando il volere della maggioranza, si deve anche proteggere la dignità fondamentale, la libertà e i diritti umani delle minoranze. In breve, la democrazia è il mezzo moderno per giungere a un governo che sia davvero “del popolo, dal popolo, per il popolo”.

Regole costituzionali. Esse sono il modo in cui i principi espressi nella costituzione vengono attuati attraverso un sistema legale e delle regole legali. Significa proteggere la libertà e i diritti dei cittadini, limitare e definire gli scopi del potere di un governo legittimo, provvedere che vi sia un apparato amministrativo che serva questi fini.

III. Che cosa difendiamo

C’è un generale declino dei sistemi autoritari in tutto il mondo. Anche in Cina l’era degli imperatori e dei feudatari sta andando verso la fine. In ogni luogo è tempo ormai per tutti i cittadini di divenire padroni dei loro Stati. La pista che conduce fuori dell’impasse attuale in cui versa la Cina  è quella che porta al distacco dalla nozione autoritaria di confidare in un “illuminata supervisione” o in un “onesto burocrate”, seguendo invece un sistema di libertà, democrazia, stato di diritto, verso la crescita della coscienza di moderni cittadini che vedono i diritti come fondamentali e la partecipazione come un dovere. Proprio per questo e in uno spirito di dovere, responsabilità, costruttività di cittadini, offriamo le seguenti raccomandazioni su [come attuare - ndt] un governo nazionale, i diritti dei cittadini, lo sviluppo sociale.

1. Una Nuova Costituzione. Dobbiamo riformulare la nostra attuale costituzione, eliminando quegli aspetti che non sono in conformità con il principio secondo cui la sovranità è del popolo, trasformandolo in un documento che davvero garantisce i diritti umani, autorizza l’esercizio del potere pubblico, serve come sostegno legale alla democratizzazione della Cina. La Costituzione deve essere la legge suprema del Paese, inviolabile da parte di individui, gruppi o partiti.

2. Separazione dei poteri. Dobbiamo costruire un governo moderno, in cui sia garantita la separazione fra potere esecutivo, giudiziario e amministrativo. Abbiamo bisogno di una legge amministrativa che definisca l’ampiezza della responsabilità del governo, prevenendo abusi di potere. Il governo deve rispondere a chi paga le tasse. La divisione di potere fra governi provinciali e centrale deve sottostare al principio per cui i poteri del governo centrale sono solo quelli stabiliti dalla costituzione, mentre tutti gli altri poteri appartengono ai governi locali.

3. Democrazia legislativa. I membri dei corpi legislativi devono essere tutti scelti attraverso elezioni dirette, e una democrazia legislativa dovrebbe osservare norme giuste e imparziali.

4. Indipendenza del potere giudiziario. La legge deve essere al di sopra degli interessi di ogni specifico partito politico e i giudici devono essere indipendenti. È necessario stabilire una Corte suprema costituzionale e varare procedure per le revisioni della costituzione. Al più presto vanno aboliti tutti quei Comitati per  gli affari politici e legali che a tutt’oggi permettono ai membri del Partito comunista di ogni livello di decidere in anticipo e fuori delle corti su casi politicamente sensibili. Dobbiamo proibire con forza l’uso di cariche pubbliche per scopi privati.

5. Pubblico controllo del servizio pubblico. L’esercito deve rispondere al governo nazionale, non a un partito politico e dovrebbe essere reso molto più professionale. Il personale militare deve giurare sulla Costituzione e rimanere neutrale. Organizzazioni politiche e partitiche devono essere proibite fra i militari. Tutti i rappresentanti pubblici, compresa la polizia,  devono servire in modo neutrale, senza schierarsi. Deve finire la pratica attuale di favorire un partito politico nelle assunzioni per un servizio pubblico.

6. Garantire i diritti umani. Si devono garantire in modo preciso i diritti umani e il rispetto per la dignità umana. Si deve creare un Comitato per i diritti umani, capace di vigilanza fino ai corpi legislativi più al vertice, capace di bloccare possibili abusi di potere da parte del governo che violino i diritti umani. Una Cina democratica e costituzionale deve garantire in modo speciale la libertà personale dei cittadini. Nessuno deve subire arresti illegali, detenzione, accuse, interrogatori, punizioni. Il sistema della “rieducazione attraverso il lavoro” deve essere abolito.

7. Elezione dei pubblici ufficiali. Ci deve essere un sistema completo per elezioni democratiche basate su “una persona, un voto”. Va attuato in modo sistematica l’elezione diretta dei responsabili amministrativi a livello di contea, città, provincia e nazione. Il diritto a tenere elezioni libere e periodiche e a parteciparvi è un diritto inalienabile per ogni cittadino.

8. Uguaglianza fra città e campagne. Almeno i due terzi del sistema attuale di registrazione [residenza obbligatoria – ndt] deve essere abolito. Esso favorisce i residenti delle città e colpisce quelli che risiedono nelle campagne. Dobbiamo invece stabilire un sistema che dà ad ogni cittadino gli stessi diritti costituzionali e la stessa libertà nello scegliere dove vivere.

9. Libertà di formare gruppi. Deve essere garantito il diritto dei cittadini a formare gruppi. L’attuale sistema di registrazione per gruppi non governativi, che richiede “l’approvazione” [previa] di un gruppo, va sostituita con un sistema in cui un gruppo registra se stesso in modo diretto e semplice. La costituzione e la legge deve governare la formazione di partiti politici; ciò significa che dobbiamo abolire il privilegio speciale di un partito che monopolizza il potere e dobbiamo garantire principi per una competizione libera e obbiettiva fra i partiti politici.

10. Libertà di raduno. La Costituzione difende  assemblee pacifiche, dimostrazioni, proteste e libertà di espressione quali diritti fondamentali del cittadino. Non si deve permettere al partito al governo e il governo stesso di interferire in modo illegale o non costituzionale contro di essi.

11. Libertà di espressione. Dobbiamo rendere universale il diritto di parola, di stampa e di libertà accademica, garantendo che i cittadini siano informati e messi nella possibilità di esercitare il loro diritto di supervisione. Queste libertà vanno sostenute con una legge sulla stampa che abolisca le restrizioni politiche su di essa. L’articolo dell’attuale codice criminale che parla di “crimine di incitamento alla sovversione del potere statale” deve essere abolito. Dobbiamo finirla col guardare alle parole come dei crimini.

12. Libertà di religione. Dobbiamo garantire la libertà di religione e di credo, istituendo la separazione fra religione e Stato. Non vi devono essere interferenze del governo nelle attività religiose pacifiche. Dobbiamo abolire ogni legge, regolamento, regola locale che limiti o sopprima la libertà religiosa dei cittadini. Dobbiamo abolire il sistema attuale che richiede ai gruppi religiosi (e ai loro luoghi di culto) di ottenere l’approvazione ufficiale in anticipo, sostituendolo con un sistema in cui la registrazione è facoltativa e, per quelli che la scelgono, automatica.

13. Educazione civica. Nelle nostre scuole dobbiamo eliminare l’educazione politica e gli esami che mirano ad indottrinare gli studenti nell’ideologia di Stato, instillando il sostegno verso il governo di un partito. Dobbiamo sostituirla con l’educazione civica che promuova valori universali e diritti dei cittadini, faccia crescere la coscienza civica e promuova le virtù civiche che servono la società.

14. Protezione della proprietà privata. Dobbiamo attuare e proteggere il diritto alla proprietà privata e promuovere un sistema economico di mercato libero e onesto. Dobbiamo abbandonare i monopoli governativi nel commercio e nell’industria e garantire la libertà di fondare nuove imprese. Dobbiamo varare un Comitato sulla proprietà dello Stato, che faccia rapporto al parlamento nazionale, che verifiche il trasferimento di imprese statali a proprietà di privati, in una maniera neutra, competitiva e ordinata. Dobbiamo varare una riforma fondiaria che promuova la proprietà privata della terra, garantisca il diritto di comprare e vendere la terra, e permetta alla proprietà privata di essere valutata in modo vero nel mercato.

15. Riforma finanziaria  e delle tasse. Dobbiamo stabilire un sistema della finanza pubblica che sia regolato in modo democratico e verificabile, e che assicuri la protezione dei diritti di chi paga le tasse, e che operi secondo procedure legali. Abbiamo bisogno di un sistema per cui le entrate pubbliche ad un certo livello – centrale, provinciale, di contea, o locale – siano controllate allo stesso livello. Abbiamo bisogno di una grande riforma del sistema delle tasse che abolisca ogni tassa ingiusta, semplifichi il sistema, distribuisca il peso delle imposte in modo equilibrato. Ai membri del governo è vietato l’aumento delle tasse, o l’istituzione di nuove, senza decisione pubblica e l’approvazione di una assemblea democratica. Dobbiamo riformare anche il sistema di proprietà per incoraggiare la competizione fra un più vasto numero di partecipanti al mercato.

16. Sicurezza sociale. Dobbiamo costruire un sistema di sicurezza sociale che copra tutti i cittadini, e assicuri loro un accesso fondamentale a istruzione, sanità, pensione e impiego.

17. Proteggere l’ambiente. Abbiamo bisogno di proteggere l’ambiente naturale e promuovere uno sviluppo che sia sostenibile e responsabile verso i nostri discendenti e verso il resto dell’umanità.  Ciò significa che lo Stato e suoi rappresentanti a tutti i livelli devono non solo fare quello che è giusto per giungere a questi scopi, ma accettare anche la supervisione e la partecipazione di organizzazioni non governative.

18. Una repubblica federale. Una Cina democratica deve cercare di agire come una massima potenza responsabile, che contribuisca alla pace e allo sviluppo della regione Asia-Pacifico avvicinandosi agli altri in uno spirito di uguaglianza e onestà. Per Hong Kong e Macao dobbiamo sostenere le libertà che là esistono di già. Riguardo a Taiwan, dobbiamo anzitutto dichiarare il nostro impegno verso i principi di libertà e di democrazia, e quindi cercare una formula di riunificazione pacifica, negoziando fra uguali, ed essendo pronti al compromesso. Dobbiamo anche affrontare dispute nelle aeree delle minoranze in Cina con una mente aperta, cercando vie per trovare uno schema in cui tutte i gruppi etnici e religiosi possano fiorire. Dovremmo tendere allo scopo di una federazione di comunità democratiche della Cina.

19. Verità nella riconciliazione. Dobbiamo riabilitare la reputazione di tutte le persone – comprese le loro famiglie – che hanno sofferto di ostracismo e umiliazione nelle campagne politiche del passato o sono stati bollati come criminali a causa del loro pensiero, parole, o fede. Lo Stato dovrebbe pagare un risarcimento a queste persone. Tutti i prigionieri politici e di coscienza devono essere liberati. Ci deve essere una Commissione per la ricerca della verità incaricata di trovare prove fattuali delle ingiustizie e atrocità del passato, determinando le responsabilità , garantendo giustizia e su queste basi, ricercando anche la riconciliazione sociale.

La Cina è una delle più grandi nazioni del mondo, uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e membro del Consiglio per i diritti umani. Alla luce di questo,  essa deve contribuire alla pace per l’umanità e al progresso dei diritti umani. Purtroppo, a tutt’oggi siamo la sola nazione fra le più grandi che rimane tuttora impantanata in una politica autoritaria. Il nostro sistema politico continua a produrre disastri sui diritti umani e crisi sociali, soffocando lo sviluppo del Paese e limitando anche il progresso di tutta la civilizzazione umana. Tutto ciò deve cambiare. Davvero deve cambiare. La democrazia della politica cinese non può più essere rimandata a dopo.

Per questo motivo noi, spinti da senso civico, annunciamo [la nascita di] Carta ’08. Speriamo che tutti i cittadini cinesi che condividono con noi questo senso di crisi – ma anche di responsabilità e missione – mettano da parte ogni piccola differenza e abbraccino il vasto compito  di questo movimento di cittadini. Siano essi persone del governo o semplici cittadini, di qualunque livello sociale, vogliamo lavorare insieme per produrre una grande trasformazione della società  cinese, e il rapido stabilirsi di una nazione libera, democratica e costituzionale. Possiamo davvero rendere reali gli scopi e gli ideali che il nostro popolo ha sempre cercato in modo instancabile per oltre 100 anni, contribuendo a un nuovo splendente capitolo della civiltà cinese.

THOMAS SANKARA: “Terra degli uomini liberi e integri”

Posted on Gennaio 27th, 2009 di Angelo |

Thomas Sankara:

in Burkina Faso, ha sognato e costruito la  terra degli uomini liberi e integri

Sankara Thomas“Vogliamo essere gli eredi di tutte le rivoluzioni del mondo  e di tutte le lotte di liberazione dei popoli del Terzo Mondo”

AFRICA

Sankara e il sogno africano

La storia di un’esperienza rivoluzionaria in uno dei Paesi più poveri dell’Africa: il Burkina Faso. Una rivoluzione senz’armi fatta di coraggio e speranza, imboccando una via autonoma di sviluppo osteggiata sistematicamente
da Banca Mondiale e FMI.

Presidente per quattro anni del Burkina Faso, alla ricerca del riscatto per un intero continente.

Un ricordo di Thomas Sankara.

Carlo Batà

“L’Africa agli africani!”, urlava a un mondo sordo Thomas Sankara alla metà degli anni Ottanta. La guerra fredda era agli sgoccioli, le speranze sorte dopo l’affrancamento dal dominio coloniale – il 1960 era stato dipinto come l’anno dell’Africa tra proclami e belle parole – erano state ormai strozzate da decenni di sfruttamento economico, disarticolazione sociale e inerzia politica. Le multinazionali invadevano le ricche terre d’Africa, mentre gli Stati del Nord del mondo imponevano condizioni commerciali che impedivano lo sviluppo dei Paesi africani, schiacciati tra debito estero e calamità naturali.

Il 4 agosto 1983, in Alto Volta, iniziava l’esperienza rivoluzionaria di Thomas Sankara, capitano dell’esercito voltaico giunto al potere con un colpo di stato incruento e senza spargimento di sangue. Il Paese, ex colonia francese, abbandonò subito il nome coloniale e divenne Burkina Faso, che in due lingue locali, il moré e il dioula, significa “Paese degli uomini integri”. Ed è dall’integrità morale che Sankara partì per tagliare i ponti con un triste passato e con deprimente presente. Pochi dati illustrano quanto grave fosse la situazione: tasso di mortalità infantile del 187 per mille (ogni cinque bambini nati, uno non arrivava a compiere un anno), tasso di alfabetizzazione al 2%, speranza di vita di soli 44 anni, un medico ogni 50.000 abitanti.

“Non possiamo essere la classe dirigente ricca in un Paese povero”, era solito ripetere Sankara, che visse un’infanzia di miseria (“Quante volte i miei fratelli e io abbiamo cercato qualcosa da mangiare nelle pattumiere dell’Hotel Indépendance”) e povero, come gli altri burkinabè, è sempre rimasto. Le auto blu destinate agli alti funzionari statali, dotate di ogni comfort, vennero sostituite con utilitarie, ai lavori pubblici erano tenuti a partecipare anche i ministri.

Sankara stesso viveva in una casa di Ouagadougou, la capitale del Paese, che per nulla si differenziava dalle altre; nella sua dichiarazione dei redditi del 1987 i beni da lui posseduti risultavano essere

  • una vecchia Renault 5,

  • libri,

  • una moto,

  • quattro biciclette,

  • due chitarre,

  • mobili

  • e un bilocale con il mutuo ancora da pagare.

“È inammissibile”, sosteneva, “che ci siano uomini proprietari di quindici ville, quando a cinque chilometri da Ouagadougou la gente non ha i soldi nemmeno per una confezione di nivachina contro la malaria”.

Negli stessi anni i suoi omologhi si trinceravano in lussuose ville o agli ultimi piani dei migliori hotel, lontani anni luce dai bisogni quotidiani della popolazione. Per esempio il presidente della Costa d’Avorio, Felix HouphouëtBoigny, aveva fatto costruire in pieno deserto una pista di pattinaggio su ghiaccio per i propri figli. Quando alcuni capi di Stato si offrirono per donare a Sankara un aereo presidenziale, la risposta fu che era meglio fare arrivare in Burkina Faso macchinari agricoli. E la terra burkinabè non è mai stata particolarmente fertile, inaridita dall’Harmattan, il vento secco proveniente dal deserto del Sahara che lambisce i confini settentrionali del Paese.

Per ridare impulso all’economia si decise di contare sulle proprie forze, di vive re all’africana, senza farsi abbagliare dalle imposizioni culturali provenienti dall’Europa: “Non c’è salvezza per il nostro popolo se non voltiamo completamente le spalle a tutti i modelli che ciarlatani di tutti i tipi hanno cercato di venderci per anni”. “Consumiamo burkinabè”, si leggeva sui muri di Ouagadougou, mentre per favorire l’industria tessile nazionale i ministri erano tenuti a vestire il faso dan fani, l’abito di cotone tradizionale, proprio come Gandhi aveva fatto in India con il khadi.

Le magre risorse vennero impiegate per mandare a scuola i bambini e le bambine – nel 1983 la frequenza scolastica era attorno al 15% – e per fornire cure mediche ai malati, organizzando campagne di alfabetizzazione e di vaccinazione capillare contro le infermità più diffuse come la febbre gialla, il colera e il morbillo. L’obiettivo era di fornire 10 litri di acqua e due pasti al giorno a ogni burkinabè, impedendo che l’acqua finisse nelle avide mani delle multinazionali francesi o statunitensi e cercando finanziamenti che fossero funzionali allo sviluppo idrogeologico del Paese, non al profitto di pochi uomini d’affari.

Il Burkina Faso divenne un esempio per le altre nazioni, governate da élite corrotte e supine ai dettami provenienti dagli istituti economici internazionali. Se un piccolo Paese, condannato anche dalla geografia (il deserto avanzava verso sud di sette chilometri all’anno mangiandosi campi coltivati; esiste un solo corso fluviale e non c’è alcuno sbocco sul mare) riusciva a levare il proprio grido di dolore e di insofferenza e a dimostrare che i problemi che affliggevano l’Africa si potevano risolvere, cosa avrebbero potuto fare Paesi con immense risorse naturali? Il 15 ottobre 1987 Sankara, che a dicembre avrebbe compiuto 38 anni, veniva ucciso: troppo scomodo, troppo generoso, troppo attento alle esigenze della povera gente. Quando i giovani africani cominciarono a chiedere ai propri governanti di seguire l’esempio di Sankara, il complotto prese forma e coinvolse chi, in Burkina Faso, in Africa e in Europa, non poteva tollerare la sua indisciplina e la sua semplicità.

In quattro anni Sankara aveva invitato i Paesi africani a non pagare il debito estero per concentrare gli sforzi su una politica economica che colmasse il ritardo imposto da decenni di dominazione coloniale. Dominazione che era anche culturale: “Per l’imperialismo”, affermava, “è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità”.

Ecco così spiegato l’impulso dato al Festival Panafricaine du Cinéma de Ouagadougou (Fespaco), la più importante rassegna continentale, con il fine di sviluppare la cinematografia locale a scapito di quella europea, uno dei tanti strumenti per legittimare la superiorità dei “bianchi” e l’inferiorità degli Africani. Nel 1986, durante i lavori della 25esima sessione dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) tenutasi a Addis Abeba, Sankara espresse in modo molto semplice perché il pagamento del debito doveva essere rifiutato: “Noi siamo estranei alla creazione di questo debito e dunque non dobbiamo pagarlo. […] Il debito nella sua forma attuale è una riconquista coloniale organizzata con perizia. […] Se noi non paghiamo, i prestatori di capitali non moriranno, ne siamo sicuri; se invece paghiamo, saremo noi a morire, possiamo esserne altrettanto certi”.

Sempre a Addis Abeba, Sankara invocò il disarmo, proponendo ai Paesi africani di smettere di acquistare armi e di dissanguarsi in dispute fomentate dall’estero per protrarre l’arretratezza e la dipendenza del continente. L’invito era di adottare misure a favore dell’occupazione, della tutela ambientale, della pace tra i popoli, della salute. A New York, qualche mese prima, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Sankara aveva tuonato contro l’ipocrisia di chi fornisce aiuti ai Paesi in via di sviluppo (mentre per altre vie si inviano armi) e contro l’egoismo di chi, per esempio, si rifiuta di investire nella ricerca contro la malaria – che in Africa provoca ogni anno milioni di morti – solo perché è una malattia che non riguarda i Paesi del nord del mondo. “Ci sentiamo una persona sola con il malato che ansiosamente scruta l’orizzonte di una scienza monopolizzata dai mercanti di armi. […] Quanto l’umanità spreca in spese per gli armamenti a scapito della pace!”.

Sankara espresse la convinzione che per eliminare i lasciti coloniali fosse indispensabile avviare un processo di unione di tutti gli Stati (dal Maghreb al Capo di Buona Speranza) del continente, che doveva diventare un’entità politica coesa e rispettata sul piano internazionale: “Mentre moriamo di fame e nel nostro Paese ci sono migliaia di disoccupati, altrove non si riescono a sfruttare le risorse della terra per mancanza di manodopera. Se ci fosse maggiore cooperazione, potremmo arrivare all’autosufficienza alimentare e non dovremmo più dipendere dagli aiuti internazionali”.

Primo passo era la fine dell’apartheid in Sudafrica, dove la minoranza “bianca” godeva in realtà del sostegno economico dei Paesi occidentali. Sankara ebbe parole di rimprovero per tutti, a partire da François Mitterrand: “Che senso ha organizzare marce contro l’apartheid, mentre si producono e si vendono armi al Sudafrica?”.
Forse non è un caso che Sankara venne ucciso quattro giorni dopo che a Ouagadougou si era tenuta una Conferenza panafricana contro l’apartheid. Il “Président du Faso”, come viene ancora oggi ricordato dai burkinabè, si è sacrificato dimostrando che è possibile rispondere, all’africana, ai problemi dell’Africa, con chiarezza e talvolta ingenuità, come quando chiese che “almeno l’1% delle somme colossali destinate alla ricerca spaziale sia destinato a progetti per salvare la vita umana”.

Dinanzi alle Nazioni Unite Sankara liberò davanti al mondo intero, ponderando con attenzione ogni singola parola, il grido di dolore di miliardi di esseri umani che soffrono sotto un sistema crudele e ingiusto: “Parlo in nome delle madri che nei nostri Paesi impoveriti vedono i propri figli morire di malaria o di diarrea, senza sapere dei semplici mezzi che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo investire nei laboratori cosmetici o nella chirurgia plastica a beneficio del capriccio di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi di assunzione calorica nei loro pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel”.

Note:

[[Img3079]]Carlo Batà
L’ Africa di Thomas Sankara
Edizioni ACHAB
Verona 2003, pagg. 157

thomas_sankaraQuella che mi accingo a raccontarvi è, prima di tutto, la storia di un uomo, ma è anche la storia di un sogno. Il sogno di una nazione libera, di un popolo libero, ma libero davvero e non solo sulla carta. Un popolo che ha fame e sete non sarà mai un popolo libero!” diceva Sankara per esemplificare il concetto.

Premetto, inoltre, che questa sarà una trattazione di parte. Non tenterò di essere distaccato e fintamente obiettivo. Thomas Sankara mi ha affascinato sin dal primo momento che ho sentito parlare di lui. Sappiate che le parole che seguono sono mediate da questa ammirazione per l’uomo, il politico e la sua storia. Le parti evidenziate in grassetto sono citazioni tratte da discorsi o interviste di Sankara. Spero che la lettura di queste righe vi stimoli la voglia di approfondire la conoscenza di quest’uomo. A questo scopo alle fine dello scritto troverete qualche suggerimento.

La storia di Thomas Sankara potrebbe essere liquidata in modo superficiale con poche, vaghe parole: “Nel 1983 in Burkina Faso Thomas Sankara, un giovane capitano dell’esercito, sale al potere dopo l’ennesimo di una lunga serie di colpi di stato. Vi rimarrà sino al 1987, anno del suo assassinio da parte di alcuni suoi compagni di governo”.

Parole queste che, pur contenendo qualche grossolana imprecisione, risultano pressoché corrette, ma che non bastano a restituirci la storia di un testimone così importante per l’Africa contemporanea.

Il percorso umano ed ideale di Thomas Sankara è complesso e sfaccettato come lo è quello di ciascun essere umano; mentre quello politico è, a mio parere, di difficile comprensione per chiunque cerchi di interpretarlo attraverso strumenti culturali tipicamente europei.

Vale la pena sottolinearlo: il pensiero politico-culturale europeo non è l’unico esistente al mondo e non è detto che sia applicabile per la comprensione di ogni accadimento mondiale.

Vale dunque la pena leggere in maniera più approfondita le parole sopra scritte. Si incomincia con la seguente macroscopica imprecisione: “Nel 1983 in Burkina Faso…” Se, nel 1983, avessimo aperto un qualsiasi atlante geografico non vi avremmo trovato traccia del Burkina Faso. Nessun errore: il Burkina Faso, nel 1983, non esisteva! Avreste trovato, sopra la Costa d’Avorio, lo stesso territorio ma un’altro nome: Alto Volta, un’ex-colonia francese indipendente dal 1960, il cui nome coloniale rimanda all’alto corso del fiume Volta.

Il 4 agosto 1984 Sankara, ed il governo da lui presieduto, ribattezzeranno il Paese Burkina Faso, nome che, nell’intreccio delle due lingue più parlate del Paese, potremmo tradurre come Paese degli uomini integri (nel senso morale del termine).

“…dopo l’ennesimo di una lunga serie di colpi di stato…”

Come già scritto l’Alto Volta raggiunge l’indipendenza dalla Francia nel 1960 (il 5 agosto). Ne diviene primo presidente Maurice Yaméogo, il leader dell’Unione Democratica Voltaica. Rimarrà alla guida del Paese per poco più di cinque anni. Nei primi giorni del 1966 un colpo di stato militare porta al potere il tenente colonnello Sangoulé Lamizana (ex-generale delle truppe coloniali francesi). Rimarrà al potere fino al 1980, deposto anch’egli da un colpo di stato militare guidato dal colonnello Saye Zerbo.

“Colpo di stato” non suona bene alle nostre orecchie europee. “Colpo di stato militare” ancora meno. Personalmente mi fa pensare ai vari golpe che hanno portato a sanguinarie dittature militari in America Latina negli anni ’60 e ’70; alla marcia su Roma; a Francisco Franco in Spagna; alla rivolta militare contro Gorbaciov nel ’91; al tentativo di imprigionare Chavez e di sostituirlo alla presidenza del Venezuela nel 2002.

Alle nostre orecchie europee non può suonare bene “Colpo di stato” anche in caso di situazioni meno fascisteggianti di quelle sopra elencate. Non può suonare bene perché “Colpo di stato” significa rimozione di un governo (qualunque esso sia) con l’utilizzo di vie di forza, violente o meno, ma comunque non democratiche e la sua sostituzione con un nuovo governo nominato, e spesso e volentieri formato, da chi ha guidato l’azione di forza.

Qualche volta ad azioni di questo genere diamo un nome differente: rivoluzione. Parola con un suono solitamente più dolce alle nostre orecchie poiché sottende, almeno idealmente, una lotta contro forme di oppressione e disuguaglianza.

La fine, almeno formale, della colonizzazione in Alto Volta, come altrove in Africa, lascia un Paese privo di classe dirigente e dalla struttura socio-politica tutta da costruire seguendo – credo sia giusto sottolinearlo – strumenti tipicamente europei: dall’idea stessa di democrazia nelle sue varie declinazioni alla struttura del governo, ai diritti e doveri delle persone all’interno della società, all’esistenza di strutture che ben poco hanno a che spartire con l’organizzazione africana della vita comune. Fra queste ultime, una ricoprirà tuttavia un ruolo di primo piano nelle vicende del paese: il Sindacato, rimasto unico tipo di opposizione dopo che Yaméogo, subito dopo l’indipendenza, aveva messo fuori legge i partiti d’opposizione.

Val la pena ricordare che l’Alto Volta era uno dei Paesi più poveri del mondo sia sulla carta, a guardare le statistiche internazionali, sia nella realtà. Un Paese di sette milioni di abitanti, più di sei milioni dei quali sono contadini; un tasso di mortalità infantile stimato al 180 per mille e un tasso di analfabetismo del 98%, se definiamo alfabetizzato chi sa leggere, scrivere e parlare una lingua; un’aspettativa di vita media di soli 40 anni; un medico ogni 50.000 abitanti; un tasso di frequenza scolastica del 16%”.

La povertà estrema delle zone rurali, l’impoverimento dei dipendenti pubblici (parte minimalissima della popolazione, ma vero perno delle organizzazioni sindacali), l’economia in mano ai poteri neocoloniali, la corruzione dilagante, le lotte per accaparrarsi scampoli di potere e altre concause determinarono l’instabile situazione politico-istituzionale dei primi anni ottanta.

Nel 1981 Saye Zerbo nomina segretario di stato per l’informazione Thomas Sankara. E’ un giovane Capitano dell’esercito (32 anni all’epoca). Eroe suo malgrado per essere stato comandante vittorioso in alcune battaglie della guerra che Alto Volta e Mali combatterono, nel 1974, per il controllo di un pezzo di terra di confine, la Striscia di Agocher. “Io contesto la necessità politica ed umana di questa guerra”; “Se dobbiamo combattere, facciamolo, coscientemente e per volontà comune, per sopprimere le frontiere tra due popoli uniti da tutto e non per rafforzarle”.

Alla prima riunione del consiglio dei ministri cui partecipa, Sankara si presenta in bicicletta. E’ uno dei tanti, piccoli gesti quotidianamente eclatanti che spiegheranno più di mille parole la sua Politica e che lo renderanno famoso anche fuori dal Paese di cui, un paio d’anni dopo, diverrà presidente.

Nel maggio 1982 si dimette dall’incarico, in disaccordo con la politica del governo. Fra le cause delle dimissioni: lo scioglimento del principale sindacato del Paese e l’arresto del suo segretario, la sparizione del denaro che la cooperazione olandese aveva versato per la costruzione della diga di Korsimoro e la distribuzione fra i ministri, i funzionari di governo ed i loro parenti di un convoglio di aiuti umanitari desinati alla popolazione.

Non posso contribuire a servire gli interessi di una minoranza” disse in televisione per motivare le sue dimissioni.

Si dimettono con lui dal governo altri due giovani sottufficiali Herni Zongo e Blaise Compaoré, amici di Sankara da lungo tempo. Tutti e tre sono arrestati e chiusi in prigione.

Ma chi sono questi giovani sottufficiali?

Sankara, Zongo e Compaoré sono i leader carismatici di una parte dell’esercito. Esercito piccolo (6000 uomini) ma influente, come abbiamo visto, sulla vita politica del Paese.

Thomas Sankara nasce quando ancora l’Alto Volta è una colonia francese, il 21 dicembre 1949, terzo di dieci fratelli. La madre Marguerite è di stirpe Mossi, il padre Joseph, di etnia Puel, era stato soldato dell’esercito coloniale francese. “Metà dei bambini nati nel mio stesso anno sono morti entro i primi tre mesi di vita. Io ho avuto la fortuna di sfuggire alla morte e di non cadere vittima di nessuna di quelle malattie che quell’anno fecero più vittime di quanti fossero i nati. Sono stato poi uno dei sedici bambini su cento che hanno potuto andare a scuola, altro enorme colpo di fortuna”

Il giorno dell’Indipendenza del Paese, nella scuola frequentata da Sankara nasce uno scontro fra gli studenti voltaici e quelli francesi dopo che alcuni di questi ultimi hanno bruciato la bandiera voltaica che aveva sostituito quella francese, solitamente esposta nel cortile. La polizia coloniale individua nel giovane Thomas (11 anni) l’ispiratore della risposta all’offesa subita (anche se probabilmente la polizia la definì rivolta, o sommossa, o chissà come). Il padre di Sankara finisce in galera per espiare le “colpe” del figlio. Non era la prima volta né sarà l’ultima viso che la vita di Sankara bambino è costellata di altre piccole storie di ribellione contro ogni genere di sfruttamento e prevaricazione.

Nei primi anni dell’indipendenza l’ex-colonia francese, ora stato sovrano, ha bisogno di formare ufficiali per il suo nuovo esercito. A 17 anni Sankara entra alla scuola militare preparatoria, anche perché chi, come lui, è figlio di una famiglia povera non ha altro modo di proseguire gli studi. Completerà la sua preparazione militare in giro per l’Africa e poi in Francia. Ed in questo spostarsi da una caserma all’altra viene a contatto con alcuni movimenti di miliari nazionalisti che stanno, in quegli anni, nascendo in alcuni Paesi africani.

“Militare” è un’altra parola che per il nostro orecchio europeo ha un suono contrastante. Per alcuni è una parola che evoca profondi aspetti positivi, per altri meno. Comunque “Militare” richiama l’utilizzo delle armi e della violenza, qualcosa dunque di potenzialmente non democratico (ed anche su quest’ultimo aggettivo ci sarebbe da discutere un bel po’). Per quel che riguarda la formazione dei militari ed il loro ruolo nella società Sankara, che militare era, disse che Un militare senza formazione politica non è che un potenziale criminale”.

Sarà una rivolta dei sottufficiali dell’esercito (la prima ad aver successo nella storia africana) a rovesciare il governo di Saye Zerbo, a liberare Sankara, Zongo e Compaoré ed a nominare Jean Baptiste Ouédraogo (sottufficiale anch’esso ma anche dottore pediatra) presidente e lo stesso Sankara capo del governo.

Forza di carattere, coraggio, dedizione al lavoro, probità e onestà” dovranno essere le caratteristiche dei suoi ministri, annuncia nel discorso d’insediamento.

Elenco qui di seguito alcune delle decisioni prese dal nuovo governo. Decisioni che forse faranno sorridere (o preoccupare) chi le leggerà quassù oltre il Mediterraneo, ma che a mio parere riassumono l’idea che si governa anche attraverso l’esempio degli stessi governanti.

Riduzione dello stipendio dei militari e dei funzionari pubblici. Denuncie pubbliche (via radio) dei funzionari statali scoperti a far altro durante l’orario di lavoro. Ministri e dirigenti che rispondono (sempre via radio) alle domande dei cittadini. Adesione, per quel che riguarda la politica internazionale, al gruppo dei Paesi non allineati.

Ma anche questo governo non durerà: dall’insediamento di Sankara come primo ministro (1/2/83) al colpo di stato (anch’esso, sempre, militare) che lo destituisce (17/5/83) passano poco più di tre mesi.

Sankara è di nuovo in prigione, con lui Zongo e Lingani, altro giovane sottufficiale che aveva guidato la rivolta precedente. Compaoré riesce, invece, a fuggire ed a rifugiarsi a Pô, cittadina in cui si trova la caserma dei paracadutisti. Compaoré ne è il comandante da quando ha sostituito in quel ruolo lo stesso Sankara al tempo del suo primo incarico nel governo di Saye Zerbo, due anni prima.

Ci si potrebbe sbizzarrire studiando questo ultimo colpo di stato (il terzo in quattro anni, il quarto in 23 anni di indipendenza). Non lo faremo. Ci soffermeremo solamente a ricordare alcuni fatti dalla cronaca di quei giorni e a porci qualche domanda.

Fatto uno. Due settimane prima del colpo di stato il presidente libico Gheddafi atterra ad Ouagadougou (la capitale dell’Alto Volta) per una visita a sorpresa al primo ministro Sankara

Fatto due. Il governo Sankara aveva da subito stretto rapporti diplomatici con la Libia e ne aveva ricavato, fra l’altro, 30.000 tonnellate di cemento e la promessa di un prestito di 3 miliardi e mezzo di franchi cfa.

Fatto tre. Nei giorni precedenti il colpo di stato, ai confini meridionali dell’Alto Volta si erano svolte manovre militari congiunte dell’esercito del Togo e di truppe francesi di stanza nella regione.

Fatto quattro. Il giorno del colpo di stato è presente a Ouagadougou Guy Penne, consigliere per gli affari africani dell’allora presidente francese Francoise Mitterandt. Si tratta di uno degli uomini più influenti per quel che riguarda lo scacchiere geopolitico africano di quegli anni, tanto da meritarsi l’appellativo di Monsieur Afrique.

Domanda uno. E’ possibile che avvenga un colpo di stato sotto gli occhi di una tale autorità, senza che questi ne sappia nulla anticipatamente?

Fatto cinque. La Francia sta combattendo in Ciad una dura guerra che la vede, al fianco delle truppe ciadiane, contrapposta alla Libia

Fatto sei. I governi precedenti quello di Sankara avevano sempre appoggiato la Francia ed i suoi alleati nella regione.

Fatto sette. Pochi giorni dopo il colpo di stato il governo francese concorda col nuovo governo dell’Alto Volta, presieduto dal capo di stato maggiore dell’esercito il colonnello Yorian Gabriel Somé, un prestito di 21 miliardi di franchi cfa.

Domanda due. Cosa mai avrebbe avuto da guadagnarci la Francia dalla rimozione del governo Sankara?

E qui dovrei domandarmi io: cosa dico quando dico Francia? Quali erano e di chi erano gli interessi che potevano essere messi a repentaglio dal neonato governo di un piccolo e poverissimo Paese dell’Africa nera?

E chi, in Alto Volta, aveva tornaconto a che il governo ed il progetto politico del giovane capitano Sankara e dei suoi fosse definitivamente accantonato?

Mi piace pensare, con un esercizio che non ha niente di storico ed è tutto legato alla mia fantasia, che lo stesso Sankara avrebbe risposto che questo interesse, in Alto Volta come nel resto del mondo, sta in tutti coloro che sono privilegiati. In quelli che vivono per il proprio tornaconto parassitando il bene comune, costringendo alla miseria, e dunque alla morte, altri esseri umani.

Crediamo che il mondo sia diviso in due classi antagoniste: gli sfruttati e gli sfruttatori”;

“Non possiamo esimerci dalla ricerca ad oltranza della giustizia sociale”.


Confronta le parole di Sankara con quelle di don Milani

Sankara non rimarrà per molto in carcere. Ouédraogo – rimasto presidente – lo rimette in libertà dopo grandi manifestazioni di piazza animate soprattutto dai più poveri, i diseredati che hanno eletto quel giovane capitano dall’aria onesta e dal parlare diretto loro speranza per una vita più degna.

Che cosa sarà passato per la testa di Sankara nelle settimane che seguirono la sua scarcerazione? Forse è solo un esercizio romanzesco chiederselo, ma mi piace farlo. Avrà pensato, anche solo per un momento, di poter diventare presidente dell’Alto Volta? Avrà pensato, anche solo per un momento, di poter mettere in pratica le sue idee di rivoluzione trasformandole in leggi e disegni politici? O avrà, forse, pensato che tutto sarebbe finito di lì a poco? Che lì sarebbero finiti i suoi sogni, i desideri di riscatto un popolo e forse anche la sua vita, dato che l’omicidio di avversari politici non è pratica rara in momenti concitati della storia delle nazioni.

Noi sappiamo come continuò questa storia. Sappiamo che Compaoré tornò ad Ouagadougou alla testa dei paracadutisti di Pô e mise a segno “l’ennesimo” colpo di stato portando al potere il gruppo di sottufficiali capeggiato da Sankara, che fu nominato presidente.

Era il 4 agosto 1983: iniziava la rivoluzione burkinabé.

Noi siamo quello che siamo, cioè un regime che si consacra anima e corpo al benessere del proprio popolo. Chiamate ciò come volete, ma sappiate che non abbiamo bisogno di etichette. La nostra è una rivoluzione autentica, diversa dagli schemi classici”.

Sankara ed i suoi si definirono rivoluzionari in quanto miravano ad un cambiamento radicale della società. Una società che non avrebbe più visto sfruttati e sfruttatori, ma che avrebbe dovuto vedere la felicità per tutti i suoi componenti. Perché la felicità, che è un bene comune, o è di tutti o non è di nessuno. E fu nell’attuazione politica di quest’idea che Sankara diede, probabilmente, il meglio di sé, dimostrandosi politico capace e ricco di idee.

Quando dice felicità Sankara intende qualcosa di molto concreto. Intende poter mangiare almeno due volte al giorno tutti i giorni ed avere a disposizione almeno dieci litri d’acqua pura tutti i giorni. E due pasti al giorno e dieci litri d’acqua furono assicurati, investendo nello scavo di pozzi, nella costruzione di piccole dighe, nell’aiuto economico e tecnico a quel 90% della popolazione che viveva nelle zone rurali. E tutto questo in pochissimo tempo.

Ma felicità significa anche potersi curare quando si sta male senza veder morire i propri figli per malattie facilmente curabili, andare a scuola, potersi dedicare alle proprie passioni, non essere schiavizzati da leggi e regole tradizionali, non dover vivere in un ambiente distrutto dall’incuria e dall’incedere del deserto. La nostra rivoluzione è e deve essere l’azione collettiva di rivoluzionari per trasformare la realtà e migliorare concretamente la situazione delle masse del nostro Paese. La nostra rivoluzione avrà avuto successo solo se, guardando indietro, attorno e davanti a noi, potremmo dire che la gente è, grazie alla rivoluzione, un po’ più felice perché ha acqua potabile, un’alimentazione sufficiente, accesso ad un sistema sanitario ed educativo, perché vive in alloggi decenti, perché è vestita meglio, perché ha diritto al tempo libero, perché può godere di più libertà, più democrazia, più dignità”.


Confronta con la situazione dell’Africa 20 anni dopo (2005)

E questa rincorsa verso la felicità avrebbe avuto al suo centro i contadini, e cioè la stragrande maggioranza degli abitanti del Paese. Un Paese che avrebbe dovuto cercare di essere autosufficiente e non più vittima delle più disparate forme di neo-colonialismo. Un cambiamento rappresentato simbolicamente nel cambio del nome della nazione, anch’esso eredità coloniale. Il 5 agosto 1984, primo anniversario della rivoluzione, nasceva il Burkina Faso.

L’idea che sta alla base del governo di Sankara è semplice e credo che tutti noi saremmo pronti, seduta stante, a sostenerla: non è giusto che qualcuno muoia di fame e privazioni mentre qualcun altro può permettersi di sprecare o gozzovigliare.

Saremmo pronti, però, ad accettare le ovvie conseguenze di questo ragionamento? Saremmo pronti, cioè, a rinunciare ad una parte di ciò che noi consideriamo nostro per condividerla con chi ha meno? Saremmo pronti ad essere un po’ più poveri perché qualcuno sia meno misero?


(
leggi nel sito lo speciale sulla Globalizzazione e Nuovi stili di Vita)

Queste sono alcune delle domande che Sankara pone a noi oggi, a più di vent’anni dagli avvenimenti in questione. (E temo che le mie risposte sarebbero titubanti e piene di “ma”, “se”, “però”.)

Ma sono anche alcune delle domande che Sankara poneva ai suoi concittadini ed a se stesso. Le risposte che riuscì a darsi, ed a dare al suo popolo, sono quelle politiche che trasformarono un Paese miserabile nella splendida anomalia del Burkina Faso della rivoluzione.

La rivoluzione proseguirà, accelerandole, quelle politiche di austerità intraviste nei pochi mesi in cui Sankara fu primo ministro: stipendi tagliati; viaggi aerei in seconda classe e rimborsi spese molto contenuti per i politici in viaggi diplomatici; ben pochi privilegi per i governanti che dovrebbero essere i servitori del popolo e non i suoi sfruttatori. Sankara stesso si muoveva per Ouagadougou in bicicletta – ed era presidente! – ed i suoi averi ammontavano alla sua casa ed a una piccola automobile. “Non possiamo essere la classe dirigente ricca di un paese povero”.

Questo non piacque (e non credo ci sia da stupirsene) a chi su quella situazione di privilegio aveva costruito la propria vita: ex-governanti e funzionari pubblici, i professori ad esempio che con Sankara sosterranno un lungo scontro. “E’ inammissibile che ci siano uomini politici proprietari di ville che affittano a caro prezzo agli ambasciatori stranieri, quando a quindici chilometri da Ouagadougou la gente non ha il denaro per comprare nemmeno una confezione di nivachina per curare la malaria”.

Sarà presa posizione contro i furti perpetrati dai governi precedenti, giudicati da tribunali popolari istituiti ad hoc. Tribunali che, probabilmente ci farebbero gridare allo scandalo se assistessimo, noi oggi, ad uno di quei processi dove l’imputato era posto dinnanzi alla giuria senza la mediazione di alcun avvocato. E davanti al nostro restar scandalizzati Sankara risponderebbe: “Pensiamo che se un avvocato difende un cliente (si tratta proprio di termini mercantili) questo cliente potrà essere difeso veramente solo se paga lautamente l’avvocato. Il miglior avvocato sarà quindi riservato a chi paga di più. Ciò significa che più si ruba, più denaro si ha per meglio difendersi. Ma se non si hanno i soldi per difendersi?”

Saranno imposti periodi di lavoro comunitario ad alcune fasce della popolazione, ad esempio gli studenti universitari, in alcune importanti campagne sociali: dalla vaccinazione di massa contro le malattie infantili alla costruzione di opere pubbliche.

Uno dei sogni di Sankara, l’abbiamo già detto, è un Paese che ce la possa fare da solo, un paese veramente indipendente in quanto autosufficiente.

Mangiare quel che si produce e vestire con tessuti locali sono due importanti mobilitazioni sociali volte a garantire la sussistenza al popolo del Burkina Faso, a rilanciare alcuni rami dell’economia e ad incominciare così a smarcarsi il più possibile dalle importazioni straniere che incidevano negativamente non solo sul debito pubblico.

Dobbiamo accettare di vivere all’africana, perché è il solo modo di vivere liberamente, il solo modo di vivere degnamente.”

Il nostro paese produce cibo sufficiente per nutrire tutti i burkinabè. Ma, a causa della nostra disorganizzazione, siamo obbligati a tendere la mano per ricevere aiuti alimentari, che sono un ostacolo e che introducono nelle nostre menti le abitudini del mendicante. Molta gente chiede dove sia l’imperialismo: guardate nei piatti in cui mangiate. I chicchi di riso importato, il mais, ecco l’imperialismo. Non c’è bisogno di guardare oltre.”


Leggi lo speciale nel sito sulla Cooperazione Internazionale

Potremmo andare avanti per molte righe, forse pagine, elencando le politiche di Sankara presidente. Sia quelle che portarono ad immediati benefici a quelle che fallirono, per errori del governo o perché bloccate quando ancora non avevano dato frutti consolidati.

Fra le prime sicuramente le già ricordate politiche alimentari e sanitarie. Va registrato che in soli quattro anni la vita media in Burkina Faso passò da 44 a 50 anni. Ancora fra le prime le politiche scolastiche che, con la costruzione di centinaia di scuole pubbliche e l’obbligo scolastico, portarono milioni di persone a scuola. All’inizio degli anni 80 l’analfabetismo raggiungeva più del 90% della popolazione.

“Una delle condizioni per lo sviluppo è la fine dell’ignoranza. (…) L’analfabetismo deve essere incluso fra le malattie da eliminare il più presto possibile dalla faccia della Terra”.

Fra le seconde le politiche a favore della donna e contro pratiche e tradizioni che la tenevano (e la tengono!) ai margini della società e che ne umiliano la dignità.

Se la rivoluzione perde la lotta per la liberazione della donna, avrà perso il diritto ad una trasformazione positiva della società”; “Il peso delle tradizioni secolari della nostra società ha relegato le donne al rango di bestie da soma.

Le donne subiscono due volte le conseguenze nefaste della società neo-coloniale: provano le stesse sofferenze degli uomini e, inoltre, sono sottoposte dagli uomini ad ulteriori sofferenze. La nostra rivoluzione si rivolge a tutti gli oppressi e gli sfruttati e quindi si rivolge anche alle donne”.

Va inoltre ricordato che Sankara fu il primo leader africano a scagliarsi contro le mutilazioni genitali femminili, tanto in uso anche in Burkina Faso, condannandole pubblicamente a più riprese.
Approfondisci con il sito delle Missionarie Comboniane interamente dedicato alla Donna

Le politiche di controllo statale della cooperazione internazionale, così da evitare la creazione di squilibri e ingiustizie causate dall’assuefazione agli aiuti umanitari spesso “inutili ed imbevuti di colonialismo”, ricercando solo “l’aiuto che aiuta a far velocemente a meno dell’aiuto” e non quello che “serve alle imprese del Nord e ad esperti pagati in un mese cifre che basterebbero ognuna a costruire una scuola”. “La politica degli aiuti è servita fino ad oggi solo ad asservirci, a distruggere la nostra economia. L’origine di tutti i mali del Paese è politica. E la nostra risposta non può essere che politica”.

Le politiche ambientali di salvaguardia del territorio e di riforestazione, contro l’avanzare del deserto ed a favore di una buona agricoltura di sussistenza. “La distruzione impunita della natura continua. Noi non siamo contro il progresso, semplicemente chiediamo che esso non significhi anarchia e criminale disprezzo per i diritti degli altri Paesi”.

Le politiche per trasformare le forze armate (di cui Sankara stesso fa parte, è bene ricordarlo!) in un corpo sempre meno militare e sempre più al servizio “civile” della popolazione. Una rivoluzione non si fa per prendere il posto dei vecchi governanti che si depongono”; “Il nuovo soldato deve vivere e soffrire fra la gente cui appartiene”.

Le politiche internazionali per la richiesta della cancellazione del debito estero dei Paesi impoveriti. “Quelli che ci hanno prestato il denaro sono gli stessi che ci hanno colonizzato, sono gli stessi che hanno gestito per tanto tempo i nostri stati e le nostre economie. Loro hanno indebitato l’Africa. Noi siamo estranei alla creazione di questo debito e dunque non dobbiamo pagarlo”.

Quelle contro l’imperialismo e di sostegno alle lotte di liberazione dei popoli.
“L’imperialismo, attraverso le multinazionali, il grande capitale e la potenza economica è un mostro senza pietà, dotato di artigli, corna e denti velenosi. E’ spietato e senza cuore”;

“Per l’imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. (…) Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità”

Quelle per la rivitalizzazione del fronte dei Paesi non allineati.

“Il Movimento dei non allineati significa rifiutare di essere il terreno dello scontro fra elefanti che calpestano tutto impunemente”.

Le politiche per il disarmo.


“Ogni volta che un paese africano acquista armi lo fa contro gli africani. Dobbiamo trovare una soluzione al problema degli armamenti. Sono un militare e ho con me un’arma. Eppure propongo il disarmo, perché io porto l’unica arma che ho, mentre altri hanno nascosto tutte quelle che hanno” “Abbiamo l’obbligo di considerare la lotta per il disarmo un obiettivo permanente come presupposto essenziale al nostro diritto allo sviluppo”.

Le politiche contro il razzismo all’interno del Burkina Faso e, a livello internazionale, contro l’apartheid in Sudafrica.

“Dobbiamo combattere l’apartheid non perché siamo neri, bensì semplicemente perché siamo uomini e non animali e ci opponiamo alla classificazione degli uomini in base al colore della pelle”.

Come ho già scritto non tutte queste politiche funzionarono o furono efficaci, ma sta di fatto che durante gli anni della rivoluzione il Burkina Faso ha incominciato una via che sembrava andare in una direzione di vera autosufficienza. Il Burkina Faso stava diventando un esempio molto osservato dai popoli dell’Africa di metà anni 80 (non di secoli fa, è sempre bene tenerlo presente).

Questo esempio di Paese ribelle terminò di esistere il 15 ottobre 1987 quando un colpo di stato (!) vi pose fine assassinando il presidente Sankara.

“Sarei felice se fossi stato utile, se fossi stato un pioniere: quello che sembra oggi un sacrificio, domani sarà un normale e semplice comportamento.

(…) Ho detto a me stesso che trascorrerò la vecchiaia in qualche libreria a leggere, sempre che prima, visto che abbiamo molti nemici, non abbia incontrato una fine violenta. Una volta accettata questa realtà, è solo questione di tempo”.

Da pochi mesi era incominciato il quinto anno della rivoluzione burkinabè. Un anno che sarebbe dovuto essere un anno diverso. Un anno che, in qualche modo, avrebbe dovuto rompere con una certa tradizione rivoluzionaria novecentesca che vuole le avanguardie a guidare e il popolo a seguire.

“Abbiamo deciso di prenderci il tempo, il tempo necessario a trarre lezione dalla nostra attività passata”; “Dobbiamo fare del quinto anno di rivoluzione un anno di valutazione critica del nostro lavoro”.

Sembra anzi che ci sia un profondo desiderio di portare nuove esperienze all’interno della rivoluzione, così da renderla ancora più proprietà del popolo.

Dovremo considerare l’espressione arricchente, variegata e multiforme di tanti diversi pensieri ed attività. Abbiamo bisogno di pensieri e attività intensi e pieni di sfumature, tutti insieme coraggiosamente e sinceramente nel rispetto della necessità di critica e autocritica e tutti diretti verso uno stesso, luminoso obiettivo, che non può essere altro che la felicità dei burkinabè.

Dovremo stare in guardia contro un tipo di unità sterile, monolitica, paralizzante e infeconda.”.

A guidare il colpo di stato furono Zongo, Lingani e, soprattutto, il suo “amico fraterno” Blaise Compaoré, che da allora è presidente del Burkina Faso. Dissero che Sankara era stato eliminato perché era pronto a tradire la rivoluzione (?), ma fu qualcun altro a tradire quel sogno.

Gli anni che seguirono furono anni di epurazioni, omicidi e torture nel tentativo di cancellare ogni traccia della rivoluzione. Nel 1989 Lingani e Zongo furono condannati a morte, ed uccisi, con l’accusa di aver tramato per assassinare il presidente. Piccola postilla: Compaoré è stato democraticamente rieletto presidente anche nel 2005 con l’80% circa dei voti.

“La democrazia è il popolo. La scheda elettorale e l’apparato per votare non significano automaticamente l’esistenza della democrazia”.

Dal 1987 allora il Burkina Faso è tornato ad essere quello che qualcun altro ha deciso che debba essere: un Paese poverissimo, miserabile in alcuni casi, ultima (o penultima) ruota del carro di un mondo globalizzato dominato dal dio del libero mercato.

Imperialismo, un sistema di sfruttamento che non si presenta solo nella forma brutale di coloro che con dei cannoni vengono ad occupare un territorio, ma più spesso si manifesta in forme più sottili, un prestito, un aiuto alimentare, un ricatto. Noi stiamo combattendo il sistema che consente ad un pugno di uomini sulla terra di dirigere tutta l’umanità.”

Perché fu ucciso Sankara?

E’ una domanda alla quale non mi sento di rispondere. Fatelo voi. E’ il compito che lascio a chi avrà avuto la pazienza di arrivare a leggere fino a questa riga. Come lascio a voi il compito di farvi un’idea del come pochi mesi dopo l’assassinio di Sankara il Burkina Faso fosse tornato in condizioni sociali ancora peggiori di quelle antecedenti la rivoluzione (suggerimento, vedi: privatizzazioni, FMI e BM)

Potete citarmi un solo caso in cui il FMI e il suo aiuto non abbiano prodotti effetti negativi?”; “Abbiamo detto al FMI: quello che chiedete noi l’abbiamo già fatto. Abbiamo ridotto i salari dei funzionari, risanato l’economia. Non avete niente da insegnarci. Ci è sembrato di capire che quello che il FMI cerca va ben al di là di un controllo sulla gestione: è un controllo politico.

Certo che abbiamo bisogno di denaro, di capitali freschi, ma non al prezzo di un’abbondanza artificiale, di un consumo improduttivo a cui si abbandonerebbe sicuramente una classe dirigente prigioniera del suo confort e di questo stesso FMI.

Abbiamo quindi rifiutato i prestiti della Banca Mondiale per alimentare progetti che non abbiamo scelto.”

  • Del Burkina Faso della rivoluzione (agosto 83-ottobre 87) cosa rimane oggi?

  • Della speranza tutta africana suscitata da quell’esperimento tutto africano di governo cosa è rimasto oggi?

Sicuramente la commozione di un mio amico senegalese (immigrato in Italia) che sentendomi fare il nome di Sankara mi racconta le speranze che il suo agire aveva alimentato in lui ed altri, allora, giovani di Dakar.

Oppure le parole di un conoscente congolese (Repubblica Democratica del Congo) che proprio ispirandosi a Sankara, racconta, incominciò ad occuparsi di politica e società (ed oggi è prete e missionario).

E soprattutto le sue idee ed il suo esempio.

Per ottenere un cambiamento radicale bisogna avere il coraggio d’inventare l’avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l’avvenire”.

Cosa leggere per approfondire

Dal mensile dei Missionari Comboniani Nigrizia

* «È sempre tra noi» 01/10/2000
Il capitano Thomas Sankara: capo di stato, leader nazionale, ma soprattutto un mito ancora vivo, speranza per molti “pellegrini” non solo del paese degli uomini integri, ma per tutta l’Africa occidentale.

* Orgoglio africano 01/10/1997
Dieci anni fa, il 15 ottobre 1987, veniva assassinato a Ouagadougou il presidente Sankara. Aveva 38 anni, il capitano che aveva “osato inventare l’avvenire” di un paese, il Burkina Faso, che le classifiche confinano regolarmente tra gli ultimi del pianeta.

Che io sappia esistono questi libri in italiano su Sankara:

L’Africa di Thomas Sankara – Le idee non si possono uccidere
Carlo Batà Edizioni ACHAB – Verona – 2003

Il presidente ribelle – Discorsi di Thomas Sankara
a cura di Marinella Correggia Edizioni Manifestolibri – Roma – 1997

Thomas Sankara – Una speranza recisa
Aluisi Tosolini Edizioni EMI – Bologna – 1988

Burkina Faso – La storia di Thomas Sankara
Marinella Correggia Campagna Globalizza-azione dei popoli – Esperienze n° 1

Vi rimando, inoltre, al primo dei testi citati per una vasta bibliografia sia in inglese che, soprattutto, in francese.

Per quel che riguarda il multiforme universo della rete internet vi segnalo il sito – in lingua francese – http://www.thomassankara.net/ interamente dedicato al nostro, dove potrete reperire molto materiale, fra cui i testi dei suoi discorsi (anch’essi, ovviamente, in francese).

Concludo segnalandovi l’esistenza di un disco “The Thomas Sankara CD” autore Ganaian, edito dalla ilmanifestoCD, costo euro 8,00. Come recita la pubblicità del disco stesso “Appassionato tributo alla figura del presidente ribelle del Burkina Faso Thomas Sankara assassinato dai suoi avversari politici nel 1987. I discorsi di denuncia incentrati sullo sfruttamento dei popoli, sono campionati e posti su basi musicali etniche ed elettroniche che ne accentuano la forza sociale. Eugenio Finardi offre un’intensa interpretazione nell’unica reale “canzone” del CD”.

E mi sento quasi obbligato a chiudere con una citazione utilizzata come chiusa anche da altri che hanno scritto brevi testi su Sankara. E’ una frase di Sennen Andriamirado, giornalista del Madagascar. “E’ morto Sankara, un presidente non come gli altri. E’ stato forse un incidente della storia. Però, un incidente felice”.

(testo a cura di Leo – leggi altri suoi contributi nel sito)

* approfondisci la situazione di altri paesi africani

* leggi come la Campagna WNairobiW tenta oggi di lottare contro il debito e in favore di politiche di urbanizzazione nelle megalopoli africane

da http://www.giovaniemissione.it

A QUARANT’ANNI DALLA GAUDIUM ET SPES – Enrico Chiavacci

Posted on Febbraio 15th, 2009 di Angelo |

http://compagniadeiglobulirossi.org/blog/wp-content/uploads/2009/02/chiavacci-enrico-chiavacci-giancarlo-oli-vittorio-vettori-carlo-martelli.jpg

Mons. Enrico Chiavacci è il primo a sinistra.

L’ATTIVITÀ UMANA NELLUNIVERSO

Cominciamo qui a costruire il Regno


di ENRICO CHIAVACCI

La costituzione conciliare sottolinea il valore autentico dell’attività umana: al di là di ogni arricchimento materiale c’è la tensione verso l’adempimento del progetto di Dio. Pur avendo una sua legittima autonomia, implica sempre, dunque, un aspetto religioso. Per questo ogni cristiano è impegnato nella lotta contro l’egoismo umano e tutte le forme di sfruttamento in cui si manifesta.

Della densa sezione, pochissimo conosciuta e ancor meno studiata, sull’attività umana nell’universo (GS 33-39; 44) intendo qui solamente mettere in evidenza tre punti che ritengo essenziali: il significato morale (e spirituale) di ogni forma di attività umana; la sua legittima autonomia; il tradimento in atto del progetto del Creatore e l’impegno del cristiano per la sua realizzazione.

Il significato morale

1 L’attività umana intesa nel senso più ampio (il lavoro dipendente verrà trattato ai nn. 67-68) avviene sempre nel quadro della vita dell’universo, e ne è parte essenziale voluta dal Creatore. Infatti con la sua attività – qualunque essa sia – l’uomo modifica sempre le cose (io direi oggi il cosmo), modifica la società in cui è inevitabilmente inserito (e oggi tale società non può essere concepita se non come la famiglia umana: si veda il n. 77), e soprattutto modifica sé stesso. Quest’ultimo punto è importantissimo: l’uomo in ogni sua attività è in cammino verso Dio, «multa discit, facultates suas excolit, extra se et supra se procedit» (35).

Al di là e al di sopra di ogni ricerca di arricchimento materiale sta la tensione verso l’adempimento del progetto di Dio: l’uomo vale molto più per ciò che è che per ciò che ha. Ma l’uomo è se sa inserirsi nel progetto di Dio per l’intera famiglia umana: egli non può realizzare pienamente sé stesso se non nel sincero dono di sé («nisi per sincerum sui ipsius donum», GS 24). Tale dovrebbe essere la ricchezza spirituale che ogni attività umana include. Dall’umile lavoro manuale all’attività manageriale, dalla ricerca filosofica, teologica, scientifica, alla fatica della sofferta attività artistica in tutte le sue forme, sempre l’uomo dovrebbe essere alla ricerca di sé stesso e del disegno del suo Creatore per il vero bene del genere umano (GS 35).

Oggi più di ieri ciò non avviene, per due motivi opposti: o l’uomo agisce per avere sempre di più e non si cura del proprio essere sempre di più, o l’uomo è costretto dalla miseria ad agire solo per sopravvivere: che cosa darò da mangiare ai miei figli domani?. E quest’ultima condizione è oggi quella della maggior parte dell’umanità: la miseria senza speranze, senza orizzonti, toglie all’uomo anche la possibilità di essere sé stesso (si veda GS 71: un minimo di proprietà è parte integrante della persona umana nella sua capacità di decidere su sé stessa. È un fenomeno studiato già da J.K. Galbraith e più recentemente da A. Sen).

Ogni attività è autonoma

2 Ogni attività umana implica sempre, dunque, un aspetto religioso. L’attenzione di GS si rivolge qui soprattutto a ogni attività più specificamente “creativa”, sia quella del piccolo artigiano, sia quella del filosofo o dello scienziato, sia quella dell’artista. In essa l’uomo cerca consapevolmente di andare oltre ciò che già sa o che già in sé stesso sente. Vi è un universo esteriore e interiore che è sempre aperto alla scoperta, o a una migliore comprensione. Questo cammino da un lato non sarebbe possibile fuori dell’ambito del già dato (e sempre in qualche modo culturalmente condizionato), ma dall’altro lato è anche sempre uno sforzo di andare oltre il già dato e il culturalmente condizionato.

L’uomo che con animo sincero e onesto si pone su questa strada è sempre guidato dal Creatore, che attraverso di lui attua gradualmente il suo divino progetto, fa sì che le cose siano quello che sono. Conviene qui citare un brano bellissimo di GS 36: «Qui humili et constanti animo abscondita rerum perscrutari conatur, etsi inscius quasi manu Dei ducitur qui, res omnes sustinens, facit ut sint id quod sunt». Si noti lo “etsi inscius”: chiunque opera con serietà e onestà, che sia o no credente, arricchisce il cosmo e la famiglia umana.

Vanno qui ricordati due altri passi che spiccano fra i tanti possibili. GS 44 afferma che «l’esperienza dei secoli passati, il progresso della scienza, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa», e ciò «sive de credentibus sive de non credentibus agatur». E GS 92 afferma che dialogo e cooperazione per la pace del mondo sono possibili anche con chi ha il culto degli alti valori presenti nel cuore dell’uomo, anche se non ne conosce l’autore.

Tale attività umana è sempre per principio autonoma – e non può essere che tale – sia perché si muove partendo da un quadro culturale e scientifico già dato, né potrebbe fare altrimenti, sia perché procede sempre, in qualche misura, al di là di tale quadro (ed è interessante la citazione implicita del caso di Galileo in GS 36, nota 7). Si pensi alla teoria evoluzionista nata da Darwin e alla teoria della relatività nata da Einstein: due teorie, ormai consolidate, che – nate fuori dell’ambito di fede cristiana e in piena autonomia da essa – hanno aperto la fede cristiana a una più profonda e ricca comprensione del concetto stesso di un Dio creatore. In linea generale si osservi come il dialogo con le scienze, le filosofie, le religioni, le culture, non sia mai visto dal Concilio come somma di monologhi, ma come forma di arricchimento reciproco.

Ma, prosegue GS 36, l’autonomia dell’attività e della ricerca umana non è mai autonomia da Dio. E per il non credente non è mai autonomia dalla chiamata di Dio, quella chiamata che è sempre presente nella coscienza di ogni essere umano (GS 16: va ricordata qui la costante ricerca e documentazione offerta dagli studi di H. de Lubac). Detto altrimenti, io sono sempre autonomo nella mia ricerca, ma non sono mai autonomo dal mondo dei valori o, meglio, dal valore supremo che, in forme diverse, io esperimento al mio interno e assumo per il mio esistere e operare. La chiara distinzione conciliare fra autonomia dell’attività e autonomia dal valore (e dalla coscienza) ritengo sia un punto fondamentale segnato dal Concilio.

Tradimento e impegno

3 Indubbiamente l’attività umana nell’universo costituisce un continuo arricchimento di conoscenze e di esperienze, e contestualmente – dopo 40 anni dal Concilio – di capacità di comunicazione quasi istantanea di tale arricchimento in ogni parte della terra. Ma questo continuo progredire in legittima autonomia può essere disgiunto dal valore (o, se si preferisce, dall’ordine dei valori). Può cioè essere disgiunto dal suo significato profondo già visto sopra: deve segnare il cammino voluto dal Creatore già ricordato in GS 35 e cioè che: «iuxta consilium (= progetto) et voluntatem divinam cum genuino humani generis bono congruat». La ricerca e in genere l’attività umana, se è orientata principalmente sul proprio personale vantaggio – in genere economico – di singoli o di gruppi o ceti sociali, tradisce radicalmente il disegno di Dio.

Accanto al tema degli investimenti e produzione di armi terribili, già presente ai tempi del Concilio, oggi incombe il dramma della fame e della miseria di gran parte della famiglia umana; incombe il dramma ecologico dell’inquinamento e dello sfruttamento del pianeta per interessi finanziari privati; e incombe da qualche anno il tragico dramma della brevettabilità di ricerche biomediche e di medicamenti, che si sta estendendo a terapie essenziali per malattie gravissime e perfino alle possibilità di modifica del patrimonio genetico. Il che vuol dire riservare ai ricchi l’accesso a terapie essenziali e indurre modificazioni genetiche al solo scopo di arricchimento privato.

Il Concilio, oggi quasi del tutto inascoltato in tempi di neoliberismo dominante, aveva ben visto quasi profeticamente questa serie di possibilità in GS 37, che conviene rileggere e meditare nel testo originale: «Ordine enim valorum turbato et malo cum bono permixto, singuli homines ac coetus solummodo quae propria sunt considerant, non vero aliorum. Quo fit ut mundus non iam spatium verae fraternitatis exsistat, dum aucta humanitatis potentia iam ipsum genus humanum destruere minatur».

E il Concilio non esita a definire la lotta contro l’egoismo umano come lotta contro le potenze delle tenebre. In questa lotta il cristiano deve sempre sentirsi coinvolto: è infatti una battaglia che accompagnerà la storia umana fino alla sua fine. Non è concepibile un cristiano che non sia impegnato, nei modi che gli sono possibili, in questa battaglia: l’impegno riguarda ogni cristiano, e non solo una piccola schiera di addetti (spesso malvisti dai tanti cristiani, ecclesiastici e laici, che non vogliono turbamenti dell’ordine costituito. È questo invece il lato positivo della teologia della liberazione, un lato ancora oggi ampiamente ignorato o sottovalutato).

«In hanc pugnam insertus», dice la GS 37, può il cristiano trovare la propria identità e la propria realizzazione terrena. Certamente non si può identificare il progresso umano con la pienezza del Regno. Ma Cristo con la sua incarnazione è entrato nella storia del mondo e dell’umanità, assumendola e ricapitolandola in sé. Vi sarà un termine per l’umanità e per la terra, e tutta la famiglia umana vivrà nella pienezza della giustizia, della pace, della felicità. L’intera storia umana sarà trasfigurata, purificata dalla corruzione, dalla vanità di questo mondo, ma – attenzione –«manente caritate eiusque opere» (GS 39): là dove è la carità, è già presente in modo misterioso l’eterno.

Cieli nuovi e terra nuova non sono l’inizio del Regno, come di qualcosa di avulso e diverso dalla storia: sono invece la pienezza del Regno, il traguardo della storia: «Dominus finis est humanae historiae» recita GS 45. Il capitolo sull’attività umana si chiude dunque così: «Qui sulla terra il Regno è già presente, in mistero; ma con la venuta del Signore giungerà a perfezione» (GS 39).

Enrico Chiavacci
parroco e docente di teologia morale presso lo Facoltà teologica
dell’Italia Centrale, Firenze

«CHIAMATI AD ESSERE SANTI INSIEME» (1 Cor 1,2) –

Posted on Marzo 13th, 2009 di Angelo

«Chiamati ad essere santi insieme»

(1 Cor 1,2)

Relazione al Convegno Presidenti e Assistenti diocesani e regionali

(Assisi, 12-14 settembre 2008)

Documento del: 14/09/2008
Fonte: Documenti dell’Azione Cattolica Italiana
Autore: Franco Miano

Non è una responsabilità priva di difficoltà racchiudere, nel breve spazio di una relazione, la ricchezza sia dell’esperienza vissuta nelle giornate del Convegno, sia dei contributi emersi, né riuscire a interagire con la globalità delle questioni e delle problematiche poste. Tuttavia, a conclusione di un incontro si ha doverosamente, pur se con trepidazione, il compito di delineare una sintesi, che sia anche capace di offrire prospettive nuove.

È una sintesi tra la fede e la vita, tra i diversi aspetti dell’esperienza dei laici, tra gli ambiti dell’esistenza, tra gli impegni a cui siamo chiamati e tra le tante spinte a cui siamo sottoposti. È una sintesi che, proprio in quanto tale, non può essere semplice, in quanto è il frutto di un equilibrio sempre difficile, che si consegue progressivamente e si rimette poi in discussione per procedere oltre.
Nel compiere questa ricapitolazione mi avvalgo di importanti tracce, costituite da quanto emerso nel corso del Convegno, ma soprattutto da alcuni riferimenti essenziali che hanno ispirato l’elaborazione degli Orientamenti triennali. Introduzione Il primo di tali riferimenti è l’Incontro con il Santo Padre, svoltosi in Piazza San Pietro il 4 maggio 2008. Si è trattato di un’esperienza arricchente, che ha fatto toccare con mano quell’equilibrio fecondo tra Chiesa locale e Chiesa universale, a cui il Papa stesso ha fatto cenno e che costituisce una delle tipicità dell’Ac.

Altrettanto arricchente, però, è stato il viaggio che ciascuno ha compiuto per giungere a Roma, vissuto come un ritorno “a casa”. Una casa che è la Chiesa, il cui senso vivo è stato percepito attraverso l’incontro con il Santo Padre; una casa che è l’Azione Cattolica, sentita ancora più “nostra” nel ritrovarci con gli altri soci dell’Ac italiana e con i rappresentanti dell’Ac di tutto il mondo.

Infine, una casa comune costituita da tutti i volti di venerabili, santi e beati, resi visibili in piazza dagli stendardi, che, come il Papa stesso ha affermato, formavano una vera “corona di santità” e – allo stesso tempo – esprimevano quel legame impalpabile ma indivisibile che ci unisce a loro.

Quei volti ci incoraggiano ancora oggi a rispondere affermativamente alla domanda di Benedetto XVI: “non è forse possibile trasformare la nostra vita in un capolavoro di santità?”. Essa ci ricorda come questa opportunità sia data a ciascuno di noi e debba sempre più divenire un tratto costitutivo e fondamentale della nostra Associazione.

In questa prospettiva, il Documento della XIII Assemblea nazionale (n. 4) richiama alla necessità di compiere un “doppio passo in avanti”: «verso il primato della fede e la responsabilità della testimonianza».

Va sottolineato che restano questi i due pilastri essenziali a cui fare riferimento, anche quando si vorranno considerare le tante scelte importanti che l’Associazione è chiamata a operare. Nel Documento, infatti, così si legge: «Un passo è segnato dall’incontro con il Signore, dalla piena comunione con Lui, che è il senso stesso della santità cristiana.

L’altro passo ci spinge a stare da cristiani dentro la storia, con una testimonianza associativa coerente, attenta alla relativa autonomia delle realtà terrene. Saper distinguere – senza separare – questi due passi, in cui fede e ragione, Vangelo e vita devono armonizzarsi continuamente: è questo il compito che abbiamo davanti».

1. Il passo della santità Il primo passo che deve compiere la nostra Associazione è verso la sempre più piena comunione con Gesù di ciascun socio e della stessa Ac. Si tratta di una scelta di fondo che il Convegno Ecclesiale di Verona ha consegnato alle Chiese particolari, attraverso il forte riferimento antropologico e l’attenzione a una pastorale integrata e integrale, tesa a restituire centralità alla persona.

La Nota pastorale1, seguìta al Convegno, così afferma (n. 4): «In particolare, vorremmo che diventassero patrimonio comune tre scelte di fondo, che costituiscono anche un metodo di lavoro: (la prima scelta è, ndr) il primato di Dio nella vita e nella pastorale della Chiesa, con … l’assunzione della santità quale misura alta e irrinunciabile del nostro essere cristiani. …».

Sembrerebbe trattarsi di un’ovvietà; eppure, sappiamo bene che l’esperienza ecclesiale, ma anche quella associativa, sono spesso afflitte dalla routine, dalla burocrazia, dalla ripetitività. In questo cammino verso la santità, abbiamo scelto di farci accompagnare da San Paolo, anche per vivere nel modo più significativo l’Anno paolino.

In particolare vogliamo lasciarci provocare dall’incipit della prima Lettera ai Corinzi (1 Cor 1, 1-9), che ci ha anche offerto lo spunto per stilare gli Orientamenti programmatici: «Paolo, chiamato ad essere apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla Chiesa di Dio che è in Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro…».

In questo brano è particolarmente interessante per noi la definizione che Paolo attribuisce ai cristiani di Corinto: “chiamati ad essere santi insieme”. Ci soffermeremo ora su ciascuna delle tre parti di questa espressione (chiamati, essere santi, insieme), per cogliere alcuni spunti per il nostro cammino triennale. 1.1 “chiamati”: la chiamata alla santità appartiene alla vita cristiana, e di riflesso a quella associativa e all’esperienza di responsabili, l’avvertire tutti gli impegni che assumiamo come altrettante chiamate. Non si può dimenticare, però, che, tra queste, è da ritenere prioritaria proprio quella alla santità. Il brano di Paolo ci stimola a compiere una riflessione importante.

Va osservato, anzitutto, che egli scrive agli abitanti di Corinto, ovvero di una città, che, in quanto località di mare, costituiva un crocevia. Paolo vi si era recato di ritorno da Atene, dove aveva incontrato non poche difficoltà nel dialogo con gli intellettuali. Corinto era allora un grande centro, che contava ben 500.000 abitanti. Qui Paolo fonda una comunità, a cui in seguito scriverà ricordando quell’ “essenziale” che non solo poteva essere vissuto anche in una città a quell’epoca tanto complessa, ma deve riuscire a risuonare pure nel nostro tempo e nelle nostre città.

Il brano dell’apsotolo è quindi la traccia fondamentale per compiere un cammino di santità, che va realizzato tenendo presenti anche le immagini a cui è stata data visibilità nel momento di preghiera vissuto a Spello, tra cui, ad esempio, il fuoco. Come spesso richiamato dal Vescovo, la tensione alla santità è proprio un fuoco, che si avverte come una forza vitale dentro di sé.

Qualora così non fosse, si tratterebbe di un richiamo sterile. In alcune belle pagine dei Padri del deserto (monaci egiziani del IV secolo) così si legge: «Abbà Lot andò a trovare abbà Giuseppe e gli disse: “Secondo le mie possibilità, recito il mio ufficio, digiuno un po’, prego, medito, vivo nel raccoglimento e, per quanto posso, purifico i miei pensieri.

Ora, cosa devo fare ancora?”. Allora il vecchio si alzò, distese le mani verso il cielo, le sue dita divennero come dieci lampade di fuoco e gli rispose: “Ah, perché non diventare tutto intero come fuoco?”». È questa un’immagine da riprendere. Il nostro tempo esige infatti una testimonianza cristiana radicale, forte, efficace, espressa nello stile discreto e dialogico che ci appartiene, ma anche con una convinzione profonda e sentita, che non si ferma davanti alle difficoltà che ci è richiesto di affrontare.

1.2 “essere santi”: la risposta alla chiamata

Cosa significa, dunque, essere santi? Cosa comporta, nella vita quotidiana, rispondere affermativamente a questa chiamata alla santità? Cosa accade nella vita di una persona, quando decide di percorrere il cammino della santità? Per dare risposta a questi interrogativi, abbiamo scelto di lasciarci accompagnare da Giuseppe Toniolo e Carlo Carretto: due persone che si sono confrontate con la misura della santità laicale; due esempi significativi, che tuttavia non sono gli unici da considerare.

Come ha ricordato il Vescovo, il 4 ottobre, a Trieste, è prevista la beatificazione di don Bonifacio, martire nelle foibe; ci auguriamo inoltre che anche la causa di Armida Barelli abbia presto un esito positivo. Gli esempi, quindi, sono numerosi e possono sostenerci nel cammino verso la santità ancor più e meglio di tante affermazioni di principio.

Del resto, lo stesso Documento della nostra XIII Assemblea nazionale2 (n. 10.2.a.) ci esorta a conoscere le storie di santità laicale; infatti, suggerisce il Progetto Formativo3 (n. 6.1), «guardare alla santità vissuta aiuta ad orientare le scelte. Non si tratta di cercare modelli da copiare, ma di scrutare nella vita di altri l’azione dello Spirito e di allenarsi ad accoglierla a nostra volta.

Conoscere la storia dei santi è un modo per capire le infinite vie che può percorrere la grazia del Signore Risorto». Ed è bello scoprire che anche i santi, a cui noi guardiamo oggi, hanno guardato ai santi che li hanno preceduti e da loro si sono lasciati sostenere. Lo scopriamo leggendo, ad esempio, gli scritti spirituali di Giuseppe Toniolo. Sono pagine il cui contenuto non si discosta troppo da quanto espresso dall’ Apostolicam Actuositatem (n. 4), laddove si invitano i laici a non separare «dalla propria vita l’unione con Cristo», ma a crescere «sempre più in essa compiendo la propria attività secondo il volere divino».

È proprio questo lo stile con cui Toniolo ha vissuto concretamente, e che ha reso esplicito nei suoi appunti. È una santità vista e sperimentata come adempimento della volontà di Dio, cercando, nel momento in cui si è chiamati a compiere le scelte, a orientare i propri disegni, a reagire alle diverse vicende umane, di riconoscere il progetto che Dio ha sul mondo e su di noi, per portarlo a compimento.

Questo modello è valido anche per noi. Se, come afferma San Paolo, siamo “chiamati” ad essere santi, ciò significa che ci è rivolto un invito e ci è chiesta una risposta. Ci torna alla memoria l’icona del pellegrinaggio nazionale che come associazione abbiamo vissuto a Loreto nel settembre 2004: Maria, la madre di Gesù, che si è posta in ascolto dello Spirito ed ha accolto la volontà di Dio nella propria vita, nella ferialità dei giorni. Il santuario di Loreto, come ricordate, custodisce secondo la tradizione – la casa di Nazareth.

Lì sentiamo risuonare la risposta di Maria all’angelo, il sì di Maria al Dio che ha aperto nuovi orizzonti alla sua esistenza e le ha suggerito la misura alta della santità.
Per noi partecipanti a questo Convegno di Assisi, la chiamata alla santità si pone a livello non solo personale, ma anche associativo. Siamo qui, infatti, in quanto Presidenti e Assistenti diocesani; abbiamo accolto nella nostra vita la proposta di un servizio all’interno dell’Ac.

Siamo invitati perciò ad interpretare anche la responsabilità associativa che ci è stata affidata secondo la chiave di lettura della santità. Il nostro incarico diocesano, regionale, nazionale all’interno dell’Associazione è una occasione da vivere santamente. Se esso non rientrasse nell’orizzonte di una risposta alla chiamata alla santità, non sarebbe significativo.

È invece necessario porsi in ascolto dello Spirito, per intuire il progetto di bene che Dio ha per noi e per la nostra Associazione, per accogliere la sua volontà e partecipare alla sua concretizzazione, per vivere in modo “santamente operoso”.

Carlo Carretto, in Il deserto nella città, scrive, come nota di diario nella Pasqua del 1977 trascorsa a Hong Kong: «Io sono sempre stato “sorpreso” dalla vita. E siccome credo che Dio sia Vita, così come è Luce e come è Amore, penso davvero che sia stato proprio Lui a “sorprendermi” nel mio cammino. Dio è sorpresa. Dio è novità. Dio è creatività.

Quando, dopo il mio lungo soggiorno nel deserto del Sahara, ebbi la gioia di rivedere Papa Giovanni, mi chiese, fissandomi con quei suoi occhietti vivaci e penetranti: “Dimmi, prima di andare laggiù in Africa, ci avevi pensato? Era stata una cosa premeditata? Nella tua vita, durante il tuo impegno qui a Roma in Azione Cattolica, non avevi qualche volta intravisto la possibilità di farti Piccolo fratello? Non avevi mai intuito che la tua vita sarebbe cambiata, che ti saresti fatto religioso… eccetera?”. “No, gli risposi, proprio no. Fu di sorpresa che Dio mi ha chiamato ed è in pochi giorni che decisi l’accettazione di ciò che credevo sua volontà, partendo per l’Africa… Non avevo mai pensato prima di allora a questa svolta”.

E il Papa, fissandomi con un sorriso, disse: “Capita sovente così. Si va a finire là dove non si era mai pensato… Anche a me è capitata la stessa cosa… non ci avevo mai pensato”. E continuò a sorridere, guardando lontano da una finestra che dava sul lago di Castel Gandolfo».

Nel rileggere questa pagina di Carretto ho pensato anche a noi: qualcuno forse si aspettava di diventare Presidente o Assistente; altri no. Alla fine, comunque, spesso siamo andati là dove non avremmo mai pensato di andare e fatto ciò che non avremmo mai pensato di fare. Questo è un dato positivo, perché sta a indicare che abbiamo conservato e custodito, anche nel servizio associativo, quel senso di sorpresa, novità e creatività di cui Carretto scrive.

1.3 “insieme”: una santità di popolo

Proprio in questo troviamo la forza e il significato dell’espressione “chiamati a essere santi insieme”. Sappiamo bene che, pur rivolgendosi ai Corinzi, Paolo allarga l’orizzonte a tutta la Chiesa e a tutta l’umanità. Noi, però, vogliamo riferirci anche a quella piccola porzione di Chiesa e di umanità che qui rappresentiamo, con la consapevolezza di essere insieme per una santità di popolo.
Aderiamo ad un’Associazione che sempre più deve riscoprire quella radice popolare di cui si è spesso discusso, anche recentemente. Essa consiste nell’essere piena espressione e parte di quel popolo di Dio a cui l’Ac rivolge il suo servizio e la sua attenzione.

Un’occasione per riflettere su questo aspetto è un’analisi di De Marco, introdotta da un articolo di Magister4, nel quale si definisce l’ “azione cattolica” (scritta in questa forma, e quindi intesa non solo come associazione, ma anche come un particolare stile) come “l’insieme dei virtuosi”. In questa dizione non è racchiuso un elogio. Si vuole piuttosto affermare che l’azione cattolica ha una misura esigente di vivere la fede, che però rischia di farla chiudere in un “circolo” ristretto, non più in grado di interagire con quel “popolo” che rappresenta i cattolici italiani.

È una riflessione che interessa naturalmente anche questioni di carattere politico, originate dal mai sopito dibattito sulla presenza e l’impegno dei credenti in questo ambito (cfr il recente discorso del Papa a Cagliari), ed evidenzia che la Chiesa sceglie come interlocutori privilegiati i politici che sono espressione del “popolo”.

È un articolo che invita a considerare come l’essere chiamati ad essere santi insieme riproponga all’Ac di attivarsi per il pieno recupero della popolarità. Il grande sforzo da compiere è quello di rendere partecipe del nostro stile, del nostro modo di essere Chiesa, dei nostri cammini formativi e delle nostre proposte un numero sempre maggiore di persone. Non si tratta di un problema di carattere quantitativo; esso riguarda, piuttosto, il senso stesso dell’idea di Ac e di Chiesa.

Noi crediamo infatti a un’Azione Cattolica popolare, che nella vita delle parrocchie sa contattare tutte le persone e interagire con il loro cammino e la loro vita. Non possiamo quindi rassegnarci ad essere, e ad essere visti, come un’associazione elitaria, anche perché in tante realtà ciò non corrisponde al vero. Deve quindi emergere con forza ed evidenza quell’idea di popolo che ci anima e raffigura il nostro sentire.

È questo un punto essenziale del cammino che siamo chiamati a percorrere. Il Progetto Formativo (n. 3.2) sottolinea: «La storia della santità laicale del Novecento e quella del laicato dell’Azione cattolica mostrano che un processo di appropriazione personale della fede non dà luogo necessariamente a una vita cristiana elitaria. Al contrario, quella cristiana può

4 Poco praticanti e poco virtuosi.

Ma sono loro che fanno “Chiesa di popolo, di Sandro Magister; Sui cattolici “scomparsi” dalla politica, di Pietro Di Marco; 11 settembre 2008 http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/206624

essere ancora un’esperienza di fede e di Chiesa popolare. Per questa ragione, ha valore anche oggi la scelta associativa quale particolare e specifica forma ecclesiale di aggregazione»5.

Dunque, la formazione proposta dall’Azione Cattolica mira ad accompagnare la persona nel suo cammino verso la santità e trova compimento nella vita associativa, che può e deve essere occasione per una esperienza personale di santità. L’espressione di San Paolo, ci dice con chiarezza e forza che siamo chiamati a essere santi insieme: tutte le generazioni come tutte le persone di ogni condizione.

Ci aiuta a comprendere la dimensione intergenerazionale e internazionale della santità un brano in particolare del libro Il gomitolo dell’alleluja di Paolo Giuntella , scomparso nei mesi scorsi, che vogliamo qui ricordare come un amico molto caro. L’autore, senza fare sconti nel descrivere la concretezza della santità, ci aiuta ad interpretare la lunga storia della Chiesa come storia di un popolo che tende alla santità: «Abbiamo fatto di tutto per nascondere questo tesoro; soprattutto nascondendo “il tesoro” dietro altri tesori meno veri o per niente veri.

Abbiamo nascosto il tesoro della verità che rende liberi, nel vaso di coccio di approssimazioni affermate talvolta come assolute, abbiamo nascosto il tesoro della misericordia, della solidarietà, della fraternità, dietro le mura spesse del clericalismo, della falsa “dignità”, dei falsi doveri del rango e della “responsabilità”, del potere inteso come culto dell’autorità a prescindere dall’autorevolezza e dalla paternità.

Ma nel nostro popolo ci sono sempre stati uomini e donne che nel corso della storia hanno vangato per dissotterrare il tesoro e la storia della chiesa è anche la storia di questo contrasto tra coloro che hanno lavorato (anche in buona fede) per sotterrare il tesoro e coloro che con vanghe e pale hanno lavorato per scoperchiare i forzieri in cui si tentava di rinchiudere o nascondere la grazia o la carità.

I santi lavorano in ogni tempo per dissotterrare il tesoro. E chi è il santo, se non l’uomo della tenerezza e della misericordia, l’uomo della mitezza, l’uomo soprattutto che accetta la scommessa di vincere la paura?»7. “Chiamati a essere santi insieme” è quindi la prospettiva che si apre di fronte a noi e ci richiama l’idea di un’Ac di popolo.

2. Il passo della testimonianza

Veniamo ora al secondo passo in avanti che l’Assemblea nazionale chiede alla nostra associazione: il passo della testimonianza. Già l’articolo 3 dello Statuto dell’Azione Cattolica Italiana ci invita a tenere strettamente uniti santità e apostolato, santità e impegno nel mondo: «I laici che aderiscono all’ACI si impegnano a una formazione personale e comunitaria che li aiuti a corrispondere alla universale vocazione alla santità e all’apostolato nella loro specifica condizione di vita»8.

Anche la Nota pastorale del IV Convegno ecclesiale (n. 4) indica questo nesso, proponendo alle Chiese particolari come prima scelta di fondo la tensione alla santità e, come seconda, «la testimonianza, personale e comunitaria, come forma dell’esistenza cristiana capace di far adeguatamente risaltare il grande “sì” di Dio all’uomo, di dare un volto concreto alla speranza, di mostrare l’unità dinamica tra fede e ragione, eros e agape, verità e carità».

Il testo continua come segue: «La paura di essere piccolo, disarmato, bambino, “artista”, ma anche la paura della maturità. La tentazione della semplificazione, della riduzione della complessità che ci circonda con ricette, manuali, formule, che conservino una purezza tanto incontaminata, da ignorare il mistero della croce, o la tentazione del gergalismo da retrobottega, la tentazione di sostituire Rouault e Chagall, che mettono paura perchè non è possibile mettergli briglie, con crostacce e chincaglierie.

La maturità cristiana, il farsi “piccoli” ma non “lattonzoli”, non è la rincorsa dell’innocenza perduta nella mummificazione spiritualista, e neppure l’iper-realismo neotemporalista: «L’innocenza dell’adulto – ci suggerisce Mounier – non potrà mai abbandonare i segni del tempo e il rimorso del peccato». La semplicità del cristiano adulto che si fa piccolo «si raggiunge dopo lunghi errori, senza miracoli, e solo la grazia, la grazia delle vette, dona la grazia finale del ringiovanimento dell’uomo nuovo».

Inoltre, il 7 settembre, incontrando i giovani a Cagliari, il Santo Padre Benedetto XVI ha usato espressioni molto intense sul tema della testimonianza, che purtroppo la stampa non ha ripreso: «Possa ognuno di voi riscoprire Dio quale senso e fondamento di ogni creatura, luce di verità, fiamma di carità, vincolo di unità, … »10.

Questo è proprio ciò che intendiamo sperimentare ed abbiamo pensato di vivere anche attraverso la redazione del Manifesto al Paese. Esso rappresenta una traccia fondamentale con cui abbiamo avviato le celebrazioni del 140°, e costituisce quindi un’impegnativa consegna affidataci dal triennio precedente.

Non possiamo dimenticare le parole che abbiamo cercato di sottolineare e di esaltare: «siamo al servizio dell’uomo per onorarne la dignità personale con i suoi valori irrinunciabili, a cominciare dalla vita e dalla pace, dalla famiglia e dall’educazione, per camminare accanto a tutti e a ciascuno, e tessere insieme una trama viva di relazioni fraterne. (…)

Il Paese merita un futuro all’altezza del proprio patrimonio di fede cristiana, cultura umanistica e scientifica, di passione civile e di solidarietà sociale. Ha diritto alla speranza. Noi vogliamo compiere un passo avanti verso questo Paese con il Vangelo e con la vita; incontro alla gente nel segno di un ethos condiviso, secondo uno spirito di autentica laicità, ricercando un’armonia sempre possibile tra piazze e campanili»11. Si tratta di un testo a tutti noto, ma che va ribadito e assunto nel tracciato che vogliamo percorrere.

3. Il cammino triennale

La santità costituisce dunque l’orizzonte programmatico per questo triennio, come si evince dagli Orientamenti, che indicano alcune chiavi fondamentali di riferimento per l’intero 2008/2011. Ogni associazione diocesana ha già individuato alcune priorità, o lo farà a breve. Ciò non costituisce un aspetto problematico, in quanto si sta effettuando un percorso comune, che prevede anche una circolarità tra Ac locali e Centro nazionale.

Ciascuna realtà deve quindi rileggere gli Orientamenti dal proprio punto di vista, a partire dal cammino della Chiesa e dell’Associazione diocesana, con la consapevolezza, però che tutti andiamo verso la stessa direzione. Nell’anno associativo che si apre, saremo accompagnati dal Vangelo di Marco.

L’episodio della professione di fede di Pietro (Mc 8, 27-36) sarà per noi motivo di provocazione. Intendiamo infatti lasciare che anche alla nostra persona, alla nostra esistenza quotidiana sia rivolta la stessa domanda: «E voi, chi dite che io sia?».

Saremo chiamati perciò a contemplare il volto di Gesù (così efficacemente rappresentato nel manifesto dell’anno), a stare con lui attraverso la lettura orante del Vangelo, perché la sua Parola si faccia spazio nella nostra vita quotidiana e orienti la nostra esistenza, nelle sue scelte piccole e grandi. Santità è conformare la nostra persona, anche e proprio nella sua dimensione feriale, alla persona di Gesù. È contemplare il suo volto per conformare al suo il nostro.

Nell’anno associativo 2009-2010 saremo accompagnati dal Vangelo di Luca; metteremo al centro della nostra attenzione la figura di Zaccheo e l’accoglienza di Gesù nella sua casa (Lc 19, 110). E la casa sarà il simbolo di riferimento fonamentale. Saremo invitati, così, a porre l’accento sulla vita della comunità dei credenti: la fede infatti ha anche una dimensione comunitaria, che si rende visibile nella comunione fra i credenti.

Nell’anno associativo 2010-2011 saremo accompagnati dal Vangelo di Matteo ed in particolare dalla conclusione del “Discorso della montagna”, in cui Gesù afferma: «Voi siete luce del mondo» (Mt 5, 13-16). Gesù consegna anche a noi oggi la missione di testimoniare la nostra fede nella realtà in cui siamo inseriti: la santità, infatti, è anche porsi a servizio dell’edificazione del Regno di Dio nel mondo.

4. Le forme della missione

I cinque grandi ambiti individuati dal Documento assembleare (due condizioni e tre obiettivi prioritari) costituiscono gli strumenti per rendere concreti e tradurre i contenuti sui quali ci siamo soffermati nel corso del Convegno, ma anche dei campi scuola estivi o di altre iniziative. Su questi aspetti, quindi, vorremmo compiere significativi passi avanti prima della prossima Assemblea nazionale. Dalle sintesi dei laboratori è emersa una grande ricchezza. È indubbiamente impossibile fornire una risposta a ogni sottolineatura. Tenterò quindi di segnalare, per ciascuno degli ambiti, alcuni elementi-chiave ed alcuni impegni che la Presidenza crede di poter assumere.

4.1 In primo luogo, è evidente che senza un cura formativo-educativa, da rafforzare ulteriormente, l’Ac non può procedere adeguatamente nel suo percorso. Si tratta di una cura duplice: essa va, da un lato, effettuata internamente, recuperando il grande patrimonio di cui l’Associazione è depositaria e riuscendo a trasmetterlo al tempo attuale; dall’altro, va sviluppata esternamente, sapendo entrare nel vivo delle odierne problematiche educative.

L’intento di perseguire tale obiettivo, emerso nelle riunioni della Presidenza nazionale, esce rafforzato dalle riflessioni proposte dal laboratorio che ha trattato questo aspetto. Il tema, per l’indubbia e decisiva valenza che ha acquistato, anche per l’insistenza del Santo Padre e per l’attenzione che probabilmente ad esso riserveranno gli Orientamenti del prossimo decennio, va posto al centro del cammino dell’anno associativo in corso, cercando di fare interagire sulla questione tutte le forze vive di cui l’Associazione dispone.

Abbiamo quindi deciso di dedicare il Convegno delle Presidenze, che si svolgerà dall’8 al 10 maggio 2009, proprio a questa problematica. Ne vorremmo fare sia un momento di sintesi della ricchezza del cammino che l’Associazione ha percorso e percorre sull’ampio fronte educativo, sia un’occasione per offrire un contributo pubblico su tali tematiche da parte dell’Ac.

È un appuntamento che coinvolgerà le Presidenze nella loro interezza, e quindi anche i movimenti, in particolare il Msac e il Mieac, che su questo aspetto possono avere un ruolo rilevante. Come ricorderete, inoltre, abbiamo avviato, nel triennio scorso, il Laboratorio nazionale della formazione. Si è trattato di un’intuizione significativa, che ci è stata consegnata dal Progetto formativo e che abbiamo iniziato a concretizzare. Ciò ha sollecitato, in alcune realtà, l’attivarsi di esperienze analoghe in ambito diocesano.

L’intera Associazione, a tutti i livelli, avverte infatti in modo condiviso l’importanza di dotarsi di un “luogo” che consenta di “pensare” la formazione, senza viverla in modo passivamente ripetitivo, ma riuscendo a intercettare le esigenze più vive dell’oggi. È però necessario compiere un’ulteriore tratto di strada riguardo alle modalità con cui sviluppare tale strumento. Proprio per questo, abbiamo scelto di non indicare appuntamenti relativi al Laboratorio, ritenendo piuttosto di effettuare, nella riunione del Consiglio nazionale che si svolgerà a ottobre, un’attenta riflessione che permetta di comprendere come proseguire questa significativa esperienza, in modo da renderla sempre più condivisa.

A questo fine, sarà importante assumere tutte le diverse iniziative realizzate a livello diocesano, che saranno fondamentali per compiere l’elaborazione consiliare. Tutto ciò consentirà di riavviare in forma più efficace il Laboratorio nazionale, rendendo ancora più esplicito il suo collegamento con due aspetti. Il primo è quello relativo ai cammini e agli itinerari formativi.

Proprio per questo si è scelto che l’avvio della programmazione dei testi del prossimo anno associativo, il 3 prossimo ottobre, preveda un momento iniziale comune e unitario, che veda la partecipazione di tutte le commissioni. Si vuole così iniziare a costruire un’unica mappa che sappia mettere in connessione itinerari formativi, cammini formativi e formazione dei responsabili.

Vorremmo inoltre pubblicare, prima del Convegno delle Presidenze, i due fascicoli sulle figure educative e sul gruppo, di cui è stata fornita una bozza in sede assembleare. Si intende dunque compiere uno sforzo complessivo di sintesi, che avrà nel Laboratorio il punto di arrivo.

Questo richiede però di aumentare gli spazi non solo di dialogo, ma anche di confronto, che sipossono concretizzare attraverso l’offerta di suggerimenti scritti e di osservazioni puntuali, tenendo conto che alla fase essenziale dello scambio e della discussione deve comunque seguire la capacità di offrire, all’interno dei testi, una linea guida sintetica.

Vorremmo dunque che nel Convegno delle Presidenze convergessero più percorsi compiuti sul versante della cura educativa: un dibattito di carattere “pubblico”, un rilancio del Laboratorio della formazione, la presentazione di alcuni sussidi, l’interazione con i cammini formativi.

La Presidenza intende assumere concretamente questo impegno, tenendo conto, tuttavia, che l’educazione viene essenzialmente dal cuore e che nessuno strumento potrà mai sostituire quel dono rappresentato dalla generosità delle persone e dal loro sforzo di essere accanto a coloro che ci sono stati affidati e di accompagnarli.

La chiamata alla santità esige anche, infatti, che si riesca a suscitare nuove vocazioni educative, facendo passare dallo slancio disinteressato all’approfondita competenza, e quindi alla capacità di valorizzare tutti gli strumenti proposti.

4.2 L’altro riferimento fondamentale da tenere presente è costituito dal tema della riscoperta della fede. Si tratta di un aspetto su cui l’Associazione, e la stessa Chiesa, hanno ancora molta strada da compiere. Se dal punto di vista educativo l’Ac ha acquisito nel tempo un grande ricchezza, il patrimonio relativo al problema della riscoperta della fede va ancora costituito. È una lacuna che occorre necessariamente colmare, ed è dovuta forse all’abitudine a una vita pastorale e associativa sostanzialmente ripetitiva.

La Presidenza nazionale vuole quindi impegnarsi anche su questo versante; crede però opportuno dedicare a tale elaborazione uno spazio temporale più ampio, guardando come parziale punto di arrivo il Convegno delle Presidenze del 2010. Il cammino appare infatti lungo e delicato, anche se sono indubbiamente presenti tante esperienze significative effettuate a livello locale.

È necessario, ad esempio, convenire sia sulla terminologia da adottare, cui sono sottesi naturalmente i contenuti, sia sul metodo da seguire per rispondere a quel profondo desiderio del cuore che ci invita ad aiutare le persone a incontrare il Signore. La sintesi finora compiuta su questi temi non appare ancora in grado di trovare una piena convergenza.

Nel Convegno dei Presidenti e degli Assistenti diocesani del 2009 (4-6 settembre) si potrà comunque verificare a quale livello è giunto il percorso. Il cammino che si è avviato procede su più fronti. Il primo riguarda gli educatori, gli animatori di gruppo, gli assistenti.

Sappiamo infatti che il tema della riscoperta della fede passa attraverso le persone che sanno accompagnare. Probabilmente, quindi, occorrerà comprendere meglio il significato che devono avere tali figure, anche riguardo a questa specifica dimensione. Stiamo inoltre compiendo una ricerca di ordine culturale, relativa al tema del recupero dell’interiorità. Sapere ascoltare la voce di Dio che ci parla significa sapergli fare spazio all’interno di sé, prima ancora che all’esterno.

Per raggiungere questo scopo, va superato un problema culturale, oltre che spirituale, perché è necessario imparare ad aprire le porte alle domande delle persone, non solo ascoltandole, ma anche aiutandole a porsi le grandi questioni dell’esistenza. Da qui emerge l’esigenza di rendere sempre più stretto il legame tra la proposta formativa e l’impegno culturale dell’Associazione, proprio perché la cultura è vita. Stiamo già operando per raggiungere il nostro scopo, percorrendo una pluralità di strade. Basti pensare allo sforzo che si compie in ordine al tema della famiglia, che è anch’essa luogo di riscoperta della fede.

4.3 A tutto ciò va collegato l’impegno per far crescere la fede. Non sempre è semplice distinguere tale questione dalla precedente, dal momento che sono indubbiamente interconnesse. Il Documento finale cerca di farlo, perché si comprenda che non è sufficiente sentirsi appagati dall’esistente, ma occorre elaborare prospettive nuove, guardando più lontano, muovendo verso il “largo”.

Appare importante, come evidenziato dai laboratori, l’attenzione alla formazione di ordine socio-politico, alle domande di senso, alla cura per ogni età della vita. Sappiamo però che l’ordinaria formazione degli aderenti non rappresenta un dato scontato. Mentre dunque guardiamo alle problematiche educative e alla riscoperta della fede, dobbiamo però continuare a sostenere cammini formativi sempre più esigenti e qualificati per i soci. Cosa indica, infatti, quel fuoco a cui abbiamo fatto riferimento, se non il carattere impegnativo di una proposta formativa, che sappia rispondere alla chiamata alla santità?

4.4 Per quanto riguarda l’impegno per la promozione del bene comune, si avverte l’esigenza, come sottolineato dai laboratori, da un lato, di disseminare nei cammini formativi l’attenzione alla formazione sociale e politica; dall’altro, di qualificare meglio alcune persone. Vorremmo infatti istituire, in occasione del rilancio del Laboratorio, una specifica sezione di formazione sociale, dedicata esplicitamente alla Dottrina sociale della Chiesa.

Sappiamo comunque che il tema del bene comune ha implicazioni amplissime, che impegnano i Movimenti, gli Istituti, l’intera Associazione con i suoi cammini. In merito a tale questione, mi ha particolarmente colpito un articolo di De Rita, nel quale viene riconosciuta alla Chiesa la caratteristica di “presidiare il territorio”12.

È questa una capacità che contraddistingue anche l’Ac. Si tratta di una strada che l’Azione Cattolica deve e può percorrere con più forza e pienezza, per la sua natura di associazione di carattere diocesano ma allo stesso tempo nazionale, per la sua tradizione culturale, per il suo essere realtà fatta di persone di ogni condizione ed età.

È questo un servizio che possiamo rendere per la vita della Chiesa oggi e per il bene comune. Il tempo attuale, inoltre, richiede di inventare nuove forme di investimento “dal basso”, suscitando passione e interesse concreto nella vita delle persone per questioni di ordine locale, con la consapevolezza che esse, comunque, non sono limitate a territori circoscritti, ma riguardano tutti. I problemi ambientali della Campania, o la lotta alla criminalità nel Sud, cioè, non toccano solo quelle specifiche zone, ma sono ben più ampi e diramati.

L’Azione Cattolica è dunque pienamente sul territorio, e allo stesso tempo si impegna per la sussidiarietà e per la solidarietà, nel senso più pieno e significativo.

4.5 Va considerata, infine, l’importanza del legame associativo, che è qualcosa di più del semplice incontrarsi, in quanto si fonda su un’identità, su una scelta precisa, anche se dinamicamente vissuta, su un riferimento costitutivo, su un modo di essere Chiesa.

Ai Presidenti e agli Assistenti diocesani è affidata oggi con particolare forza la cura di questo legame. Il Centro nazionale, da parte sua, propone una molteplicità di strumenti: l’appuntamento in corso, il Modulo per nuovi Assistenti, che si svolgerà nel mese di ottobre, il Convegno per Assistenti e quello delle Presidenze, le visite alle regioni, adeguatamente preparate insieme con le Delegazioni, le Settimane e i Progetti, il cui sviluppo a livello locale vogliamo verificare accuratamente.

Abbiamo inoltre in animo di proporre alcuni microprogetti, in grado di mostrare come, attraverso l’Associazione, si sia capaci di essere solidali e di prendersi cura degli altri. Il legame associativo rappresenta una scommessa fondamentale nella quale i Presidenti diocesani si devono giocare, con la specificità del loro ruolo. Tutti i nostri impegni e le nostre scelte, cioè, hanno bisogno che questo legame divenga sempre più forte e significativo.

Si tratta di uno strumento associativo non fine a se stesso, o a carattere unicamente intrassociativo. Esso può infatti costituire un modo efficace per fare incontrare tante persone con il Signore, per aiutarle a porsi al servizio della Chiesa e a crescere in umanità.

Crediamo fortemente in questo. Perciò l’Azione Cattolica deve essere nuovamente proposta nelle parrocchie, nelle città, nei seminari, con la creatività della vita associativa diocesana e con il sostegno che sarà in grado di dare il livello nazionale.

Conclusione Desidero concludere con due brani davvero interessanti che possono costituire una sintesi efficace dei lavori del Convegno. Uno di essi è molto noto, perché il suo autore, don Tonino Bello, è caro a noi tutti. L’altro è di frère Roger Schultz, che è stato fondatore e priore della comunità di Taizé.

Essi possono indicare la tonalità di fondo con cui siamo invitati a porci sul cammino della santità. Come si legge al numero 30 della Nota dopo il IV Convegno ecclesiale nazionale, infatti, siamo invitati a« portare una parola di speranza agli uomini e alle donne, stretti nella morsa dell’inquietudine e del disorientamento, più delle attività e delle iniziative saranno la saldezza della nostra fede, la maturità della nostra comunione, la libertà dell’amore, la fantasia della santità»13.

Don Tonino Bello così esortava l’AC della sua diocesi, in occasione della Festa dell’Adesione del 1990: «Siate soprattutto uomini. Fino in fondo. Anzi, fino in cima. Perché essere uomini fino in cima Significa essere santi.

Non fermatevi, perciò, a mezza costa: la santità non sopporta misure discrete. E, oltre che iscritti all’Azione Cattolica, siate esperti di Cattolicità Attiva: capaci, cioè, di accoglienze ecumeniche, provocatori di solidarietà planetarie, missionari “fino agli estremi confini”, profeti di giustizia e di pace.

E, più che tesserati, siate distributori di tessere di riconoscimento per tutto ciò che è diverso da voi, disposti a pagare con la pelle il prezzo di quella comunione per la quale Gesù Cristo, vostro incredibile amore, ha donato la vita»14.

Ho scelto poi un brano di frère Roger perché ben si attaglia a una caratteristica fondamentale dell’Azione Cattolica, che presenta talvolta elementi di difficoltà e fatica, ma costituisce anche motivo di grande gioia e impegno: la scelta della globalità nella vita della vita della Chiesa: «Una giornata è completa quando è in piccolo come un’intera vita. Ogni istante del giorno conosce la sua intensità.

Ritrovare il senso di stupore per ciascuno dei 1.440 minuti di ogni giorno. Ritrovare la meraviglia per quelle due pietruzze che Marc mi ha regalato anni fa: la minore è piatta, scura, leggermente, zebrata, al suo centro vedi segnato un cerchio. Ogni giornata può conoscere delusioni, aggressioni, sapori amari, altrettante trappole in cui l’ammirazione scompare.

Ogni giornata conosce soprattutto l’attesa della sua venuta. Una giornata è completa, vasta, quando le esperienze più dure non giungono fino a bloccare il soffio di una pienezza»15.


1 CEI, Rigenerati per una speranza viva (1Pt 1,3): testimoni del grandi “sì” di Dio all’uomo. Nota pastorale dopo il IV Convegno Ecclesiale Nazionale, 29 giugno 2007, n. 4

2 ACI, XIII Assemblea Nazionale, Cittadini degni del Vangelo. Ministri della sapienza cristiana per un mondo più umano, 03 maggio 2008 3 ACI, Perché sia formato Cristo in voi. Progetto Formativo, Roma, AVE, 20055

6 7

007 http://www.azionecattolica.it/net/notizie/i-cattolici-italiani-tra-piazze-e-campanili

8 9 ACI, Statuto, Roma, AVE, 2005 CEI, Rigenerati per una speranza viva (1Pt 1,3): testimoni del grandi “sì” di Dio all’uomo. Nota pastorale dopo il IV Convegno Ecclesiale Nazionale, 29 giugno 2007, n. 4.

ACI, Perché sia formato Cristo in voi. Progetto Formativo, Roma, AVE, 2005 Paolo e Vittorio E. Giuntella, Il gomitolo dell’alleluja: di padre in figlio il filo della fede, Roma, AVE, 1986, p. 21-22

10 Benedetto XVI, Discorso all’incontro con i giovani, Cagliari, 7 settembre 2008. Cfr.:11 I cattolici italiani tra piazze e campanili. Manifesto dell’Azione Cattolica al Paese, Castel S. Pietro Terme, 29

12 Giuseppe De Rita, La modernità della Chiesa, Corriere della Sera, 13 agosto 2008

http://www.corriere.it/editoriali/08_agosto_13/la_modernita_della_chiesa_8ea2c998-68e3-11dd-87db00144f02aabc.shtml

13 CEI, Rigenerati per una speranza viva (1Pt 1,3): testimoni del grandi “sì” di Dio all’uomo. Nota pastorale dopo il IV Convegno Ecclesiale Nazionale, 29 giugno 2007, n. 30. 14 15 Domenico Amato (a cura di), Fino in cima. Scritti e interventi di Mons. Tonino Bello all’AC, Roma, AVE, 2003 fr. Roger Schultz, Vivere l’insperato, pag. 24, Brescia, Morcelliana, 1977 10

CRISTIANI E BUDDISTI IN DIALOGO – FESTIVITÀ BUDDISTA DI VESAKH

Posted on Aprile 6th, 2009 di Angelo |

Budda festa dvesack

Buddhismo festa di Vesakh

festa del Vesakh è la più importante ricorrenza nel calendario religioso buddista.  In questa ricorrenza si ricordano tre momenti fondamentali della vita del Buddha.

La tradizione vuole che egli sia nato, abbia ottenuto l’illuminazione e sia scomparso con l’entrata nel Nirvana durante la luna piena del mese di maggio. La ricorrenza è festeggiata da milioni di buddisti in date differenti, a seconda delle interpretazioni astrologiche. In questa ricorrenza che è dedicata alla preghiera, all’osservanza dei precetti buddisti e alle opere di beneficenza, c’è la tradizione di liberare gli animali in cattività, in segno di rispetto per il mondo della natura. In India, dove è considerata festività pubblica, si celebra in particolare in Bihar, considerato il luogo dove Buddha ha raggiunto l’illuminazione spirituale, a Sarnat, in Uttar Pradesh, e a Bodgaya. Per alcuni la festività è circoscritta al plenilunio, per altri riguarda l’intero mese.

In Italia, tutti i centri aderenti all’UBI (Unione Buddista Italiana insieme anche ad altri centri buddisti italiani) hanno deciso di celebrare la ricorrenza l’ultimo fine settimana di maggio. Il Vesakh è l’unica festività buddista ufficialmente riconosciuta anche dallo Stato italiano.


http://amici-in-allegria.spaces.live.com/blog/cns!752AC0CB40CEB938!2605.entry

buddismo vesakh

MESSAGGIO DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO IN OCCASIONE DELLA FESTIVITÀ BUDDISTA DI VESAKH

05.04.2009

La festa di Vesakh è la più importante per i Buddisti. In essa si commemorano i principali avvenimenti della vita di Buddha. Quest’anno la festa sarà celebrata l’8 aprile in Giappone e Taiwan, il 2 maggio in Corea e l’8 maggio in tutti gli altri Paesi di tradizione budista. Per tale circostanza, il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso ha fatto pervenire ai Buddisti il seguente messaggio:

hiroshimakoen

“…La sorgente spirituale è pura e brillante,

solo gli affluenti sono fangosi e scorrono nell’oscurità.

Attaccarsi ai fenomeni è causa di illusione,

ma attaccarsi alla Verità non è il vero satori…”

Sandōkai (參同契)

Testimoni dello spirito di povertà:


Cristiani e Buddisti in dialogo

turan-card-88104cCari amici buddisti,

La festa di Vesakh è la più importante per i Buddisti. In essa si commemorano i principali avvenimenti della vita di Buddha.

Quest’anno la festa sarà celebrata l’8 aprile in Giappone e Taiwan, il 2 maggio in Corea e l’8 maggio in tutti gli altri Paesi di tradizione buddista. Per tale circostanza, il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso ha fatto pervenire ai Buddisti il seguente messaggio:

1. La prossima festa di Vesakh/Hanamatsuri offre una gradita occasione per porgervi, da parte del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, sentite felicitazioni e gli auguri più cordiali: questa festività possa portare ancora una volta gioia e serenità nei cuori di tutti i buddisti in ogni parte del mondo.

Questa celebrazione annuale offre ai cattolici l’opportunità di scambiare auguri con gli amici ed i vicini buddisti e di rafforzare, in tal modo, i legami di amicizia già esistenti e crearne di nuovi. Questi legami di cordialità ci consentono di condividere le nostre gioie, speranze e ricchezze spirituali.

2. Mentre rinnoviamo, in questo periodo, i nostri sentimenti di vicinanza a voi buddisti, diviene sempre più chiaro che, insieme, noi siamo in grado non solo di contribuire, nella fedeltà alle nostre rispettive tradizioni spirituali, al benessere delle nostre comunità, ma anche a quello di tutta la comunità umana.

Avvertiamo in maniera acuta la sfida che è di fronte a noi, rappresentata, da una parte, dal sempre più vasto fenomeno della povertà nelle sue varie forme e, dall’altra, dalla ricerca sfrenata del possesso di beni materiali e dalla diffusione del consumismo.

tauran-card-300x2043. Come ha recentemente affermato Sua Santità il Papa Benedetto XVI, la povertà può essere di due tipi molto differenti, cioè una povertà «da scegliere» ed una «da “combattere”» (Omelia, 1° gennaio 2009).

Per un cristiano, la povertà che va scelta è quella che consente di camminare sulle orme di Gesù Cristo. Facendo così un cristiano si rende disponibile a ricevere le grazie di Cristo, che da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (cfr. 2 Cor. 8,9).

Noi intendiamo questa povertà anzitutto come uno svuotamento dal proprio io, ma la vediamo anche come un’accettazione di noi stessi per come siamo, con i nostri talenti ed i nostri limiti.

Tale povertà suscita in noi una volontà disponibile ad ascoltare Dio ed i nostri fratelli e sorelle, ad aprirci a loro e a rispettarli come individui.

Noi apprezziamo tutta la creazione, comprese le realizzazioni del lavoro umano, ma siamo guidati a farlo liberamente e con gratitudine, attenzione e rispetto, insieme ad uno spirito di distacco che ci consente di usare dei beni di questo mondo come “gente che non ha nulla e invece possediamo tutto” (2 Cor. 6,10).

4. Al tempo stesso, come ha notato il Papa Benedetto XVI, «c’è una povertà, un’indigenza, che Dio non vuole e che va “combattuta”; una povertà che impedisce alle persone e alle famiglie di vivere secondo la loro dignità; una povertà che offende la giustizia e l’uguaglianza e che, come tale, minaccia la convivenza pacifica» (Omelia, 1° gennaio 2009).

Inoltre, “nelle società ricche e progredite esistono fenomeni di emarginazione, povertà relazionale, morale e spirituale: si tratta di persone interiormente disorientate, che vivono diverse forme di disagio nonostante il benessere economico” (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2009, n. 2).

5. Mentre noi, come cattolici, riflettiamo in tal modo sul significato della povertà, siamo anche attenti alla vostra esperienza spirituale, cari amici buddisti. Desideriamo ringraziarvi per la vostra illuminante testimonianza di distacco ed appagamento per ciò che si ha.

Monaci, monache e molti laici devoti tra di voi abbracciano la povertà “da scegliere”, che nutre spiritualmente il cuore umano, arricchendo in maniera sostanziale la vita con uno sguardo più profondo sul significato dell’esistenza e sostenendo l’impegno a promuovere la buona volontà dell’intera comunità umana. Permettettici di rinnovare i nostri cordiali saluti e di augurare a tutti voi una felice festa di Vesakh/Hanamatsuri.

Jean-Louis Cardinal Tauran
Presidente

Arcivescovo Pier Luigi Celata
Segretario

shintobudda

Tempio shinto e tempio buddista sull’ isola di Miyajima

TESTO IN LINGUA INGLESE
Witnessing to a Spirit of Poverty,
Christians & Buddhists in Dialogue

Dear Buddhist friends,

1. The forthcoming feast of Vesakh/Hanamatsuri offers a welcome occasion to send you, on behalf of the Pontifical Council for Interreligious Dialogue, our sincere congratulations and cordial best wishes: may this feast once again bring joy and serenity to the hearts of all Buddhists throughout the world. This annual celebration offers Catholics an opportunity to exchange greetings with our Buddhist friends and neighbours, and in this way to strengthen the existing bonds of friendship and to create new ones. These ties of cordiality allow us to share with each other our joys, hopes and spiritual treasures.

2. While renewing our sense of closeness to you, Buddhists, in this period, it becomes clearer and clearer that together we are able not only to contribute, in fidelity to our respective spiritual traditions, to the well-being of our own communities, but also to the human community of the world. We keenly feel the challenge before us all represented, on the one hand, by the ever more extensive phenomenon of poverty in its various forms and, on the other hand, by the unbridled pursuit of material possessions and the pervasive shadow of consumerism.

3. As recently stated by His Holiness Pope Benedict XVI, poverty can be of two very different types, namely, a poverty “to be chosen” and a poverty “to be fought” (Homily, 1st January 2009). For a Christian, the poverty to be chosen is that which allows one to tread in the footsteps of Jesus Christ. By doing so a Christian becomes disposed to receive the graces of Christ, who for our sake became poor although he was rich, so that by his poverty we might become rich (Cf. 2 Corinthians 8, 9). We understand this poverty to mean above all an emptying of self, but we also see it as an acceptance of ourselves as we are, with our talents and our limitations. Such poverty creates in us a willingness to listen to God and to our brothers and sisters, being open to them, and respecting them as individuals. We value all creation, including the accomplishments of human work, but we are directed to do so in freedom and with gratitude, care and respect, enjoining a spirit of detachment which allows us to use the goods of this world as though we had nothing and yet possessed all things (Cf. 2 Corinthians 6, 10).

4. At the same time, as Pope Benedict noted, “there is a poverty, a deprivation, which God does not desire and which should be fought; a poverty that prevents people and families from living as befits their dignity; a poverty that offends justice and equality and that, as such, threatens peaceful co-existence (l.c.).” Furthermore, “in advanced wealthy societies, there is evidence of marginalization, as well as affective, moral, and spiritual poverty, seen in people whose interior lives are disoriented and who experience various forms of malaise despite their economic prosperity” (Message for World Day of Peace 2009, n. 2).

5. Whereas we as Catholics reflect in this way on the meaning of poverty, we are also attentive to your spiritual experience, dear Buddhist friends. We wish to thank you for your inspiring witness of non-attachment and contentment. Monks, nuns, and many lay devotees among you embrace a poverty “to be chosen” that spiritually nourishes the human heart, substantially enriching life with a deeper insight into the meaning of existence, and sustaining commitment to promoting the goodwill of the whole human community. Once again allow us to express our heartfelt greetings and to wish all of you a Happy Feast of Vesakh/Hanamatsuri.

Jean-Louis Cardinal Tauran
President

Archbishop Pier Luigi Celata
Secretary

LE DUE CULTURE – Francesco Paolo Casavola

Posted on Luglio 12th, 2009 di Angelo

Francesco Paolo Casavola

Storico del diritto romano, costituzionalista, nato a Taranto il 12 gennaio 1931. Conseguita nel 1958 la libera docenza in diritto romano, è diventato (1960) professore di istituzioni di diritto romano, insegnando questa disciplina prima all’università di Bari, poi (1967) all’università di Napoli, dove nel 1977 è passato all’insegnamento di storia del diritto romano. Socio di numerose Accademie e società scientifiche, dal marzo 1998 è Presidente dell’Istituto della Enciclopedia Italiana.

LE DUE CULTURE

Francesco Paolo Casavola


Ludovico Geymonat apre la prefazione all’edizione Feltrinelli del libro di Charles Percy Snow, romanziere e scienziato inglese, intitolato Le due culture1, con questa frase: “Nessuno può essere, oggi, così cieco da non rendersi conto che l’esistenza di due culture, tanto diverse e lontane una dall’altra quanto la cultura letterario-umanistica e quella scientifico-tecnica, costituisce un grave motivo di crisi della nostra civiltà; essa vi segna una frattura che si inasprisce di giorno in giorno, e minaccia di trasformarsi in un vero muro di incomprensione, più profondo e nefasto di ogni altra suddivisione”.


Era il luglio 1964. Sono trascorsi quarantatre anni e quelle parole con quel giudizio “muro di incomprensione, più profondo e nefasto di ogni altra suddivisione”, sono ancora più che mai attuali. Sono mutati i contesti, ma proprio per questo le due culture hanno segnato la loro capacità di sostituirsi ad “ogni altra suddivisione”. Quando Snow preparava il suo libro, uscito per

la Cambridge University Press nel 1959, sullo scenario inglese si avvertiva, come effetto della separazione degli umanisti dagli scienziati, un ritardo, rispetto alla Russia e agli Stati Uniti, nel sistema della istruzione tale da non far fronte alle esigenze del progresso tecnologico.


L’eccesso di specializzazione nel mondo accademico, con una dominanza assoluta della matematica, isolava gli inglesi dalle scienze applicate. L’istruzione media, con fondamento prevalentemente letterario, non dava adito alla comprensione della mentalità e delle leggi logiche della scienza né predisponeva talenti indirizzati alla ricerca e progettazione tecnologica.


Più in generale, ancora, da questa frattura tra umanesimo e scienza, derivava una incapacità di collegare mutamento sociale e rivoluzione scientifica. Snow proponeva una riforma dei programmi scolastici, che non solo riducesse il diaframma tra educazione letteraria e scientifica, e per questa seconda tra scienza pura e scienze applicate, ma che impartisse ai giovani scienziati una profonda e nuova educazione umana.


Per questa educazione umana sembra proporre le scienze della società, dietro le quali potrebbe avanzare una terza cultura. Nel 1968, nella collana Nuovo Politecnico Einaudi, esce di Giulio Preti, Retorica e logica, le due culture2. Il quadro storico è più ampio, la dialettica tra vecchio e nuovo èpiù tagliente.


Si tratta di fare i conti con l’intera tradizione della nostra civiltà: “Di questa tradizione fanno parte una ricca eredità letteraria, una gloriosa storia della scienza: l’una e l’altra, nei millenni, hanno dato, a volte in cooperazione, più spesso in discordia, il carattere e il volto a quella che ancora si chiama ‘civiltà europea’, e non si sa per quanto ancora continuerà a chiamarsi così.


Letteratura e scienza: due forme, due atteggiamenti, che a lungo si sono contesi il primato nella nostra cultura, e che entrambe hanno preteso di caratterizzarla; e che ora si trovano ancora di fronte, forse per l’ultima volta, nel grave momento storico in cui sembra decidersi se la civiltà europea debba continuare a vivere, oppure debba voler morire”3.


Preti è molto severo nel giudicare il libro di Snow “un brutto libro, arbitrario, superficiale, in cui un tema così importante è stato impostato e trattato con una disinvoltura ‘giornalistica’ che non meritava”4. Ad uno scheletrico sunto del libro conferenza di Snow, Preti aggiunge un giudizio sulla ignoranza scientifica degli scienziati, per lo più proletari della ricerca o savant bétes come li chiamava A.Huxley sulla scia di V. Hugo: “piccoli ricercatori senza cultura e senza luce, “Banasoi“ della ricerca scientifica in laboratorio, le cui microricerche si compongono poi nei grandi quadri scientifici che trascendono la loro intelligenza e la loro cultura. Molti di loro riescono poi a salire in cattedra – ahimè: e, se pure possono educare qualcuno, educano soltanto degli altri “Banasoi“, che quando verrà il loro turno saliranno in cattedra. Fuori dal loro ‘Istituto’, smettono di pensare, e ricadono immediatamente al livello di mentalità pre-logica delle loro mogli, madri e nonne. Per questo, proprio per mancanza di intelligenza, cultura e fantasia, sono spesso degli ottusi conservatori.


Mentre per i letterati succede (sempre da noi, in Italia, in Francia e altrove) proprio il contrario: per quanto modesti, non scadono mai al livello di bruti, di “Banasoi“ della penna: conservano un senso di critica, di autonomia, di libertà dal costume e dalla “doxa pollón”. E’ ben giusto, con buona pace di Snow, che si siano arrogati il titolo di ‘intellettuali’5”.


E correggendo Snow, Preti trova che reazionari e progressisti ci sono da una parte e dall’altra. L’opposizione non sta tra gli individui, ma tra humanae litterae e scienza. Due forme mentali, due rappresentazioni della verità. Da diverso altro scrittore inglese, il Trilling, Preti accetta la definizione della letteratura come critica della vita. Ma è nel Seicento che alla tradizione degliantichi, raccolta nel termine delle lettere, viene contrapposta la novità dei moderni, che criticano il modello di pensiero degli antichi. La polemica antiaristotelica contro il principio di autorità vede uniti Galileo, Bacone, Gassendi, Pascal. Il principio di autorità come chiarisce Preti, non è il rifiutodi pensare con la propria testa. Lo stesso San Tommaso affermava argumentum ex auctoritate infirmissimum est. Auctoritas è la tradizione, sono i libri della tradizione, tra i quali si selezionavano i buoni libri degli antichi e i cattivi libri della scolastica medievale. Invece “i moderni ripudiano, di principio, i libri come tali, buoni o cattivi che siano, cercando la verità nella ragione e nell’esperienza, e continuando a leggere i libri solo sussidiariamente, per quel tanto di ragione e di esperienza che possono contenere6”. E’ dunque questa la radicale rottura, come si esprime Preti, delSeicento rispetto al Rinascimento umanistico.


E’ significativa la nota immagine di Bernardo di Chartres “nani sumus supra humeros gigantis”. I moderni nani sulle spalle dei giganti vedono più lontano. Ma se antichi vuol dire più vecchi, e più vecchi vuol dire con maggiore esperienza i veri antichi sono i moderni, idea presente, ricorda Preti, nella Cena delle ceneri di Giordano Bruno, e nei Problemata di Cassmann del 1546. La conoscenza è dunque progressiva. Ma Preti sollecita un approfondimento per quel che riguarda Galileo, l’idea del processo si connette con l’idea dell’infinità del vero: “Extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intellegibili, che sono infiniti,l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come uno zero”7. Intensive, invece, come nei teoremi delle matematiche pure la cognizione dell’intellettuale umano “ragguaglia la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa essere sicurezza maggiore”8.


E tuttavia “Dio conosce tutte le proposizioni matematiche nella loro infinità, in un solo istante e intuitivamente, mentre il nostro intelletto deve procedere con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione”. Senza seguire la ricca analisi sulla polemica antiumanistica del Seicento, giungiamo alla conclusione di Fontenelle, che appare a Preti come uno schema di filosofia della storia: “Il confronto che abbiamo fatto degli uomini di tutti i secoli con un uomo solo può estendersi a tutta la nostra questione degli antichi e dei moderni. Una buona mente colta è composta, per così dire, di tutte le menti dei secoli precedenti: non è che una medesima mente che si è coltivata pertutto quel tempo. Così questo uomo che è vissuto dall’inizio del mondo fino ad oggi ha avuto la sua infanzia in cui non si è occupato che dei bisogni più urgenti della vita, la giovinezza in cui è riuscito abbastanza bene nelle cose dell’immaginazione, come la poesia e l’eloquenza, e in cui anche ha cominciato a ragionare, ma con meno solidarietà che valore. Ora è nell’età virile, in cui ragiona con più forza e con più lumi che mai [143]”9. La civiltà classica è dunque prevalentemente letteraria e umanistica, quella moderna è una civiltà della scienza, e dunque superiore.


Lasciamo a questo punto il libro di Preti, per riprendere il filo del discorso come era proposto da Snow: l’educazione umana degli scienziati. Nella prima metà del Novecento agli scienziati e ai tecnici si poneva il tema della speranza sociale, di come cioè il progresso delle conoscenze e delle tecnologie potesse condurre anche al progresso della condizione umana, non solo nei paesi dell’Occidente, ma in tutto il pianeta. E’ il tema dei rapporti tra scienza e politica nella duplice versione del comunismo e del capitalismo. E’ il tema della dipendenza delle tecnoscienze dal mercato o dallo Stato.


Con la bomba atomica si apre l’era della sovranità della tecnica con la stessa tensione che aveva attraversato la modernità tra potere pubblico e libertà privata. La possibilità che l’uso bellico dell’energia atomica conducesse ad un olocausto nucleare dell’intera specie umana ha determinato all’indomani della seconda guerra mondiale, con la guerra fredda tra le due megapotenze Unione Sovietica e Stati Uniti, il cosiddetto equilibrio del terrore, cioè la minaccia senza seguito del conflitto nucleare.


La fisica atomica è il simbolo della potenza della scienza sul destino dell’umanità al bivio tra impiego bellico o pacifico di una energia scoperta tra calcolo matematico e costruzione tecnica. Ma la civiltà della scienza non si è rivolta solo alla realtà della natura esterna all’uomo, giungendo a dominarla dopo averne letto le leggi, fino a produrla sinteticamente nelle materie plastiche o a manipolarla geneticamente nelle specie botaniche. La scienza si è impossessata del corpo dell’uomo, ne ha spostato i confini naturali della nascita e della morte. La biomedicina è risalita dal nato al feto dall’embrione ai gameti, fin dove la spes hominis è solo un materiale cellulare.


Da quando il sesso del nascituro era ignoto fino al parto, siamo arrivati alla conoscenza dell’embrione, delle sue alterazioni e difettività, che possono portare il nascituro ad una esistenza non degna, come s’usa dire, di essere vissuta, e che consigliano selezione terapeutica o addirittura eugenetica. Le tecniche di procreazione medicalmente assistita combattono sterilità e infertilità e pongono alternative tra inseminazione omologa e eterologa.


La possibilità che la scienza moduli l’individuo umano fino a costituirne una copia con le tecniche di clonazione è un segnale di quanto grande sia il suo potere dal confine dell’inizio della vita. Lungo la vita i progressi delle terapie farmacologiche, delle protesi, della chirurgia dei trapianti, della diagnostica per immagini, hanno migliorato e prolungato l’esistenza umana, nel mondooccidentale per intere popolazioni, e non più, come per millenni, solo per individui particolarmente validi e longevi. Ma sull’altro confine la scienza non ha abolito la morte, ha anzi diffuso un nuovo terrore della morte diverso da quello che da sempre ha assillato gli uomini, che a differenza degli animali sanno di dover morire. I Greci chiamavano gli uomini mortali.


E’ l’artificiale protrazione del termine della vita con le tecniche della rianimazione, della respirazione meccanica, dell’accanimento terapeutico, della conservazione di stati vegetativi permanenti e irreversibili a fondare il modello moderno del terrore della morte intubata. Anche qui viene invocata la dignità della vita perché essa sia spenta, prima di diventare indegna di essere vissuta. Rifiuto legittimo delle cure, autodeterminazione del malato terminale, direttive anticipate sul testamento biologico, divieto dell’accanimento terapeutico, richieste eutanasiche, medicina palliativa, affollano di problematicità il confine dell’esistenza. Nell’entrare con tale invasività nell’esistenza corporea degli umani la scienza scopre la sua non estraneità all’altra parte del mondo storico, cioè a quello morale e sociale.


Qui è il punto che impone di uscire dal dualismo tra cultura umanistica e scientifica. La scienza moderna si poneva il tema della coscienza delle leggi della natura, la scienza contemporanea modifica la natura ivi compresa la natura umana.

  • Può farlo senza adeguata conoscenza dell’universo storico che l’uomo ha prodotto e da cui è stato prodotto?

  • Perché nei confronti del progresso incessante della biomedicina si è adottato un atteggiamento difensivo non solo con pratiche sociali, quale quello del living will o testamento biologico, poi con leggi nazionali e convenzione internazionali?

  • Perché nella convenzione di Oviedo del 1997, è formulato il principio del primato del bene e dell’interesse dell’essere umano sul solo interesse della scienza e della società?


La emersione della persona umana come fine e centro dell’ordine del mondo era stato formalizzato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dalle Nazioni Unite nel dicembre del 1948. La dignità dell’uomo è un bene costituzionale intangibile, come proclama la legge fondamentale di Bonn del 1949.


Da allora sono messe in causa non solo le forme di organizzazione politica degli Stati, ma anche gli ordinamenti sociali. La scienza vive al di sopra delle frontiere nazionali, ma non fuori della società. E ogni società ha il suo patrimonio culturale, di tradizioni, di religioni, di istituzioni, di mentalità.


Quando la convenzione di Oviedo indica i tre attori, la persona umana, la società, la scienza, non designa tre identità astratte, ma tra universi che possono, ma non debbono, gravitare intorno a interessi separati o comunque non finalizzati al bene della persona umana. Non dunque individualismo radicale, né solo libertà della scienza, né ragioni collettive della società. Ecco perché negli anni ’70 del Novecento si intese, introducendo il termine bioethics bioetica, proporre un’etica fondata sulla scienza biologica, di quella parte della civiltà della scienza che andava modificando la natura corporea e morale degli umani. Quel disegno ambizioso è stato sostituito da una esperienza interdisciplinare di diversi saperi, medici, biologici, filosofici, teologici, giuridici, sociologici, storici. In questa attuale bioetica, che vuole produrre anche una biogiuridica e una biopolitica, domina il dialogo o il conflitto? Non v’è dubbio che le posizioni estreme replicano i ruoli che abbiamo già registrato nel più lontano inizio della modernità europea: la scienza non vuole gli impacci dei valori tradizionali, reclama la più illimitata libertà di ricerca; la morale tradizionale, specie quella religiosa, è diffidente di ogni innovazione che scuota le radici naturalistiche e giusnaturalistiche dei principi e delle regole dei comportamenti sociali. Gli uni difendono le ragioni della manipolabilità del corpo per una vita migliore e più degna, gli altri quelle della sacralità della vita.


Uno schema ricorrente per descrivere le due posizioni è che per i primi tutto ciò che si può fare, si deve fare, per i secondi tanto più diviene possibile fare, quanto meno si deve fare. Che si debba uscire da queste due armatissime frontiere sembra necessario.


In un recente confronto delle tesi del filosofo Hans Jonas e del medico Hugo Tristram Engelhardt, Luisella Battaglia, dinanzi alle sfide della ingegneria genetica, si chiede se non sia obbligatorio per il ricercatore “di usare la sua immaginazione morale nella stessa misura in cui usa la sua immaginazione scientifica”10.


Per attivare quella immaginazione morale occorre ben altro che l’esperienza del laboratorio o della clinica. Certo, bisogna ripartire dai sistemi di educazione di base, con maggiore profondità di mira di quanto non apparisse a Snow e ai suoi critici del Novecento. Non sono in gioco l’educazione umanistica e quella scientifica. Il superamento delle due culture sta nello storicizzarle entrambe e allearle nella responsabilità della guida nel mondo umano. La scienza non può fermarsi al qui ed ora, perché è responsabile del futuro. La morale non può trovare la sua risorsa solo nel passato se deve governare e non solo ostacolare il futuro. Questa è la nuova cultura, la scienza e la morale in alleanza dialettica, non in reciproca lotta dogmatica.


Note

1 C.P. Snow, Le due culture, Milano, Feltrinelli, 1964.

2 G. Preti, Retorica e logica, Torino, Einaudi, 1968.

3 Op. cit., p. 9.

4 Op. cit., p.10.

5 Op. cit., p. 12.

6 Op. cit., p. 65.

7 Op. cit., p. 69.

8Ibid.

9 Op. cit., p. 143.

10 I. Sanna (ed.), La sfida del post-umano. Verso nuovi modelli di esistenza?, Roma, Edizioni

Studium, 2005, p. 142.

NATURA E CULTURA ALL’ALBA DEL TERZO MILLENIO – Paola Ricci Sindoni

Posted on Luglio 13th, 2009 di Angelo |

NATURA E CULTURA

ALL’ALBA DEL TERZO MILLENNIO

Paola Ricci Sindoni

Biografia

Paola Ricci Sindoni è professore ordinario di Filosofia morale nella facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Messina. E’ anche titolare della cattedra di Etica e grandi religioni nel corso della laurea specialistica. I suoi interessi di studio si sono orientati in prevalenza sulla filosofia tedesca del 900, sull’ebraismo moderno e contemporaneo, sul pensiero femminile, sulla mistica nelle grandi religioni.


Ha pubblicato numerosi saggi in riviste italiane e straniere e partecipato come relatrice a vari convegni internazionali. Fra le sue opere: due studi su Jaspers, un volume su Rosenzweig,  gli altri su Heschel, Hannah Arendt, Adrienne von Speyr. Fa parte del consiglio direttivo di vari organismi, come il Centro internazionale di fenomenologia, l’Associazione internazionale dei filosofi della religione, il CEGA ( Centro di Etica generale e applicata) dell’Università di Pavia. Già membro del Comitato nazionale di Bioetica.

Attraversando un territorio così complesso e frastagliato entro il quale si intrecciano – a proposito del nesso necessario fra natura e cultura – questioni epistemologiche strategiche e ricadute antropologiche ed etiche, provo a partire da lontano, da un testo redatto intorno al III secolo d.C. Del Talmud babilonese, il Massekòt Hagigah (Trattato sull’offerta estiva).

In esso si coglie un sistema di pensiero, che può apparire ingenuo e primitivo a proposito della creazione dell’uomo espresso nella Sacra Scrittura, ma che invece pare situarsi sul terreno di confluenza delle questioni che andiamo trattando. Insomma, i versetti di Genesi sembrano indicare ai talmudisti che Adamo, lungi dall’essere il frutto di un atto creativo perfetto, rappresenti l’esito di una faticosa trattativa tra JHWH e i suoi angeli, niente affatto convinti della bontà di questa ulteriore invenzione creativa.

Alla fine si giunse ad un compromesso e così recita il testo talmudico:

“Sei cose sono dette sugli esseri umani: per tre sono come gli angeli officianti, per tre sono come bestie.

  • Per tre sono come gli angeli officianti: hanno cognizione come gli angeli officianti, hanno una andatura eretta come gli angeli officianti e parlano nella lingua santa come gli angeli officianti.
  • Per tre sono come le bestie: mangiano e bevono come le bestie, generano e si moltiplicano come le bestie ed evacuano come lebestie” 1.

In una successione di vincoli simbolici e di livelli di essere tra loro complementari, l’uomo creato vive la complessa paradossalità di essere “dato” al mondo nella coesistenza di elementi naturali e biologici che lo accomuna alle bestie, e di elementi culturali che lo apparenta agli angeli ( nella cognizione, nell’andatura, nel linguaggio), quasi fosse il risultato di una ibridazione, frutto scompensato e contraddittorio di dinamiche inconciliabili, che ne disegnano la sua sproporzionalità, la sua natura eccentrica che gli vieta la presa d’atto di una identità conclusa una volta per sempre.

La Kabbalah, successiva a questo testo ( XIV secolo), si spingerà oltre e, all’interno della sua complessa costruzione misterico-simbolica della creazione, dirà che l’uomo è stato creato troppo tardi e troppo presto in mezzo al tempo: troppo tardi rispetto alla tragica datità del mondo, rispetto ad un dramma che gli è anteriore e di cui sente cupamente l’urto, troppo presto sul finale di questo dramma che nessuno uomo può riscattare, se non proiettandosi nel futuro messianico( Sefer. Yesirah ).

Anche qui il fatto della creazione – la natura già data – sembra doversi intrecciare con quanto deve essere preparato dalla redenzione, evento lungo e drammatico mosso dal lungo lavoro rituale, dunque, culturale e storico.

Sin dall’inizio, dunque, e in modo assai stringente oggi, in un epoca ipertecnologizzata dove natura e cultura subiscono processi inquietanti di omologazione e di insana confusione, si è alla ricerca di un nuovo ordine simbolico, dunque dinamico e flessibile che colga la distinzione – pur così difficile da individuare – tra la variabilità culturale e la diversità naturale e, al contempo, non ne separi gli inevitabili intrecci, sotto pena di cadere o nella trappola del monismo epistemologico , o nella fossa del dualismo insanabile, oggi ambedue così di moda. Si deve perciò tentare il difficile compito di lavorare per un “ paradigma dell’intreccio”.

Un paradigma che cerchi di superare sia la logica conciliativa ( natura e cultura opposti ma volti ad una sintesi superiore) sia i processi riduttivi (natura e cultura imprigionati dentro un unico nucleo epistemico), così da saper valorizzare la loro mobile e differente presa sul mondo tramite una scansione intrecciata a rete, che ne giustifichi il loro dinamico passaggio dal piano epistemologico a quello antropologico, nelle sue necessarie declinazioni sul piano etico, giuridico e politico.

La grave questione che sta sullo sfondo è legata alla sconfinata fiducia che in Occidente viene data alla ragione teconoscientifica accettata in modo acritico, senza alcun residuo come l’unica forma di razionalità, che certo è la meno adatta a fornirci una qualche protezione nei riguardi dell’inumano che ci avvolge. E non solo, di solito è anche quella che, utilizzando di fronte alla natura forme metodiche di determinismo performativo, consente la progressiva scoperta di “stati di cose”, ma non quella di ulteriorità di senso. Siamo ancora a quanto Husserl indicava nella sua opera matura “ .

La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”, quando individuava la pertinenza metodologica della scienza nella descrizione/spiegazione del come avvengano determinati collegamenti fenomenici, mentre ne indicava la fragilità, l’inconsistenza per le questioni relative al che cosa questi stessi collegamenti significhino nella realtà esistenziale degli uomini.

Un esempio: anche quando le neuroscienze siano in grado di stabilire un rapporto di causalità tra tutti gli stati neuronali e le emozioni ( come in parte già avviene), resterebbe sempre aperto il fronte sul che cosa sia quel principio dinamico che muove l’io in rapporto con se stessi e con gli altri. E’

qui che deve entrare in gioco il lavoro della cultura che è – una prima definizione introduttiva – quell’eredità cumulativa di costellazioni simboliche, che sono quelle strutture mentali flessibili e dinamiche in grado di elaborare le raffigurazioni, le interpretazioni della realtà.

La natura, dal canto suo, è il “già dato”, non certo inteso in senso statico e deterministico, ma tutto ciò che è in grado di generare di continuo ( natura da nascita), influenzata dall’esterno ( dalla cultura, insomma) ma che non è modificabile in profondità, almeno per ora, conservando al suo interno una qualche forma di intenzionalità, di finalismo, come la intendeva la filosofia greca.

Inevitabile, o meglio, necessario il loro incontro, che in modo esplicito Lévi-Strauss, già nel 1947 individuava nell’opera Le strutture elementari della parentela nella famiglia, quale luogo di legittimazione culturale del naturale incontro fra i due sessi, e cogliendo nella proibizione dell’incesto il punto di sutura fra natura e cultura: “ La proibizione dell’incesto possiede tanto l’universalità delle tendenze e degli istinti ( naturali), quanto il carattere coercitivo delle leggi e delle istituzioni”2.

Siamo già dentro il nostro tema, che andrò sviluppando nella sua configurazione epistemologica, cercando di individuare alcuni paradigmi, che sono l’uno all’altro alternativi e in grado di declinare differenti modelli di antropologia. Ne sviluppo tre:

  • Paradigma dualista ( natura e cultura sono due principi antagonisti e perseguono tracciati e scopi differenti, che vanno distinti).

  • Paradigma monista ( all’interno del quale si muovono due percorsi, quello della cultura che ingloba/genera/assorbe la natura e quello che, al contrario, della natura che divora la cultura).

  • Paradigma dell’intreccio, che intende superare sia il monismo che il dualismo tramite l’assunzione di un ordine simbolico in grado di far coesistere, nell’intreccio appunto, e natura e cultura.

Il paradigma dualista

L’opposizione di natura e cultura, teorizzata soprattutto tra Otto e Novecento, è interessata soprattutto a capire lo specifico del mondo umano a confronto con quello naturale, dove gli animali, ad esempio, dimostrano una struttura biologica assai più capace di adattamento nell’ambiente circostante, e al cui confronto l’uomo risulta essere deficitario.

Pur sviluppatosi all’interno delle scienze sociali, in particolare l’etnologia, ha ricevuto nei decenni una particolare declinazione proprio in ambito epistemologico, offrendo alla filosofia numerosi spunti di riflessione in merito alla questione del metodo, o meglio, dei metodi. La natura, intesa come l’insieme dei fattori fisici, chimici, biologici che rendono possibile la vita, sembra richiedere infatti una attrezzatura metodologica e teorica assai differente da quel variegato mondo delle credenze, dei costumi, dell’arte, della morale che veniva chiamata cultura.

Pur convivendo di fatto all’interno del medesimo contesto umano, natura e cultura intesero perseguire vie differenti, oppositive o, comunque, indipendenti, raffigurando due ambiti diversi del sapere: quello dell’oggetto, scientificamente analizzato secondo categorie proprie, e quello del soggetto, chiamate a dar conto della complessità della sfera soggettiva a cui si poteva accedere attraverso metodologie empatico-comprensive. Valga per tutte come esempio la classica distinzione suggerita da W.Dilthey tra scienze della natura e scienze dello spirito: le prime rette dalla metodica della spiegazione, alla ricerca dei nessi causali che presiedono ai fenomeni naturali, le seconde

giustificate dal metodo della comprensione, più idonea a penetrare sia gli eventi psicologici individuali sia i fenomeni storico-sociali.3 Il cosiddetto “conflitto metodologico” attraversò il pensiero tedesco a cavallo tra 800 e 900, ed è su questo humus teorico – basti pensare a Max Weber – che presero avvio le scienze sociali, la sociologia comprensiva, la psicologia, l’etnologia e la psichiatria.

E’ all’interno di questa disciplina scientifica che ai primi del XX secolo ci si rese conto delle determinazioni biochimiche e sistemiche delle malattie mentali, cosicchè fu il cervello stesso, luogo di sedimentazione dei deficit naturali, indipendenti ( così si pensava ) da influenze culturali, a scatenare la ricerca medica, convinta che le malattie mentali dovessero essere aggredite solo attraverso gli strumenti esplicativi della biologia, dell’istologia, della chimica farmacologia.

L’assunto di Griesinger ( 1845): “le malattie mentali sono malattie del cervello” diventò la celebrazione dell’incondizionato dualismo metodologico, dal momento che intese separare nettamente il sapere della psichiatria organicista dalla nascente psicopatologia, destinata ad utilizzare mezzi propri per chiarire, non spiegare, le traduzioni soggettive dei disturbi psichici4.

Più complessa e articolata, ma anch’essa dualistica è la posizione di Goethe, studioso naturalista, oltre che grande letterato: “Comunicare l’un l’altro, scambiarsi informazione è natura; tener conto, interpretandole, queste informazioni è cultura”5: due differenti ambiti di indagine destinati a percorrere, in una sorta di binari paralleli che non si incontrano mai, sfere del sapere che non solo distinguono, ma di fatto separano il mondo dell’oggetto da quello del soggetto, la materia e lo spirito, gli animali dall’uomo.

Anche la nascita e lo sviluppo dell’antropologia culturale, come di alcuni settori della psicologia sperimentale sembrano attraversate da questo dualismo che, a quanto sembra, non è soltanto una postazione storiografica ormai superata. Nonostante si continui a ripetere che questo paradigma, compiuta ormai la sua parabola, è inapplicabile oggi sul piano epistemologico, sembra al contrario ripresentarsi sottotraccia come “visione del mondo”, come dimensione culturale presente nei singoli ricercatori.

Valga come esempio un documento del Comitato Nazionale di Bioetica approvato il 14 dicembre 2001 intitolato “Scopi, rischi e limiti della medicina” che rappresenta un esempio chiaro di dualismo epistemologico, segnato dalla convinzione del primato della ricerca scientifica su quella culturale e soggettiva che poco a che fare con la scienza medica. Eppure le malattie funzionali, oggi in aumento, sono la cifra emblematica della medicalizzazione dei problemi esistenziali, dunque della necessità di individuare una qualche zona di confluenza tra natura e cultura, oltre il dualismo che appare nella pratica medica ormai improponibile. Anche durante il dibattito all’interno del

Comitato nazionale di Bioetica sull’opportunità o meno di inserire le medicine cosiddette alternative ( agopuntura, omeopatia ecc.) accanto alla farmacologia tradizionale, c’è stato di recente un attacco durissimo a alle cure alternative, ritenute frutto di culture diverse da quella occidentale e, per questo, non omologabili con gli assunti epistemologici della medicina occidentale. Spia inquietante di tanta prassi scientifica che, in nome della validità naturalistica della ricerca, intende coltivare i propri obiettivi scientifici, salvo poi affidare acriticamente ai politici, ai bioeticisti, ai giuristi il “materiale” del proprio lavoro. Da un lato la scienza, libera da qualsiasi presupposto, dall’altra la cultura con le sue infinite costellazioni simboliche: segnale di un sapere che si stacca dalla vita, perdendo i contorni della dimensione umana del conoscere.

Sul piano dei costumi sociali – qui solo l’accenno – il paradigma dualista intende stabilire una netta separazione fra l’ordine descrittivo – i fatti – e l’ordine normativo – i valori – stabilendo necessariamente una irriducibilità dei valori ai fatti e dei fatti ai valori.

Il paradigma monista

Utilizzando una metafora proposta da Bauman6, pur adoperata da lui in altro contesto, si può dire che il paradigma dualista evoca il modello dell’uomo “guardiacaccia”, mentre quello monista rimanda alla figura del “giardiniere”. Il guardiacaccia infatti è l’uomo che sta in difensiva, messo a tutela del bosco, del parco naturale, all’interno del quale non agisce se non per difendere gli animali dai bracconieri, e la natura dai piromani di turno.

Il guardiacaccia sa sempre quello che deve fare, perché suo compito non è quello di intervenire sul territorio, ma di salvaguardarlo dai nemici esterni. Il giardiniere è convinto, al contrario, che sia possibile e necessario stabilire un contatto, un rapporto tra la natura ( che non è così autosufficiente come pensa il guardiacaccia) e la sua cultura che egli utilizza per trasformare il territorio mediante un intervento massiccio, per certi versi invasivo, tanto da cambiarne totalmente l’aspetto.

Il suo lavoro è costante e attivo, mobilitato sia a salvaguardare il terreno naturale dagli agenti esterni ( gli insetti, il troppo sole o la grandine), sia da quelli interni ( le erbe infestanti o le malattie delle piante), così da coltivare ( cultura da colère) il giardino, emblema e figura originaria dell’unità tra natura e cultura.

L’efficacia della metafora non finisce qui, dal momento che il giardiniere, mai pago di quel suo “artefatto naturale” che è diventato il giardino, può continuare a manipolarne l’originaria struttura con complicati innesti, con manipolazioni fisico-chimiche, biotecnologiche, come gli OGM, dando alla sua opera un carattere di perfezione estetica, assai differente e lontana dal seme naturale, quello originario da cui si era partiti.

Si è prodotta certamente una unità tra natura e cultura, ma nel senso di una cultura che ha, come dire, divorato la natura, generandola in modo diverso, secondo procedure proprie, intervenendo su di essa radicalmente. Ha ragione in tal senso Bruno Latour, l’intellettuale francese che ama buttarsi a capofitto nelle polemiche, che questa idea di natura possiede sostanzialmente una valenza politica, così che si tratta di individuare i nodi teorici e pratici che, ad esempio, stanno alla base delle crisi ecologiche ( degrado ambientale, effetto serra ecc..).

La natura, insomma, non è tout court “natura”, ma secondo la definizione di Latour , “la natura è una amalgama di politica greca, di cartesianesimo francese e di parchi americani”7. In un recente congresso internazionale svoltosi a Roma, il pensatore francese è intervenuto nel cosiddetto “caso Sokal”, il fisico americano che ha attaccato gli umanisti che si lasciano tentare dallo “scientismo” ( riproponendo il dualismo di cui si è parlato prima), parlando al contrario di “un sano e democratico monismo epistemologico”, che in altre parole è l’enfasi della multidisciplinarietà pilotata politicamente.

Contro ogni forma di antinomia tra natura e cultura – si è detto in questo convegno 8- bisogna rinunciare all’idea che la natura sia qualcosa che si presenta spontaneamente al nostro sguardo, ma è qualcosa che da sempre viene prodotto e manipolato dalla politica, cosicché ogni prerogativa della natura e ogni sua funzione dipendono dalla volontà politica di limitare, riformare, semplificare, illuminare la vita pubblica.

Dalla natura, intesa come spazio fisico, alla natura intesa come “carne” dell’uomo il passo è breve.

Questo lo scenario che sta sullo sfondo delle strategie culturali dominanti in questi ultimi anni intorno, ad esempio, al tema delle “gender theories”. Un tempo considerato il terreno di coltura del femminismo, si è da qualche tempo orientato politicamente a trasformare la cultura e i comportamenti sessuali, espressi in numerosi documenti dell’ONU e dell’UE, dove si punta non più a promuovere la “naturale” parità uomo/donna ( sorretta dalla convinzione dell’uguaglianza/differenza dei due sessi), ma ad inserire e promuovere modelli culturali in cui presentare il concetto di identicità dei gusti e delle inclinazioni fra maschi e femmine, posto al servizio di una ridefinizione “neutra” ( non sessualmente differenziata) della natura umana.

La differenza uomo – donna, lungi dall’essere un “dato naturale” – così si dice – assume un significato storico e socio-culturale: mentre il “sesso” indica una immutabilità costante nel tempo e nello spazio, il “genere” è l’insieme di quelle caratteristiche, di quei comportamenti culturali sorti come esigenza della vita sociale, sempre più esposta alla fluidità e la cambiamento della propria identità, a cui deve partecipare l’avventura del genere, cifra emblematica dell’autodeterminazione individuale, a prescindere dal dato naturale della propria sessualità. Le recenti leggi regionale della Toscana e dell’Emilia Romagna in tema di libertà di scelta nell’orientamento identitario sono la prova esplicita di questo nuovo paradigma che intende sottolineare come la differenza dei sessi non ha valore oggettivo, ma si presta necessariamente ad una scelta soggettiva .

Anche in questo caso è la cultura che assorbe / ingoia la natura tramite una operazione egemonica e culturale che auspica il pansessualismo senza ostacoli e la sostituzione dell’eterosessualità in forma autonome e libere di uguaglianza indifferenziata – etero o omo che sia -. Questa teorizzazioni sono anche alimentate dagli scenari aperti dalla scienza, relativi ai possibili interventi manipolativi sul corpo: si pensi all’interscambiabilità fisica tra uomo e donna ( l’utero della donna considerato tecnicamente equivalente all’addome dell’uomo, capace di ospitare un utero artificiale)9.

Non sono ipotesi immaginarie, ma segnali inquietanti che tendono a vanificare la differenza tra i sessi nell’esaltazione dell’autonomia del soggetto capace di scegliere di volta in volta indifferentemente, guidato solo dalle logiche individuali del desiderio, la propria identità sessuale, nell’attesa – questa sì che appare immaginaria – del corpo androgino asessuato, simbolo

dell’onnipotenza della cultura di fronte all’ordine debole e minaccioso della natura.

Questo non è solo lo scenario del “post – umano” teorizzato dal famoso “manifesto cyborg” di Donna Harawey10, ma anche del “transumano”, quel movimento libertario, radicale, formato da scienziati, giuristi, filosofi, attivisti dei diritti civili, che intende preparare l’opinione pubblica all’ormai inevitabile applicazione nell’uomo di tecniche capaci di modificare le caratteristiche

naturali che di solito associamo all’umanità. La World Transhumanist Association (fondata nel 1998) ha oggi un numero impressionante di aderenti e in un recente congresso mondiale ( Chicago, maggio 2007) ha esplicitato uno degli scopi di questo indirizzo di pensiero: la progettazione della felicità attraverso “il miglioramento del benessere emozionale” per “una gioia perpetua” indotta chimicamente da droghe, in grado di produrre “livelli di benessere estatico”, che vanno “oltre il limite dell’esperienza umana” 11. Questa “chimica dell’estasi” non è tanto –come si può pensareuna moda americana alla “New Age”, ma una rigorosa disciplina accademica e una matura scienza applicata, come sostiene Richard Dawkins, convinto che la specie umana deve e può autotrascendersi come specie vivente, ora che i segreti del genoma sono a portata di mano, ora che elettronica, nanotecnologie, ingegneria genetica possono di fatto “guidare l’evoluzione umana”.

L’unico ostacolo – si dice- è l’etica, figlia del monoteismo, accusato di tecnofobia per la sua critica a questa transumanista “liberta morfologica”, il diritto cioè a modificare il proprio corpo, come il diritto a cambiare sesso per i motivi più disparati.

Se questi esempi appaiono eccessivi e un poco terroristici, può vedersi un fenomeno di costume assai diffuso anche fra noi, legato all’ossessione della bellezza fisica, delle cure estetiche, dei centri di benessere, della chirurgia plastica, pronta a modificare i difetti erogati dalla natura maligna, e restituire al volto – femminile ma anche maschile – i tratti eterei di una bellezza artificiale.

Come se la bellezza, più che perdere peso, non fosse saper far perdere peso alle cose, vincere la gravità, la dittatura dei bisogni, come dice Agnes Heller12. Il corpo femminile anoressico, eco inquietante del sogno di androginizzarsi, del bisogno ossessivo di uniformarsi grazie al fideismo acritico verso modelli culturali dominanti ( con grandi interessi finanziari alle spalle), è un ulteriore segnale di una natura riassorbita dalla cultura, riattivando disegni ideologici che sembravano ormai tramontati.

E’ necessario comunque accennare almeno all’altra faccia del problema, rappresentata da una vastissima corrente di pensiero, soprattutto scientifico, volto a definire un percorso inverso, pur mosso dalla medesima pretesa monista. Viene qui in mente la classica cadenza dialettica hegeliana, quella che prepara e gestisce l’operazione della sintesi.” Tutto ciò che è razionale è reale, e tutto ciò che è reale è razionale”, che potremmo tradurre così: “ Tutto ciò che è culturale è naturale ( lo abbiamo visto prima) e, al contempo, tutto ciò che è naturale, è culturale ( lo vediamo ora).

L’esigenza epistemologica di raggiungere una unità sintetica esige questo movimento dialettico di tipo conciliativo che punta ad una rovinosa reductio ad unum, che priva sia la natura che la cultura delle loro rispettive diverse intenzionalità.

Si può naturalizzare la cultura?” E’ il titolo di una tavola rotonda a cui ho partecipato qualche mese fa’. La risposta quasi unanime è stata positiva, perché formulata dai cultori delle scienze cognitive, che è l’espressione filosofica delle neuroscienze. Evoluzionismo da un lato, e positivismo logico dall’altro spingono non tanto alla correlazione tra mente e cervello, tra fatti cognitivi e fatti del mondo, ma ad una loro acritica identificazione.

Naturalizzare la cultura significa dunque fare del naturalismo la base di una scienza naturale dello spirito. A sostegno di questa impresa, giustificata dalle continue scoperte di localizzazioni neuro-cerebrali, là dove si collocano le emozioni, la memoria, la sede del linguaggio, persino il luogo ove si pensa aver scoperto il gene di Dio (come sostengono alcuni neuroteologi)13, si cerca di illustrare le “modificazioni sostanziali” subite dall’attività del cervello in ordine alle cosiddette “esperienze picco”, come la preghiera, così da dedurre i vissuti soggettivi dalla loro registrazione oggettiva dentro alcune zone neuro limbiche, dove il cervello subisce alcune temporanee modificazioni.

Questa impresa cognitiva, che si prefigge di giustificare naturalisticamente ogni evento della cultura, tenta in tal modo di assolutizzare il proprio modello di conoscenza oggettivo e transculturale, estendendo tale metodo di indagine anche dentro le questioni della coscienza e dell’intero cosmo del soggettivo.

E’ il lavoro svolto da Jane Illes, che ha coniato il termine “neuroetica” per indicare quell’insieme universale di risposte biologiche, connaturate al nostro cervello, capaci di risolvere ogni domanda di natura etica14 .Per nulla scossi dall’inevitabile accusa di riduzionismo metodologico ed ontologico, i cognitivisti continuano ad allevare schiere di allievi nelle nostre università, convinti che non è necessario distinguere tra ciò che la scienza non può scoprire e ciò che la scienze scopre come inesistente.

Dimenticando che la scienza moderna con Galileo è fondata sulla demarcazione tra le qualità primarie ( oggettive e misurabili) e qualità secondarie ( soggettive e qualitative), sono alla ricerca di nuovi strumenti linguistici per rinominare, ad esempio, la cultura vista come un insieme di comportamenti decisi dall’evoluzione neuronali ed ontogenetica, in grado di accomunare gli animali umani e gli animali non umani15. Con una calcolata strategia di oltrepassamento si sostiene da un lato che le esperienze soggettive non fanno parte della scienza, e dall’altro che, non essendo oggetto della scienza, non esistono se non nella confusa pluralità dell’esperienza mai verificabile.

Da qui l’inevitabile scivolamento dal piano epistemologico a quello ontologico con eclatanti forme di riduzionismo, che ad esempio hanno fatto dire polemicamente a Steven Pinker che” se ai miei geni non piace quello che faccio, possono buttarsi a mare”, che riecheggia l’altra memorabile battuta critica di Peter Meehl: “Eppure, nessun neurone di Eisenhower era repubblicano”.

Al di là delle questioni teoriche che si aprono sui limiti dell’evoluzionismo (dibattito accesissimo, ancora in fieri, mosso anche dalla questione del cosiddetto “disegno intelligente”) resta inquietante, ma anche illuminante, la considerazione critica, espressa dal filosofo Hilary Putnam secondo cui “il naturalismo ha paura del normativo” con tutto quanto questo può incidere sul piano antropologico, etico e sociale.

Riprendendo la questione sui possibili nessi tra fatto e valore, il paradigma monista tende ad appiattire il valore al fatto (ciò che esiste di fatto dal punto di vista genetico è valore) o, ancora, ciò che è “fatto” va validato socialmente e giuridicamente.

Dopo questi rapidi cenni, non rimane che osservare come anche questo paradigma monista -sia quello che ha mirato ad una culturalizzazione della natura ( con i suoi difficili esiti in ambito politico), sia quello che ha puntato alla naturalizzazione della cultura (con i suoi inquietanti riflessi sul piano etico e giuridico), ha dimostrato la sua insufficiente messa a fuoco del nesso natura – cultura, che ha bisogno di una prospettiva aperta e dinamica, al di là delle tentazioni assolutizzante che finiscono per mortificare ed annullarne le potenzialità epistemiche ed antropologiche.

Il paradigma dell’intreccio Una possibile via d’uscita dalle strettoie delle soluzioni dualiste e moniste può essere disegnato attraverso il paradigma dell’intreccio, detto così perché intende salvaguardare sia le dinamiche aperte dalla natura ( ancora disponibile all’evoluzione, o che venga intesa deterministicamente, o colta come fatto casuale o, ancora, come frutto di un disegno intelligente), sia alle spinte della cultura (interpretata in senso più ampio dal mero modello comportamentista) e vista, al contrario, come orientamento nel mondo, che decide (o aiuta a decidere) dove e con chi dobbiamo procedere, tramite quell’irraggiamento simbolico che soprattutto il linguaggio e il corpo bisessuato elaborano per configurare la realtà.

Dire intreccio – siamo già dentro l’ordine simbolico – vuole dire rispettare l’autonomia delle singole filature, come quando si prendono separatamente fili rossi e fili bianchi per intrecciarli e farne, ad esempio, una cintura. Ogni singola filatura – natura o cultura che sia – conserva con l’autonomia (epistemica) una certa qualità relazionale che le consente di insinuarsi nella trama, per formare una cosa diversa da quella originaria. In tal modo non si scarta una filatura o un’altra, e neppure le si confondono insieme con delle motivazioni, le più volte di ordine strumentale e ideologico.

Queste tensioni entrano certamente in gioco, come si evince dal nostro contesto sociale pressato dalle egemonie ideologiche in atto, ma dovrebbero modularsi, così da neutralizzarle, dentro la pratica di quest’intreccio, sotto pena di smarrirne la loro reciproca intenzionalità. Se, ad esempio (occorre ripeterlo) le leggi della natura sembrano percorrere vie diverse dalle leggi

della cultura, quasi che la norma giuridica e politica abbia il compito di rimetterle in perfetta sincronia, potrebbe accadere che, più che badare al loro intreccio dinamico e aperto, si finisca con lo scegliere una delle due, per piegare o l’una o l’altra alle proprie regole.

Né di contro bisogna pensare che la natura, dopo la rivoluzione scientifica avviata nella modernità, abbia perduto il suo valore normativo16, né supporre che la cultura attraversi la storia vestendo i panni neutrali,sprovvisti di criteri valoriali. Non si tratta di perseguire una forzata conciliazione – i due ordini sono diversi e si rischia di annullare le potenzialità dell’una e dell’altra parte- , ma di mantenere natura e cultura all’interno di una dialettica aperta, una “iperdialettica”, che non accetti alcun tipo di soluzione conciliativa che finirebbe con il sopprimere un filamento o un altro.

Un primo passo per abitare dentro l’intreccio, capace di neutralizzare le spinte totalitarie di tipo ideologico, può essere quello di accogliere un altro filamento, in grado di rendere più denso l’intreccio: è l’accettazione del limite, come correttivo epistemologico e come terapia antropologica. Si può fare qui riferimento, ad esempio, a quanto una etnologa francese Francoise Hèritier indica come possibile indicazione metodologica17: ogni cultura che guarda alla natura deve infatti distinguere fra il possibile ( l’ampio orizzonte della natura) e il pensabile ( che rappresenta l’aspetto prescrittivo della cultura).

Il pensabile non indica ciò che ciascuno può pensare, nel senso della riflessione o dell’elaborazione concettuale, ma è l’insieme degli atti che ogni membro di una cultura, di una società, di una religione accetta, in quanto rispettosi dei suoi fondamenti, che coglie insomma come conforme, adatto all’esistenza personale e sociale.

Il possibile, invece, è un insieme molto più vasto: è ad esempio possibile distruggere le case degli altri, dar fuoco ad intere foreste, derubare e martirizzare i deboli, utilizzare l’eugenetica per finalità razziste o, in senso non meno drammatico- sterilizzare milioni di cinesi, tutti atti certamente possibili, ma che non sono pensabili. Il limite tra possibile e pensabile è fissato dai divieti sociali o da una più crescente maturazione umana in vista di un consapevole accoglimento della vita: si può infrangerli, ma ciò potrebbe comportare la fine della società e della vita stessa.

Il campo del possibile non è solo l’ambito – fisso una volta per tutte- dei divieti, ma quello dell’accettazione del limite, in base al quale rendere pensabile il limite del possibile e, viceversa, rendere possibile il limite del pensabile. Qui sta l’intreccio difficile e delicato, perché richiede che tutti i filamenti dell’intreccio, nel rispetto uno dell’altro, mantengano alta la loro capacità di apertura dinamica nell’accoglimento reciproco del limite, che non significa sempre restrizione e perdita, ma anche accordo tra la materia delle cose (natura) e la materia delle parole (cultura).

Accordo non significa adeguazione, appiattimento, ma movimento dinamico in grado di riorientarci dentro un possibile senso del mondo, sia che lo si voglia guardare metafisicamente, sia che lo si veda esposto ad una incessante rielaborazione ermeneutica, sia che lo si accolga come sacramento di Dio, sia lo si intenda nella sua esclusiva interazione con la scienza. Accordo significa piuttosto esigenza imprescindibile di dare risposta ai tanti nomi, di cui l’uomo intero e parola.

Un poco come capita agli accordi nella musica dodecafonica di SchOEnberg? dove, abbandonata l’armonia come base strutturale della creazione musicale, disarticolata la gamma classica delle scale e dei toni, si punta, come dire, ad una coerenza di suoni disarmonici, dal momento che la dodecafonia è nella sua essenza dialettica: i dodici suoni di base raggiungono la globalità tonale

solo per effetto del movimento simultaneo e contraddittorio dello slancio e della regressione delle note.

Là dove l’infrastruttura matematica si accompagna, senza annullarla mai, alla creatività tutta soggettiva dell’artista che la interpreta. Un altro modo per dire che la dialettica dei contrari, lungi dal doversi necessariamente sintetizzarsi o strutturarsi secondo la modalità dell’ “aut-aut”, si declina secondo l’ordine dell’ “et-et”, che è il modo corretto di salvare il “fatto” e di declinare a suo fianco

il valore. Ancora una volta e natura e cultura.

Forse tutto ciò che concerne l’uomo e la sua umanità va trovato oltre, la dove gli accordi e le armonie – sempre in fieri – sono ancora nascosti nel segreto dell’universo, raccolti nell’ineffabilità del Nome del Santo ( come dicono i kabbalisti), o nella stupefacente avventura umano-divina del Figlio di Dio. Ciò non significa abbandono del lavoro del pensiero che può raccogliere segrete

assonanze, là dove mondi diversi nemmeno sembrano toccarsi. Ne è un esempio una recente scoperta compiuta da scienziati vulcanologi sull’Etna. Calate nella voragine del cratere centrale alcune sonde, capaci di rilevazioni scientifiche relative alla presenza di particolari combinazione biochimiche, esse hanno rivelato un rumore sordo e particolarissimo, inudibile e intraducibile all’interno delle nostre onde magnetiche, e successivamente decodificato tramite strumenti scientifici sofisticati.

Ebbene, quel sordo rumore si è riconvertito in un suono articolato ed armonico, quasi un coro a più voci, che ha richiamato l’armonia classica delle sinfonie corali di Beethoveen. La scienza, in questo caso, a servizio di una natura misteriosa in un gioco di intrecci, che sembrano alludere alla presenza

di ordini simbolici ancora impensati.

Note

1 G.Busi – E.Lowenthal (a cura di), Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo, Einaudi, Torino 2006, p.28.

2 C. Levi –Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 2003, p. 49.

3 W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito. Ricerca di una fondazione per lo studio della società e della storia, a cura di G.A. De Toni, La Nuova Italia, Firenze 1974.

4 K. Jaspers, Psicopatologia generale, a cura di R. Priori, Il Pensiero Scientifico, Roma 1964.

5 J.W. Goethe, La dottrina dei colori, a cura di R. Troncon, Il Saggiatore, Milano 1979.

6 Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 65-83.

7 B. Latour – P. Gagliardi (edd.), Les atmosphères de la politique, Les Empêcheurs, Paris 2006.

8 – “ Natura, coltura, cultura”, Congresso internazionale, Roma 2Tor Vergata, maggio 2007.

9 A. Nucci, La donna a una dimensione. Femminismo antagonista ed egemonia culturale, Marietti 1820, Genova – Milano 2006.

10 D. Harawey, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995.

11 Dawkins, The Selfish Gene, Oxford University Press, Oxford 1976.

12 A. Heller, Filosofia morale, Il Mulino, Bologna 1997.

13 A. Newberg, Dio nel cervello, Mondadori, Milano 2002.

14 J. Illes, Neuroethics, Stanford School of Medicine, Norfolk 2003

15 B. Chiarelli, Dalla natura alla cultura. Principi di antropologia biologica e culturale. Evoluzione e origine dell’uomo, Piccin, Padova 2003.

16 Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 310, LEV, Città del Vaticano 1992.

17 F. Hèritier, Masculin/ feminin, vol 2: Dissoudre la hièrarchie, Odile Jacob, Paris 2002.

18 Sull’orizzonte di pensiero scaturito dalla musica dodecafonica cfr. A. Neher, Faust e il Golem.

Relazione di Paola Ricci Sindoni al Convegno Cei su “Università, laboratorio culturale”

Novembre 21st, 2008 by Giampaolo Azzoni

Il compito esaltante e drammatico delle facoltà umanistiche è quello di rimettere in moto la passione del pensare, generando il desiderio di senso, l’aspirazione alla verità, il coraggio di decidere”.

Lo ha detto Paola Ricci Sindoni, docente di Filosofia morale all’Università di Messina, durante il Convegno Cei su “Università, laboratorio culturale”, in corso a Roma fino al 23 novembre.

Sia che si tratti di letteratura o di storia, di arte o di filosofia, di scienze umane o di economia – ha fatto notare la relatrice – queste discipline producono un sapere che è in primo luogo densificazione della memoria della civiltà che le ha generate, memoria che non è solo il guardare all’indietro per trarne indicazioni per il presente, ma è anche ritrovarsi vivi e capaci di accettare con gratitudine ciò che si è, figli di una tradizione”.

Un patrimonio, questo, che per Ricci Sindoni rischia oggi di essere messo in discussione dalla “perduta unità del sapere”, tipica del mondo post-moderno.

Nella pratica universitaria, ciò comporta il “prendere atto che il moltiplicarsi delle scienze sperimentali e l’accrescersi di metodiche diversificate a fronte di una conoscenza – umanistica o scientifica – sempre più vasta, hanno necessariamente imposto una specializzazione del sapere, che ha finito con il frantumare la coerenza unitaria del pensiero, sempre più ostaggio di competenze segmentate”.

Paola Ricci
Professore ordinario di Filosofia Morale – SSD M-FIL/03
Facoltà di Lettere e Filosofia


Paola Ricci è professore ordinario di filosofia morale nella facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Messina, dove insegna anche Etica e grandi religioni nella Laurea specialistica. E’ Direttore del Master in “Counseling e pratica filosofica” del medesimo Ateneo.
E’ direttore del Dipartimento di “ Storia e scienze umane.”
I suoi interessi di studio si sono orientati in prevalenza sulla filosofia tedesca del 900, sull’ebraismo moderno e contemporaneo, sul pensiero femminile, sulla mistica nelle grandi religioni.
Ha pubblicato numerosi saggi in riviste italiane e straniere e partecipato come relatrice a vari convegni internazionali. Fra le sue opere:   due volumi su Jaspers, uno su Rosenzweig, un altro su Heschel, su Hannah Arendt, su Adrienne von Speyr, sull’ ”etica della consegna” e sul profetismo biblico.  Fa parte del consiglio direttivo di vari organismi, come il Centro internazionale di fenomenologia , l’Associazione internazionale dei filosofi della religione e il CEGA ( Centro studi di Etica generale e applicata presso il Collegio Borromeo dell’Università di Pavia). E’ stata componente del Comitato nazionale di Bioetica. Fa parte della redazione di varie riviste filosofiche nazionali e internazionali. E’ giornalista pubblicista iscritta all’Albo nazionale e da qualche anno editorialista di  “Avvenire” e di questa testata è membro del Consiglio di Amministrazione. Collabora anche ad altre testate e riviste nazionali. Da anni è chiamata a tenere conferenze  su temi filosofici e culturali legati a questioni antropologiche, sociali e politiche.

ELENCO DELLE PUBBLICAZIONI

PAOLA RICCI
Facoltà di Lettere e Filosofia- Università di Messina

  1. La lettura cifrata nella problematica di K.Jaspers, Quaderni dell’Istituto di Scienze Filosofiche, Facoltà di Magistero, Arezzo 1972.
  2. Realtà politica e riflessione filosofica nel pensiero di K.Jaspers ,in < La Nuova Critica >, 1973, IX/XXXIV, pp.57- 81.
  3. recensione a K.JASPERS, Ragione ed esistenza, in < Proteus >10/1973, pp.120- 126.
  4. recensione a G.PENZO,Essere e Dio in Karl Jaspers, in < La Nuova Critica >, 1973, IX/XXXIII, pp.94- 95.
  5. recensione a S.GIVONE, La storia della filosofia secondo Kant, in < Filosofia >, 1976, XXVII/1, pp.130- 133.
  6. Teleology and philosophical Historiography: Husserl and Jaspers, in “ Analecta Husserliana “, vol.IX, Reidel Publ. Company, Dordrecht 1979, pp.281-299.
  7. Nuove prospettive nella storiografia filosofica di Jaspers, XXV Congresso Nazionale di Filosofia, ( Pavia 1975), Roma 198°, pp.39-46.
  8. I confini del conoscere. Jaspers dalla psichiatria alla filosofia, Giannini, Napoli 1980.
  9. recensione a A.ALES BELLO, Husserl e le scienze, in < Teoresi > XXXVI/1981, pp.139-143.
  10. recensione a B.CALLIERI, Quando vince l’ombra. Saggio di psicopatologia teoretica, in < Il Contributo >, VI/1982, pp.117-119.
  11. Un aspetto dell’antropologia di Kant: la patologia dell’animo ( gemut ), Atti del convegno: “ Per il centenario della Critica della Ragion pura “, Messina 1982, pp.419-440.
  12. Sul nesso Verstehen- Erklaren nella psicopatologia jaspersiana, in Karl Jaspers . Filosofia – Scienza – Teologia, a cura di G.Penzo, Morcelliana, Brescia 1983, pp.159-169.
  13. Utopia e ideologia nella psichiatria contemporanea, Atti del convegno “ L’Utopia “, Messina 1984, pp.339-408.
  14. Fenomenologia della presenza e naturalismo psicanalitico, in < Rivista d’ Europa >, ottobre 1984, pp.33-55.
  15. Arte e alienazione. Estetica e patografia in Jaspers, Giannini, Napoli 1984.
  16. Sul concetto di < bellezza aderente >: Pareyson legge Kant, in < Bollettino della Società Filosofica, 126/1985, pp.59-64.
  17. Innocenza e pericolosità del filosofare, in < Bollettino della Società Filosofica >, 126/1985, pp. 59-64.
  18. recensione a A.GARULLI, Itinerari di filosofia ermeneutica, in < Studium >, 81/4, pp.549-551.
  19. recensione a O.ROSSI, Introduzione alla filosofia di P.Ricoeur, in < Studium > 81/1986, pp.62-74.
  20. Vindicating personal existence in Psychiatry, in < Phenomenological Inquiry > , 10/1986, pp.62-74.
  21. F.Rosenzweig: dal mito del Tutto al mio dell’eterno, in  AA.VV., La filosofia tra tecnica e mito, Assisi 1987, pp. 512-517.
  22. L’idea di natura nell’ebraismo contemporaneo, in < Studium >, 4/4, 1987, pp.759-762.
  23. Sul Cantico dei Cantici , il sacro e la sua fenomenologia, in < Segni e  Comprensione >, 3, II/1988, pp.46-60.
  24. E.Levinas e il volto ebraico della filosofia, in  Crisi della ragione e prospettive della filosofia, ESI, Napoli 1988, pp.149-159.
  25. Sulla intraducibilità della poesia. Note sul “ Goethe “ di B.Croce, in Itinerari dell’idealismo italiano, Giannini, Napoli 1989, pp.151-169.
  26. Jaspers  e l’idea di una filosofia universale: etica e avvenire dell’umanità, in Karl Jaspers. Esistenza e trascendenza, , Assisi 1989, pp.121-142.
  27. recensione a M.SIGNORE ( a cura di ), E.Husserl. La < Crisi delle scienze europee e la responsabilità storica >, in < Studium > 1/1986, pp.273-275.
  28. recensione a G.PENZO ( a cura di ), K.Jaspers e la critica , in < Studium > 2/1988, pp.473-475.
  29. recensione a W.BENIAMIN- G.SCHOLEM, Teologia e utopia, in < Studium > 3/1988, pp.473-475.
  30. Prigioniero di Dio. Franz Rosenzweig ( 1886 – 1929 ), Studium, Roma 1989.
  31. Dialogo e profezia nell’ebraismo, in La filosofia del dialogo, Assisi 1990, pp.85-131.
  32. Filosofia e dialogo. Da Buber a Levinas, in “ Bollettino della SFI “, 139/1990, pp.71-73.
  33. Sulle tracce di Abramo. Storia e memoria nell’ebraismo contemporaneo, Intilla, Messina 1990.
  34. Uno Stato come gli altri ? Il caso Israele, in < Studium > 3/1991, pp.367-377.
  35. La teologia ai confini, in < Studium >5/1191, pp.651-666.
  36. L’uguaglianza strappata. Illuminismo e questione ebraica, in I filosofi e l’uguaglianza, vol . II, Sicania, Messina 1992, pp.387-400.
  37. Storia ebraica e memoria ebraica, in Architettura e spazio sacro nella modernità, Biennale di Venezia, Segesta, Milano 1992, pp.35-39.
  38. Ferdinand Ebner. Dalla parola alla vita, dalla vita alla parola, in Dio nella filosofia del 900, a cura di R.Gibellini e G.Penzo,Queriniana Brescia 1993, pp.175-184.
  39. Martin Buber. Il sogno dell’esistenza unificata, in Dio nella filosofia del 900, a cura di R.Gibellini e G.Penzo,  Queriniana, Brescia 1993, pp.165-185.
  40. Dalla psichiatria alla filosofia: la vocazione filosofica di Jaspers nella clinica di Heidelberg, in Interiorità e comunità, a cura di A.Rigobello, Studium, Roma 1993, pp. 287-306.
  41. voce: Razzismo , in Dizionario delle idee politiche, a cura di E.Berti e G.Campanini, AVE, Roma 1993, pp.725-728.
  42. Edith Stein: come narrare il mistero, in < Horeb >, 2/1993, pp.68-73.
  43. Il volto dell’altro , in < Horeb >, 3/1993, pp.26-31.
  44. Esistenzialismo jaspersiano ed ethos della vita quotidiana, in < Criterio >, 1-2 /1994, pp.88-95.
  45. Verità e mondo della vita , in < Itinerarium > 2/2, 1994, pp.171-180.
  46. Andrè Neher. Silenzio di Dio e male nella storia, in < Horeb > 1/1994, pp.89-94.
  47. Emil Fackenheim. Il dovere sacro della sopravvivenza, in < Horeb >, 2/1994, pp.70-75.
  48. Hans Jonas. L’etica alle soglie del terzo millennio, in < Horeb > 3/1994, pp.65-70.
  49. Abramo: vocazione e provocazione al nomadismo. Una lettura filosofica, in Il pensiero nomade,  a cura di E..Baccarini , Cittadella, Assisi 1994, pp.132-1
  50. Hannah Arendt. Come raccontare il mondo, Studium, Roma 1995.
  51. Simone Weil: l’attesa di Dio, in < Horeb > 1/1995, pp.76-81.
  52. Cose nuove e cose antiche. Linee antropologiche di una filosofia della vita, in Evangelium vitae, a cura di G.Russo, ELD, Torino 1995, pp.275-282.
  53. Il Nome e i nomi. Crisi del soggetto e parola in F.Rosenzweig, in < Criterio >, 3-4/1994, pp.23-40.
  54. Comunicazione e silenzio. Riflessi jaspersiani, in Estraneità interiore e testimonianza, Scritti in onore di A.Rigobello, a cura di A.Pieretti, ESI, Napoli 1995, pp. 381-388.
  55. Linguaggio dell’eterno e risposta del tempo. Dialogo e profezia nell’ebraismo contemporaneo, in La filosofia del dialogo. Da Buber a Levinas, a cura di M.Martini, Cittadella, Assisi 1995, pp.79-126.
  56. Giustizia distributiva e principio di verità, in > Itinerarium >, 4-6/1996, pp.135-160.
  57. / Adrienne von Speyr. Storia di una esistenza teologica, SEI, Torino 1996.
  58. La morte di Dio. Note di cristologia filosofica, in < Studium >. 92, 3/1996, pp.337-346.
  59. Hannah Arendt e la rinascita della filosofia pratica, in > Nuova Secondaria >, 7/1997, pp.55-58.
  60. Filosofia e preghiera mistica nel 900, EDB, Bologna 1997.
  61. Per una comprensione filosofica dell’esperienza dell’Altro , in < Itinerarium > 9/1997, pp.43-55.
  62. L’esperienza religiosa tra storia e filosofia, in L’insegnamento della religione cattolica e i suoi compagni di viaggio, a cura di G.Ruta, S.Tommaso, Messina 1998, pp.167-182.
  63. Per un’etica della consegna , in < Aquinas > XXXLI, 1/ 1998, pp.125-131.
  64. Per guarire le parole. Tracce di ermeneutica ebraica, in Percorsi di ermeneutica, a cura di C.Resta, Sicania, Messina 1998, pp.7-27.
  65. Il Muro invisibile. Etica della consegna e Dottrina sociale della Chiesa, in Per ritessere la società civile, a cura di T.Buccheri e P.Ricci Sindoni, Paoline, Milano 1988, pp.13-39.
  66. Edith Stein ( 1891-1942 ), in < Itinerarium >, 6, 11/1998, pp.101-111.
  67. La concezione del tempo nell’ebraismo contemporaneo , in “ Studium “ 95, 2 / 1999, pp.175-186.
  68. L’antropologia tuale tra maschile e femminile a partire da Ferdinand Ebner, in AA:VV:, La filosofia della parole di F.Ebner, Morcelliana Brescia 1999 pp.118-140
  69. Il perdono di Dio. Perdono e pentimento nella teologia cattolica, Atti del XIX Colloquio ebraico – cristiano di Camaldoli, Pezzini, Rimini 1999, pp.31-42.
  70. Pensare la morte. Il contributo di Divo Barsotti alla teologia dell’escaton, in “ Ho Theologos “, 17, 1999/3, pp.399-405.
  71. La croce e la stella. Teismo cristiano ed ebraico in Franz Rosenzweig, in AA.VV. Pensare Dio a Gerusalemme. Filosofia e monoteismo a confronto, a cura di A. Ales Bello, Pontificia Università Lateranense, Mursia, Roma 2000, pp. 263 – 270.
  72. All’origine del dato antropologico : la natalità di H.Arendt, in “ Per la Filosofia “, anno XVII/49, maggio-agosto 2000, pp. 83 – 91.
  73. Etica della consegna e dottrina sociale della Chiesa , in Quale società civile per l’Italia di domani ?, a cura di F.Garelli e M. Simone, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 159 – 170.
  74. Zygmunt Bauman: alla ricerca della politica, in “ Itinerarium “ 9\2001, 37-50 .
  75. Le stagioni della vita e il dolore del tempo. Ferdinand Ebner e Simone Weil, in Ferdinand Ebner, in “ Communio “ 175-176, gennaio-aprile 2001, pp.164-174.
  76. Razionalità scientifica e verità. Epistemologia e mistica a confronto, in  “ Humanitas”, 2\2001, pp.180-190.
  77. Adrienne von Speyr.La luce e le immagini. Per una fenomenologia della visione, in Il Filo(sofare) di Arianna. Percorsi del pensiero femminile nel Novecento, a cura di Angela Ales Bello e Francesca Brezzi, Mimesis, Milano 2001,pp. 133-146.
  78. Il guaritore ferito. Note sul rapporto medico-paziente, in Alle frontiere della vita. Eutanasia ed etica del morire/1, a cura di M. Gensabella Furnari, Rubbettino, Soneria Mannelli 2001, pp. 53-64.
  79. La domanda e la promessa, Prefazione a N. BOMBACI, Ebraismo e cristianesimo a confronto nel pensiero di M. Buber, Dante & Descartes, Napoli 2001, pp. IX – XIV.
  80. Franz Rosenzweig. Cristo e gli ebrei: dall’opposizione alla prossimità, in S. ZUCAL ( a cura di ), Cristo nella filosofia contemporanea, vol. II Il Novecento, S. Paolo, Milano 2002, pp. 541 – 562.
  81. Hannah Arendt. Gesù di Nazareth e la cristianità. Storia di una distinzione, in S. ZUCAL ( a cura di ),Cristo nella filosofia contemporanea, vol. II Il Novecento, S. Paolo, Milano 2002, pp. 869 – 890.
  82. Tempo ebraico e tempo cristiano nell’orizzonte biblico, in AA.VV., Tempo sacro e tempo profano. Visione laica e visione cristiana del tempo e della storia, a cura di L. De Salvo e A. Sindoni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, pp. 269 – 280.
  83. L’io e l’altro: il cammino della prossimità, in “ Dialoghi”II/2, giugno 2002, pp. 24 – 33.
  84. Il ritorno, il segreto, la soglia, in “Aquinas”, 02/XLV/1, pp. 65-77.
  85. Ebraismo e cristianesimo nel pensiero di Martin Buber, in “ Itinerarium” 10(2002), 20, pp. 195 -200
  86. La verità del tempo e la speranza in Virgilio Melchiorre, in La persona e i nomi dell’essere, Scritti di filosofia in onore di Virgilio Melchiorre, a cura di F.Botturi, F.Totaro, C.Vigna, volume I, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 647- 658.
  87. Karl Jaspers:il paradigma dell’oltre, in “Aquinas”, 02/XLV/2, pp.179-188.
  88. Heschel. Dio è pathos, Il Messaggero, Padova 2002
  89. Noi e loro. Per una identità in movimento, in AA.VV., Il futuro dell’uomo. Fede cristiana e antropologia, EDB, Bologna 2002, pp. 103-117.
  90. From Theory to life-practice:Phenomenological psychiatry. Ludwig Binswanger, the Inspiring Force, in Phenomenology World-Wide. Foundations-Expanding-Dynamics-Life-Engagements, ed.by A.T.Tymieniecka, Kluver Academic Publisher, Dordrecht 2002, pp. 657-664.
  91. I percorsi della fede.I sogni e le trappole della filosofia e della teologia, in D.DI CESARE – G. CANTILLO, Filosofia, esistenza, comunicazione in Karl Jaspers, Loffredo editore, Napoli 2002, pp. 137 – 152.
  92. Adrienne von Speyr. La preghiera è mondo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003
  93. Sperare nel tempo della delusione, in Il pianto di Maria, a cura di G. Greco, Città Nuova, Roma 2003, pp. 95 – 116.
  94. Simbolica dell’umano ed ermeneutica del femminile, in “Communio”, 190-191, 2003, pp. 35-90.
  95. Prefazione a La sentinella di Seir. Intellettuali nel Novecento, a cura di P.Ricci Sindoni, Studium, Roma 2004, pp. 12-18
  96. Martin Buber. La freccia e il turcasso, in AA.VV., La sentinella di Seir. Intellettuali nel Novecento, a cura di P. Ricci Sindoni, Studium, Roma 2004, pp. 25-42
  97. Il lavoro intellettuale come vocazione. Il contributo di A.D. Sertillanges, in La filosofia cristiana tra Ottocento e Novecento, Atti del convegno 29 maggio – 1 giugno 2004, Perugia 2004, pp. 119-132.
  98. Libertà e differenza: per una antropologia a due, in “Dialoghi”,  IV/2004, 1, pp. 40-47
  99. Il Mediterraneo: alle sorgenti dell’etica monoteistica, in G.RUSSO ( a cura di), La persona: verità morale sinfonica, Elledici, Torino 2004, pp. 71-80.
  100. Mistica femminile, mistica duale. Ildegarda e il tema della doppia luce.www.bebelonline.net/public/ildegarda.PDF 2004
  101. Per una mistica teocentrica, in AA.VV., Il dolce canto del cuore. Donne mistiche da Hildegard a Simone Weil,, Ancora, Milano 2004, pp.9-15.
  102. Voce: Donna: aspetti etico-filosofici, in Dizionario di Bioetica e di Sessuologia, a cura di G. Russo, Elledici, Torino 2004, pp.695-698.
  103. Il tempo come indicibile attesa, in Il Tempo, Atti del IX Convegno tematico di Studium 26-28 maggio 2003, in “ Studium”,  100/ luglio-ottobre 2004, pp. 793-806.
  104. Rappresentazione e ruolo dell’intellettuale del Novecento, in “ Studium” 2/2005, pp. 245-252
  105. Per una mistica profetica in Giorgio La Pira, in AA.VV., La nostalgia dell’altro, a cura di V.Possenti, ed  Marietti, Genova – Milano 2005, pp.255-272.
  106. La spiritualità di Francesco Vitale attraverso gli scritti, in AA.VV., Francesco Bonaventura e i Rogazionisti nel Mezzogiorno d’Italia, a cura di A.Sindoni, ed Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 71-79.
  107. Ricordo freddo, ricordo caldo. Sulla memoria nell’ebraismo,
    www.babelonline.net/public/Paola_Ricci_Sindoni_Ricordo_freddo.pdf2005
  108. Bioetica e religioni, in Il Comitato nazionale per la bioetica. 1990-2005.Quindici anni di impegno, Convegno di studio, Roma 30 novembre-3 dicembre 2005, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 2005, pp. 447-458.
  109. Hannah Arendt, la fanciulla straniera in L’altra metà della terra e del cielo. Mistero e fascino del mondo femminile, Casa Editrice Mazzina, Verona 2006, pp. 293-303.
  110. Il corpo femminile e i suoi simboli. Una provocazione alla bioetica, www. portaledibioetica.it/documenti .(Marzo 2006)
  111. Ebraismo, in AA.VV. Filosofie nel tempo, a cura di G. Penzo, vol.III-tomo II, SPAZIOTRE, Roma 2006, pp 2219-2258.
  112. Franz Rosenzweig, in AA.VV. Filosofie nel tempo, a cura di G. Penzo, vol.III-tomo II, SPAZIOTRE, Roma 2006, pp 2279-2293.
  113. Abraham Joshua Heschel , in AA.VV. Filosofie nel tempo, a cura di G. Penzo, vol.III-tomo II, SPAZIOTRE, Roma 2006, pp 2295-2308.
  114. Per un’etica del sapere, in Cattolicesimo e futuro del Paese,EDB, Bologna 2006, pp. 251-256.
  115. Znanost i religja.Povijost moguceg susreta, in “ Katteheza” Croatia, september 2006, pp. 251-258
  116. La forza dei legami. Note antropologiche ed etiche sull’identità femminile, in “ Communio”, 206/2006, n. 206, pp. 54-64.
  117. Ragione e contemplazione. Per una spiritualità della ricerca, in Libertà della ricerca o liberta dalla ricerca? Spirito universitario e responsabilità della ragione, Atti del X Convegno IPE, a cura di N. Villani, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2006, pp. 53-62.
  118. L’ora della biopolitica. La parola alle donne, in Una storia tormentata, a cura di P. Binetti, Magi, Roma 2006, pp. 106-116.
  119. Voce: Malizia, in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, Bompiani, Milano 2006, vol. 7, pp. 6955-6956.
  120. Voce: Misrahi in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, Bompiani, Milano 2006, vol 8, pp. 7468-7469.
  121. Voce: Morale ebraica in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, Bompiani, Milano 2006, vol 8, pp. 7612-7613
  122. Voce: Neher A., in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, Bompiani, Milano 2006, vol 8, pp. 7810.
  123. Voce: Rubenstein R. in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, Bompiani, Milano 2006, vol 10, pp. 9884-9885.
  124. Voce: Tu, in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, Bompiani, Milano 2006, vol 12, pp. 11798-11801.
  125. Voce: Weil S., in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, Bompiani, Milano 2006, vol 12, pp. 12326-12329.
  126. La religione come esperienza di fede. Verità “eccedente” e inculturazione del mondo, in La filosofia di fronte alla pluralità delle religioni, Atti del V Convegno annuale dell’Associazione Italiana di Filosofia della Religione, Torino 5-6 maggio 2006, Aracne, Roma 2007, pp. 111- 120.
  127. Voce: Allegoria, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a curadi L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, p.  33-34.
  128. Voce: Autorità, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura diL. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, p. 58.
  129. Voce: Esistentivo Esistenziale, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, pp. 147-148.
  130. Voce: Fenomeno Fenomenologia, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, pp. 158 – 159.
  131. Voce: Filosofia della religione, , in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, p. 162.
  132. Voce: Infinito, , in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, pp. 209 – 210.
  133. Voce: Interpretazione, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, p. 211.
  134. Voce: La Pira Giorgio, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, pp. 223-224.
  135. Voce: Relazione, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, p.  308.
  136. Voce: Tempo, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, pp. 345-356.
  137. Voce: Verità, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, pp. 362-363.
  138. Suoni e ritmi del Libro. Sul problema della traduzione, Introduzione a M. BUBER, Parola e Scrittura. Per una nuova versione tedesca, a cura di N. Bombaci, Aracne, Roma 2007, pp. 7 – 24.
  139. Etica della consegna e profetismo biblico. Geremia, Ezechiele, Giona, Abacuc, Tobia, Studium, Roma 2007.
  140. Laicità e fondamentalismi, in Lessico della laicità, a cura di G. Dalla Torre, Studium, Roma 2007, pp. 153-163.
  141. La filosofia ebraica nel Novecento, a cura di P. Ricci Sindoni, Spazio Tre, Roma 2007
  142. Preghiera cristiana e filosofia, in C. ROSSINI – P. SCADINI (edd), Enciclopedia della preghiera, LEV, Città del vaticano 2007, pp. 1249-1257.
  143. Le lacrime dell’anima. Fenomenologia del pianto nelle Confessioni di Agostino, in “ Itinerarium” 15 -37/07, pp. 98-104.
  144. ( a cura di), Agostino tra filosofia e teologia. Temi e prospettive, in Itinerarium 15, 37/07, pp. 55 – 104.
  145. Sul nesso pensiero scrittura in Hannah Arendt in  “B@belonline/print” 3/2007, pp. 107-111.
  146. Mistica femminile, mistica duale. Percorsi filosofici nel Novecento, in “ Rivista di filosofia neo-scolastica” 3/ XCIX, luglio-settembre 2007, pp. 441-456.
  147. Metafisica del suono e violenza del logos. Introduzione a una epistemologia del pensiero ebraico, in Metafisica e violenza,  Atti delConvegno, Gallarate 21-23 settembre 2005, a cura di C. Vigna e P. Bettineschi, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 155-178.
  148. Ragione ed infinito. Una provocazione epistemologica, in AA.VV., La ragione, le scienze e il futuro delle civiltà. EDB, Bologna 2008, pp. 153-158.
  149. L’urgenza del bene: le voci della mistica, in M. SIMONE (a cura di), Il bene comune oggi. Un impegno che viene da lontano, Atti della 45° Settimana sociale, EDB, Bologna 2008, pp. 311-314.

Prof. Paola Riccitel 090 3503219

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SOS – SILENZIOSI ORANTI SOLIDALI

Posted on Maggio 12th, 2009 di Angelo |

SOS – SILENZIOSI ORANTI SOLIDALI

Levate oculos vestros et videte!


Cara Silvia,

al tuo grido straziante, uno si sente ancora più impotente di te. La pace di cui parla il servo di Dio Giorgo La Pira ha un significato preciso: la non belligeranza.

Ma dalle sue parole si ricava un attegiamento di grande fede. Egli sa invocare anche quella la pace interiore sulle disperazioni del vivere.

La sua è una mano tesa anche verso di  te. Stringila.  Il sindaco di Firenze  comprende la tua richiesta e si fa intercesore con noi, smarriti, senza  parole  adeguate e incapaci perfino di chiedere a un Dio Crocifisso.

Ma Lui è il Risorto, il Vivente, che ha promesso di restare con noi sino alla fine. Io sono certo che è in casa tua. Un Dio ridotto a uno straccio perché caricato di tanti dolori, compreso il tuo, ma sempre il Misericordioso.

.

Nella tua Auschwitz c’è il Crocifisso…Abbandònati, impotente, e lo vedrai !

Lettere alle claustrali-pregare per la pace (1963)

Reverenda Madre,

lo scopo di questa circolare? Ecco: -fare proprie, con tutta l’anima, con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze, le parole del Signore «Finora non avete chiesto nulla nel mio nome: chiedete ed otterrete, perché la vostra gioia sia piena» e chiedere al Padre celeste, nel nome di Gesù e di Maria, una cosa precisa: cessino i focolai di guerra che sono di ancora accesi qua e là nel pianeta, specie in Asia (il Vietnam) ed in America Latina (San Domingo e altrove) e che la pace, malgrado tutto, si stabilisca definitivamente sopra la terra: Pax in terra!Madre Reverenda,

bisogna puntare con estrema decisione, con totale impegno sopra questa domanda: questa grazia della pace alla intiera famiglia umana deve essere concessa dal Padre celeste; il fiume di pace -di cui parla Isaia- deve irrigare con abbondanza la città degli uomini, come irriga la città di Dio (Apoc. 22): il Signore non può negare questa grazia così fondamentale dalla quale dipende l’esistenza della civiltà umana, del genere umano e, forse, dello stesso pianeta!

Perché, Madre Reverenda, al punto in cui si trovano le cose, non c’è alternativa per i popoli: o la pace millenaria o la distruzione apocalittica della famiglia umana e della terra medesima provocata, (Dio non voglia!) dalla potenza sconvolgitrice -apocalittica davvero!- delle armi nucleari!

Queste affermazioni, Madre Reverenda, non sono mie: sono degli scienziati nucleari; sono delle massime guide politiche del mondo (si ricordi Kennedy); sono di Giovanni XXIII che con la Pacem in Terris consegnò ai popoli di tutta la terra il suo messaggio di salvezza e di speranza!

Questo, Madre Reverenda, è, perciò, il problema fondamentale del mondo, oggi: fare la scelta finale, apocalittica: scegliere, cioè, o la pace millenaria (che richiede un profondo mutamento in tutti i rapporti -e nel modo stesso di pensare!- degli uomini) o la distruzione davvero senza misura, che può condurre sino alla rottura degli stessi equilibri fisici sui quali si regge l’esistenza fisica del nostro pianeta (e non solo di esso).

Ed allora? Allora la risposta è evidente: -bisogna avere il coraggio (perché di questo si tratta!) di scegliere la pace e di agire a tutti i livelli (internazionali ed interni: militari, scientifici, tecnici, economici, sociali, culturali, politici e religiosi) in conformità a questa scelta.

Ma per fare questa scelta ci vuole davvero un atto smisurato di fede: la fede di Abramo: spes contra spem! Per fare questa scelta- che è, certamente, piena di rischi, piena di incognite, piena di incertezze- non ci vuole meno della fede degli Apostoli che sulla parola di Cristo risorto lanciarono le reti; durante tutta la notte non avevano preso nulla: in quell ‘alba preziosa, invece, presero 153 pesci grossi, più di quanto la rete ne sopportava!

Madre Reverenda, la storia del mondo è pervenuta, appunto, a questo «limite apocalittico»: le guide politiche del mondo si trovano davanti a questa alternativa: o lanciare, nel nome di Cristo risorto -come gli apostoli nel mare di Galilea- la rete della pace; o scatenare una guerra nucleare che, ripeto, può distruggere la civiltà umana, la famiglia umana, e l’esistenza stessa del pianeta. . Senta, Madre Reverenda, cosa disse Kennedy: “…gli avvenimenti e le decisioni dei prossimi dieci mesi (eravamo nel settembre 1961) potranno forse decidere il destino dell’uomo per i prossimi diecimila anni. Non ci sarà modo di evitare questi avvenimenti: queste decisioni saranno senza appello; noi saremo ricordati o come la generazione che ha trasformato questo pianeta in un rogo fiammeggiante o come la generazione che ha realizzato il suo voto di salvare le generazioni future dal flagello della guerra”.

Perché, Madre Reverenda, Le dico queste cose? Si tratta forse di una nota pessimistica che viene ad inserirsi improvvisamente nella visione sempre piena di speranza storica -spes contra spem- che ha caratterizzato il nostro dialogo nel corso di un quindicennio?

No, Madre Reverenda, non si tratta di una impreveduta visione pessimista della storia presente del mondo: non togliamo un solo accento, anche piccolo, dal coro di speranza che è stato sempre ed è tuttavia nel nostro cuore e nella nostra mente. Noi siamo sempre -oggi più di ieri- profondamente persuasi sulle essenziali caratteristiche di pace, di unità, di civiltà, di grazia, che definiscono -nonostante le apparenze contrarie- la presente epoca spaziale del mondo.

La genesi di questo mondo nuovo -pacificato, unito, civilizzato, illuminato dalla grazia del Signore (anche se tanto faticosa e tanto piena di contrasti e di contraddizioni)- noi la vediamo, per così dire, crescere ogni giorno più, differenziarsi ed articolarsi ogni giorno più sull’orizzonte storico del mondo. Basta (per accorgersi di questa crescita) alzare gli occhi e guardare attentamente -riflettendo, pregando- la stagione storica presente (nonostante le nuvole) della Chiesa e dei popoli.

Quali impensate «convergenze» in tutti i piani, a tutti i livelli! La nostra speranza, perciò, Madre Reverenda, non si è affievolita; la nostra fede non si è indebolita; anzi, si è, in certo senso, potenziata: se la stagione avanza, nonostante tante tempeste e tante nuvole, ciò è segno che essa risponde ad un “piano” che si attua in modo irresistibile nella vita della Chiesa ed in quella delle nazioni (di Israele e di tutte le genti).

Questo piano -Madre Reverenda- noi lo abbiamo sempre meditato e sempre (come era possibile) indicato nelle circolari di tutti questi anni. Usando il metodo dei «segni dei tempi» che il Signore indicò agli apostoli e che Giovanni XXIII applicò in tutta la sua azione pastorale ed esplicitamente indicò nella Pacem in terris (un metodo cui Paolo VI ha fatto Egli pure esplicito riferimento in un discorso pieno di speranza), noi abbiamo sempre sostenuto questa tesi: -L’epoca storica presente (cioè l’epoca nucleare e spaziale) è un’epoca che presenta alcune caratteristiche che la definiscono. Essa ci pare, infatti, caratterizzata:

a) dall’impossibilità della guerra nucleare e, perciò, dalla inevitabilità della pace, della unità e della civiltà dei popoli di tutta la terra;

b) da un irresistibile e crescente movimento di pace ed unità nella Chiesa (come il Concilio ha provato e prova);

c) dal ritorno di Israele -dopo la crocifissione di Auschwitz- nella terra dei Patriarchi, dei Profeti, di Cristo, di Maria, della ,Chiesa nascente: ritorno che prefigura e quasi anticipa «l’amore paolino» di Israele per Gesù, il più grande dei suoi Profeti, l’Atteso, il Risorto!

d) da un irresistibile movimento di grazia che fa convergere, per così dire, «verso Hebron» (ove è sepolto il patriarca Abramo e tutti i Patriarchi) la triplice famiglia dei popoli la cui discendenza spirituale ha in Abramo la comune origine: ebrei, cristiani, mussulmani;

e) dalla inevitabile consumazione e vecchiezza (ogni giorno più crescente, malgrado le apparenze contrarie) di tutte. le «ideologie», compresa quella marxista: tutte queste ideologie sono sottoposte ad un processo interno irreversibile ed irresistibile di dissoluzione; e nel vuoto che esse lasciano si colloca -ogni giorno più elevato (malgrado le apparenze contrarie)- il candelabro sul quale sta la lampada della Rivelazione Antica e Nuova che illumina Israele e tutte le genti: lumen ad illuminationem gentium.

È davvero -vista in prospettiva- l’epoca paolina della «pienezza di Israele e della pienezza dei gentili» .

Madre Reverenda, sogniamo ad occhi aperti? No: tutt’altro! I nostri occhi sono aperti su tutta la realtà del nostro tempo; non ci sono, perciò, ignote le nuvole e le tempeste che turbano tanto profondamente e cercano di arrestare questa «stagione primaverile» del mondo!

Non ignoriamo la zizzania che si trova in mezzo al grano: le intense forze di resistenza che «l’uomo nemico» oppone accanitamente all’avanzata di Dio.

E tuttavia, Madre Reverenda, la nostra tesi (oggi più di ieri) resta salda: queste forze avverse (malgrado tutto) non prevalgono; la stagione di Dio avanza irresistibilmente; il piano di Dio si svolge irresistibilmente nella storia del mondo; «l’intenzione storica di Dio» si attua, in modo irrevocabile, nonostante tutto; il messaggio di vittoria, di Cristo risorto «mi è stata data ogni potestà in cielo ed in terra: illuminate tutte le nazioni… sarò con voi tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli » si profila sempre più chiaramente nell’orizzonte storico della Chiesa e dei popoli; il tempo della regalità di Cristo sulle nazioni -il tempo dei «mille anni» dell’ Apocalisse; il tempo della pace millenaria e della unità e della civiltà dei popoli- si vede già spuntare, come un’alba, nella prospettiva storica, millenaria, del mondo!

Levate oculos vestros et videte!

La «visione» di Isaia (2, 1 ss.) e dei Profeti non appare più un’utopia: la pace universale, l’unità del mondo, la fraternità, la civiltà e l’ illuminazione biblica del mondo, non appaiono più «sogni» di poeti e «fantasie» di profeti: appaiono realtà storiche che cominciano a profilarsi, a «sagomarsi», nell’orizzonte storico della Chiesa e dei popoli!

Basta guardare con amore, con preghiera, con attenzione, lo svolgersi irresistibile del piano di Dio nel mondo.

Perché di questo, Madre Reverenda, dobbiamo essere persuasi: il Signore vuole che il Suo regno venga, come in cielo, anche in terra; che sulla terra -abitata dal Suo Unigenito e dalla Sua Chiesa!- si faccia la pace, splenda la luce, trionfi la grazia; che le «visioni» felici dei Profeti e le «visioni» felici dell’Apocalisse diventino -nel corso futuro dei millenni- la realtà benedetta nella quale si svolge la vita degli uomini, delle città, delle nazioni, dei popoli! (Benedixisti Domine terram tuam, avertisti captivitatem Jacob – Isaia), in una parola che la regalità di Cristo su Israele e sui popoli -regalità che si radica nella divina «forza» creatrice di Cristo risorto e di Maria Assunta- è l’approdo felice verso il quale è irresistibilmente avviata la storia presente e futura del mondo!

Ripeto, Madre Reverenda, noi non «sogniamo »: guardiamo, in prospettiva, la realtà storica quale il Signore la sta svolgendo nella Chiesa e nei popoli: la «pesiamo»; la «misuriamo»; la « numeriamo»; teniamo conto delle immense forze avverse che il nemico di Dio e dell’uomo lancia sulla scena storica degli uomini; e dopo aver fatto tutte le analisi e tutte le misurazioni, ci vengono nel cuore e sulle labbra le parole del Signore: Ego vici mundum!

Il demonio incatenato (Apoc. 20, 1) «per mille anni» e la regalità di Cristo approdo felice, «per mille anni », della storia della Chiesa e delle nazioni!

La «visione» dei Profeti (la Gerusalemme messianica di Isaia); la visione di san Giovanni (il regno di Cristo in terra per «mille anni») la visione di san Paolo (la pienezza degli ebrei e la pienezza dei gentili); la «visione» stessa di Gesù a proposito del «ritorno» a Gerusalemme (…«sino a quando non direte benedetto Colui che viene nel nome del Signore»): tutta questa misteriosa ricchezza profetica e storica eccola già profilarsi -anche se ancora da lontano- nell’orizzonte storico del mondo: ciò che sino a ieri era sembrato «utopia» ecco che oggi appare come possibile realtà storica di domani!

Sembrava un «sogno» ed ecco, invece, una realtà che si mostra già possibile. Come la «fantascienza»: ciò che sembrava ieri «fantascienza» (andare sulla Luna; nel fondo degli oceani; girare in pochi minuti attorno alla terra; fare diventare giardini i deserti; esplorare le stelle e cosi via) eccolo divenuto realtà storica (scientifica, tecnica, sociale, ecc.).

Come mai, Madre Reverenda, tutto questo? Come mai (in virtù di quale strumento) i «sogni» sulla pace universale di Isaia e di san Giovanni vanno trasformandosi in realtà?

La risposta è chiara: -la Provvidenza ha aperto all’uomo, nel nostro tempo, le «porte» dell’atomo, del nucleo; in conseguenza, gli ha aperto le «porte» dello spazio, del cosmo; gli ha aperto le «porte» più segrete della scienza e della tecnica; e si direbbe che Dio ha consegnato all’uomo -nel nostro tempo- le chiavi che aprono le «porte» della intiera creazione.

Ed allora? Allora, Madre Reverenda, il «limite storico» a cui la storia del mondo è oggi pervenuta è davvero quello apocalittico; cioè: se la guerra nucleare (epperciò, in ultima analisi, ogni guerra) :gli è impossibile: ed allora bisogna fare la pace! Pace universale inevitabile; unità del mondo inevitabile (a tutti i livelli: scientifici, tecnici, economici, sociali, culturali, politici); civiltà del mondo -per tutti i popoli- inevitabile!

Sembra un sogno -«fantascienza »- ed è invece realtà!

E se -per pazzia!- scoppiasse una guerra nucleare? Allora, Madre Reverenda, arrivederci in Paradiso; sarebbe «segno» del giudizio finale e della distruzione del mondo!

Queste cose non le dico io, forzando le tinte, esagerando; no: le dicono gli scienziati più grandi e più responsabili del tempo nostro; le dicono le massime e più responsabili guide politiche del tempo nostro; le dicono i teologi più oranti, più pensosi e più attenti del nostro tempo; le dice la Chiesa, attraverso i suoi pontefici: Pio XlI (l’annunziatore profetico della «primavera storica» della Chiesa e dei popoli); Giovanni XXIII (il :P ontefice dell’età spaziale; del Concilio vaticano Il; della pace e della unità della Chiesa; della «unità» della famiglia modi Abramo; della pace, della unità, della fraternità e della civiltà del mondo intiero: il pontefice, Padre e Patriarca del genere umano); Paolo VI (col linguaggio significativo, si direbbe parabolico, dei suoi viaggi in Terra Santa e a Bombay: viaggi che sono come i punti di partenza di un itinerario destinato presto ad allargarsi e a abbracciare l’intero pianeta.

Madre Reverenda,

a questo punto, Lei dirà: -ma allora, se tutto questo è vero (guerra impossibile, pace inevitabile, ecc.), perché Lei, Professore, ha impostato questa circolare -e con termini così vivi- sulla urgenza di chiedere al Signore, con estremo impegno, la pace del mondo? Non c’è contraddizione fra questa richiesta, così urgente e viva, e l’affermazione che siamo entrati nella stagione storica «di primavera»?

Madre Reverenda, Ella stessa comprende che questa contraddizione non c’è!

Siamo entrati nella stagione storica di primavera: è vero; ma è meglio precisare: -siamo al 19 marzo, non al 21, come disse in modo tanto significativo Pio XII nel celebre discorso di San Giuseppe 1958. Mancano due giorni, perciò, all’inizio della stagione primaverile: e due giorni -nelle prospettive della storia totale del mondo- non sono pochi!

E poi: quanti venti e quante piogge e quante tempeste nel mese di marzo ed anche nei mesi successivi! La primavera non va esente da temporali che -se potessero!- farebbero arretrare la stagione e riporterebbero nell’inverno. Madre Reverenda,

è avvenuto proprio questo in questi ultimi due anni e sta avvenendo proprio questo in questi ultimi mesi.

Quest’epoca nuova della storia della Chiesa e dei popoli è contrassegnata certamente al suo inizio (per così dire) da due nomi: Giovanni XXIII (guida religiosa della Chiesa e dei popoli) e Kennedy (guida politica e civile delle nazioni). Essi indicarono ai popoli di tutta la terra il nuovo corso millenario della storia della Chiesa e del mondo; essi aprirono ai popoli di tutta la terra le porte della nuova epoca!

Ebbene, quando la primavera sembrava in piena fioritura, ecco l’infuriare dei venti, lo scatenarsi delle piogge e delle tempeste. Il 3 giugno 1963 Giovanni XXIII muore, attraendo a sé –sull’altare della Sua agonia e della Sua morte- il dolore e l’amore dei popoli di tutto il pianeta; il 22 novembre dello stesso anno Kennedy viene tragicamente ucciso; poi, nel 1964, altre situazioni politiche e sociali (che avevano dato viva speranza) si mutano: Krusciov (che, nonostante le sue responsabilità passate, aveva pure dato un apporto determinante alla speranza della pace) scompare dalla scena politica; in Italia ed a Firenze sorgono situazioni nuove; la Cina (settecento milioni di uomini!) entra minacciosa (con lo scoppio della prima bomba atomica -16 ottobre 1964) nella scena «atomica» del mondo; le strutture essenziali dell’ONU sono fortemente scosse; e «fatiche» non mancano nello svolgersi del Concilio e, in genere, nella vita e nell’avanzata della Chiesa.

E in questi ultimi mesi? Madre Reverenda, come si è aggravata –davvero!- la situazione politica e militare del mondo! In Asia (nel Vietnam e sino ai confini della Cina) la guerra (anche se non nucleare) è in pieno e severo svolgimento; nell’America Latina (San Domingo, ecc.) severe convulsioni interne e severe azioni militari sono in atto: specie per effetto dell’ingresso atomico e politico della Cina nella scena militare e politica dell’ Asia e del mondo, la politica mondiale ha subito spostamenti pericolosi verso le frontiere della guerra fredda ed anche oltre!

Questa è «la fotografia» della realtà storica odierna (sul piano militare e politico); siamo, ripeto, sulle frontiere più avanzate della guerra fredda e la guerra autentica (anche se non nucleare) pesa tristemente (coi suoi bombardamenti e le sue guerriglie) sul popolo del Vietnam, che da venti anni non trova è pace né a nord né a sud!

Giunte le cose a questo punto, possiamo ben dire di essere proprio sulle frontiere dell’ Apocalisse: sul crinale apocalittico; e queste frontiere dell’ Apocalisse si possono benissimo anche localmente identificare: sono le frontiere della Cina; la guerra nucleare -distruttiva del mondo!- potrebbe scoppiare proprio in esse! .

Il pericolo c’è: saremmo davvero dei sognatori (non saremmo dei cristiani attenti) se non ci rendessimo conto di esso!

Ecco perché, Madre Reverenda, questa circolare è tutta rivolta verso una domanda sola -per così dire- al Signore: la domanda della pace! Signore, donaci la pace! Questa domanda, fatta al Padre nel nome di Gesù Cristo, deve essere esaudita!

Deve? Sì, deve! Madre Reverenda, bisogna avere il coraggio -la fede, cioè- di fare questa affermazione confidente ed audace: -Si, Signore: voi lo avete detto: «quidquid orantes petitis credite quia accipietis et fiet vobis! -chiedete al Padre mio nel mio nome ».

Sono parole di Cristo: noi le crediamo senza dubbio alcuno; se chiediamo la pace mondiale -in Asia, nell’America Latina, in Palestina ed ovunque- noi lo facciamo con la certezza che questa è la volontà stessa ed il desiderio medesimo di Gesù, di Maria, di tutti i Santi; questa è la volontà stessa del Padre che è nei cieli!

Come facciamo ad affermare ciò? su quali basi?

Ma, Madre Reverenda, il Signore non può aver suscitato invano Giovanni XXIII ed il messaggio di pace da Lui donato -in nome di Dio- ai popoli!

«Pacem in terris », comincia la «lettera» che reca quel messaggio!

Sì: il Signore vuole la pace mondiale dei popoli! Egli permette che siano raggiunte le frontiere dell’ Apocalisse -della distruzione!- per suscitare la fede totale e la preghiera totale di tutti i Suoi figli!

Permette che la barca stia per affondare, per suscitare l’impeto di domanda e di fede degli apostoli impauriti: -Signore salvaci, periamo!

Ed i venti cessarono e si fece calma grande! Così, Madre Reverenda, in questo punto odierno, drammatico, apocalittico, della storia del mondo: il Signore permette che si giunga sul crinale dell’ Apocalisse, affinché da tutti i punti della terra, da tutti i cuori dei cristiani, dei credenti e di tutti gli uomini, si elevi un grido di fede e di preghiera: -Signore, salvaci, periamo!

E i venti certamente cesseranno, e si farà calma grande nella storia del mondo!

Dal 19 marzo si passerà al 21 e la stagione di primavera storica -millenaria- inizierà in modo inarrestabile il suo corso. Levate oculos vestros et videte.

Ecco, Madre Reverenda, il «perché» di questa circolare; il «perché» dell’unica domanda -quella della pace mondiale verso la quale essa è rivolta!

Nella richiesta della pace mondiale sono contenute implicitamente tutte le richieste che la condizionano!

Col darci il dono della pace mondiale -è il dono mariano di Fatima!- il Signore darà anche il dono della «convergenza» verso di Lui di tutti i popoli, di tutte le nazioni della terra; darà, perciò, il dono della unità ed il dono della illuminazione del mondo!

Sì, bisogna credere, fermamente credere, in questa effusione di doni che, con la pace, lo Spirito Santo vuole fare, proprio nel nostro tempo, a tutti i figli (a partire da Israele) ed a tutte le genti!

Si sa: le cose vanno viste in prospettiva; e prospettiva storica è appunto quella che mostra la pace del mondo, la unità del mondo e la illuminazione cristiana e biblica del mondo (lumen ad illuminationem gentium).

Madre Reverenda,

fede dunque! Fede capace di muovere tutte le montagne, e capace di fare spuntare sulla terra -malgrado tutto!- quella stagione millenaria di grazia, di pace, di giustizia, di civiltà, che è nel piano di Dio -il piano rivelato dai Profeti: il piano dei «mille anni»- e che costituisce la gioia, l’attesa e la speranza della Chiesa e del mondo!

Madre Reverenda,

ecco il senso di questa circolare: è un appello per una «mobilitazione» mondiale di preghiera (di tutti i monasteri di clausura del mondo) per ottenere dal Signore la pace fra i popoli di tutto il pianeta! Per ottenerla!

Ecco perché questa circolare viene inviata ai monasteri di tutti i continenti!

Essa troverà eco in certo senso più profonda nei monasteri dell’Asia, del Medio Oriente e dell’ America Latina; nei monasteri, cioè, che si trovano nei tre punti nevralgici del mondo: che si trovano (specie quelli dell’ Asia e della frontiera cinese e del sud-est asiatico), perciò, sul «crinale dell’Apocalisse »! Ma noi lo ripetiamo, Madre Reverenda, con quanta forza abbiamo nel cuore: anche se il pericolo è grande (e non dobbiamo nasconderlo), più grande è la nostra fede, più possente la volontà del Signore; e la volontà del Signore -manifestata attraverso mille segni- appare sempre più questa: -che la pace mondiale venga, che l’unità mondiale venga, che la civiltà mondiale fiorisca, e che in Israele ed in tutte le genti fiorisca -a poco a poco, come una aurora ancora lontana ma crescente- la grazia di Cristo che illumina e che santifica!

Non è un sogno tutto ciò: è il «senso della storia» per la Chiesa e per le nazioni: il «senso della storia» indicato da Maria a Fatima; quel «senso della storia» che mostra nella regalità di Cristo e di Maria l’approdo atteso della storia futura a della Chiesa e del mondo! “…e regneranno con Lui per mille anni”

Grazie di tutto, Madre .Reverenda, e preghi tanto, con tutto il cuore, la dolce Madonnina, Madre nostra e Regina del mondo, per Firenze (per la sua missione di pace) e per me.

Suo in X.to

La Pira

Firenze, Ascensione 1965 (27 maggio)

SOFFERENZA COME SACRIFICIO CULTUALE – Giovanni Lunardi

LA SOFFERENZA COME SACRIFICIO CULTUALE

Un paio d’anni fa avevo manifestato all’amico Giovanni Lunardi, laico appassionato di Teologia, il desiderio di approfondire un tema che mi satava particolarmente a cuore:  leggere l’Ospedale ed il Letto di degenza, l’uno prendendo a riferimento il Tempio biblico, l’altro visto come Altare sacrificale sul quale si immola la vittima. Da bravo ricercatore, s’è messo a studiare il tema e ne ha tratto preziose conclusioni. Forse altre ancora se ne potrebbero ricavare ma già queste si presentano  meritevoli di attenzione.

Nel ringraziarlo per la fatica, non trovo di meglio che metterla in circolazione per nuovi sviluppi.

Nocent Angelo.

Di GIOVANNI LUNARDI

Premessa

In una visione olistica del mondo tutte le cose sono colte nel loro insieme, tra loro interagenti e strettamente concatenate le une alle altre. Tutte sono simbolo e metafora delle altre, tutte si richiamano tra loro e nel loro insieme si trova il loro significato e il senso del loro esserci. Ognuna si riflette nel tutto e il tutto si rivela in ognuna. Vi è dunque una forte e solida compenetrazione degli esseri, quali riflesso, espressione e testimonianza dell’Unico Essere che rende Uno tutte le cose. L’avere una visione parcellizzata, frammentata della realtà non solo non ci aiuta a comprenderne il significato più vero e profondo, coglibile soltanto se collocato nel Tutto, ma ci spinge verso una visione schizofrenica della stessa con gravi conseguenze nel rapportarsi alla realtà stessa.

Nella stessa prospettiva va colta la sofferenza, che si esprime in una creazione che soffre per la sua caducità, subita contro la sua volontà (Rm 8,20). Ed anche l’uomo, per un principio di solidarietà che lo lega inscindibilmente con la creazione stessa[1], soffre per la fragilità del suo essere. L’uomo e ancor prima l’intero cosmo non sono stati creati difettosi da parte di Dio e caduchi per loro natura, ma essi rilucevano dello stesso splendore divino (Sal 8,5-7). Il primo atto creativo di Dio, infatti, è la luce[2] (Gen 1,3), emanazione della sua stessa vita divina, al cui interno Egli colloca le sue creature, che assimila a sé; per questo “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31), proprio perché nelle sue creature vede riflesso se stesso. La creazione dunque era incandescente di Dio, specchio della sua onnipotenza e della sua bontà[3].

Anche l’uomo, per decreto divino fu creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-27), beneficiando in tal modo della perfezione della vita divina. Dio infatti soffiò[4] sull’uomo che divenne essere vivente (Gen 2,7), cioè lo ricoprì e lo permeò del suo Spirito divino, rendendolo partecipe della sua stessa vita, divenendo collaboratore di Dio (Gen 2,15). L’uomo, dunque, apparteneva alla stessa dimensione di Dio[5]. E Dio creando l’uomo creò, sia pur a livello creaturale, un altro se stesso, capace di volontà e autonomia proprie, capace anche di opporglisi. E l’uomo mangiò dell’albero (Gen 3,6), cioè aggredì il potere di Dio, lo volle scalzare, gli si oppose (Gen 3,5); ed ecco che all’improvviso gli si aprirono gli occhi e si accorse di essere nudo (Gen 3,7): gli apparve tutta la fragilità del suo essere creature e si ritrovò “nudo”, cioè spoglio e privo dello Spirito divino che lo aveva assimilato alla vita stessa di Dio, così che, persa la sua configurazione divina, venne rivestito da Dio stesso non più di Spirito Santo, ma di pelli di animali (Gen 3,21) per indicare il suo nuovo stato e la sua nuova condizione esistenziali. Dolore, sofferenza, tribolazioni, difficoltà avrebbero scandito il suo penoso vivere “finché tornerai alla terra, perchè da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!” (Gen 3,19b). Egli pertanto fu cacciato dall’Eden, dalla dimensione divina a cui apparteneva ed ebbe inizio per lui la sua triste disavventura fatta di dolore e di morte[6] (Gen 3,16-19), che si propagherà sempre più fino a travolgere la creazione stessa: “Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. Allora Dio disse a Noè: <<è venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra.” (Gen 6,12-13).

Ma proprio là dove la fine di ogni speranza sembrava definitivamente sancita, ecco che Dio non abbandona l’uomo al suo triste destino, ma ne tenta il recupero alla sua primitiva condizione di vita. Ha inizio in tal modo la storia della salvezza, cioè il tentativo di Dio di recuperare l’uomo alla vita divina stessa in cui era stato collocato fin dal suo inizio (Gen 2,8). Ecco, dunque, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosé, il popolo, i Profeti … fino a Gesù, che con la sua nascita rinunciò a tutte le sue prerogative divine e assunse su di sè la carne decaduta del vecchio Adamo, la visse fino in fondo, condividendo solidalmente la triste storia di sofferenza e di morte dell’uomo decaduto (Fil 2,6-8), la portò sulla croce e con la sua morte pose fine alla vecchia creazione adamitica (Rm 6,6), mentre con la sua risurrezione dette inizio ad una nuova creazione, vaticinata da Isaia (Is 65,17; 66,22) e contemplata da Giovanni nell’Apocalisse (Ap 21,1). Nella passione-morte-risurrezione di Gesù la passione e morte dell’uomo hanno perso il loro senso di condanna e di disperazione divenendo invece promessa di riscatto e di risurrezione; promessa e premessa di vita nuova in Cristo e per Cristo in Dio (1Pt 1,3). Nella risurrezione di Gesù, infatti, il Padre con la potenza del suo Spirito rigenerò quella vecchia umanità adamitica, di cui si rivestì il proprio Figlio distruggendola sulla croce e ricollocandola nuovamente nella vita stessa di Dio, così come lo fu nei primordi della prima creazione.

Se da un lato, dunque, la sofferenza e la morte dell’uomo dicono tutta la sua drammatica caducità, conseguente alla sua colpa primordiale, dall’altro, in Cristo esse cambiano completamente di significato e di orientamento, diventando non più espressione di condanna, ma passaggio necessario verso la nuova vita, motivo quindi di riscatto e di redenzione, poiché “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Grazie a Cristo morto-risorto nella sofferenza e nella morte dell’uomo è stato seminato un germe di vita eterna, aprendo l’uomo ad una nuova prospettiva di speranza. Paolo infatti ricorda che “Se siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione.” (Rm 6,5).

Collocate in questo ampio quadro storico-salvifico, di cui fanno parte integrante, la sofferenza e la morte dell’uomo divengono redentive poiché il credente viene associato al Cristo sofferente, il cui sangue è posto a redenzione dell’intera umanità (Ef 1,7). Non è dunque più lui che vive, ma Cristo stesso vive in lui (Gal 2,20a), lo vive nella sua passione e morte, completando in tal modo nella carne del suo discepolo ciò che manca alla sua passione e morte (Col 1,24), cioè l’assimilazione e la compartecipazione di ogni singolo uomo alla sua passione (Gv 12,32). In tal modo la sofferenza e la morte del credente non sono più espressione di condanna, ma manifestazione e testimonianza di quelle di Cristo.

Inquadrate in questo contesto cristologico la sofferenza e la morte dell’uomo e ancor più quella del credente acquisiscono una profonda valenza sacrale, divenendo una sorta di celebrazione cultuale che si radica in Cristo stesso e da lui trae il suo significato più vero e profondo; egli è il nuovo tempio di Dio (Gv 2,20-21) e nel contempo vittima sacrificale (1Gv 2,2; 4,10) e sacerdote offerente di se stesso (Ef 5,2; Eb 10,12) posto sull’altare della croce. In tal modo la sofferenza e la morte non sono più un qualche cosa di strettamente personale che si consuma nell’intimità o nell’abbandono e nell’oblio del sofferente, ma proprio per la loro sacralità e il loro radicarsi in Cristo, hanno i loro simboli e i loro luoghi in cui si celebrano cultualmente: il Tempio, l’Altare, la Materia del Sacrificio, l’Annuncio, la Diaconia, il Sacerdote celebrante attorno ai quali si raccoglie la Comunità credente e concelebrante. Questi sono i luoghi e i segni del compiersi del sacrificio. Ma per una visione olistica della realtà, questi luoghi e questi segni sacri della Tradizione, nei quali si celebra e si consuma il sacrificio di Cristo, ne richiamano altri a cui si associano e si agganciano in modo simbolico e metaforico, ma per questo non meno reale, altri luoghi e altri segni entro i quali Cristo continua a vivere e a celebrare il proprio sacrificio nel silenzioso dolore del proprio discepolo.

Ecco, dunque, che il Tempio si fa Casa e Ospedale; il letto intriso di dolore e di sudore diventa l’Altare su cui è posto l’Ammalato, Vittima sacrificale, unita al suo Cristo, e si fa Annuncio delle sofferenze del suo Signore, che vive e vivono in lui; mentre le cure profuse dai parenti e dagli infermieri e medici diventano un’inconsapevole diaconia liturgica posta a servizio del Sofferente, Sacerdote offerente di se stesso. Questi apparati di sacralità sono posti in mezzo alla comunità umana e a quella credente, spesso distratte e insensibili al sacrificio cultuale e alla liturgia della sofferenza che si sta celebrando in mezzo ad esse.

Per comprendere la realtà profonda di questo simbolismo e di queste metafore che legano intimamente tra loro tutte queste realtà in un Tutto Unico, ci soffermeremo su alcuni aspetti fondamentali di questa celebrazione liturgica: il Tempio, l’Altare, la Vittima, la Diaconia, il Sacerdozio, la Comunità credente, che trovano la sua eco nel soffrire quotidiano.

Il Tempio

Da sempre il culto delle varie divinità, a cui gli uomini sono abituati a rivolgersi con le loro liturgie, si svolgono in luoghi appositi a questo riservati e per questo sono considerati luoghi sacri: i templi. Ma per Israele, a cui la fede cristiana è strettamente e intimamente legata e profondamente debitrice, il Tempio non è semplicemente un luogo di culto, ma assume in sè significati e valenze via via sempre nuovi, più profondi e complementari tra loro. Un tempio attorno al quale cresce e si sviluppa nel tempo una specifica teologia, che dice le sempre nuove comprensioni che gli israeliti hanno avuto di esso fino a farne una metafora, un simbolo preannunciante in se stesso realtà nuove ed escatologiche, verso le quali il pio israelita è esistenzialmente rivolto. Il Tempio dunque non è soltanto un luogo fisico, topograficamente collocato e riservato al culto, ma è un’immagine delle realtà future, che accompagnano e stimolano ogni credente nel suo cammino quotidiano verso l’Eternità e che ad esso si lega in virtù della sua configurazione spirituale e ontologica.

Il Tempio ebraico non nasce dal nulla, ma si radica in una elezione, che andrà nel tempo sempre più definendosi.

Già ad Abramo Dio aveva promesso una discendenza numerosa con la quale Egli avrebbe stabilito un’alleanza (Gen 17,4-7). Questa promessa trova la sua prima attuazione proprio in terra d’Egitto, la terra dell’oppressione e della schiavitù (Es 1,8-16). E sarà proprio il sangue dell’agnello asperso sugli stipiti delle porte che individuerà il vero Israele (Es 12,22-23), che Dio condurrà ai piedi del Sinai dove darà una nuova identità a colui che era il non popolo: “<< … Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti>>” (Es 19,4-6). Israele diviene “proprietà di Dio”, gli appartiene in modo esclusivo e i destini del popolo sono uniti con quelli di Dio. Israele quindi diviene popolo consacrato, cioè riservato al Signore, per questo il popolo è “nazione santa”, partecipe in un certo qual modo della vita di Dio. Questa profonda unione comunionale tra Dio e il suo popolo fa sì che Israele diventi il sacramento vivente di Dio in mezzo agli altri popoli, attraverso il quale Dio testimonia la sua presenza in mezzo agli uomini e grazie ad Israele Egli si comunica ad essi (Ez 20,41; 39,7). Israele diventa pertanto un “popolo di sacerdoti”, cioè un popolo capace di “sacrum donare”, di trasmettere e di testimoniare quella Santità di Dio (Sal 95,3) a cui egli è legato per vocazione ed elezione, che viene sancita attraverso un’Alleanza (Es 20-24). Israele infatti sarà tutto questo soltanto “se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza”.

Ed è proprio in questo contesto di elezione ed Alleanza che Dio dà le sue disposizioni circa la sua “Dimora” in mezzo al popolo: “Il Signore disse a Mosè: <<Ordina agli Israeliti che raccolgano per me un’offerta. La raccoglierete da chiunque sia generoso di cuore[7]. Ed ecco che cosa raccoglierete da loro come contributo: oro, argento e rame, tessuti di porpora viola e rossa, di scarlatto, di bisso e di pelo di capra, pelle di montone tinta di rosso, pelle di tasso e legno di acacia, olio per il candelabro, balsami per unguenti e per l’incenso aromatico, pietre di onice e pietre da incastonare nell’efod e nel pettorale. Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro.” (Es 25,1-8). Innanzitutto i materiali per la costruzione della Dimora non devono essere comperati, ma dati in offerta e devono radicarsi in un cuore generoso. Non si tratta dunque di dare un qualcosa, ma di compiere in questo dono un vero e proprio sacrificio cultuale in cui l’israelita è coinvolto non soltanto per i beni materiali di cui si priva per offrirli al Signore, ma viene anche coinvolto esistenzialmente (”… da chiunque sia di cuore generoso”). La Dimora divina pertanto nasce da un atto cultuale che si fa liturgia esistenziale. La condizione dunque perché Dio abiti in mezzo agli uomini è che questi si rendano esistenzialmente disponibili ad accoglierlo in mezzo a loro e in loro. Dimora divina e uomo colto nel suo esistere quotidiano pertanto sono strettamente connessi.

Il progetto di questa Dimora non nasce tuttavia da calcoli ingegnosi dell’uomo, ma è dettato direttamente da Dio (Es 25,9; 26,30). Tale Dimora pertanto diventa simbolo e metafora di realtà celesti e future che si stanno lentamente incarnando nel tempo in mezzo agli uomini[8]. E al compiersi di tale opera Dio ne prende possesso (Es 40,33b-34) e si fa pellegrino in mezzo al suo popolo e con il suo popolo (2Sam 7,6-7a). Questa Dimora, infatti, non è un tempio stabile, ma una tenda divina che si colloca in mezzo al popolo (Lv 15,31; 26,11; Ez 37,27) in cammino verso la Terra Promessa, verso il realizzarsi delle Promesse. Da questo momento la Dimora scandirà i tempi del cammino e il popolo incomincerà a muoversi secondo i ritmi dettati dal Dio in mezzo a loro e con loro (Es 40,36; Nm 1,51; 9,18-20.22). In tal modo il popolo imparava a muoversi e a camminare secondo i ritmi di Dio e a comprendere il cammino del suo volere.

E giunti nella Terra Promessa il popolo vi si stabilì definitivamente. E quando Davide[9] volle costruire una casa per il Signore (2Sam 7,2), Dio gli si oppose e gli dirà che sarà proprio Lui, Jhwh, ha costruire invece una dimora stabile a Davide e alla sua discendenza e sarà proprio questa discendenza che costruirà il tempio che Dio si attende: “<< … Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno. Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio. Se farà il male, lo castigherò con verga d’uomo e con i colpi che danno i figli d’uomo, ma non ritirerò da lui il mio favore, come l’ho ritirato da Saul, che ho rimosso dal trono dinanzi a te. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso stabile per sempre>>” (2Sam 7,12-16). C’è quindi qui una svolta radicale nella storia del Tempio: nel momento in cui l’uomo sembra prendere in mano le proprie sorti e stabilire lui i tempi e i luoghi di Dio, Jhwh gli fa capire che è Lui che conduce la storia e che stabilisce la discendenza che gli dovrà costruire il Tempio dove abiterà il suo nome[10] e la sua gloria. Si pone dunque un vincolo stretto tra “Discendenza” e “Tempio”. La costruzione del Tempio è affidata alla “Discendenza”. Sarà infatti Salomone a costruire il Tempio, “discendenza uscita dalle viscere di Davide”. La profezia di Natan (2Sam 7,8-17) tuttavia non si esaurisce in Salomone, ma viene rilanciata in una continua attesa del Messia davidico, che doveva rendere stabile il regno di Israele e rinnovare il culto a Jhwh, dando in tal modo un nuovo significato e un nuovo senso al Tempio. Ancora una volta le figure della storia (Discendenza-Tempio) assumono significati simbolici e metaforici, che rilanciano di continuo i credenti verso un futuro di pieno e definitivo compimento delle promesse. È un cammino inarrestabile che troverà la sua meta nell’Eternità. Dio dunque, con continui rilanci, sta conducendo lentamente l’umanità verso di Sè, passando dalla storia alla Metastoria, dove ogni promessa troverà il suo pieno e definitivo appagamento e avrà la sua caparra nel Risorto.

Anche il Tempio di Salomone e lo splendore della sua gloria non erano le realtà definitive pensate e volute da Dio, ma solo un passaggio intermedio verso altre realtà contenute implicitamente nelle precedenti … e così in un continuo cammino di rilancio verso il loro compimento definitivo. Il tempio e la gloria di Salomone, infatti, trovarono la loro fine nella distruzione del Regno di Giuda ad opera di Tiglat Pialzar III e di Salmanassar II (597-582 a.C.) e il conseguente esilio babilonese di Israele (597-538 a.C.). Tutto sembrava perduto e ogni promessa di Jhwh caduta nel nulla. Ma la storia della Salvezza, che è il cammino del compiersi della Promessa, riprende nella grandiosa visione che Ezechiele ha circa il Nuovo Tempio, la cui descrizione occuperà ben nove capitoli del suo Libro (Ez 40-48): “Al principio dell’anno venticinquesimo della nostra deportazione, il dieci del mese, quattordici anni da quando era stata presa la città, in quel medesimo giorno, la mano del Signore fu sopra di me ed egli mi condusse là. In visione divina mi condusse nella terra d’Israele e mi pose sopra un monte altissimo sul quale sembrava costruita una città, dal lato di mezzogiorno. Quell’uomo mi disse: “Figlio dell’uomo: osserva e ascolta attentamente e fa attenzione a quanto io sto per mostrarti, perché tu sei stato condotto qui perché io te lo mostri e tu manifesti alla casa d’Israele quello che avrai visto”. Ed ecco il tempio … ” (Ez 40, 1-5a). è una visione dal forte sapore escatologico in cui vengono rianimate e proiettate in avanti le attese e le speranze di un popolo in esilio. È la visione di una città nuova dove viene collocato un Tempio nuovo in cui Dio farà abitare nuovamente la sua Gloria (Ez 43, 4-5). In esso viene posto un altare per il quale vengono dettate delle nuove regole per i sacrifici (Ez 43, 18-27) e nuove disposizioni per accostarsi ed entrare nel Tempio (Ez 44, 6-31), riempito della Gloria di Dio (Ez 44,4). A questa visione del Nuovo Tempio viene associata un’altra grandiosa visione dai forti toni escatologici: quella delle ossa aride, metafora di un popolo distrutto dal peccato, ma rigenerato dalla Parola potente di Jhwh[11] (Ez 37,1-14).

Questa grandiosa visione di Ezechiele non trovò pieno riscontro storico, ma avrà il suo compimento nei nuovi eventi che si produrranno con la venuta di Cristo, venuto non per abolire la Legge e i Profeti, ma per darne compimento (Mt 5,17). Tutta la storia parla per simboli e metafore e ogni realtà ne richiama altre ancora e così di seguito fino al loro pieno svelarsi e al loro pieno compiersi di tempo in tempo fino alla pienezza dei tempi, quando la storia confluirà nell’oceano dell’Eternità. Questo modo di procedere delle cose e la loro parziale e imperfetta comprensione nel loro quotidiano accadere vengono ricordati anche da Paolo nella sua prima lettera ai Corinti: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (1Cor 13,12). Soltanto lo srotolarsi della storia e il suo lento compiersi rivela il vero senso delle cose e ci chiede una nuova e una continua rinnovata capacità di lettura delle stesse. La questione si impose alle prime comunità credenti, le quali in una ricerca attenta rivisitarono le Scritture alla luce del Cristo risorto[12] e la storia di Israele e le sue vicende acquistarono pienezza di significato e di senso.

In questa prospettiva si colloca anche la rilettura del significato teologico del tempio e vedremo come la sua storia fu di fatto un annuncio di un altro Tempio, di un altro sacrificio, di un’altra vittima, di un altro sacerdozio, di un diverso culto, che trova il suo svelamento e il suo compimento in Cristo.

Riepilogando quanto fin qui detto, abbiamo visto come il primo tempio fu una realtà strettamente legata ad una elezione e ad un’alleanza; il progetto di questo tempio fu pensato da Dio e affidato per la sua realizzazione agli uomini, instaurando in tal modo una fattiva collaborazione divino-umana nel compiersi della storia della salvezza; fu il luogo in cui dimorava la gloria di Dio, la gloria della sua presenza, la Shekinah; fu dapprima una tenda posta in mezzo al popolo e si muoveva con lui, scandendone i ritmi e i tempi del suo peregrinare verso la terra promessa; esso fu legato ad una “discendenza” e con Ezechiele divenne il segno primario di un radicale rinnovamento dell’uomo e del culto a Dio.

Questi tratti essenziali trovano il loro compimento nella persona stessa di Cristo così che il Tempio ebraico divenne figura e preannuncio di un altro Tempio[13], nel quale trova il suo senso e il suo significato compiuti. Ma anche il Tempio-Cristo si dilata e si estende nella comunità e in ogni singolo credente, così che la comunità credente e ogni suo singolo componente, ognuno a modo proprio, sono tempio di Dio. La storia della salvezza infatti si muove attraverso un processo evolutivo e selettivo[14] che va dal meno verso il più, dal singolo verso il collettivo e dal collettivo all’universale fino ad un suo compiersi pieno e definitivo[15]. Soltanto allora il progetto pensato dal Padre e attuato nel Figlio per mezzo della potenza dello Spirito si svelerà pienamente e definitivamente in tutta la sua compiutezza.

Ed ecco che l’autore della Lettera agli Ebrei vede nel Cristo risorto non solo il vero ministro di un unico e nuovo culto irrepetibile[16], ma anche la vera tenda, più grande e più perfetta, costruita dal Signore e non per mezzo di un uomo (Eb 8,2; 9,11), di cui figura fu la prima tenda mosaica (Eb 8,5). Gesù stesso interpreterà il suo corpo come il vero tempio: “Rispose loro Gesù: <<Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere>>. Gli dissero allora i Giudei: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Ma egli parlava del tempio del suo corpo.” (Gv 2,19-21).

In questo nuovo Tempio, concepito per opera dello Spirito Santo (Mt 1,18.20; Lc 1,35), dimora la Shekinah, la gloria stessa di Dio che Giovanni contempla nel suo vangelo: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio … E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.” (Gv 1,1-2.14).

Ma se Cristo è il nuovo Tempio del Padre, dove abita la sua presenza gloriosa, anche il credente, in quanto tale, per stessa definizione di Gesù, diventa Tempio di Dio e sua dimora in mezzo agli uomini: “Gli rispose Gesù: <<Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. …>> (Gv 14,23). Non si tratta tuttavia di una semplice abitazione, ma di una vera e propria sacramentalizzazione del credente, assimilato a Cristo-Tempio: “Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.” (Mt 25,40.45). Gesù non dice “è come se l’aveste fatta a me”, ma “l’avete fatta a me”, stabilendo in tal modo un profondo legame diretto tra il credente e se stesso, così che il credente e con lui ogni uomo diventano sacramenti viventi di Cristo. Paolo ricorderà questa dimora-identità tra credente e Cristo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me …” (Gal 2,20a), una identità che lo lega intimamente e profondamente al mistero della sua morte e risurrezione e ne fa una nuova creatura (Rm 6, 3-6; 2Cor 5,17) e un sol corpo con lui e in lui (Rm 12,5; 1Cor 12,27).

Il credente pertanto, intimamente e profondamente unito a Cristo-Tempio e dimora vivente della gloria di Dio, è egli stesso con il suo corpo Tempio e luogo della dimora gloriosa di Dio: “O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!” (1Cor 6,19-20). Il corpo pertanto non è più nostro, ma appartiene al Signore e a lui è consacrato nel battesimo, così Paolo può dire che “il corpo poi non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo.” (1Cor 6,13b). Per questo Paolo esorta la comunità di Roma affinché “Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri; non offrite le vostre membra come strumenti di ingiustizia al peccato, ma offrite voi stessi a Dio come vivi, tornati dai morti e le vostre membra come strumenti di giustizia per Dio.” (Rm 6,12-13).

Vi è dunque una profonda e intima compenetrazione tra Cristo e il credente, così che i due sono una cosa sola e si appartengono vicendevolmente.

Questa corporeità che lega il credente a Cristo è la stessa corporeità che lega tutti i credenti tra di loro così da formare una sola cosa in Cristo: “Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.” (Gal 3,28). Una unità profonda e comunionale che ha la sua origine nella stessa comunione che ogni credente ha con il corpo e il sangue di Cristo: “Parlo come a persone intelligenti; giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane.” (1Cor 10,15-17), così che Paolo non esita a concludere: “Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.” (1Cor 12,27). E questo nuovo corpo, che è la comunità credente stessa radicata in Cristo, qualificata dall’unico pane, dall’unica Parola e dall’unica fede nell’unico Cristo, è il nuovo tempio in cui Dio abita in mezzo agli uomini e cammina in mezzo ad essi: “Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente, come Dio stesso ha detto: Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò e sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo” (2Cor 6,16b) e ogni membro è pietra viva chiamato ad edificare questo Tempio vivente, che è Cristo stesso, nel quale ogni credente esercita un sacerdozio santo, partecipe di quello unico di Cristo: ” … anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 2,5), un edificio spirituale, una dimora per Dio, un tempio che cresce ben ordinato in Cristo e che ha come pietra angolare Cristo stesso: ” … edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,20-22).

I credenti, pertanto, sono costituiti in Cristo pietre viventi, il cui compito è edificare e far crescere in Cristo quell’edificio spirituale che è la Chiesa, in conformità al compito che la vita ha loro assegnato; ma nel contempo essi si qualificano come membra viventi di Cristo e in lui e con lui formano un solo corpo: “Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri” (Rm 12,4-5). Ma non tutte le membra sono uguali, vi sono anche quelle che abbisognano di una maggiore attenzione, così che Dio “ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.” (1Cor 12,24b-26).

Questa profonda unità comunionale che ci lega tutti nell’unico Cristo, facendoci uno in lui (Gal 3,28), ci spinge dunque ad aver cura gli uni degli altri soprattutto di quelle membra che soffrono e che sono chiamate a vivere e a completare in se stesse la passione di Cristo sofferente: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa.” (Col 1,24). Una sofferenza pertanto che non è vana o punitiva, ma vissuta in Cristo diventa fonte di redenzione e salvezza per l’intera Chiesa e occasione di umile e servizievole condivisione per le altre membra: “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi.” (Rm 12,15-16).

Ed è proprio in questo nuovo Tempio spirituale, che è lo stesso corpo di Cristo, di cui noi siamo membra viventi e a nostra volta tempio e dimora di Dio, che si celebra sull’altare della vita il sacrificio santo e gradito a Dio del nostro vivere, gioire e soffrire quotidiani, trasformando in tal modo la nostra vita in un atto di culto e in una perenne liturgia di lode e di ringraziamento.

L’Altare

Se il tempio è il luogo in cui Dio colloca la sua presenza in mezzo agli uomini, cammina con loro verso il compimento delle sue Promesse, che trovano il loro punto culminante, ma non definitivo, nell’incarnazione, passione, morte e risurrezione del Figlio; se il tempio è il luogo d’incontro tra Dio e gli uomini e figura di un altro tempio più perfetto (Eb 9,11), il Cristo, spazio d’incontro e di riconciliazione definitiva tra il Padre e i suoi figli (Ef 1,4-5), l’altare è il cuore stesso del tempio.

Benché l’altare sia strettamente connesso al tempio, diventandone il punto focale verso cui tutto converge, tuttavia esso nell’A.T. ha avuto un’origine completamente indipendente. La prima volta che il termine appare è in Gen. 8,20 allorché “Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali mondi e di uccelli mondi e offrì olocausti sull’altare”. Ma altrove nell’A.T. vediamo come l’altare è soltanto una sorta di piccolo monumento costruito con terra o con roccia grezza non lavorata, un grosso sasso o più semplicemente una sorta di stele la cui funzione era prevalentemente commemorativa dell’incontro tra Dio e Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè[17]. L’altare e il luogo in cui veniva eretto portavano il nome che qualificava l’incontro tra il Patriarca e Jhwh (Gen 33,20; 35,7; Es 17,15). Gli altari in epoca patriarcale dunque erano la testimonianza di relazioni privilegiate che Dio teneva con i suoi eletti, attraverso i quali stavano compiendosi le Promesse. Proprio lì Dio si è rivelato e si è fatto conoscere. Questi luoghi divennero successivamente luoghi di culto e vi si costruirono dei santuari. Anzi l’altare in sé, in epoca patriarcale, era sufficiente per stabilire la fondazione di un santuario[18]. L’altare pertanto è un elemento fondativo del tempio che ne giustifica l’esistenza. Il tempio c’è perché c’è l’altare che attesta l’incontro di Dio con l’uomo.

Già da questi brevi accenni si può intuire come l’altare non fosse una semplice costruzione di arredo del tempio o un mero luogo dove compiere dei sacrifici e quindi strumentale e funzionale ad essi, anche se ciò non deve essere escluso, ma esso in sé e per sé è giustificativo della costruzione di un tempio e ne è il punto fondamentale. L’altare inoltre è il segno dell’incontro dell’uomo con il mondo del divino, è una sorta di punto di contatto tra cielo e terra, in cui cielo e terra convergono e si ritrovano. L’altare pertanto assume anche una valenza cosmica[19] e crea attorno a sé un’alea di sacralità e di santificazione che attrae l’uomo nella dimensione divina: “Per sette giorni farai il sacrificio espiatorio per l’altare e lo consacrerai. Diverrà allora una cosa santissima e quanto toccherà l’altare sarà santo” (Es 29,37). Proprio questo particolare aspetto consacratorio dell’altare sarà ricordato anche da Gesù nella sua dura requisitoria contro gli Scribi e i Farisei: “E dite ancora: Se si giura per l’altare non vale, ma se si giura per l’offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. Ciechi! Che cosa è più grande, l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta?” (Mt 23,18-19).

L’altare in Israele era caratterizzato da quattro corni posti ai quattro angoli dello stesso, la cui origine era fatta risalire a Jhwh stesso, che ne dettò le regole e le misure (Es 27,1-8). Presso i popoli antichi il corno era simbolo di potenza ed esprimeva talvolta il terrore che circondava il mondo soprannaturale. Esso veniva spesso legato alla divinità ed era espressione della sua onnipotenza. Parimenti anche nell’A.T. il corno era simbolo della potenza, della forza e del potere[20]. L’altare così avvolto da quattro corni posti alle quattro estremità indicavano come questo altare fosse un luogo privilegiato dove dimora la pienezza[21] della potenza divina. Da essi infatti, spalmati di sangue della vittima, promanava il perdono dei peccati (Es 30,10; Lv 16,18). A chi inoltre, perseguitato, afferrava uno dei quattro corni dell’altare veniva garantito il diritto d’asilo poiché egli si poneva sotto la diretta tutela di Dio, escluso il caso di omicidio volontario,[22]. Contro i misfatti d’Israele Dio spezzerà i corni dell’altare di Betel (Am 3,14) per indicare come non ci sia più perdono e salvezza per il popolo, in quanto Jhwh toglierà la sua presenza in mezzo ad esso.

L’altare pertanto, rivestito dei quattro corni, era la porta per poter raggiungere Dio e attraverso il quale promanava un flusso salvifico che investiva l’uomo e lo avvolgeva della sacralità stessa di Dio. L’altare pertanto potremmo definirlo come la porta di entrata del cielo che Dio ha aperto all’uomo, perché proprio attraverso di essa egli potesse accedere alla stessa dimensione divina. Di conseguenza esso diventa il luogo della mediazione tra Dio e gli uomini, il luogo del passaggio, della comunicazione e ancor più della comunione con il divino. Infatti chi mangia dell’altare entra in comunione con questo e con quanto esso rappresenta: “… il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane. Guardate Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare?” (1Cor 10,16-18). In tal modo l’altare diventa elemento di unificazione comunionale, che già nell’antichità fu prefigurato in qualche modo: “Elia disse a tutto il popolo: “Avvicinatevi!”. Tutti si avvicinarono. Si sistemò di nuovo l’altare del Signore che era stato demolito. Elia prese dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei discendenti di Giacobbe, al quale il Signore aveva detto: “Israele sarà il tuo nome”. Con le pietre eresse un altare al Signore; …” (1Re 18,30-32a).

Su questo spazio sacro, su questo punto di contatto tra cielo e terra, l’uomo ha imparato a deporre le primizie del suo lavoro, che consumate dal fuoco venivano sottratte al suo potere e in tal modo donate a Dio, che risponde con le sue benedizioni e il suo perdono (Es 20,24).

In una comprensione più ampia e più vicina al nostro quotidiano vivere e soffrire viene spontanea la domanda su quanti altari è posta la nostra vita sui quali essa è chiamata a spendersi quale sacrificio di soave odore a Dio. Certo il duro impegno della famiglia e del lavoro, che spesso si fa sofferenza e dolore, gioia e speranza; ma tra tutti un posto privilegiato va riservato al letto della sofferenza sul quale l’ammalato viene consumato, quale olocausto, dalla malattia che non gli lascia speranza o che lo accompagna per lunghi tratti della sua vita, associandolo in tal modo alle sofferenze di Cristo, completando con le proprie quello che manca al suo patire redentivo (Col 1,24). Ecco che allora la malattia diventa motivo di comunione con Dio per mezzo del suo Cristo, mentre il letto della sofferenza diventa, come l’altare, il luogo della privilegiata presenza di Dio in mezzo ai suoi, nuovo punto di contatto e di mediazione tra il cielo e la terra. In questa prospettiva il letto del dolore, così come la croce lo fu per Cristo, diventa il luogo sacro in cui si compie il sacrificio del proprio vivere sofferente ma redentivo, il luogo in cui si celebra l’olocausto della propria malattia, così che l’ammalato diviene vittima e sacerdote offerente di se stesso a Dio.

Il Sacrificio e la Vittima

Il termine altare in ebraico è reso con l’espressione mizbeah che corrisponde al luogo dove viene uccisa la vittima sacrificale (zabah = uccidere a scopo sacrificale)[23] e trova il suo corrispondente nella traduzione greca dei LXX in qusiast»rion (tzisiatérion) strettamente legato al verbo corrispondente qusiazw (tzisiazo) che significa “offrire in sacrificio”. L’altare pertanto è posto in una stretta correlazione con l’azione del sacrificare; quindi “vi è un rapporto necessario fra il sacrificio e l’altare, il quale è segno o ricordo di una presenza di Dio e strumento di mediazione tra Dio e l’uomo”, come afferma il De Vaux[24]. Non si può dunque parlare di altare eludendo la vittima che su di esso si pone e il sacrificio che vi si compie.

Vediamo pertanto da vicino la dinamica intrinseca del sacrificio, al cui base ci si stanno due elementi fondamentali: a) il riconoscimento da parte dell’uomo del proprio limite e, come contropartita, b) il riconoscimento dell’onnipotenza e della trascendenza di un Essere che si sente superiore a se stessi e verso il quale ci si rivolge attraverso il rituale del sacrificio stesso.

Tale riconoscimento per mezzo dell’azione sacrificale si esprimeva ponendo sull’altare le primizie dei frutti della terra e del proprio lavoro[25] e quelle della vita, sia i primogeniti maschi degli animali che degli uomini, che poi venivano riscattati, poiché ogni primizia appartiene al Signore[26].

La finalità primaria del sacrificio era quella di ingraziarsi in qualche modo la divinità sottomettendosi ad essa, compensando in tal modo le proprie fragilità e invocando la sua benedizione, che si esprimeva nella fecondità del lavoro e della vita. C’è dunque in ogni sacrificio una sorta di “do ut des”, una sorta di scambio di doni. Il sacrificio pertanto diviene l’espressione di un riconoscimento che ogni bene proviene da Dio e a Lui va restituito attraverso il sacrificio. La distruzione della vittima non è mai fine a se stessa, ma garantisce la totale consacrazione dell’oggetto o animale sacrificato a Dio, sottraendolo in tal modo alla disponibilità e all’uso profano che l’uomo può farne. In tal modo l’uomo riconosce che tutto appartiene a Dio, la terra e tutto ciò che essa produce, e a Lui si riconosce appartenente, sua proprietà[27]. Il sacrificio pertanto è anche una sorta di atto consacratorio. In esso pertanto l’uomo perde qualcosa di sé, ma guadagna molto di più in benevolenza divina, che è salvifica. Ogni sacrificio quindi riveste il carattere di dono ed è nel contempo un atto di consacrazione sia della terra che dell’uomo. Il termine sacrificio (sacrum facere) infatti esprime in se stesso il compiersi di un’azione sacra e consacratoria, poiché essa ha attinenza con il mondo divino. Non a caso la consacrazione di un oggetto o di una persona a Dio è considerata come una forma di sacrificio sublimato, poiché essi vengono in qualche modo sottratti alla disponibilità umana e con ciò stesso entrano a far parte dell’alea divina e sono resi santi[28].

Il sacrificio contiene in se stesso anche una valenza espiatoria sostitutiva dell’uomo (Lv 4,1-35). La vittima destinata al sacrificio veniva caricata del peccato attraverso l’imposizione delle mani (Lv 4,4.15.24.29); in tal modo il peccato veniva distrutto e la redenzione del peccatore avveniva attraverso l’aspersione del sangue[29] “Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite; perché il sangue espia, in quanto è la vita.” (Lv 17,11). Ed è proprio attraverso questo sangue-vita offerto al Signore che l’uomo ritornava ad essere proprietà del suo Dio, a Lui consacrato e riservato, e la vita divina tornava a fluire in lui. Vi era nel sangue una sorta di rigenerazione dell’uomo peccatore. In tal modo l’uomo peccatore-redento rientrava in comunione con Jhwh. La religione infatti non è un vago sentimento, ma coinvolge l’uomo nel profondo della sua vita, ad ogni livello del suo vivere. Tale comunione con il mondo divino viene sancita in Israele attraverso l’Alleanza (Es 19,5-6) che lo compenetra in ogni sua espressione esistenziale, mentre ritualmente essa si esprime attraverso il sacrificio di comunione. Esso si compiva con il sacrificare un animale di cui una parte veniva offerta a Jhwh, una parte era riservata al sacerdote e una terza parte era consumata dall’offerente con la sua famiglia o amici. Questa condivisione tra Jhwh, il sacerdote e l’offerente dell’unica vittima esprimeva la comunione sacra con Dio. Paolo nella sua prima lettera ai Corinti ricorderà proprio questo particolare: ” … il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane. Guardate Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare?” (1Cor 10,16-18). In tal modo questo sacro pasto comune rafforzava la comunione non solo all’interno dei membri della comunità dell’Alleanza, ma anche tra questi e Jhwh.

Ma già nell’A.T. vediamo come si faccia strada un nuovo concetto di sacrificio che supera gli stretti e comodi spazi della vittima animale sacrificata sull’altare. Certo l’animale sacrificato a Jhwh e la sua funzione vicaria rimangono centrali in tutto l’A.T. , ma sono insufficienti per riscattare l’uomo che in tale sacrificio deve essere coinvolto esistenzialmente. Contro il sacrificio facile che proviene da una vita vissuta in dissonanza dalla Torah intervengono duramente i profeti: “Udite la parola del Signore, voi capi di Sòdoma; ascoltate la dottrina del nostro Dio, popolo di Gomorra! <<Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero?>> dice il Signore. <<Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue” (Is 1,10-15). In tal modo ogni oblazione e ogni sacrificio diventa insufficiente per riscattare l’iniquità dell’uomo: “Per questo io giuro contro la casa di Eli: non sarà mai espiata l’iniquità della casa di Eli né con i sacrifici né con le offerte!” (1Sam 3,14). Il primo atto di culto e di redenzione parte e si compie nel cuore stesso dell’uomo, da qui nasce il vero sacrificio di perdono e di redenzione, soltanto allora anche il sacrificio comandato dalla Torah acquista il suo più vero significato: “Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode; poiché non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi. Nel tuo amore fa grazia a Sion, rialza le mura di Gerusalemme. Allora gradirai i sacrifici prescritti, l’olocausto e l’intera oblazione, allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.” (Sal 50, 17-21). Anche la preghiera diventa allora una nuova forma di sacrificio a Dio: “Come incenso salga a te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera” (Sal 140,2)

Ma sarà soltanto nel N.T. che il concetto di sacrificio subirà una svolta radicale e acquisirà il suo significato più vero. Esso cambia di prospettiva e si spiritualizza coinvolgendo direttamente il vivere dell’uomo. Benché ancora ai tempi di Gesù si compissero i sacrifici come nell’A.T. e nel rispetto delle regole della Torah[30], tuttavia già si faceva strada una diversa concezione del sacrificio aprendo nuove prospettive al culto divino. Sarà proprio l’avvento del cristianesimo e la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. e definitivamente nel 135 d.C. che orienteranno sia i giudeo-cristiani che gli stessi giudei verso un concetto nuovo di sacrificio. Per i rabbini di Jamnia[31] con la perdita del Tempio lo studio della Torah diventerà il vero e unico sacrificio gradito a Dio, mentre il cristianesimo cambierà radicalmente il modo di intendere il sacrificio: l’unica vera vittima sacrificata in modo cruento, da cui è sgorgato il perdono dei peccati e la purificazione redentiva dell’uomo riconciliato nuovamente e definitivamente con Dio, è Cristo, nel quale non vi è più nessuna condanna per il credente (Rm 8,1). Cristo pertanto diventa l’unica vera vittima che sostituisce tutti sacrifici del passato (Eb 9,11-14), che altro non erano che una figura della nuova realtà e del nuovo culto (Col 2,16-17; Eb 8,4-5; 10,1) che nella morte di Gesù è stato inaugurato e si è costituito. Da questo momento ogni credente per mezzo della fede e del battesimo diventa partecipe della morte di Gesù in cui è racchiusa la promessa di risurrezione (Rm 6,3-6). Paolo nella sua Lettera ai Galati sintetizza la centralità del sacrificio donativo di Cristo che si compie nella sua vita e a cui egli è stato associato per mezzo della fede in lui: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), così che anche la sua vita diventa un atto di culto in cui si celebra l’immolazione di se stesso per il Vangelo: “E anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento, e ne godo con tutti voi.” (Fil 2,17)[32]. Non solo, ma anche gli stessi doni offerti a Paolo, prigioniero probabilmente ad Efeso, dai Filippesi diventano un atto cultuale dal soave odore e un sacrificio gradito a Dio: “Adesso ho il necessario e anche il superfluo; sono ricolmo dei vostri doni ricevuti da Epafrodìto, che sono un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio” (Fil 4,18). Tutta la vita del credente pertanto nel suo poliedrico esprimersi quotidiano è atto di culto, azione sacrificale, celebrazione liturgica in Cristo, per Cristo e con Cristo, da cui sgorga la lode perenne a Dio che è Padre di tutti.

Tutto ciò è reso possibile perché una è la vittima e unico è il sacrificio compiuto una volta per tutte[33] a cui tutti i credenti attingono e al quale sono assimilati e conformati in virtù della loro fede e del loro battesimo, così che il loro stesso vivere diventa un celebrare tale sacrificio con azione sacerdotale: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Ogni credente quindi consociato e compartecipe di Cristo-vittima-sacrificale, che si è offerto al Padre in sacrificio di soave odore (Ef 5,2), diviene per la sua stessa natura di credente in Cristo anch’egli vittima offerta al Padre in un sacrificio di lode e di ringraziamento, trasformando il suo vivere quotidiano in un vero e proprio atto di culto a Dio.

Ma se è vero che ogni credente per sua natura è associato e assimilato al Cristo morto-risorto[34] ed è chiamato a vivere nella propria vita, con fedeltà alla Parola, la passione e morte del suo Signore, a maggior ragione il sofferente, il quale è visibilmente chiamato a vivere in modo tangibile nella propria carne il sacrificio redentivo di Gesù. Egli sull’altare del proprio letto con-vive lo stesso sacrificio del suo Maestro sull’altare della croce e completa nella sua carne i patimenti redentivi di Cristo (Col 1,24). Posto in questa prospettiva il sofferente non è più lui che vive, ma Cristo vive in lui la sua passione e morte, lo vive nella sua passione e nella sua morte. In tal modo l’ammalato non è più soltanto vittima di un destino crudele e di una sorte ingiusta che gli si accanisce contro, ma diventa con-vittima assieme a Cristo, collaborando con lui alla redenzione dell’umanità e del creato perpetuando nella sua carne e nel tempo gli effetti rigenerativi della passione e morte di Cristo. In questa prospettiva la vittima-sofferente non è più espressione di un inutile patire e morire, ma diventa promessa di riscatto e preludio di rigenerazione a nuova vita, che proprio attraverso di lui si sta concretamente compiendo: “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8,22-23). La sofferenza quindi diventa una sorta di passaggio obbligato verso la nuova creazione: “Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26) di conseguenza Paolo ricorda che “se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm 8,17b). La sofferenza pertanto se da un lato esprime tutta la caducità di una natura sconfitta dal peccato, dall’altro essa è il preludio di una nuova vita, così che Paolo ritiene “che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,17a).

La sofferenza pertanto caratterizza la vittima come momento di passaggio verso la nuova creazione ed è proprio con il consumarsi della vittima attraverso la sofferenza che viene generata una nuova dimensione dove avrà stabile dimora l’uomo redento nel Cristo morto-risorto. La vittima pertanto diviene un punto di congiunzione tra la terra e il cielo e si configura come una forte spinta evolutiva verso quei cieli nuovi e terra nuova contemplati da Giovanni nell’Apocalisse (21,1). In tal modo la vittima consumata sull’altare del suo letto attraverso il fuoco della sofferenza diventa preparatoria e annunciatrice di una nuova realtà dove Dio “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate>>. E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>; e soggiunse: <<Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci” (Ap 21,4-5).

Il Sacerdozio

Strettamente uniti al concetto di Tempio, Altare e Vittima sono quelli di Sacerdozio e Diaconia. Due aspetti delle realtà spirituali questi ultimi che sono inscindibilmente legati tra loro. Non si può concepire un sacerdozio che non si fa diaconia, ne una diaconia che non si esprima nel sacerdozio. Entrambi appartengono alla medesima realtà divina del sacrificio. Lo stesso Gesù giovanneo nella lavanda dei piedi (Gv 13,4-16), che si pone a poche ore dalla sua passione e morte, fornisce in questa la chiave di lettura e il significato più vero e profondo del suo sacrificio: esso si pone in mezzo agli uomini non soltanto come la divina azione purificatrice del peccato (Gv 1,29), ma anche come un servizio di redenzione e di riscatto che il Padre offre all’uomo per mezzo di suo Figlio. Ed è proprio in quell’umile azione del lavare i piedi che Gesù mostra tutta l’immagine dell’amore del Padre, di quel Dio che si china e si inginocchia davanti alla sua creatura per purificarla dalla colpa e attrarla definitivamente nella sua dimensione. Gesù stesso in proposito ricorderà il senso della sua missione: “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20,28; Mc 10,45), mentre Paolo in Fil 2,6-8 delinea lo svuotamento[35] della gloria di Dio nel Figlio fino a toccare gli estremi più bassi dell’esistenza umana, assumendo la condizione di servo. Al di sotto dell’intera azione redentrice di Gesù ci sta dunque un atteggiamento di servizio speso a favore dell’uomo e sotteso da un comportamento totalmente donativo che ha fatto della vita di Gesù una pro-esistenza. Su questi fondamenti la Lettera agli Ebrei elaborerà il Sacerdozio di Cristo, punto culminante e definitivo di un cammino che prende le sue origini da lontano.

Il sacerdozio[36] in epoca patriarcale non era ancora conosciuto. Gli atti di culto erano compiuti dal capofamiglia e quando la Genesi parla di sacerdoti, questi si riferiscono a quelli egiziani o a Melchisedek, re di Salem[37]. Il sacerdozio compare soltanto in uno stadio più avanzato dell’organizzazione della società, quando le comunità destinano alcuni loro membri alla custodia dei santuari e alla celebrazione dei riti.

Il termine con cui in Israele vengono definiti i sacerdoti è quello di kohen, espressione generica con cui si indicavano anche i sacerdoti di altre religioni. L’etimologia del termine è sconosciuta; alcuni la fanno derivare dal verbo accadico kànu, che significa inchinarsi o rendere omaggio; altri lo ritengono derivante dall’ebraico kùn , stare dritto in piedi, per cui il sacerdote è colui che sta diritto davanti a Dio. Nella LXX il termine kohen è stato tradotto con hiereùs, espressione questa che ha la sua radice in hieròs, che significa sacro, per cui il sacerdote è colui che è addetto al sacro e che entra in contatto e in comunione con la sacralità del mondo divino. Da qui il nostro termine italiano di sacerdote, da sacrum donare, per cui il sacerdote è colui che dona il sacro.

Gia da questa breve carrellata di termini si rileva come fin dall’antichità il sacerdote, per sua stessa natura, è colui che ha una stretta attinenza con il mondo divino e a questo egli è dedicato e riservato.

Il sacerdozio in Israele non ha un’origine vocazionale, come poteva essere quella del re o del profeta, ma di semplice appartenenza tribale. Il sacerdozio infatti nei suoi inizi è una funzione prevalentemente di servizio, una sorta di incarico che Jhwh aveva riservato alla tribù di Levi (Dt 10,8-9; 21,5). Ciò tuttavia non comporta alcun carisma o consacrazione e tanto meno comportava una sorta di ordinazione particolare, ma era sufficiente appartenere alla stirpe sacerdotale. La nomina del sacerdote avveniva attraverso il rito del millu’im o rito del riempimento delle mani, così definito perché al prescelto venivano poste nelle mani le materie proprie dell’offerta e del sacrificio[38]. I sacerdoti quindi esercitavano senza che venisse loro conferito un potere speciale o una qualche grazia particolare; tuttavia il sacerdote, proprio in virtù del suo incarico, che lo poneva in diretto contatto con il mondo divino, era considerato santificato. Significativo in tal senso era quanto il sommo sacerdote portava sul suo turbante: una lamina d’oro con inciso sopra l’espressione “Consacrato del Signore” (Es 28,36), che qualificava il sacerdote come colui che è stato “messo a parte” all’interno della comunità per essere riservato esclusivamente a Jhwh. In tal modo il sacerdote può muoversi liberamente all’interno del mondo del divino senza incorrere in castighi od essere punito con la morte. Proprio per questo egli è stato separato dal resto del popolo e dal mondo per evitare ogni contaminazione e potersi così accostare a Dio; ma doveva per questo osservare tutta una particolare ritualità di purificazione ed era soggetto a determinate limitazioni e a certe regole di purità (Lv 21,1-24).

Il sacerdote è scelto per il servizio al Santuario, per cui vi è un forte legame tra Sacerdozio e Tempio. Nella peregrinazione nel deserto i sacerdoti erano addetti al trasporto delle cose sacre e della Tenda e giunti nella Terra Promessa il loro territorio si estendeva tutto intorno al Tempio (Ez 45,3-5). Il sacerdozio in Israele era pertanto in funzione del Tempio e del culto che in esso vi si compiva, per questo dopo la sua distruzione nel 70 d.C. il sacerdozio decadrà definitivamente.

I compiti del sacerdozio israelitico sono designati sinteticamente nel Libro del Deuteronomio, là dove prima di morire Mosè benedice il popolo (Dt 33,1): “Per Levi disse: <<Dá a Levi i tuoi Tummim e i tuoi Urim all’uomo a te fedele, che hai messo alla prova a Massa, per cui hai litigato presso le acque di Mèriba; a lui che dice del padre e della madre: Io non li ho visti; che non riconosce i suoi fratelli e ignora i suoi figli. Essi osservarono la tua parola e custodiscono la tua alleanza; insegnano i tuoi decreti a Giacobbe e la tua legge a Israele; pongono l’incenso sotto le tue narici e un sacrificio sul tuo altare.” (Dt 33,8-10). Tre dunque erano nell’antico sacerdozio i compiti: la divinazione attraverso i Tummim e gli Urim[39], oggetti che venivano consegnati al sacerdote al momento della sua investitura. Con questi il sacerdote tirava la sorte su una questione o su di una domanda poste dal fedele, il risultato costituiva la risposta divina al problema[40]. Questa funzione divinatoria tuttavia non era esclusiva del sacerdozio israelitico, ma era diffusa nell’antichità.

Il secondo compito menzionato è l’insegnamento. Il compito dei sacerdoti era quello di insegnare i precetti del Signore, inizialmente in modo occasionale[41], poi si dedicarono alla trasmissione degli insegnamenti divini e ne furono i depositari (Dt 31,9). Significativo in tal senso è quanto afferma Malachia: “Infatti le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l’istruzione, perché egli è messaggero del Signore degli Eserciti.” (Ml 2,7). Proprio per la loro conoscenza della legge, i sacerdoti svolgevano anche una sorta di funzione giudiziaria o forse è meglio definirla sentenziaria (Dt 21,5). Ma la funzione dell’insegnamento sacerdotale cadde ben presto in disuso e i sacerdoti furono sostituiti dagli scribi o dottori della legge.

Il terzo elemento riguarda il culto sacrificale. Il Libro del Levitico nei capp. 1-7 fornisce istruzioni particolari circa i sacrifici che vedono sempre il sacerdote in primo piano, quale attore principale del culto.

Delle tre funzioni assegnate da Mosè alla tribù di Levi ben presto non rimase che quella riguardante il culto; questa divenne la funzione sacra per eccellenza che contraddistingueva e caratterizzava il sacerdote. Accanto a queste funzioni ne venivano riconosciute altre ancora come quella della purità rituale e del saper discernere tra il puro e l’impuro. La partecipazione al culto richiedeva la purità rituale prevista dalla legge (Lv 11-16) e tutta una serie di regole definiva il percorso per evitare la contaminazione e se questa accadeva vi erano le norme per la purificazione. Il sacerdote aveva la responsabilità del corretto svolgimento del culto e pertanto a lui era demandato il controllo della purità rituale dei partecipanti, per garantire il buon esito del culto stesso. Tra tutte le impurità la più terribile e temibile era la lebbra, che decretava di fatto e di diritto la morte civile e religiosa dell’appestato. Era pertanto compito del sacerdozio decretare, in base a precise norme di legge (Lv 13-14) chi era o non era colpito dal male e chi ne fosse guarito e tutte le modalità di purificazione e di riammissione nella comunità.

Altro compito proprio del sacerdote era la benedizione che egli era chiamato ad imporre sulle persone e sul popolo nel nome di Jhwh. Tuttavia va detto che la benedizione non era un’esclusiva del sacerdote, ma altre persone potevano imporre le mani benedicenti come il capofamiglia e il re sul popolo[42]. Il Libro dei Numeri prevedeva una formula di benedizione: “Il Signore aggiunse a Mosè: “Parla ad Aronne e ai suoi figli e riferisci loro: Voi benedirete così gli Israeliti; direte loro: Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò” (Nm 6, 22-27). Imporre il nome sul popolo significava costituire una sorta di relazione viva con Jhwh. Il nome infatti nell’antichità esprimeva l’essenza stessa della persona creando tra il popolo e Jhwh un flusso benefico di fecondità[43].

Un ulteriore compito affidato ai sacerdoti era la custodia del santuario. Il sacerdote infatti era l’uomo del santuario; in esso vi poteva entrare e frequentare anche i luoghi più sacri senza incorrere in condanne. Ogni santuario aveva il suo sacerdote, che veniva incaricato appositamente per accudire a quel santuario e officiarne il culto[44]. Il sacerdote era quindi l’uomo del culto, affiliato in modo talmente stretto al Tempio, che alla sua caduta (70 d.C.) l’intera classe sacerdotale decadde totalmente.

La figura del sacerdozio che la Tradizione ci ha passato è legata prevalentemente all’altare e al sacrificio (Lv 21,6). Tuttavia nell’A.T. la figura del sacerdote non fu mai legata all’atto del sacrificare la vittima, anche se egli se ne poteva far carico. A ciò era preposto l’offerente stesso o nel caso di sua impurità rituale egli era sostituito dal clero inferiore, fatto salvo per gli uccelli che dovevano essere sacrificati direttamente sull’altare[45]. Compito del sacerdote era quello di porre l’animale sacrificato sull’altare e offrirlo direttamente al Signore (Lv 1,7.15). La funzione propria del sacerdote incominciava con la manipolazione del sangue, la parte più sacra della vittima (Lv 17,11.14) e con il deporre la stessa sull’altare. In tal senso il sacerdote diviene il ministro privilegiato dell’altare, espressione questa che troverà i suoi aspetti più elevati nel cristianesimo. Questo ruolo sacerdotale si andò via via sempre più affermando nel tempo nella misura in cui venivano dismesse le sue funzioni divinatorie e di predicazione.

Dalla sintetica analisi delle varie e diverse funzioni sacerdotali risalta in particolare il ruolo di mediazione del sacerdote, che si interponeva tra Dio e il popolo, ruolo che già in qualche modo era stato prefigurato in Mosè ai piedi del Sinai: “Mosè disse al Signore: <<Il popolo non può salire al monte Sinai, perché tu stesso ci hai avvertiti dicendo: Fissa un limite verso il monte e dichiaralo sacro>>. Il Signore gli disse: <<Và, scendi, poi salirai tu e Aronne con te. Ma i sacerdoti e il popolo non si precipitino per salire verso il Signore, altrimenti egli si avventerà contro di loro!>>. Mosè scese verso il popolo e parlò” (Es 19,23-25). Il sacerdote, per la sacralità della sua funzione, per la santità della sua figura e in quanto riservato esclusivamente a Dio (Es 28,36; 39,30), era colui che elevava a Dio le preghiere e le offerte del popolo e ritornava da Dio portando le benedizioni e le volontà divine al popolo e se ne faceva interprete. Egli pertanto si costituiva come il trait-d’union tra Jhwh e il suo popolo, una sorte di ponte sacro che collegava Dio all’umanità, che in lui trovavano il loro punto d’incontro. Significativo in tal senso è il passo della Lettera agli Ebrei che si riferisce proprio a questo ruolo di mediazione del sacerdozio antico: “Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza; proprio a causa di questa anche per se stesso deve offrire sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo. Nessuno può attribuire a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne” (Eb 5,1-4)[46], ruolo di mediazione che poi l’autore della Lettera riferirà Cristo stesso[47].

Nel corso della storia il sacerdozio si qualificò in mezzo al popolo per tre aspetti: a) il senso della sua santità per la quale furono decisivi i profeti e la riforma di Giosia; da questi uscì una nuova organizzazione del culto che metteva in rilievo la centralità di Jhwh[48]; b) l’accentramento del potere nei sacerdoti, che forti del loro ruolo esclusivo di mediazione con il mondo divino acquisirono posizioni sociali preminenti in particolar modo dopo l’esilio babilonese. Il sommo sacerdote divenne un’autorità non soltanto religiosa, ma anche politica e di guida del popolo. Sarà infatti proprio la famiglia sacerdotale degli Asmonei che guiderà la lotta contro il seleucida Antioco IV Epifane (167-164 a.C.). Gli Asmonei dopo la vittoria conservarono il potere sul popolo e il sommo sacerdozio divenne una carica politicamente appetibile e fonte di rivalità e di lotte intestine; c) l’inquinamento della sacralità del sacerdozio portò la parte più religiosa del popolo ad una sua disaffezione e ad orientarsi verso l’avvento di un nuovo sacerdozio rinnovatore. Sarà proprio questo il periodo del distacco degli esseni dal Tempio e la fondazione di una nuova comunità messianica, che alimentava le speranze nella venuta di un nuovo messia Re e Sacerdote che avrebbe ricostituito lo splendore del Regno di Israele tra i popoli e rinnovato il culto a Dio. Si apre l’era delle attese escatologiche verso la venuta di una nuova realtà in cui Dio avrebbe affermato per mezzo del suo Messia il suo Regno[49].

Ci si affaccia in tal modo alle soglie del N.T. carichi di attese e di speranze[50]. La venuta di Gesù non cambierà nulla del rito antico durante la sua missione terrena e neppure immediatamente dopo la sua dipartita (At 2,42; 3,1). Egli non si dichiarò mai sacerdote, né compì atti che in qualche modo vi si potesse riferire, anzi fu proprio la classe dei sacerdoti e degli anziani a rendergli la vita difficile ed essi furono i principali fautori della sua morte[51]. La missione di Gesù fu prevalentemente profetica e come tale venne recepito dalla gente[52]. Sarà soltanto la successiva riflessione cristiana che incomincerà leggere la persona di Gesù dapprima come il messia che doveva venire[53], poi come il Signore[54]. Il tema inoltre della distruzione e della ricostruzione del Tempio e la sua identificazione con il corpo stesso di Gesù[55] occuperà una particolare attenzione, legando strettamente Gesù al Tempio, dove egli fin da subito viene offerto a Dio (Lc 2,22-24) e dove egli ritornerà ancora giovinetto tra i maestri d’Israele per ammaestrare (Lc 2,46-47). I racconti dell’ultima cena[56] sono inquadrati nell’ambito della pasqua ebraica in cui il capofamiglia celebrava la liberazione di Israele attraverso tutto un rituale particolare, che trovava il suo vertice nel sacrificio dell’agnello privo di difetti e nella sua totale consumazione (Es 12,1-6). Giovanni sensibile a questo aspetto sacrificale porrà la morte di Gesù il giorno della Parasceve, nell’ora in cui si soleva sacrificare gli agnelli pasquali (Gv 19,30-31). Lo stesso linguaggio dei vangeli, che parlano di immolare la pasqua, porta a comprendere la festività come un atto sacrificale (Mc 14,12; Lc 22,7). Va ricordato, infine, come la stessa pasqua ebraica trae le sue origini da antichi riti apotropaici legati alla vita dei nomadi, che nel momento della transumanza, tra marzo e aprile, sacrificavano gli agnelli primi nati e con il sangue dipingevano gli stipiti delle tende per ottenere protezione, fecondità e prosperità. Un rito che poi fu legato all’epopea della liberazione di Israele dalla schiavitù dell’Egitto (Es 12,1-14).

L’ultima cena dunque si pone in una cornice squisitamente sacrificale e le stesse parole e gli stessi gesti di Gesù vanno compresi e letti entro tale cornice. Essa si pone a poche ore dalla passione e morte di Gesù, mentre Gesù prende il pane e lo spezza e versa il vino nel calice e distribuisce a tutti. Questo spezzare il pane e versare il vino richiamano da vicino il sacrificio del suo corpo spezzato e del suo sangue versato per tutti. In quest’ultima cena Gesù in qualche modo misterioso, ma reale anticipa quel sacrificio che da lì a poche ore si compirà in modo concretamente visibile a tutti. L’associazione del suo sangue all’alleanza[57] richiama Es 24,6-8: “Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: <<Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!>>. Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: <<Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!>>”. Viene ripreso dunque nell’ultima cena il rito antico dell’Alleanza tra Jhwh e il suo popolo che qui trova la sua eterna e definitiva definizione, così che ” … Gesù è diventato garante di un’alleanza migliore” (Eb 7,22).

Ma tutto questo non è ancora sufficiente per stabilire il sacerdozio di Gesù. Sarà soltanto l’autore della Lettera agli Ebrei che riuscirà a stabilire uno stretto nesso tra Cristo e il sacerdozio.

L’autore parte considerando che Gesù appartiene alla tribù di Giuda per la quale non fu riconosciuto nessun sacerdozio, attribuito invece a quella di Levi (Eb 7,14). Gesù pertanto non fu mai sacerdote secondo il culto antico, tuttavia egli lo fu per la sua funzione di mediazione tra Dio e gli uomini. L’autore infatti afferma che “Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati” (Eb 5,1). Con tale passaggio viene messo in rilievo la funzione mediatrice del sacerdozio, qui colto nel suo duplice aspetto fondamentale: a) il sacerdote è un chiamato; b) a svolgere una funzione di mediazione, la quale si esprime attraverso un’offerta di doni e di sacrifici. In tal modo l’autore supera i ristretti vincoli tribali ed ereditari del sacerdozio ebraico per accedere invece alla sua pura funzione primaria. Partendo da queste due semplici considerazioni (chiamata e mediazione) l’autore passa ad applicare, con prova scritturistica, tale funzione a Cristo stesso: “Nessuno può attribuire a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli disse: Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato. Come in un altro passo dice: Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchìsedek. Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek” (Eb 5,4-10). Il sacerdozio di Cristo è qui assimilato a quello di Melchisedek che viene presentato come rivestito di un sacerdozio eterno, proprio perché “Egli (Melchisedek) è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote in eterno” (Eb 7,3).

L’azione mediatrice del Cristo nasce proprio dal suo farsi del tutto simile agli uomini (Eb 2,16-17), rimanendo nel contempo Figlio di Dio (Eb 1,1-3). è proprio per questa sua duplice natura umano-divina che Dio e l’uomo si incontrano in lui. In tal modo Cristo diventa il luogo di mediazione privilegiato. E proprio perché rivestito di un sacerdozio eterno alla maniera di Melchisedek, il sacerdozio di Cristo è anch’esso eterno (Eb 7,15-17.23-24).

Ma il sacerdozio di Cristo consoce anche una fase discendente che investe ogni credente rendendolo capace di presentarsi a Dio entrando nel santuario del cielo per offrire sacrifici di lode a Dio graditi, attraverso una nuova via aperta dal sangue di Cristo: “Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne; avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura.” (Eb 10,19-22); in tal la modo noi “Per mezzo di lui dunque offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome.” (Eb 13,15).

Essendo stati pertanto associati a Cristo sacerdote siamo stati resi anche noi partecipi del suo sacerdozio santo e resi capaci di compiere un sacrificio a Dio gradito. Paolo ricorderà questo aspetto sacerdotale che investe ogni credente e che fa della sua vita un atto di culto che si celebra nella liturgia esistenziale della quotidianità: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.” (Rm 12,1).

Tale sacerdozio comune a tutti i credenti trova la sua origine già in Es 19,5-6 dove Dio, ai piedi del Sinai e in virtù dell’Alleanza, fornisce al suo popolo una nuova identità e lo investe di una nuova missione in mezzo alle genti.: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti>>”.

Pietro, memore di ciò, riprenderà proprio questo concetto che applicherà alla comunità dei credenti: ” …voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce” (1Pt 2,9) così che “anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 2,5).

Posto in questa prospettiva ogni credente, assimilato a Cristo, vittima[58] e sacerdote offerente di stesso[59] sull’altare della propria vita e della croce, in virtù del proprio battesimo, diviene capace di compiere sacrifici di soave odore a Dio graditi[60] per mezzo di Cristo stesso. La sua vita, in qualsiasi condizione essa venga vissuta, diviene un atto di culto e una celebrazione liturgica, che possiede in se stessa un dinamismo di consacrazione delle realtà che il credente nel suo esistere quotidiano è chiamato a vivere (Rm 12,1). A maggior ragione la sofferenza, che associa e assimila in particolar modo, quasi tangibile, l’ammalato alla passione di Cristo, diviene espressione della passione e morte di Gesù, diviene di fatto una sua sacramentalizzazione salvifica e redentiva, che definisce il sofferente stesso quale vittima e sacerdote di se stesso, che nella malattia accettata, seppur doverosamente combattuta, offre se stesso al Padre per Cristo con Cristo e in Cristo, compiendo in ciò un servizio di redenzione per se stesso e per l’umanità intera. La sua malattia, infatti, associando l’ammalato a Cristo, dà un tono di universalità al suo soffrire e alla sua offerta al Padre (1Cor 12,26).

La Comunità credente e la Diaconia

Nella sua metafora del corpo e delle membra Paolo pone un principio di solidarietà, che sta alla base dell’intera comunità credente e che di molti fa un corpo solo in Cristo: “Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. [...] Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.” (1Cor 12,12.27). Proprio per questa profonda solidarietà che lega tutti in Cristo, ogni membro diviene compartecipe delle gioie e delle sofferenze dell’altro, ognuno è posto quale responsabile del proprio fratello, soprattutto di quelli che maggiormente versano nelle difficoltà, così che “quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.” (1Cor 12,22-26).

Questo principio di corresponsabilità degli uni verso gli altri viene sottolineato da Gesù stesso nella stupenda parabola lucana del buon samaritano (Lc 10,29-37), in cui si racconta in modo metaforico l’azione salvifica e redentiva di Gesù. Il buon samaritano, dopo aver soccorso quell’uomo disgraziato incappato nei briganti, lo affida alle cure dell’albergatore: “Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno” (Lc 10,35b). In tal modo Gesù lascia intendere che ogni uomo redento è affidato alle cure del proprio fratello e che di ciò gli sarà chiesto conto, così come fu chiesto conto a Caino della sorte di suo fratello (Gen 4,9a). E questa corresponsabilità, fondata sulla solidarietà, trova la sua giustificazione nella natura stessa del credente: “Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,26-28).

All’interno della comunità poi vi sono vari e diversi carismi e ministeri, tutti doni provenienti dall’unico Spirito e tutti finalizzati a costruire nell’amore l’intera comunità, collocandola fin d’ora nella dimensione divina verso cui è in cammino: “Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune …” (1Cor 12,4-7). Paolo parla di carismi, ministeri e operazioni e pone molto abilmente all’origine di ognuno di questi una fonte diversa che ne qualifica la natura stessa: all’origine dei carismi, doni di grazia, vi è l’azione dello Spirito, la cui funzione primaria è quella di vivificare e arricchire spiritualmente la comunità credente; fonte dei ministeri, cioè dei servizi da rendere alla comunità, è Cristo che, mosso dallo Spirito, è per sua natura azione e sacramentalizzazione del Padre. Ogni ministero infatti nasce da un carisma e presuppone quale suo fondamento un carisma che si fa servizio concreto a favore della comunità, così che il ministero lo potremmo definire come il carisma in atto o come sacramentalizzazione stessa del carisma; da ultimo, Paolo considera il dinamismo che muove l’intera comunità e la fa vivere rendendola operosa per Dio; tale dinamismo viene definito con l’espressione greca energhemàta, cioè azioni, attività. Qui il nome Dio va inteso come Padre, che si pone come l’azione prima da cui tutto il resto prende vita e movimento.

L’agire e il vivere della comunità cristiana viene posta in tal modo sotto l’azione diretta del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo così che la comunità stessa diviene espressione e riflesso, una sorta di sacramento vivente della vita trinitaria stessa, in cui nessuno prevale sull’altro, ma tutti si muovono ordinatamente l’uno in funzione dell’altro in una sorta di dinamismo diaconale. Il denominatore comune che congloba tutto il multiforme agire della comunità e dei suoi singoli membri, qualificandolo, è la carità. È molto significativo infatti come Paolo dopo il lungo discorso sui carismi e ministeri, che occupa l’intero cap. 12, lo concluda indicando la via maestra al servizio: “Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte” (1Cor 12,31); un versetto questo di transizione, che conclude il cap. 12 e introduce il 13, l’inno alla carità, creando un legame inscindibile tra i due, quasi a dire che sono si importanti sia carismi che ministeri, ma essi devono radicarsi profondamente e muoversi nell’ambito della carità, senza la quale essi non valgono nulla, poiché il tutto diverrebbe un semplice agire umano che si pone fuori dalla dimensione divina, che per sua natura è Amore: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova” (1Cor 13,1-3).

La diaconia, cioè il servizio compiuto nell’amore di Dio e speso a favore dei fratelli, trova la sua radice più profonda e più vera nello stesso dinamismo che ha mosso tutta la vita di Gesù e ha animato la sua missione: ” … ma Gesù, chiamatili a sé, disse: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,25-28), una diaconia quella di Gesù che ha qualificato la sua vita come una pro-esistenza, cioè una vita spesa interamente a favore degli uomini, e si è posta come parametro di confronto del servire cristiano. La diaconia nelle chiesa primitiva era oggetto di particolari attenzioni da parte degli autori cristiani del primo secolo[61] e considerata un carisma fondamentale all’interno della comunità credente, in cui ognuno doveva farsi servo degli altri, al punto tale che essa diventerà un vero e proprio ministero istituzionalizzato all’interno della Chiesa primitiva (At 6,1-7; ). La stessa suocera di Pietro, guarita da una febbre maligna, alzatasi si pone a servizio del gruppo dei discepoli e di Gesù[62]. Il racconto possiede in sé una forte carica simbolica e metaforica; si tratta infatti della narrazione di una conversione (guarigione) che comporta la sequela di Gesù e che si esprime proprio nel servire. Il cristiano, in quanto seguace di Cristo e a lui assimilato, è chiamato ad esprimere la propria fede nel servizio agli altri nella carità (Gal 5,13b).

Il tema del servizio, praticato all’interno delle comunità credenti diventa non solo espressione concreta della nuova fede vissuta nell’amore vicendevole, che qualifica e caratterizza la nuova vita abbracciata dal credente (Gv 13,35; 1Cor 16,14; ), ma anche il parametro su cui egli sarà misurato. Proprio in tal senso Matteo presenta nel suo cap. 25 le linee di fondo su cui si muove il vivere cristiano, colto nel suo impegno relazionale, che vede il nuovo credente esistenzialmente in cammino verso i più deboli e i più bisognosi, portatore di un messaggio di speranza e di un concreto sollievo. Non si tratta di un amore eroico, fatto di grandi ed estreme gesta, ma quello silenzioso e concreto della quotidianità e che ha come denominatore comune proprio l’attenzione all’altro che si fa servizio (Gal 5,13b): “Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.” (Mt 25,34-40). Ma ecco la novità aggiunta da Matteo: l’altro, meta del nostro servizio di amore, non è un volto anonimo ed estraneo, ma assume le fattezze morali e spirituali di Cristo stesso: “l’avete fatto a me”. Si noti come il Gesù matteano non dice “è come se l’aveste fatto a me”, ma “l’avete fatto a me” stabilendo in tal modo un rapporto diretto tra lui e il credente. A tal punto appare evidente come questo amore, che si spende nel servizio per l’altro, diventa in realtà un dono, un’offerta di se stessi al Padre per mezzo di Cristo, mentre la nostra vita acquisisce i tratti propri di una pro-esistenza come quella vissuta da Gesù in offerta di se stesso al Padre, una vita spesa in favore dell’altro. Un tratto fondamentale questo proprio della diaconia che ha trovato in Cristo la sua espressione più elevata e che l’autore della lettera agli Efesini ricorda: ” … e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore.” (Ef 5,2). Amore che si fa servizio, servizio che si fa dono di se stessi all’altro, in cui è sacramentato Cristo, dono che diventa sacrificio di soave odore al Padre evidenziano la natura propria della diaconia, che è strettamente connaturata con l’eucaristia: “prendete e mangiate, questo è il mio corpo; bevete, questo è il mio sangue”. Espressione e vertice sublime della diaconia: Cristo, pane che si spezza per tutti; sangue versato per tutti e a cui tutti noi intimamente partecipiamo: “il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,16-17). Proprio per questa intima e profonda partecipazione al mistero diaconale e sacrificale di Cristo anche le nostre vite e la vita dell’intera comunità credente vengono assimilate al servizio di amore sacrificale di Cristo stesso e trasformate in pane che si spezza per gli altri, quale sacrificio di soave odore a Dio, così che il credente e comunità si trasformano a loro volta in un uomini-eucaristia e in comunità eucaristica e il loro vivere in un vivere eucaristico, dono di amore al Padre che passa attraverso il servizio dei fratelli (1Gv 4,20).

Conclusione

Tempio, altare, sacrificio, sacerdozio, diaconia, comunità credente sono i luoghi propri di una nuova comunità messianica collocata in mezzo agli uomini dalla morte e risurrezione di Cristo; segni distintivi di una nuova dimensione che si sta installando in seno all’umanità e che se da un lato trovano delle espressioni storiche concrete sotto forma di architettura e organizzazione sacre, dall’altra questi segni si espandono nella sacralità del vivere concreto della quotidianità di ogni credente e annunciano l’avvento di cieli nuovi e terra nuova dove Dio avrà stabile dimora in mezzo agli uomini (2Pt 3,13; Ap 21,1-3). Ogni credente e ogni comunità credente possiedono in se stessi la capacità di trasformare i luoghi del loro vivere quotidiano in tempio e altare, nei quali e sul quale essi, sacerdoti e vittime nel contempo, celebrano e continuano a celebrare il sacrificio di Cristo a cui sono associati per loro natura, in quanto battezzati nello Spirito. Ma questa nuova incarnazione del mistero di Cristo nelle vite proprie dei credenti e della loro comunità, diventa anche annuncio di speranza all’intera umanità, che viene proclamato dall’ambone della propria vita. In tal modo il credente e la nuova comunità messianica diventano Parola di Dio, che proclama le meraviglie di Dio poiché non sono più loro che vivono, ma Cristo morto-risorto vive in loro. A Lui la lode, la benedizione, l’onore e la gloria nei secoli eterni, Amen.

Verona, 1 maggio 2007

Giovanni Lonardi

——————————————————————————–[1] Cfr. Gen 6,5-7.11-13; Rm 8,19-23

[2] Questa Luce non è da con fondersi con quella degli astri, preposti a cadenzare il ritmo dei tempi e delle stagioni. La creazione degli astri (sole, luna e stelle) infatti avverrà soltanto il quarto giorno (Gen 1,14-19).

[3] La lettera ai Romani ricorda che “dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità” (Rm 1,20). Paolo quindi ritiene la creazione stessa come l’impronta visibile del Dio invisibile. Per questo, egli conclude, i pagani “sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa” (Rm 1,21)

[4] In tutta la Bibbia, A.T. e N.T. , Dio soffia sull’uomo: in Gen 2,7 in Gv 20,22.

[5] Il Salmista riflettendo proprio sulla creazione dell’uomo ne proclama tutta la dignità divina: “che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i greggi e gli armenti,tutte le bestie della campagna; Gli uccelli del cielo e i pesci del mare,che percorrono le vie del mare.” (Sal 8,5-9). Gloria, onore e potere dei quali l’uomo è stato ricoperto dicono tutta la sua somiglianza con Dio. L’uomo, dunque, fu rivestito della vita divina e posto quale stretto e diretto collaboratore di Dio nella creazione.

[6] La riflessione sapienziale vede nello svolgersi della vita dell’uomo soltanto fatica e vanità (Qo 2,11; Sal 89,10)

[7] Il cuore secondo la mentalità ebraica è il centro coordinatore di tutto l’uomo ed esprime la sua intera personalità colta nel suo esprimersi ed è rivelativa del suo essere interiore. In tal senso cfr. anche il lemma “cuore” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Ed. Piemme, Casale Monferrato (AL) – Nuova Edizione 2005.

[8] In tal senso l’autore della Lettera agli Ebrei ricorda “Questi (i sacerdoti ebraici) però attendono a un servizio che è una copia e un’ombra delle realtà celesti, secondo quanto fu detto da Dio a Mosè, quando stava per costruire la Tenda: Guarda, disse, di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte. Questi però attendono a un servizio che è una copia e un’ombra delle realtà celesti, secondo quanto fu detto da Dio a Mosè, quando stava per costruire la Tenda: Guarda, disse, di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte.” (Eb 8,5)

[9] Davide succedette a Saul (1030-1010 a.C.) e regnò su Israele tra il 1010 e il 970 a.C. circa. Suo successore sarà Salomone (970-933 a.C.), dopo il quale il Regno d’Israele si dividerà in Regno del Nord (distrutto nel 722 a.C. dall’assiro Sargon II) o Regno d’Israele, formato da dieci tribù, e il Regno di Giuda, che vede la sua decadenza e la sua fine tra il 597 e il 582 a.C. ad opera del babilonese Nabucodonosor. – Cfr. Luca Mazzinghi, Storia di Israele, Ed. Piemme Spa, Casale Monferrato (AL) 1991.

[10] Secondo la cultura orientale e semitica il nome non indica soltanto una persona, ma è la persona stessa, ne indica la sostanza e la sua presenza.

[11] Questa visione di Ezechiele troverà la sua parziale attuazione sia nella costruzione del secondo Tempio (520-515 a.C.) sia nel ritorno di Israele dall’esilio (538 a.C.). Il tempio ricostruito sarà essenziale e molto modesto e i ritornati dall’esilio solo circa un dieci percento degli esiliati. L’ampliamento e l’abbellimento del Tempio (ma forse è meglio parlare di rifacimento ex novo) avverrà soltanto sotto il regno di Erode il Grande (37-4 a.C.) e i lavori dureranno dal 19 a.C. fino al 64 d.C. Da lì a poco il Tempio sarebbe stato nuovamente distrutto nel 70 d.C. durante la guerra giudaica (66-70 d.C.) e definitivamente raso al suolo nell’ultima rivolta giudaica del 132-135 d.C. contro i romani, condotta da Shim’on ben Kossiba, che rabbi Aqiba, il più importante maestro di questo tempo, definì “bar Kokhba”, il figlio delle stelle. Gerusalemme verrà completamente distrutta e solo in seguito parzialmente ricostruita dai romani con il nome di Aelia Capitolina in cui si edificò un tempio a Giove Capitolino, a Giunone e a Minerva. Fu proibito a tutti i circoncisi di entravi pena la morte. Questa rivolta costò circa 850.000 morti. Da questo momento in poi il Tempio non verrà più ricostruito. Cfr. Hans Kung, Ebraismo, passato presente futuro, Ed. BUR, Ariccia (RM) – Seconda Edizione 1999.

[12] È significativo il passo di Luca nel racconto dei due discepoli di Emmaus, quando commenta “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.” (Lc 24,27).

[13] L’autore della Lettera agli Ebrei in merito al Tempio antico, figura del corpo di Cristo, afferma: “Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, …” (Eb 9,24a)

[14] In tal senso si pensi alla teologia del Resto di Israele: Dio si sceglie in Egitto un popolo e via via nel tempo il popolo viene in vari modi e forme selezionato sempre più sulla base della propria fedeltà a Dio fino a giungere a Gesù, l’uomo fedele per eccellenza al Padre, fattosi a Lui obbediente fino alla morte e alla morte di Croce (Fil 2,8)

[15] La storia della salvezza è la storia di una promessa che Dio continuamente rilancia nella storia cercando un continuo dialogo e una continua collaborazione con gli uomini, poiché, afferma S.Agostino, quel Dio che ci ha creati senza di noi, non può salvarci senza di noi. Inizia in tal modo da parte di Dio un continuo rincorrere l’uomo nella storia: dapprima con Abramo, Isacco, Giacobbe, poi si allarga alle dodici tribù d’Israele, che si trasformeranno in popolo, che diventa strumento di testimonianza divina in mezzo agli altri popoli, tutti chiamati a diventare servi di Jhwh (Is 2,2; 11,10; Ez 39,21; Mi 4,2; Sal 46,9). E giunta a Cristo la storia della salvezza riparte con i medesimi criteri espansivi: Gesù, i discepoli, le comunità prima ebraiche, poi pagane e via via fino ad abbracciare con Paolo l’intero mondo dei gentili: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20a); una universalità espansiva che risuona anche in Luca: “ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8).

[16] Circa l’unicità e l’irripetibilità del sacrificio di Cristo l’autore della Lettera agli Ebrei afferma: “egli non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso.” (Eb 7,27). In tal senso cfr. anche Eb 9,28a; Rm 6,10a.

[17] Cfr. Gen 12,7; 13,4; 13,18; 22,9; 26,25; 30,20; 35,1.3.7; Es 17,15; 24,4.

[18] Cfr. Roland de Vaux, Le istituzioni dell’Antico testamento, Casa Editrice Marietti Spa, Genova – 2002

[19] Cfr. Manfred Luker, Dizionario delle Immagini e Simboli biblici, Ed. Paoline – Cinisello Balsamo (MI) – 1990.

[20] Cfr. Nm 23,22; 24,8; Dt 33,17; Sal 21,22; Dn 7,24; Dn 8,20; Zc 2,2; 2,4.

[21] Il numero quattro nella simbologia biblica esprime la totalità e la pienezza. Quattro infatti sono i punti cardinali, quattro i venti, quattro sono le stagioni, mentre nella Bibbia il quattro e un numero che rimanda alla creazione. (Cfr. M. Luker, Dizionario delle Immagini …, op. cit.)

[22] Cfr. 1Re 1,50-51; 1Re 2,28;

[23] Cfr. la voce “Altare” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

[24] Op. cit. pag. 438

[25] Cfr. Es 23,19; Lv 2,14; Nm 28,26; Dt 26,1-2.10.

[26] Cfr. Gen 4,4; Es 13,12.15; Lv 27,26; Nm 3,13; 8,17; Ne 10,36-37.

[27] Cfr. Es 19,5; Is 66,1-2a

[28] In proposito si confronti il racconto della nascita di Samuele, là dove la madre lo offre al Signore ancor prima della sua nascita: “Poi fece questo voto: <<Signore degli eserciti, se vorrai considerare la miseria della tua schiava e ricordarti di me, se non dimenticherai la tua schiava e darai alla tua schiava un figlio maschio, io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita e il rasoio non passerà sul suo capo>>.” (1Sam 1,11). Similmente si pone il voto del nazireato (Nm 6,1-13)

[29] Cfr. anche Eb 9,22.

[30] Cfr. Lc 2,24; 13,1; 22,7; Eb 5,3; 7,27; 8,3; 10,11.

[31] Dopo la distruzione di Gerusalemme del 70 d.C. ad opera dei Romani nell’ambito della guerra giudaica (66-70 d.C.) rabbi Yohanan ben Zakkaj ottenne dalle autorità romane di fondare una scuola per poter continuare lo studio e l’insegnamento della Torah. Sarà da questo momento che nascerà un nuovo tipo di giudaismo imperniato esclusivamente sullo studio e la pratica della Torah e il rabbinismo sostituirà il sacerdozio che con la distruzione del Tempio viene a decadere, benché la classe sacerdotale continuerà a sussistere anagraficamente e istituzionalmente, ma perderà tutto il suo potere e la sua autorità a favore della nuova classe dei rabbini. Cfr. la voce “giudaismo” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato delle Bibbia, op. cit.

[32] Cfr. anche 2Tm 4,6.

[33] Cfr. Rm 6,10; Eb 7,27; 9,28.

[34] Cfr. Rm 6,3-8; Col 2,12; Fil 3,10-11; 2Tm 2,11.

[35] Il termine greco “ekénosen”, tradotto in italiano con il verbo “spogliò” , significa letteralmente “svuotò”.

[36] Lo sviluppo del tema del sacerdozio è stato elaborato tenendo presenti i testi R. de Vaux, Le Istituzioni dell’Antico Testamento, ed. Marietti; la voce “sacerdozio in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, ed. Paoline, e Nuovo Dizionari Enciclopedico Illustrato della Bibbia, ed. Piemme. Tutte opere citate.

[37] Il termine sacerdote nel Libro della Genesi ricorre sette volte: Gen 14,18; 41,45.50; 46,20; 47,22.26.

[38] Per il rito dell’investitura sacerdotale si confronti Es 29,1-37; Lv 8,1-34.

[39] I Tummim e gli Urim sono oggetti di divinazione molto antichi, probabilmente da farsi risalire alla civiltà preisraelitica di Canaan. Non ci è dato di sapere esattamente che cosa fossero; forse erano dei piccoli sassi o dei dadi o dei bastoncini che venivano lanciati o estratti a sorte.

[40] Cfr. Es 28,30; Nm 27,21; 1Sam 28,6; Esd 2,63; Ne 7,65.

[41] Cfr. Ag 2,11; Zc 7,3.

[42] Cfr. Gen 27,4; 48,15; 49,26.28; 2Sam 6,18; 13,25; 19,40; 1Re 8,14.54-55;

[43] Il termine benedizione in ebraico è berekat, che a sua volta deriva da berek, ginocchia, un eufemismo quest’ultimo per indicare gli organi genitali sia maschili che femminili, espressione questi di fecondità. Il significato primo infatti della benedizione è quello di rendere fecondi. Non a caso nel suo atto creativo Dio nel benedire gli animali e l’uomo ingiunge loro di essere fecondi e di moltiplicarsi (Gen 1,22.28; 9,1; 17,20; 28,3). In questi casi la benedizione viene chiaramente accostata e associata alla fecondità, esprimendone il senso più vero e profondo.

[44] Cfr. Gdc 17,5-13; 1Sam 17,1; 1Re 12,31-32.

[45] Cfr. Lv 1,1-5; 3,2.8.13; 4,24.29.33.

[46] Cfr. anche Eb 8,3

[47] Cfr. Eb 2,17; 4,1; 5,5-7; 8,1.

[48] Cfr. 2Re 23,19.24; 2Cr 34,3-8.30-33;

[49] Cfr. Luigi Moraldi, I Manoscritti di Qumaran, Ed. TEA 1994 e Ernest-M. Laperrousaz, Gli Esseni secondo la loro testimonianza diretta, Ed. Queriniana, Brescia 1988.

[50] Cfr. Mt 11,2-3; Lc 7,18-20; Gv 4,25.

[51] Cfr. Mt 16,21; 20,18; 21,45; 26,3-4.47.59; 27,1; Mc 15,1.3.10; Lc 9,22; 19,47.

[52] Cfr. Mt 13,57; 14,5; 16,13-14; 21,11.45; Mc 8,27-28; Gv 4,19; 7,40; 9,17.

[53] Cfr. Mt 16,16; 21,9; Mc 8,29; 11,9; 15,32; Gv 1,41; 7,41-42; 11,27; 12,13;20,31; At 2,36.

[54] Cfr. Mt 8,2.8; 9,28; 15,22; 17,15; 20,30-31; Lc 1,43; 5,8; 7,19; Gv 9,38; 11,27; 13,13; 20,13; 20,28; Rm 4,24; 10,9.

[55] Cfr. Mt 21,21-17; Mc 11,15-17; 14,58; 15,37-39; Lc 19,45-46; Gv 2,13-22;

[56] Nel N.T. sono quattro le fonti che riportano l’episodio dell’ultima cena: Mt 26,26-30; Mc 14,22-26; Lc 22,14-20; 1Cor 11,23-25.

[57] Cfr. Mt 26,28; Mc 14,24; Lc 22,20

[58] Cfr. 1Gv 2,2; 4,10b; Ap 5,9.12; 1Cor 5,7b

[59] Cfr. Gv 10,17-18; Ef 5,2.

[60] Ef 5,2; Fil 4,18.

[61] Cfr. Rm 12,6-8; 1Cor 12,4-11.28-31; 14,12; 1Pt 4,10-11.

[62] Cfr. Mt 8,14-15; Mc 1,30-31; Lc 4,38-39.

01 – GUIDAMI SULLA VIA DELLA VITA – Carlo Maria Martini

01 – GUIDAMI SULLA VIA DELLA VITA – Carlo Maria Martini

Posted on Aprile 1st, 2009 di Angelo |

San Riccardo Pampuri o.h.

Laici o religiosi, anche se cresciuti, proviamo per una volta a tornare bambini, sui banchi del catechismo.

Ma questa volta a farci da guida non saranno nè il parroco o il don, nè la suora o i  catechisti dell’ Oratorio, ma un Cardinale in persona: l’amatissimo Carlo Maria Martini, già Arcivescovo di Milano.

Ho detto “catechismo” ma non è esatto: si tratta di veri “Esercizi Spirituali” dettati da lui a ragazzi delle medie. Quindi, non proprio bambini.

Il Dr. Erminio Pampuri, da medico condotto a Morimondo, appena poteva, agli “Esercizi” ci andava volentieri e sempre cercava di portarsi dietro anche dei giovani. E se non riuscivano a pagarsi  le spese, provvedeva lui, tanto rriteneva utile per l’anima e per il corpo questa “revisione di vita”.

Qui oggi è tutto gratis. Giacchè paga il convento, sarebbe un peccato non approfittarne.

Anni fa è uscito un libro scritto da un parroco francese, Pierre  Richer e che ha riscosso un grande successo. Il titolo: “NOTE DI CATECHISMO PER IGNORANTI COLTI”.

Dobbiamo ammetterlo: noi laici, magari bravissimi in tante altre discipline, in materie che riguradano lo spirito ed il nostro definitivo destino, ignoranti lo siamo un po’ tutti. E non ci fa onore.

L’itinerario in compagnia del Card. Martini, suddiviso in sei tappe, può essere un’opportunità da non perdere per tentare umilmente di riempire le tante lacune.

Introduzione

Abbiamo invocato lo Spirito Santo e ora rivolgiamo la nostra preghiera alla Madonna:

  • «O Maria, noi ti ringraziamo perché è tuo dono se noi siamo qui riuniti.

  • Ti ringraziamo perché ci troviamo tutti insieme ad ascoltare, con te, Gesù.

  • Donaci di conoscerlo come tu lo conosci.

  • Donaci di saperlo pregare e ascoltare come tu lo preghi e lo ascolti.

  • Sorreggi i momenti facili e i momenti difficili delle nostre giornate e fa’ che le tentazioni non ci turbino e non ci spaventino.

  • Sii sempre vicina a ciascuno di noi nel giorno e nel la notte, in ogni istante della nostra vita.

  • Tu, sede della sapienza, prega per noi. Tu, aiuto dei cristiani, prega per noi. Tu, rifugio dei peccatori, prega per noi».

Il tema degli Esercizi

Sono molto contento di essere tra voi per trascorrere alcuni giorni di riflessione comune e di preghiera.

Ho pensato di parlarvi di Gesù perché credo sia questo il desiderio del Signore; più precisamente, della conoscenza di Gesù. Il suggerimento mi è venuto da un piccolo volume scritto dal teologo Hans Urs von Balthasar: «Gesù ci conosce? Noi conosciamo Gesù?».

La domanda, a prima vista, potrebbe sembrare superflua, ma se ciascuno di noi si chiede: «Come mi conosce Gesù? Chi sono io per lui?» ci accorgiamo subito che occorre riflessione e approfondimento.

Ci potrà essere utile leggere il salmo 138 che inizia con un’affermazione: «Signore, tu mi scruti e mi conosci». Per questo vi consiglio di tenerlo presente in questi giorni.


Il tema dei nostri Esercizi vorrebbe quindi comprendere un interrogativo: «Gesù mi conosce?», e poi una risposta: «Tu mi ami e mi conosci».

Metodo degli Esercizi

Gli Esercizi spirituali sono un vero e proprio lavoro perché si tratta di «fare esercizio» personalmente, non di guardare un altro che si esercita o semplicemente di ascoltare un altro che parla.
Provate a pensare alla ginnastica: fare esercizio di ginnastica non significa guardare una partita di football, bensì fare degli esercizi ginnici.
In questi giorni voi dovrete fare un esercizio spirituale, un lavoro: il mio compito sarà soltanto quello di guidarvi. Volta per volta vi darò una traccia che comprenderà tre momenti. Enuncerò il titolo della singola meditazione e poi:

1) vi insegnerò a raccogliere i testi del Vangelo o della Scrittura;

2) vi spiegherò come capirli;

3) vi farò vedere come pregarli.

Questi tre momenti dovrete ripeterli per conto vostro, ma non sarà difficile perché cercherò di offrirvi degli esempi: lavorerete dunque sul titolo che vi darò ad ogni meditazione raccogliendo i testi, sforzandovi di capirli e di pregare su di essi.

Comunione e comunicazione

Sono venuto non solo per aiutarvi a riflettere, ma per pregare e per stare con voi. È la cosa più importante per il Vescovo vivere un momento di comunione, sia pregando in comune sia facendo silenzio. Perché anche nel mio silenzio pregherò con voi.

Tuttavia ho previsto un incontro con le varie classi per potervi anzitutto ascoltare. In questi incontri vorrei che ciascuno riuscisse ad esprimere quelle domande o quelle riflessioni che nascono dal lavoro fatto durante la giornata, e che riuscisse a esprimerle con libertà e tranquillità.

Naturalmente potrete anche scrivermi parlandomi di voi o di ciò che emerge dagli Esercizi. Quando non si tratta di cose strettamente personali risponderò in pubblico. Infine, nei limiti consentiti dal tempo, potrò ricevere chi avesse veramente bisogno di un colloquio privato.

Vorrei però sottolineare l’importanza della coscienza di comunione: soprattutto nella preghiera dobbiamo avere la certezza di essere una sola cosa e dobbiamo pregare come se fossimo una persona sola davanti al Signore.

Per introdurci alla meditazione di domani leggiamo ora quel salmo 138 che ci spiega come Dio ci conosce.

Dapprima lo leggerò io e voi seguirete il testo (tralascerò i versetti 19-22).

Quando avrò terminato, voi farete l’esercizio di sottolineare con la penna tutti i verbi che parlano del come Dio ci conosce: ad esempio, va sottolineato mi scruti, mi conosci, tu sai.

Dopo un momento di silenzio, ciascuno dirà ad alta voce i verbi che ha segnato. Concluderemo rileggendo insieme il salmo lentamente, in preghiera.

(Pausa di silenzio)

ARCIVESCOVO: Ho già ripetuto i primi tre verbi. Cosa viene adesso?

RAGAZZO: «Penetri da lontano i miei pensieri».

ARCIVESCOVO: Bravissimo! Come dici tu?

RAGAZZO: «Ti sono già note le mie vie… Già le conosciMi circondi».

ARCIVESCOVO: Sì, anche «mi circondi» è un modo di conoscere. E tu?

RAGAZZO: «Poni su di me la tua mano».

ARCIVESCOVO: Bene, e poi tu hai segnato: «Mi guida la tua mano». Questo guidare è un conoscere di Dio. Mi guida perché mi conosce. Anche «mi afferra» è un’altra metafora per indicare la conoscenza che il Signore ha di me. La stessa espressione: «Mi hai creato» significa che Dio mi conosce come colui che mi sta facendo. Tu cosa hai detto?

RAGAZZO: «Hai tessuto».

ARCIVESCOVO: Sì, il Signore ci conosce come un tessitore conosce il suo tessuto. Non avete sottolineato, al v. 14: «Ti lodo perché mi hai fatto»? È la conoscenza attiva di Dio. È più facile che venga all’occhio il verbo che viene dopo: «Mi conosci fino in fondo». E poi?

RAGAZZO: «Non ti erano nascoste».

ARCIVESCOVO: Qui la conoscenza di Dio è espressa in maniera negativa. Possiamo anche segnare: «Mi hanno visto i tuoi occhi». Cosa c’è nella riga seguente?

RAGAZZO: «Era scritto».

ARCIVESCOVO: È un altro modo di conoscere, cioè la mia vita, le mie cose sono scritte in Dio. Adesso dovete passare al versetto 23.

RAGAZZO: «Tu scrutami… conosci».

ARCIVESCOVO: Bravissimo! Prima però metterei: «Provami» perché il Signore, provandomi, mi conosce, mi mette alla prova e mi entra dentro. Poi c’è: «Vedi», Dio vede e, quindi, «guidami».

Forse non pensavamo che il salmo 138 potesse esprimere così intensamente la conoscenza di Dio verso di noi: è un conoscere, uno scrutare, un penetrare, un esplorare, un comprendere, un circondare, un mettere sopra la mano, un far riposare la mano sul capo, un afferrare. I verbi attivi parlano di plasmare, creare, tessere, ricamare (nel testo ebraico il verbo è appunto ricamare, anche se in italiano è tradotto con tessere), fare, vedere, provare, guidare.

Il salmo ci offre l’immagine di tutto quello che cercheremo di dire in questi giorni, per capire come Gesù mi conosce. Mi conosce non come uno che da lontano guarda col binocolo! Mi conosce perché opera in me, mi è vicino, è dentro di me, mi fa, mi plasma, mi costruisce.

Se il salmi sta che non conosceva ancora Gesù poteva già indicare, con tanta ricchezza di esempi, di metafore, di similitudini, che cosa è la conoscenza che Dio ha dell’uomo, che Dio ha di me, quante cose potremmo dire sul modo in cui Gesù mi conosce!

Ora, per concludere, rileggeremo il salmo pregando, cioè parlando con Dio, rivolgendoci a Gesù eucaristico e quindi guardando il tabernacolo. Lo leggeremo in piedi, che è una posizione di preghiera, lasciando che il respiro accompagni il momento della preghiera e, più lentamente, la pausa di silenzio.

Pronunciando il pronome «Tu» pensiamo che è il «tu» di Gesù: è Gesù che mi scruta e mi conosce, e desideriamo che questi giorni si riempiano di stupore e di meraviglia di fronte alla scoperta del come lui ci ama.

È importante sapere che Gesù mi conosce?

Qualcuno potrebbe chiedersi se è davvero importante conoscere il modo in cui Gesù ci conosce. È una cosa che aiuta nella vita, che serve?

Vorrei rispondere a questa possibile domanda con le parole che Gesù, nel vangelo secondo Giovanni, rivolge alla samaritana: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere!, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva!» (Gv 4, 10).

Se noi conoscessimo il dono di Dio e chi è Gesù che ci parla, la nostra vita sarebbe completamente diversa. Senza questa conoscenza di Gesù la nostra vita è fiacca, si trascina. Quando, ad esempio, ci sentiamo privi di volontà, di entusiasmo, oppure andiamo avanti per alti e bassi, significa che non abbiamo la conoscenza di Gesù o che si è sfocata. Quando in una parrocchia c’è grigiore, stanchezza, mancanza di gioia, i giovani si lamentano e sono scontenti, la gente frequenta poco la chiesa, possiamo dire: «Qui non c’è conoscenza di Gesù». Se poi il grigiore e la fiacchezza dominassero una classe, un seminario, rivelando una poca conoscenza di Gesù, la vita diventerebbe pesante, per non dire impossibile.

Per quanto riguarda voi, credo che ciascuno, se non avesse questa conoscenza di Gesù, potrebbe dire: «Il mio futuro è incerto e buio, vorrei sapere ma non so se Gesù mi chiama davvero, non so come fare a capire se sono chiamato».

Se non ho la conoscenza di Gesù, le domande che mi pongo restano confuse e senza risposta.

Già san Paolo diceva che la conoscenza di Gesù è così importante da far dimenticare tutto il resto: «Quello che poteva essere per me un guadagno, tutto ciò che mi dava successo, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù mio Signore per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3,7-8).

Sono parole fortissime, con le quali l’Apostolo dice: «Se ho la conoscenza di Gesù non mi importa più niente del resto, mi sento pieno dentro di me».

È quindi fondamentale per la nostra vita la conoscenza di Gesù di cui parleremo in questi giorni, e dobbiamo insistere nella preghiera: «O Gesù, fa’ che io ti conosca, fa’ che ti conosca come mi conosci tu, fa’ che io conosca come tu mi conosci!».