FRA RAIMONDO FABELLO O.H. – LE ALI NON SONO DI RIGORE – A. Nocent

Ospedale Sant'Orsola FBF Brescia
LE ALI


NON SONO

DI RIGORE

Conferenza tenuta all’Ospedale Sant’ Orsola

ASSOCIAZIONE

EX COLLABORATORI – Ospedali Fatebenefratelli – o.n.l.u.s. – Via Vittorio Emanuele II, 27 – 25122 BRESCIA

11 Novembre 2007 -  Angelo Nocent


«E’ negli uomini che la Chiesa è bella»
(Sant’Agostino)


11 Novembre 2007: giornata della memoria

“Sandro… Domitilla… Raimondo…”

Di Angelo Nocent


fra raimondo fabello sorridente PREMESSA

Nocent Angelo - Conferenza BresciaSpero di non esser venuto a guastarvi la festa perché devo parlare di cose bellissime che sanno di Paradiso, ma anche lancinanti per la perdita dell’amico Fra Raimondo Fabello.

Sono lusingato per l’invito che mi hanno rivolto fra Marco e la Dottoressa Inzoli. Dovrei parlarvi di un frate, classe 1942 come me, friulano dalle radici Aquileiesi come me, compagno di scuola ma anche di vita: lui fatebenefratello a tutto tondo, io solo un pochino,… ino,…ino…,ino.

Sono qui a parlare a dei Fatebenefratelli come voi. Perché lo siete. E ci sono anche le Fatebenesorelle, a cominciare dalla Dottoressa.

E quell’ Ex collaboratori è proprio una stonatura. C’è qualcuno di voi che si ritiene ex mamma, ex papà, ex fratello, ex sorella? Nessuno vi ha chiesto di abdicare e così voi siete in piena attività, anche se diversamente abili, ossia impiegati in altra maniera. Ma non ex !

Mi rifiuto di credere che i qui convenuti, a fare “memoria” siano una specie di ex combattenti in pensione che vivono solo di ricordi.  Voi formate un solo corpo con quelli che vi hanno ceduto il posto di lavoro perché i legami di comunione non sono stati recisi, come non lo sono con gli assunti al posto vostro. Gli uni e gl’altri li ricordiamo fraternamente, perché camminiamo nel segno della continuità.

Se siamo qui è perché abbiamo amato e l’amore è più forte della morte.

Su di voi tanti anni fa i Fatebenefratelli anno INVESTITO. Fare un   INVESTIMENTO vuol dire esercitare l’opera di misericordia di vestire, coprire di attenzioni umane, culturali e spirituali  coloro che lavorano nei Centri.

Erano convinti,  e lo sono ancora,  di due tre cosette fondamentali:
· che il lavoro è partecipare al disegno di Dio.
· che il lavoro appartiene al  Padre (il Padrone della vigna)
· che gli uomini sono Suoi collaboratori (vignaioli, operai nella su vigna,
· che l’agenzia di collocamento di cui il Padre si serve sono Cristo e la sua Chiesa.

E così vi hanno insegnato a INVESTIRE a vostra volta. A parte i quattro soldi di stipendio, le vostre fatiche le avete messe in borsa. Ma all’Estero. Non li avete portati in Svizzera dove ci sono gli strozzini. Ma dove li metteva San Riccardo Pampuri il quale vi ha assicurato  danno il 100 per uno d’interessi.

Coloro che avete servito, curato, amato, sono tutti segnati nel Libro della Vita. Per ognuno di noi è stata accesa una scheda e lì son registrati tutti i nomi di coloro che ci son passati tra le mani e nel cuore. Gente ormai dimenticata dal punto di vista della fisionomia ma sempre in comunione, sempre in comunione, perché noi ci leghiamo per non lasciarci mai.

Il lavoro a cosa mira? Lo dice il Vangelo: a produrre opere.
Notate: la Scrittura dice: “La fede senza le opere è morta”. Provate a ribaltare il concetto: le opere senza la fede cosa sono?

Sul “fare”, il dover fare, produrre, realizzare e realizzarsi… siamo un po’ tutti d’accordo: faccio il medico, l’infermiere, l’inserviente, il cuoco, l’autista…Lo faccio per il “27 del mese” ma anche perché l’azione mi dà la sensazione di essere vivo, utile.

Ma c’è qualcuno che può lavorare a prescindere da chi lo circonda? Non è possibile. Il lavoro è una catena, un insieme di anelli. Se la catena si spezza, si spezza il lavoro. Se vogliamo usare un linguaggio più raffinato, possiamo dire che il lavoro fa “comunione”:
· una comunione d’intenti (il progetto)
· una comunione solidale (gli interessi reciproci)

Ma per fare ciò, voi avete scelto di passare dall’agenzia di cui parlavo prima: Cristo e la sua Chiesa.

E qui salta fuori Fra Raimondo. Chi era? Priore, Direttore Generale, Presidente, Provinciale, Definitore Generale…Ti verrebbe da pensare a un signor menager.   E invece no: è semplicemente un addetto di quell’agenzia CRISTO-CHIESA che ti fornisce quello strumento che può fare del tuo lavoro, delle tue  opere quotidiane, un lavorare, un operare cristiano.

Cosa cambia? Cambia, cambia…

La fede è olio che si mette negli ingranaggi affinché la catena scorra, non si surriscaldi e si spezzi. E’ impedire l’effetto serra. La fede crea comunione cristiana nel mondo. Un  lavoro fatto con fede crea comunione tra lavoratori. Perché gli interessi, il busines, la carriera, il successo, il possedere, lo sgomitare, l’industrializzarsi per piazzare e piazzarsi, la concorrenza…sono tutte belle cose ma che surriscaldano l’ambiente, possono trasformare il lavoro in “effetto serra”: un lento ma inesorabile  degrado ambientale che rende conflittuale la convivenza, nevrotica e alienante la vita, larvata alimentazione  di quella che il dott. Pierluigi Micheli, un tempo Primario della “San Giuseppe” di Milano, chiamava “civiltà del disagio”.

MA LA FEDE CHE COS’E’ ?
Un modo di concepire noi stessi. Ma per Grazia, per dono. Voi volete che vi parli di questo frate che se n’è andato in punta di piedi a 65 anni e 47 di vita consacrata sulle spalle. Se aggiungiamo gl’anni della formazione, viene fuori un 57 circa, ossia una intera vita ipotecata per Dio. Parlando di Lui, emerge la risposta all’interrogativo.

A 29 anni Fra Raimondo era già qui a lavorare in questo ospedale sant’Orsola. Ma in un certo modo:
· E’ qui in veste di Priore, ossia di capo, per dare l’assistenza sanitaria che comporta, come ricaduta, che a fine mese si paghino i fornitori e gli stipendi.
· Epperò, se si limitasse a questo, sarebbe semplicemente un menager che ha diritto anche a un discreto stipendio.
· Invece lui è frate. E sullo scapolare ha quattro medaglie che lo contraddistinguono e che deve cercare di non smarrire perché sono la combinazione, il codice per aprire la Cassaforte del Cielo. I gradi, i segni del suo potere si chiamano: povertà, castità, obbedienza e ospitalità.
Non vi sembra che ci troviamo davanti a un paradosso?
Cos’ha da darmi un uomo in queste condizioni: povero, casto, obbediente, ospitale? Verrebbe da dire: un bel niente!

E invece no.  E’ qui a cercar di garantirmi lo stipendio, come un menager, ma anche a trasmettermi la fede che devo mettere nelle opere.

Che, se gli riesce di far quadrare il bilancio, è contento, ma solo a metà se non gli è riuscita la sua vocazione che è quella di fare il “pescatore”: “Vi farò pescatori di uomini”.

Che delusione quando getti e rigetti l’amo o la rete e non viene su niente perché i pesci non abboccano o sfuggono alla cattura di Dio
In questo caso, questo frate celibe, casto, povero, obbediente, ospitale e IMPOTENTE, cosa fa?

Chissà quante volte Fra Raimondo, suo fratello Marco, gli altri frati qui presenti…chiudendosi in camera o ritirandosi in Chiesa nella penombra, a tu a tu col mistero, si son detti come i discepoli di Gesù: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte ma non abbiamo preso nulla”.

E la sua risposta: “Gettate le reti”. “ Ma Signore…non hai capito!”. “Getta la rete”. Bene: “Sulla tua parola, getterò la rete”.

Raimondo è stato un uomo di “parola”. In due sensi:
· aveva l’onestà intellettuale;
· possedeva la sincerità verbale: ti do la mia parola…non posso ma ci provo…non dipende da me ma ce la metterò tutta.

Ma Raimondo è uno che crede alla Parola. Quindi, non solo uomo di parola ma anche uomo della Parola. Ossia l’uomo di Dio per gli uomini.
Ecco: se incontri una persona così nella vita, questa ti unge, ti segna, ti cambia… Perché ti costringe a pensare, a trovare il senso della fatica quotidiana.

Se poi sono chiamato a interferire nel dolore degli altri, a lenirlo, a curarlo, allora la cosa si complica ancora di più.

Uno potrebbe dire a buon diritto: “Sono qui perché tengo famiglia. Senza il 27 garantito, non posso dedicarti il mio tempo, la mia professionalità”. Poi si gira e si ritrova alle spalle il Fra Raimondo di turno che lo schiaffeggia senza alzare un dito o dire una parola. La considerazione che ci verrebbe ovvia è questa: “Guarda quello lì: ha talento, sa far girare un’azienda, ha conoscenze, potrebbe fare i soldi, veste sempre di nero, che sarà anche di moda, ma…Una tonaca va in lavanderia e l’altra torna pulita e stirata…ma son sempre quelle che girano. E non è finita: quando si ritira, è solo come un cane, senza affetti, tenerezze…Ma che vita è!”

Domanda legittima: vita da frate. Lui è una bandiera. Indossa un abito firmato dallo stilista San Giovanni di Dio & company. Il frate è mandato nel tuo circuito a dirti che partecipa al tuo lavoro; è con te solidale; i malati gli stanno più a cuore di se stesso…

Ma viene a ricordare a tutti
· che c’è un dopo,
· che il cerchio non si chiude qui,
· che siamo incamminati verso…
· che siamo destinati all’Oltre.

Fra Raimondo, con tutti i suoi titoli, Priore, Provinciale,  Direttore della Ricerca sull’Alzheimer, ecc. in realtà è specialista in “escatologia”. Che parolona! Eschata: “cose ultime”. Lui è qui vestito di nero – ma potrebbe esserlo anche di rosso – come segno. E’ messo di fronte a te come un cartello stradale.

I frati, le suore, coloro che si rendono “eunuchi”, castrati “per il Regno dei Cieli” – “Chi può capire, capisca”, dirà Gesù  – sono la segnaletica che indica percorsi alternativi ai vicoli ciechi, alle strade senza uscita.

Quando sei malato, stai imboccando una via senza uscita. A meno che…

Ecco l’Ospedale. Ma perché ospedale religioso?
· Perché non mi accontento di ripararti gli organi malati e lasciarti in un vicolo cieco.
· Mi preme darti quella guarigione completa che va in profondità. Mi sta a cuore anche il tuo benessere psichico.
· Ma non mi basta ancora: mi sta a cuore la tua anima, ossia tutta la tua persona: risanata, salvata, guarita. O pronta per il Cielo.
Che è come dire: mi stai a cuore TU. Tu nella tua complessità di uomo braccato, ferito, stremato…che ha lavorato una vita, progettato e adesso sei lì, impotente.

Allora il frate, il laico che condivide lo stesso carisma dell’hospitalitas, ossia del darsi tutto a tutti, sono coloro che ti aiutano ad uscire dall’assurdità in cui sei finito e ti aprono una porta che comunica con l’Oltre…

Questa scoperta ti calma, placa la tempesta interiore. La paura progressivamente si riduce, il coraggio di lottare aumenta, ti colori di speranza e puoi perfino arrivare a sentire la morte come una sorella, la “sorella morte” di san Francesco.

Pensate un attimo a Fra Raimondo come se foste gente senza fede.

· Lui tutta la vita in Ospedali a curare persone, a sostenere la ricerca, a combattere per un mondo migliore…
· Poi va alle Molinette, il top dei trapianti di fegato, si mette in lista d’attesa, passano i mesi, si sottopone a una dieta rigidissima, ci va con le sue gambe e torna qualche giorno dopo in una bara.

Cosa vuoi dire … Cosa vuoi pensare…

Gli sono stato vicino prima del trapianto. Abbiamo parlato, scherzato, riso, sognato…Da ogni parte ci mettiamo a pregare Sar Riccardo Pampuri, Don Giussani…E poi arriva l’ e-mail di Fra marco che ti stroca…

Così mi aveva scritto: “ Il Signore ha dato…” Poi puntini di sospensione. E’ l’inizio di quel passo di Giobbe che dice:

Quest’uomo stava ancora parlando con Giobbe quando un altro venne a dirgli: “I tuoi figli e le tue figlie banchettavano a casa del fratello maggiore e, d’un tratto, 19un vento fortissimo, che soffiava dal deserto, ha fatto crollare la casa. Sono morti tutti. Solo io sono riuscito a salvarmi, per venirtelo a dire”. 20Udito questo, Giobbe si alzò, stracciò il suo mantello e si rase i capelli in segno di lutto. Poi gettatosi a terra pregò così:
21“Nudo sono venuto al mondo
e nudo ne uscirò;
il Signore dà,
il Signore toglie,
il Signore sia benedetto”.
22Nonostante tutto, Giobbe non peccò, non se la prese con Dio” (Gb 1, 18-22)
Chi era allora questo giovanotto come me?  Io lo definirei così: Una “schiena a disposizione di Dio”. E se avrò tempo, vi spiegherò il perché. Ma se l’immagine non vi soddisfa perché sa di scaricatore di porto, ne propongo un’altra: un grande baritono che ha cantato ogni giorno per più di 50 anni il MAGNIFICAT: (vedi Pag. successive)
· qualche volta a squarciagola
· qualche altra con la voce rauca
· talvolta accennando appena con le labbra
· ma sempre , sempre, con una grande passione in cuore.

Passione. Sì, passione, quella da innamorati. Ma quella bruciante passione che si prova quando lei o lui hanno la sensazione di non essere corrisposti.

Voi m’insegnate che in amore vince chi fugge. E in questo caso il “fuggitivo” è Dio. Che si nasconde per inculcare il desiderio. E Dio questo scherzo deve averglielo fatto sovente affinché non si assopisse in lui la passione.

Provate a rifletterci: una grande passione per Dio, l’agnostos, come direbbe Plotino, l’inconoscibile. Non vi sembra un’avventura da visionari? Pensate che un uomo così sia normale, che sia a posto di testa?
Se sono qui, non è tanto per saziare la vostra sete, quanto per suscitare in voi il desiderio di conoscere, per amare e imitare, perché ogni età della vita è buona per farlo.

E da più di due mesi ormai che vado scrivendo nei ritagli di tempo. Ho scritto tante pagine ma senza seguire una logica. Il discorso è frammentato: tanti spezzoni, ricordi, lampi improvvisi, emozioni…
Ho titolato questo appuntamento così:

LE ALI NON SONO DI RIGORE


E c’è anche un sottotitolo preso da sant’Agostino:
«E’ negli uomini che la Chiesa è bella»

Poi ci sono due testi presi dal profeta Isaia che ben sintetizzano la figura di Fra Raimondo.
“4Dio, il Signore mi ha insegnato le parole adatte per sostenere i deboli.
Ogni mattina mi prepara ad ascoltarlo, come discepolo diligente.
5Dio, il Signore, mi insegna ad ascoltarlo, e io non gli resisto né mi tiro indietro.
6 Ho offerto la schiena a chi mi batteva, la faccia a chi mi strappava la barba.
Non ho sottratto il mio volto agli sputi e agli insulti.
7Ma essi non riusciranno a piegarmi, perché Dio, il Signore, mi viene in aiuto, rendo il mio viso duro come la pietra.
So che non resterò deluso. (Is 50 4-7)
1Dio il Signore, ha m’andato il suo spirito su di me; egli mi ha scelto per portare il lieto messaggio ai poveri,
per curare chi ha il cuore spezzato,
per proclamare la liberazione ai deportati,
la scarcerazione ai prigionieri.
2Mi ha mandato ad annunziare il tempo nel quale il Signore sarà favorevole al suo popolo
e si vendicherà dei suoi nemici.
Mi ha mandato a confortare quelli che soffrono,
3a portare loro un turbante prezioso invece di cenere, olio profumato e non abiti da lutto, un canto di lode al posto di un lamento: gioia a chi è afflitto in Sion.” (Isaia 61 1-3)”
E’ su di un uomo fatto così che vorremmo provare a riflettere.


Caro Fra Raimondo,

quando al telefonino mi è giunta la luttuosa comunicazione da tuo fratello Fra Marco, che non ti ha lasciato per tutto il tempo del ricovero, ho pianto. Poi, man mano che si diradavano le nebbie, ho cominciato a vederci più chiaro e a navigare nell’Oltre…fino a ricostruire l’evento. Perché di Evento si tratta.
A far corteo per il tuo ingresso nel Regno erano in tanti: tutti i“centoquarantaquattromila segnati…” di cui parla l’Apocalisse e avevano le lampade accese. Su tutti la gioia radiosa come di amici che partecipano alle nozze dell’amico. Il tuo San Giovanni di Dio era in prima fila come un patriarca orgoglioso, affiancato da uno stuolo di frati. Riconoscibili, San Giovanni Grande, San Benedetto Menni, San Riccardo Pampuri e i più festanti i santi martiri di Spagna con il loro caldo temperamento latino. Ho intravisto anche Padre Mosè Bonadi nelle cui mani avevi emesso la Professione Religiosa, i sacerdoti Innocente, Tarcisio, Giacomo, Roberto, i friulano Natale e Dalmazio… Per la circostanza si sono mossi anche i santi Ambrogio, Agostino, Carlo e, sull’altro versante, Ermacora e Fortunato di Aquileia con i fratelli martiri Canzio, Canziana e Canzionilla…e non poteva mancare il vescovo Cromazio e la folta rappresentanza del Patriarcato.
Ma prima, a tenerti la mano nell’ora della trepidazione c’era lei, la tua mamma. Aveva dovuto lasciarti già nel ’52, tu sui dieci anni e Marco un po’ di meno. I suoi lineamenti li hai sempre conservati impressi nelle pupille e la sua voce ti è rimasta nel cuore, geloso custode di un sacro tesoro. Non oso immaginare l’incontro dopo cinquantacinque anni E c’era anche mia madre a farle compagnia, per via delle origini, della confidenza con il dialetto e delle nostre storie incrociate. Si erano conosciute in Cielo e avevano tanto da raccontarsi…Perché non hanno mai perso di vista i loro figli impetuosi e vagabondi. Di fianco al letto c’era anche il tuo papà, a buon diritto radiante e orgoglioso di suo figlio, non meno di Giovanni di Dio, ma silenzioso come San Giuseppe che faceva gli onori di casa. Me lo ricordo bene il tuo babbo che un paio di volte all’anno veniva dal Friuli a Brescia con il treno per farvi visita nell’Aspirantato ed intrattenersi qualche ora in parlatorio.
Non ho nominato la Madonna. Ma è lei che ha organizzato tutto per la festa, sempre premurosa e attenta come a Cana. E c’eravamo tutti noi, attoniti e confusi, vestiti male, come raccolti all’ultimo momento dalla strada, da qualche giorno ormai intenti a sgranare rosari perché la situazione non precipitasse…
No, amici, non prendeteli come sprazzi di una fantasia malata: questa è la Comunione dei Santi !


ELABORAZIONE DEL LUTTO
Più di una volta m’è venuto da chiedermi: chi ha inventato la morte? Sarei proprio curioso di saperlo. Se qualcuno lo sa, fuori il nome…
Oh, scusate! Dimenticavo san Francesco: lui la chiamava “sorella morte”!  Già. I pareri sono contrastanti.
Simon de Beauvoir era del parere che “non si dà morte naturale: [...] Tutti gli uomini sono mortali, ma per ciascun uomo la morte è un incidente e, anche se la conosce e vi acconsente, una violazione inaudita”.
Il tenore Claudio Villa, aveva anche lui la sua idea, da molti condivisa. Negl’ultimi giorni aveva espresso il desiderio – non so se è stato assecondato – che sulla sua tomba si scrivesse: “morte, mi fai schifo!”.
Sono i fluttuanti nostri stati d’animo. Bisogna ammettere che non è facile farsene una ragione. Ma, dopo la risurrezione del Maestro, né la morte né la vita sono più quello che erano state fino ad allora. Nessuna persona è semplicemente quello che vediamo. Io, tu, non siamo più gli stessi.
Perché una disgrazia irreparabile è toccata alla Morte, dopo essersi azzuffata con la Vita: Mors et Vita duello conflixere mirando. Sì, Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello…(Sequenza del giorno di Pasqua). Alla morte è successo qualcosa di grave, di irripetibile. Proprio a lei, che sembrava padrona assoluta del campo, dominatrice incontrastata da sempre, abituata ad avere immancabilmente l’ultima parola, è successo l’imprevisto.
Ancora insiste, ma adesso lei, ogni volta che si presenta ha paura ed è consapevole di aver perso la piazza.
Chi come frate Raimondo ( e come voi) ha passato tutta la vita in mezzo al dolore, sa che non lo si può capire. Il dolore non si può comprendere. Il dolore, di cui la morte è l’atto finale, ci butta tra l’assurdo e il mistero.
Ma all’amico Raimondo è successo proprio ciò che il poeta russo Majakovskij temeva: E’ risaputo che tra me e Dio ci sono moltissimi dissensi. Tu sei il mio rivale, sei il mio insuperabile nemico. Eppure ho paura di continuare a combattere con te, perché combattendoti con questa forza temo, alla fine, di abbracciarti”.
Raimondo, nel Dio crocifisso, ha trovato l’Amico inseparabile e l’abbraccio irresistibile. Lui non lo ha lasciato nemmeno quando, umanamente, poteva sentirsi tradito. (Leggi trapianto di fegato)
A questo ragazzo sono stati messi a disposizione sessantacinque anni allo scopo di comprendere la parola della croce.
Già. Perché tutte le altre s’imparano in breve tempo. Ma per questa, il tempo non è mai sufficiente. E se vogliamo cogliere il senso della sua vita, dell’essere frate, ossia fratello di Gesù e degli uomini, dobbiamo sempre tornare all’evento: il Crocifisso, “parola della croce” (1 Cor 1,18). Lì c’è un fatto, un annuncio, attraverso un Evento.
Perché “la croce è la grande icona, la memoria fissa del credente, lo spettacolo dal quale non si deve mai staccare lo sguardo. Tehoria (= spettacolo) non indica un immagine ferma, ma un dramma in svolgimento.
E’ uno spettacolo che occorre
  • vedere e rivedere,
  • penetrare,
  • scrutare,
  • ripensare.
  • E’ il grande dramma, l’unico che vale la pena di vedere perché illumina tutti gli alri”. (Bruno Maggioni)
Questa circostanza luttuosa è provvidenziale proprio in questo senso: ci aiuta a vedere e rivedere, penetrare, scrutare e ripensare…
Perché anche Fra Raimondo è stato crocifisso con Cristo. Le stigmate non si vedono, ma ci sono: “quanto a me non ci sia altro vanto che nella Croce del Signore Nostro Gesù Cristo” (Gal 6,14), “difatti, io porto le stigmate di Cristo nel mio corpo” (Gal 6,17)
“Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).
Certo, piacerebbe a tutti seguire Gesù sul monte Tabor, ma esso fu in funzione del monte Calvario; solo per la via regale della croce  (Imitazione di X. i II 12) si può giungere alla gloria e felicità eterna.
“E’ necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio“, dicono gli Atti degli apostoli (At 14,22) e san Paolo ha scritto: “se siamo figli di Dio, siamo anche eredi, eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze, per partecipare anche alla sua gloria” (Rm 8,17).
Questo frate votato all’ospitalità, è morto in croce, come muoiono ogni giorno tante altre persone. Anche il letto può essere una croce. Su di esso si riposano le membra, si consumano gli amori, sul letto sgorga la nuova vita ma si compie il sacrificio finale. Il suo morire nelle mani dei chirurghi, assomiglia al morire di Gesù per mano dei soldati romani, ossia in quel lasciarsi condurre, descritto dal profeta Isaia: era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”.
Perché il morire di croce è il luogo di una dedizione incondizionata di sé, di una solidarietà assoluta che si realizza precisamente nel non far valere di essere “figli d’adozione” e per ciò stesso “eredi”. Come Gesù, anche il Raimondo è stato invitato a lasciare nelle mani di Dio la sua identità, nella consapevolezza che Lui, il Padre, non abbandona. Questa disponibilità, del resto era già stata assunta in gioventu: nella professione religiosa, al canto delle Litanie dei Santi, disteso sul pavimento del presbiterio, era stato coperto da un drappo nero, simbolo del morire crocifisso con Cristo, mentre dall’alto scendeva una pioggia di petali di fiori, a simboleggiare l’approvazione del Cielo per il dono incondizionato della vita, messo nelle mani del Padre. Un affidarsi in modo radicale a Lui, un disporsi ad assumere come Cristo, tutto il dolore del mondo.
Come inoltrarsi allora questo percorso così difficile? Proverò ad avventurarmi, senza alcun filo logico, con l’anima orante di chi non vede ma crede e si lascia guidare dai sussurri dello Spirito che, invocato, accorre sempre in aiuto alla nostra pochezza:
Posa il Tuo dito sul mio orecchio ottuso,
la Tua saliva sulla lingua secca,
fammi captare il Logos, la Parola,
per annunziare solamente Cristo.”
*   *   *
Forse siamo ancora al gelido silenzio del sabato santo.
Ogni uomo nella sua notte”, dice il titolo di un libro di Julien Green, che descrive la solitudine profonda dell’uomo. Ma ci sono dei momenti in cui questi “ciascuno” possono incontrarsi. Perché ciascuno nel proprio cuore nasconde una stella. E perché una stella brilli basta che vengano infrante le barriere della paura o della diffidenza. Allora la notte diventa luce, e il freddo della solitudine, calore. Tale opportunità d’incontro, per quanto fuggitiva, non va sprecata. Perché, potrebbe darsi che questo raccontare, non giovi solo allo scrivente ma possa  far bene al cuore di chi pazientemente legge.
In questi due mesi ho cercato di scandagliare la sua anima, giacché si fatica a trovare scritti di Frate Raimondo. Per il momento, ho scovato solo la prefazione ad una biografia di San Giovanni di Dio, quanto basta però per vederne riassunto il temperamento.  Mi hanno suggestionato queste parole che, nella sostanza, mi sono sentito ripetere al telefono e anche de visu: Assumere gli atteggiamenti di San Giovanni di Dio significa lanciarsi nella vita senza paura, con coraggio, con speranza”.
Forse è vero ciò che scrive Olga Bergholz: che ognuno vorrebbe scrivere o almeno scovare un libro che inglobi tutto e in cui ritrovare descritto il proprio cuore. Lo si aspetta. In esso si vorrebbe vedere, non soltanto il corso superficiale degli avvenimenti, non solo l’apparenza della sua azione, bensì, prima di tutto, il più profondo, il più segreto, il più intimo, il più veridico del nostro cuore. Inutile dire che quel momento è, di volta in volta, puntualmente rimandato. Non so se questo desiderio è passato anche dal suo cuore. Comunque, questi appunti vorrebbero cogliere almeno un poco del suo cuore di fratello e di padre che concepiva la propria appartenenza all’Ordine come fedeltà ad una vocazione e ad una storia che aveva al centro un Dio fattosi Samaritano ossia di aver scelto di occupare l’infimo gradino della scala della reputazione. Umiliandosi al tal punto da diventare il dilettissimo del Padre che in Lui si compiace:Questo è il Figlio mio, che io amo. Io l’ho mandato“. (Mt 3,15) Noi non troviamo di meglio che chiamarlo Buon Samaritano.
Il mio amico, questo figlio amato da Dio, aveva la pazienza dell’attesa dei suoi tempi. Talvolta a me faceva rabbia, proprio perché questo era il mio difetto. Ma lui operava sempre per allargare gli orizzonti e infondere fiducia nel cammino che lo Spirito fa compiere alla Chiesa di Gesù. Anche perché aveva una sapienza che gli permetteva di intravedere nuovi spazi ed aperture possibili, teologiche, morali e spirituali sia per il futuro della comunità cristiana che di riflesso si sarebbero riversate sull’Ordine.
Scrivere di lui non è solo un tributo e un ringraziamento per ciò che ha dato ma anche un dovere biblico: fare memoria per non dimenticare. Ed è anche una sfida ma che comporta due rischi:
  • tradire il significato del suo essere-passato-tra-noi;
  • tradire la traccia di Dio tra noi lasciata per mezzo suo.
La morte è verità, povertà, spogliazione. Per evitare l’atteggiamento celebrativo e non tacere senza tradire, la cosa migliore è di lasciarsi coinvolgere personalmente. Qui ho provato a ricordare e a raccontare, ma come avventura dello spirito, come itinerario spirituale, lasciandomi guidare da Fra Raimondo, in atteggiamento di obbedienza:
  • obbedire ai fatti e alla memoria;
  • obbedire alla storia vissuta con lui;
  • obbedire alla Parola che attraverso di lui ci ha parlato e intende parlarci ancora.
La sua morte non è che l’ultima tappa di morti precedenti: delusioni, tristezze, silenzi, dolori, solitudini, sempre vissuti nella riservatezza e nella speranza. Di tutte le sue notti buie, non sapremo mai dire. Ma di quella ultima, Pasquale, del suo esodo da noi, che rivela l’uomo a se stesso e agli altri, questa c’interessa e c’interpella.
Mi viene spontanea una preghiera:
Signore, Gesù,
Tu che sei Dio onnipotente,
fa che noi ricordiamo
ciò che dobbiamo ricordare
e che noi dimentichiamo
ciò che dobbiamo dimenticare.
Nel Tuo Nome, Gesù. Amen.
Mi vado convincendo che, a forza di continuare a parlare di ospitalità, di umanizzazione, di carisma dell’Ordine, si rischia di ottenere gli effetti indesiderati della nausea e dell’assuefazione. Il pericolo di scivolare dal carisma, non sempre facilmente percepito come tale, in una ossessione ideologica, esiste. Meglio sarebbe parlare maggiormente dei e con i compagni di strada del passato, a cominciare dai santi fatebenefratelli, che ormai sono tanti. Essi emanano un’essenza che penetra nell’anima e la inebria. Cosa che non producono i discorsi retorici, astratti, disincarnati.
Fra Raimondo è tra coloro che hanno accolto la modernità di san Giovanni di Dio e di San Riccardo Pampuri che riteneva adatti ai nostri tempi, ma con una razionalità limpida e, nello stesso tempo, totalmente aperta alla luce dello Spirito santo. Di entrambi amava l’energia, l’intelligenza, il senso pratico, il coraggio e il disprezzo attraverso il quale sono passati questi uomini sobri, diventati amanti perché conquistati dal loro Signore.
Era insistente il suo dire che bisognava avere più coraggio. Si riferiva un po’ a tutti, a cominciare da coloro che stanno più in alto e che percepiva ondeggianti. L’allusione alla Lettera di Giacomo era chiara: “5Se qualcuno di voi manca di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data. 6La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare mossa e agitata dal vento; 7e non pensi di ricevere qualcosa dal Signore 8un uomo che ha l’animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni.” (Gc 1, 5-8)
Conversando con lui,  mi ha trasmesso più volte, quasi fosse un testamento verbale, la sensazione che vedesse evolversi la situazione proprio all’insegna della paura e dello scoraggiamento; era preoccupato per il venir meno dell’ardimento evangelico, del coraggio di  buttarsi fiducioso sulla Parola del Maestro.
A PARTIRE DAL SACRAMENTUM HOSPITALITATIS
Credeva nella Messa, un potenziale inesauribile, una centrale nucleare senza rischi. Le parole di Paolo VI per la liturgia del Corpus Domini del giovedì 10 Giugno 1971 lo e ci avevano profondamente convinti: “Ascoltate un momento. Qual è il vero significato di questa cerimonia? che cosa accadrà durante questo rito, come sempre, quando una Messa è celebrata? Accadrà questo: che Gesù, proprio Lui, Gesù Cristo sarà presente, sarà qui, sarà fra noi, sarà per voi. Noi stiamo rievocando non solo la sua memoria, ma la sua presenza, la sua presenza reale, velata, nascosta, accessibile soltanto a chi crede nella sua divina parola, ripetuta, e potente, da chi possiede il suo prodigioso sacerdozio, ma vera presenza, viva, personale. Lui, Gesù benedetto, sarà presente. L’Eucaristia è innanzi tutto un mistero di presenza. Pensiamoci bene: Gesù mantiene in questa forma e in questa ora la sua profetica parola: «Io sarò con voi fino alla fine dei tempi» (Matth. 28, 28). «Io non vi lascerò orfani, verrò a voi» (Io. 14, 18). Così disse, e così fa: Egli sarà qui, per Noi, per voi, per ciascuno di voi. Ora dite, voi oppressi dalla sofferenza: non è la solitudine, il senso d’essere soli, e quasi separati da tutti, ciò che fa grave, e talora insopportabile e disperata la vostra sofferenza? Il dolore è, di per sé, isolante; e ciò fa paura, e accresce la pena fisica. Ebbene, per chi crede nell’Eucaristia, per chi ha la fortuna di riceverla, questa tremenda solitudine interiore non c’è più. Egli, Gesù, è con chi soffre. Egli conosce il dolore. Egli lo consola. Egli lo condivide. Egli è il medico interiore. Egli è l’amico del cuore. Egli ascolta i gemiti dell’anima. Egli parla in fondo allo spirito”.
Su questa Chiesa del Giovedì Santo ha costruito la sua esistenza, vissuto la fraternità e la vita comune, anche quando l’ha vista ridursi all’osso. Si fa per dire; perché la famiglia  dei malati e degli operatori sanitari  non gli è mai venuta a mancare, anzi!
Coloro che muoiono possono insegnarci a vivere. Egli ci hai lasciati con buoni presupposti per trasformare la terra arida in giardino vivibile ed affrontare le gravi sfide del nuovo millennio perché ci hai creduto per primo. A patto però che si accetti lo splendore e la tenebra della fede, che si viva di amore che crede e di fede che ama, che si sappia vedere il corpo e il sangue del Signore in ogni fratello, nella povertà e nei limiti delle comunità ecclesiali, nelle tante situazioni difficili del nostro tempo.
Raimondo ha provato a fare ciò che suggerisce il Cardinale Martini: «corpo e sangue» vanno donati in ginocchio. Uso le sue parole perché in questa circostanza risuonino come testamento spirituale di un frate che ha un solo verbo e non ondeggia:
L’Eucaristia è veramente capìta e accolta non solo quando si fanno certe cose verso di essa (la si celebra, la si adora, la si riceve con le dovute disposizioni, ecc.) o si fanno certe cose a partire da essa (ci si vuol bene, si lotta per la giustizia, ecc.), ma anche e soprattutto quando essa diventa la «forma», la sorgente e il modello operativo che impronta di sé la vita comunitaria e personale dei credenti.
Nell’Eucaristia si rende presente e operante nella Chiesa il Cristo del mistero pasquale. E’ il figlio in ascolto obbediente alla parola del Padre. E’ il Figlio che nell’atto di spendere la propria vita per amore, trova nella drammatica e dolcissima preghiera rivolta al suo «Abbà» (cf Mc 14,36; Lc 23,46) il coraggio, la misura, la norma del proprio comportamento verso gli uomini.
Pertanto la celebrazione eucaristica realizza se stessa quando fa in modo che i credenti donino «
corpo e sangue» come Cristo per i fratelli, ma mettendosi in ginocchio, in attenzione di ascolto e di accoglienza, riconoscendo che tutto questo è dono del Padre, non confidando nelle proprie forze, non progettando il servizio degli altri secondo i propri modi di vedere.

Tutto questo richiede, in concreto, la coltivazione di atteggiamenti interiori che precedano, accompagnino, seguano la celebrazione eucaristica: ascolto della parola rivelata, contemplazione dei misteri di Gesù, intuizione della volontà del Padre tralucente dalle parole di Gesù, confronto tra il progetto di vita che scaturisce dalla pasqua-Eucaristia e le sempre nuove situazioni spirituali in cui le comunità e i singoli credenti vengono a trovarsi.
Che bello! Un religioso, accostandomi al funerale mi ha fatto notare di aver ricevuto recentemente da lui un richiamo molto fraterno che sostanzialmente era nella linea della lettera dell’apostolo Giacomo: “26Se qualcuno pensa di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione è vana. 27Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,26-27). Il confratello gli era molto riconoscente per l’amorevole ammonimento, ricevuto da uno che, all’ultimo Capitolo Provinciale era stato praticamente degradato, formalmente per motivi di salute. Una retrocessione provvidenziale per presentarsi a Dio nelle sembianze di un “povero cristo”. La kénosis, lo spogliamento totale. (Fil 2, 6-7)
IL PREZZO DEL CORAGGIO
Prima ho accennato al coraggio. Solo che il coraggio ha un prezzo. Ed è salato. E va pagato, come ha fatto San Benedetto Menni, tradizionalmente più amato dalle sue suore che dai confratelli, per via di una rettitudine invisa. Ma l’aveva messo nel conto: “Se qualcuno mi vuole seguire, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. 25 (Mt 16, 24-25). E non va perso di vista il lamento di Gesù, perché succede, succede ancora:  “Gesusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati…” (Lc 13,34) .

Se é lecito fare paragoni, direi che lui, accostato ai santi dell’Ordine, tende ad assomigliare al Menni, c’è in lui quella stoffa un po’ ruvida ma bonaria, austera ma libera, forte, retta ma comprensiva, tollerante e indulgente, tratti  che mi par di scorgere nel santo milanese.
Scegliendo Cristo sapeva cosa lo aspettava ed ha accettato senza lamentarti la minestra che passava il convento. Gli è che anche un buon brodo di carne, se è troppo salato, finisce per essere indigesto e coloro che hanno la mano pesante non mancano mai neanche in convento.
Quando mi diceva di aver cercato ripetutamente fra Pasqual Piles, ex priore generale dell’Ordine, tornato in Spagna come Provinciale alla fine del mandato, sentivo che si dispiaceva di non riuscire a contattarlo. Ma alla fine so che lo ha rintracciato. Si stimavano, perché mi ha sempre parlato bene di lui ed  avendo lavorato insieme a Roma, erano animati da reciproca confidenza. Per i funerali, Fra Pasqual, venuto anche in rappresentanza del Padre Generale, ha concelebrato in duomo con il vescovo ausiliare di Brescia monsignor Francesco Beschi,. Chissà che non gli venga in mente di parteciparci almeno qualcosa delle loro ultime confidenze.
Uno che si fa carico dell’uomo, non tanto con la bocca ma perfino con il voto d’ospitarlo sempre nella casa del cuore, anche a costo della vita e di mettere la sua schiena a disposizione di Dio per farsi carico dei fardelli pesanti di chi non è in grado di portarseli, merita attenzione.
Lui, nei diversi momenti della vita ha privilegiato talora quella parte dell’uomo che si chiama corpo, o l’altra che riguarda la psiche ma sempre senza mai perdere di vista l’anima, le tre componenti dell’unità inscindibile, almeno fino alla morte. E s’è provato a trasmettere questa “passione”, in controcorrente rispetto alle prevalenti del momento.
Più d’una volta ci siamo soffermati sulla crisi vocazionale e sul come essere presenti, da frate, nella Chiesa locale, per non far mancare il carisma specifico ed allo stesso tempo, non restare tagliati fuori. Ed abbiamo concluso che bisognerebbe accentuare la presenza non tanto e non solo nella commissione della pastorale sanitaria, come avviene, ma in mezzo alla gente, a parlare ai giovani della teologia del corpo, dell’igiene mentale, della prevenzione, degli effetti della solitudine che colpisce giovani e anziani, dei disturbi della personalità, dei problemi della coppia,…tutte esperienze che si possono fare in collaborazione con medici, psicologi, psichiatri e sacerdoti con i quali si vive ogni giorno nei centri FBF. Condivideva. E si diceva inoltre che bisognerebbe essere presenti dove le giovani leve si preparano a diventare medici e infermieri. E quale può essere il punto d’incontro se non l’università? Come si può continuare a credere che le vocazioni si possano incrementare disseminando depliants in ogni angolo dell’ospedale o distribuendo immaginette di san Giovanni di Dio e san Riccardo Pampuri? Se manca il contatto diretto, la condivisione di progetti, il pregare insieme, la proposta evangelica, l’invito a tavola, a un periodo di esperienza in missione o in un ospedale psichiatrico…hai voglia! I Movimenti del nostro tempo si sono sviluppati per contatto diretto, non per volantinaggio! Ne era convinto. Ma si rendeva anche conto che il sogno coltivato di ringiovanire l’Ordine, agganciandolo alle fresche energie dei Movimenti emergenti non era né facile da far comprendere e ancor meno da realizzare. Bisognava far convivere anime caratterialmente e culturalmente molto diverse. Il test si è avuto con CL. Don Giussani e Fra Fabello si erano parlati, capiti, ed erano passati all’azione. Ma poi… Non serve scaricar le colpe. Meglio sarebbe analizzare spassionatamente per trovare i reciproci punti deboli, i nervi scoperti, non solo quelli della controparte. Cosa che ho tentato di fare sul sito internet: http://fraraimondo.splinder.com/
Noi siamo oggetto di amorosi rimproveri del Signore. La sua morte è uno di questi. A lui pareva di avvertire che fosse in atto da tempo lo stravolgimento completo del Vangelo, “per cui non è più Gesù a salvarci, bensì siamo noi che salviamo lui e la sua Chiesa, non è più il Vangelo dell’iniziativa divina, è il Vangelo della nostra bravura nell’operare a favore di Dio” (Martini)
CONDIVISIONE
Condividere. Forse anche lui ha sognato di condividere il proprio “io” con il mondo intero. Capita di sperare che almeno qualcuno possa dire ciò che non ci riesce di dire o che abbiamo in animo, o di cui abbiamo chiara coscienza. Ci piacerebbe che passasse qualcuno capace almeno di parlare in nostro nome.  Perché il nulla dell’oblio ci spaventa. Che guaio se non credessimo che Dio, e Lui solo, può captare e capta le esigenze del cuore e conserva nella sua profondità il grido silenzioso e straziante dell’essere umano. Tu questa esigenza non la senti più ed io spero di ricalcare fedelmente almeno un poco di ciò che, potendolo, avresti voluto dirci. Le leggende raccontano che si possono vedere le stelle anche di giorno, guardando il fondo di un pozzo. Purtroppo bisogna arrendersi all’evidenza: nel fondo dei pozzi non ci sono stelle. Epperò, più vado avanti negl’anni e più mi accorgo di essere circondato da una moltitudine di stelle che nessuno vede alla luce del giorno. Ogni uomo, ogni donna ne porta una nel proprio cuore.
In questo momento vorrei essere il fondo del pozzo, la notte nera, in cui la sua stella si rende visibile nella luce chiara di Dio, ora più fulgente che mai.
Epperò, fratello mio carissimo, mi trovo in difficoltà ad un bivio. Ti chiedo: in questa notte nera in cui s’incrociano le nostre storie e s’incontrano le nostre anime, membri di una medesima famiglia, la grande famiglia umana, è più utile che  parlarli di te o è preferibile che continui a parlare con te, come vorrei fare?
In risposta, mi hai fatto trovare un detto che la dice tutta: “Se quello che vedi è tutto quello che vedi, non vedi niente”. Allora per vedere di più bisognerebbe forzare la tua anima. Ma come? In realtà, tu hai continuato ad essere fino in fondo un uomo poco visibile, in un certo modo “alternativo” nel suo contesto. Forse anche un «punto interrogativo». Ha ragione Frère  René Voillaume quando parlando del sacerdote scrive che Il giorno in cui non saremo più, in un certo modo, un punto interrogativo per gli uomini, dovremo pensare che abbiamo cessato di portare in mezzo a loro la presenza del grande invisibile”.
Pedro Casaldaliga, un vescovo latino-americano, mi offre le parole giuste per  interpretarti fedelmente, tu fatebenefratello così poco appariscente: Alla fine del cammino mi diranno: Hai vissuto? Hai amato? E io, senza dir nulla, aprirò il cuore pieno di nomi”.
Caro Raimondo, hai fatto miracoli? No. E allora cosa posso raccontare per far presa su chi vorrebbe sapere, leggere? Dirò semplicemente che di te so una sola cosa certa:  che ogni giorno ti sei affidato alle mani tenere e potenti di Dio perché spesso ti sei sentito un po’ come Marc Chagall, quel grande artista autore di quadri e vetrate indimenticabili che pregava così:
Sono tuo figlio in terra e cammino con fatica. Tu m’hai riempito le mani di colori, di pennelli ed io non so come dipingerti …Forse sarai Tu a fare che il mio quadro si illumini.”
Ma come Chagall mi trovo io stesso nel momento in cui uso la penna al posto dei pennelli. Chiedo perciò allo Spirito di riempire di colori e di luce le parole sguarnite che riesco a formulare. M’incoraggia a parlarti direttamente proprio il Cardinale Martini che è stato il mio arcivescovo e che ho adottato come maestro spirituale. Egli mi dice: “E’ possibile comunicare con i morti. Essi ci conoscono e, pur essendo ora in cielo presso Dio, conoscono il mondo che hanno lasciato, ne conoscono prima di tutto il rapporto con Dio e con i suoi piani eterni che possono ormai contemplare”.
Allora, sicuro che sei in ascolto e, visto che abiti la Luce del Risorto, proverò ad aprirti il cuore. Sì, a partire da Dio, naturalmente, dal momento che  conosci le nostre cose, i nostri problemi e ne parlate tra voi, abitatori del Cielo e con l’Amabilissimo Signore, finalmente felice di ospitarvi nel gaudio Trinitario: “Venite, benedetti dal Padre mio, perché ero povero, emarginato e mi avete accolto!” (cfr Mt 25,34-36).
L’Arcivescovo che anche tu hai ben conosciuto, ha parole di fede e di speranza: “Essi non soltanto ci conoscono ma ci sono vicini. E’ vero che hanno lasciato il mondo per abitare dove sono i corpi gloriosi di Gesù e di Maria, cioè al di fuori e al di là di tutto l’universo e del suo spazio. Ma intervengono ancora nel mondo e vi sono presenti con la loro preghiera, con la forza del loro amore , con le ispirazioni che ci offrono, con gli esempi che ci ricordano, con gli effetti delle loro intercessioni”.
In altre parole, ci viene detto che l’amore cha hai nutrito per le persone care, per l’Ordine, per noi, per me, per chi legge, non l’hai perduto. Lo conservi in cielo, “trasfigurato e non abolito dalla gloria”. Se vuoi, anche tu puoi fare tua l’espressione di Santa Teresa di Lisieux: Voglio passare il mio cielo a fare del bene sulla terra, perché sono parole che non valgono solo per la santa carmelitana. Ed è a partire da qui che trovo l’esaudimento delle nostre preghiere per la tua guarigione, solo apparentemente non ascoltate da Dio. In realtà Lui ha preferito sapientemente collocarti nel luogo più adatto, in compagnia dei tuoi Confratelli santi e martiri, tra coloro che piamente crediamo essere stati accolti dalla misericordia di Dio.
· Tu, voi, come i nostri genitori, parenti ed amici cari, avete la possibilità di parlare a Dio di noi e di presentargli le nostre istanze e le nostre difficoltà.
· E voi conservate, certamente, in cielo “le intenzioni, gli affetti, gli interessi per i grandi valori di questa vita, quegli interessi che sono anche nostri”, quelli che ci avete lasciati in eredità, ai quali siamo stati educati.
· Tu, voi, potete pregare in nostro favore perché questi interessi, intenzioni, valori, crescano in noi e siano portati a quella perfezione che ci permetterà di godere, un giorno, il volto di Dio con voi e come voi.
LA MORTE E’ PRIMA DI MORIRE
Raimondo, mi sembra di averci pensato solo ora:  noi, come si nasce, dal primo vagito, già condannati a morte! E’ folle. Ma ora capisco…
Ricordi quando il Padre Tarcisio Morini, ogni mese, conduceva il “Pio esercizio della buona morte” ? Oggi si griderebbe alla violenza sui minori e già solo il tema fa inorridire anche gli adulti; ma allora noi ragazzi venivamo presi per mano e introdotti realisticamente nel “tragicum mysterium”, senza esitazione. Del resto, i nostri educatori si facevano forti dell’esperienza di San Giovanni Bosco che considerava il «punto di morte» il momento da cui dipende l’eternità: «Don Bosco lo teneva desto nei suoi figli spirituali, giovani e adulti, specialmente mediante l’esercizio mensile della buona morte: un pomeriggio di predicazione, di riflessione, di confessione, sospendendo lo studio e, al mattino seguente, con la Santa Messa curata in modo speciale e con la Comunione Eucaristica, era un momento vissuto con serenità e fiducia stimolante nello «stare molto allegri, combattendo il peccato che rende tristi e cattivi, e compiendo i nostri doveri incominciando con quelli verso Dio» (San Domenico Savio). Ancor oggi i cooperatori salesiani lo prevedono nel loro regolamento: “ (2.) Sono consigliati di fare ogni anno almeno alcuni giorni di esercizi spirituali. L’ultimo giorno di ciascun mese, od altro giorno di maggior com odità, faranno l’esercizio della buona morte”.
Ho letto da qualche parte: Non hai finito di imparare a vivere, che devi imparare a morire. Ma c’è forse una grande differenza? Sono due classi della stessa scuola. Ebbene sì: per questo abbiamo imparato da piccoli a invocare il Misericordioso almeno una volta al mese con queste parole:
…7. Quando i miei piedi immobili…8. Quando le mie mani tremole e intorpidite… 9. Quando i miei occhi offuscati e stravolti… 10. Quando le mie labbra fredde e tremanti …11. Quando le mie guance pallide e livide… 12. Quando le mie orecchie presso a chiudersi per sempre… 13. Quando la mia immaginazione agitata da orrendi e spaventevoli fantasmi …14. Quando il mio debole cuore oppresso …15. Quando verserò le mie ultime lagrime… 16. Quando i miei parenti , ed amici stretti a me d’intorno… 17. Quando avrò perduto l’uso di tutti i sensi…18. Quando gli ultimi sospiri del cuore …19. Quando la mia Anima uscirà… 20. Finalmente quando la mia Anima comparirà innanzi a Te… in quel terribile momento, misericordioso Gesù abbi pietà di me”.
La tua morte ci fa riflettere. La tua dipartita ci rende  consapevoli di grandi verità che di questi tempi si fa volentieri a meno: “C’è un modo di presenza dei nostri morti che vorrei sottolineare – scrive il mio vescovo – . Essi sono presenti presso ogni tabernacolo e presso ogni altare su cui si celebra l’Eucaristia. Nell’Eucaristia c’è Gesù Risorto, sono presenti tutti i santi, tutti coloro che sono morti nel Signore. Sono presenti  con la loro adorazione e con il loro amore per Gesù che è anche amore per noi che siamo attorno all’Eucaristia. E sono presenti, in particolare, quelli che ci amano di più, che ci sono cari e che con noi adorano Gesù”.
Certo, caro Raimondo, non abbiamo ancora digerito che te ne sia andato così, in sordina. E, dal momento che rimane un terribile velo tra il mondo visibile e quello invisibile, siamo tentati di sentire come retoriche le parole del Pastore. Epperò “è altrettanto vero che l’amore è più forte della morte e l’amore di Cristo Risorto riempie il cuore e la vita dei nostri cari defunti. Lo stesso amore di carità che è in noi è in loro, anche se in loro è in pienezza.” A partire da questa pienezza, io so che ci raggiungi e noi pure possiamo congiungerci con te, attraverso il nostro amore e con la nostra preghiera.
Mi viene da pensare in questo momento alle tante persone che, provate dal dolore per la perdita repentina di una persona carissima, cercano di mettersi in contatto con lei. Ne hai certamente incontrate e conosciute anche tu. Per grazia di Dio, a noi non servono i mezzi superstiziosi. Abbiamo nella fede, nella preghiera e nell’Eucaristia, Sacramentum Hospitalitatis, il mezzo, il luogo e l’ambiente per una reale comunicazione di amore con i defunti. Questa è la lezione che ci viene sostando sulla tua tomba.
A proposito, nella tomba di Famiglia dei FBF di Brescia, dove ora le tue spoglie mortali soggiornano in attesa di risurrezione della carne, alloggiano altri confratelli che ci hanno preceduto. Di alcuni abbiamo solo sentito parlare dai nostri vecchi; altri, a cominciare dall’indimenticabile Padre Damaso, il compagno di noviziato di San Riccardo Pampuri – ricordi? –  li abbiamo conosciuti di persona: una lunga lista… Sai, scorrendo quei nomi incisi sulla lapide che coprono un arco di cinquant’anni, non ho saputo trattenere il pianto della commozione  E tu, adesso lì,  il primo della nostra clesse ’42 che in quel di Brescia, ha condiviso nell’Aspirantato gioie e dolori dell’età adolescenziale ed evolutiva. Mi sembrava di udire la tua voce che ripeteva le parole del Maestro: “Ragazzi, vigilate! A voi non è concesso di conoscere né il giorno né l’ora…”.
CONVERSIONE
Non ci è dato di sapere in quale giorno della tua vita hai avuto il tuo incontro personale con Dio, l’ora in cu hai avvertito - con stupore sconvolgente – la Sua presenza nella tua vita, tale da poter gridare, come ha fatto l’evangelista  Giovanni dalla barca , sul lago: “E’ il Signore!” (Gv 21,7)
Pur cresciuto fin dalla giovinezza nei giardini di Dio, anche tu hai avuto bisogno del giorno della conversione. Non lo hai scritto, come Agostino, ma lo hai provato: “Come ardevo, Dio mio, come ardevo di rivolare dalle cose terrene a Te, pur ignorando cosa volessi fare di me” (Conf. 4,.7-8). Non conosciamo il giorno e l’ora in cui hai aperto la porta a Cristo e lo hai fatto entrare nella tua vita, ti sei lasciato amare, perdonare e e hai creduto che Lui è morto proprio per te. Ma sappiamo che questo giorno c’è stato, che l’ora del bacio di Gesù non è passata invano. Anche Giuda si è lasciato baciare ma non si è lasciato amare perché non ha capito e non ha accettato.
“In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi” (1 Gv 4,10).
Quando hai avvertito il Signore alla porta è perché avevi l’orecchio teso e gl’occhi dilatati per discernere i segni del suo passaggio. Così hai potuto udire la voce misteriosa della Sua rassicurante presenza. Gli hai aperto e lo hai accolto nella tua casa come ospite gradito, per accorgerti poi che l’accolto e il rinfrancato eri proprio tu.
Così hai imparato il galateo dello stare a tavola con Lui:
· condividere il pane della tenerezza e della forza,
· il vino della letizia e del sacrificio,
· la parola della sapienza e della promessa,
· la preghiera del ringraziamento e dell’abbandono nelle mani del Padre.
Il tempo passato con Lui, l’hai detratto alla morte. E quando lei ha bussato, sapevi che sarebbe entrato Lui per condurti nel tempo senza tempo, nella Sapienza dei mondi per assaporare la Bellezza con infiniti sguardi d’intesa.
Quando Paolo VI ha scritto la Populorum progressio, eravamo giovani e sensibili alle voci dall’alto. Vedendo il duomo stracolmo di gente per i tuoi funerali – eri semplicemente un frate – ho capito che avevi colto nel segno: “Più che chiunque altro, - scriveva il Papa – colui che è animato da una vera carità è ingegnoso nello scoprire le cause della miseria, nel trovare i mezzi per combatterla, nel vincerla risolutamente”.
La “miseria” che hai incontrato sul tuo cammino porta i nomi delle patologie organiche, della psiche e dell’anima che crocifiggono tanti uomini. Le iniziative che hai posto in essere sono quelle di un operatore di pace e di benessere: “Egli percorrerà la sua strada accendendo la gioia e versando la luce e la grazia nel cuore degli uomini su tutta la superficie della terra, facendo loro scoprire, al di là di tutte le frontiere, volti di fratelli, volti di amici” (Populorum progresso, 75).
E, se “grande è la ricompensa nei cieli” (Mt 5,12), anche la gente ha voluto esprimerti la sua riconoscenza.
IL DISCORSO MISSIONARIO
A chi mi chiedesse come hai vissuto il discorso missionario, risponderei con il  passo nel Vangelo di Matteo, capitolo 10, che mette in crisi suore, frati, preti, vescovi e anche i laici Christifideles, ossia discepoli di Cristo.
Dice così:
vv. 8 -9 –
· Come avete ricevuto gratuitamente, così date gratuitamente. 9Non procuratevi monete d’oro o d’argento o di rame da portare con voi. 10Non prendete borse per il viaggio, né un vestito di ricambio, né sandali, né bastone. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date…
· Al di là delle contingenze storiche in cui il discorso è pronunciato,bisaccia, nastone, sandali, tunica…)rimane fondamentale nel Discorso, l’insegnamento della gratuità e della libertà, del disinteresse. Da giovani è più facile essere disinteressati. Più avanti negli anni, al sopraggiungere di acciacchi e malattie, ci si preoccupa di sé, con gli anni aumentano le cose care, libri, oggetti, doni ricevuti…
· Fra Raimondo ha viaggiato leggero, sempre pronto a traslocare e proprio negli ultimi giorni, prima dell’intervento, ha cercato di eliminare tutta la zavorra.
· v. 16 – “Ascoltate: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Perciò siate prudenti come serpenti e semplici come colombe .17State in guardia, perché vi porteranno nei tribunali e nelle sinagoghe e vi tortureranno. 18Sarete trascinati davanti a governatori e re per causa mia, e sarete miei testimoni di fronte a loro e di fronte ai pagani.
· ”. Gesù ha voluto avvisare i suoi fin dagli inizi: il ministero implica le contrarietà, ed è per natura contestato.
· Le circostanze difficili della Chiesa non sono mai cose nuove. A te, Raimondo, sono forse mancate le contrarietà. No. Allora buon segno! Il segno del Regno è proprio nel modo con cui viene, perché è l’opera dello Spirito Santo, non dei progetti umani,
vv. 19-20 – “19Ma quando sarete arrestati, non preoccupatevi di quel che dovrete dire e di come dirlo. In quel momento Dio ve lo suggerirà. 20Non sarete voi a parlare, ma sarà lo Spirito del Padre vostro che parlerà in voi”.
Ogni volta che t’è capitato di avere intrighi legali, il Signore t’ha chiesto di non cadere nell’ansia, l’eccessiva ansia per il ministero stesso. Nell’abbandono in Dio, anche la mancanza di strumenti o in condizioni di incertezza operativa, è lo Spirito del Padre che si manifesta.
L’ORA DELLA PROVA
Il 10 Aprile di quest’anno, avvicinandosi la data del Capitolo Provinciale al quale avresti partecipato,  così hai scritto agli amici della Compagnia…”…E, per favore, pregate un pochino anche per il nostro Capitolo Provinciale. Grazie nello splendore della Resurrezione. Fra Raymondo Fabello o.h.”.Poche parole, come sempre.Ma di spessore. Leggevi gli avvenimenti nello “splendore del Risorto”, in chiave pasquale.Ed eri perfino convinto che anche una formica come noi, rinchiusa nell’anonimato, avrebbe potuto dare un contributo perché l’assise capitolare si muovesse sottomessa alla Voce dello Spirito.
Fino all’ultima telefonata ho avuto la sensazione che eri innamorato della vita e perciò ad essa legato come lo si è per ogni amore. Ma ti sentivo altrettanto disposto a cederla a quell’Amore che un giorno te l’ha donata. Quasi per scaramanzia, abbiamo provato anche scherzarvi sopra. Ma l’iniziativa era più mia che tua, impegnato com’eri a discernere, presagendolo, il volere di Dio con gli occhi di Giobbe: Il Signore ha dato…”. Tu non hai esitato a mettere in conto che il Signore può anche togliere: per amore, s’intende, solo per amore. E così è stato.
Quando il 10 Giugno u.s mi scrivevi: “Dal giorno 5 u.s. sono entrato il lista per il trapianto. Aspettiamo che il nostro “Dottore”,[s.Riccardo Pampuri] anche con l’aiuto di qualche Altro, mi trovi un ricambio di buona qualità e quando sarà il momento dia una mano al chirurgo. ”Il Signore ha dato ……………….” in quei puntini di sospensione ho colto subito il tuo riferimento a Giobbe. Chiarissima la professione di fede nella adorabile Volontà di Dio che non ti ha risparmiato la prova: “In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nessuna colpa”, (Giobbe 1).
E che di prova si tratti, per non dire qualche bestialità, lo faccio spiegare al mio venerato Cardinale. La domanda che ci viene spontanea è: c’e n’era davvero bisogno, dal momento che Dio sa benissimo se l’uomo vale o non vale ancor prima di provalo?
Il vescovo, sulla base delle Scritture, ci dice che “la prova c’è e c’è per tutti, anche per i migliori. Giobbe non offriva nessun motivo per essere tentato, perché era perfetto in tutto. E’ dunque necessario prendere coscienza che la prova o tentazione è un fatto fondamentale della vita”. Il Deuteronomio parla chiaro: “Io ti ho fatto passare per quarant’anni nel deserto per metterti alla prova e per vedere se tu veramente mi amavi” (cfr. 8,2)
La riflessione ci porta a concludere che il comportamento di Dio è misterioso: “é parte, mi sembra, di quel mistero impenetrabile per cui, pur conoscendo il Figlio, lo mette alla prova nell’incarnazione. Perché anche l’incarnazione e la vita di Gesù sono una prova”.
L’atteggiamento col quale hai affrontato la situazione è proprio quello giusto della sottomissione. L’hai accolta ma senza domandare. Il prologo nel Libro di Giobbe è illuminante: ‘Nudo sono uscito dal grembo di mia madre, e nudo tornerò in grembo alla terra; il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore’…Se da Dio accettiamo il bene perché non dovremo accettare il male?” (Gb 1,21; 2,10)
Caro Raimondo, c’insegni che questa sottomissione suona misteriosa. E’ il culmine dell’esistenza umana davanti a Dio, un’indicazione a cui ispirarsi. Che vuol dire che non è già in noi come non lo fu in Giobbe se non dopo tutto il suo travaglio. Questa sottomissione,secondo l’arcivescovo “viene messa in rilievo, perché è la sola capace di gettare una scintilla di luce sull’esperienza drammatica dell’esistenza”.
Nella prova c’è in agguato un altro pericolo: il rischio della riflessione. Non so se a te è capitato. “L’uomo, per grazia di Dio, può rapidamente assumere l’atteggiamento della sottomissione, ma subito dopo sopravviene il momento della riflessione, che è la prova più terribile. Il Libro di Giobbe si sarebbe potuto concludere alla fine del secondo capitolo, dimostrando che Giobbe aveva resistito perché il suo amore per Dio era vero, autentico. In realtà, bisogna attendere e la situazione concreta di Giobbe non è quella di chi se la cava con un sospiro, con un’accettazione data una volta per tutte; piuttosto è la situazione concreta di un uomo che, avendo espresso la propria accettazione, deve incanalarla nel quotidiano.”
Noi ti ringraziamo per l’opportunità che ci offri di misurarci con il terribilis, di acquisire una sapienza che ci scarseggia, giacché potremmo trovarci impreparati al momento della nostra prova. “Talora noi sperimentiamo qualcosa di simile: di fronte a una decisione difficile, a un evento grave, li accogliamo presi dall’entusiasmo e dal coraggio che ci viene dato nei momenti duri della vita. Dopo un po’ di riflessione, però, si fa strada un tumulto di pensieri e sperimentiamo la difficoltà di accettare ciò a cui abbiamo detto di sì. Questa è la prova vera e propria”.
Il Vescovo ci dice che il primo “sì” detto da Giobbe è tipico di chi istintivamente sa reagire al meglio; “la fatica è di perdurare per una vita in questo “sì” sotto l’incalzare dei sentimenti e della battaglia mentale. La prima accettazione, dunque, che spesso è una grande grazia di Dio, non è ancora completamente rivelativa della gratuità della persona. Occorre sia passata per il vaglio lungo della quotidianità.
La prova di Giobbe non è tanto l’essere privato di ogni bene e l’essere piagato, ma il dover resistere per giorni e giorni alle parole degli amici, alla cascata di ragionamenti che cercano di fargli perdere il senso di chi egli è veramente. Da questo punto la prova comincia a snodarsi dentro l’intelletto dell’uomo e la vera e diuturna tentazione nella quale anche noi entriamo e rischiamo di soccombere è quella di perderci nel terribile travaglio della mente, del cuore, della fantasia”.
Sei passato attraverso la prova. Che non è soltanto quella dell’ultima malattia. Essa non è che il coronamento di una vita di aspirazioni, intuizioni, tentativi, ricerca…sempre entusiasmanti, ma accompagnate dal sapore amarognolo delle valutazioni ingenerose dei diffidenti o degli eterni perplessi.
Non ti aspettavi un trattamento migliore di quello riservato al Maestro che, nonostante facesse miracoli, è finito persino scomunicato dal Tempio. La domanda è: ce n’era proprio bisogno, dal momento che Dio  sa benissimo se l’uomo vale o non vale ancor prima di provarlo ? Eppure, il Dio amabilissimo e misterioso, prova i suoi figli: “Io ti ho fatto passare per quarant’anni nel deserto per metterti alla prova e per vedere se tu veramente mi ami” (cnf. Dt 8,2), dice ogni volta il Signore esprimendo lo stesso concetto. “Questo comportamento di Dio è parte, mi sembra, di quel mistero impenetrabile per cui, pur conoscendo il Figlio, lo mette alla prova nell’incarnazione. Perché anche l’incarnazione e la vita di Gesù sono una prova”.
Io credo che questa morte, per un certo verso prematura, sia venuta per dirci qualcosa d’importante che altrimenti ci sarebbe stato impossibile. In realtà non è lei ma è Dio che si serve di lei per parlare al cuore dei Fatebenefratelli e alla grande famiglia che se ne sta intorno: il mondo delle scienze biologiche, degli operatori sanitari, dei sofferenti psichici, delle solitudini, degli anonimi…La tentazione subdola è quella di sentirci ingranaggi di un meccanismo e provare perciò la sensazione di essere importanti. Dunque, bisognosi di nulla.
MA IN FIN DEI CONTI CHI SEI?
A chi non riesce ad inquadrarti nel contesto della tua famiglia religiosa, suggerirei la lettura, altrettanto arida dei passi biblici che parlano di Elia. A me pare che lì ci siano gli spunti rivelatori della tua personalità complessa. Si sbaglierebbe a procedere per classificazioni superficiali. Sarebbe il modo infallibile per screditare ed emarginare personaggi “scomodi”. E tu, per certi versi, lo sei stato.
Ci sei stato rapito come Elia, costretto a salire sul carro di fuoco di quella scienza che hai sempre ammirato e incoraggiato, spesso orgogliosa, talvolta arrogante, ma indispensabile. Solo che nel tuo caso ha fatto cilecca. La tua morte risuona come profezia. Con il riferimento al profeta Elia ci vai ricordando come la vera schiavitù sia quella del cuore, quella dell’uomo che, nella sua paura, si inchina davanti agli idoli di sempre: il potere, il denaro, il successo. E la medicina non ne va proprio esente.
Nell’omelia per il trigesimo della morte, P.Luca Beato ti ha paragonato al Battista:“ Fu capace di andare controcorrente. Come il Battista è stato spesso un precursore, anticipando le linee strategiche di ciò che altri avrebbero poi realizzato.” Trovo significativa la convergenza di vedute. Infatti, anche a me è parso di vedere in te quei segni che contraddistinguono il profeta Elia. Il tuo ruolo nell’Ordine, già intuibile nel Fabello ragazzo, non sarà quello di essere fondatore. Tu sei destinato a “camminare innanzi con lo spirito di Elia, per ricondurre il cuore dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo [la Fraternità] ben disposto” (Lc 1,15-17).
E cosa dice testualmente il Vangelo? Molti si rallegreranno. 15Egli infatti sarà grande nei progetti di Dio. Egli non berrà mai vino né bevande inebrianti ma Dio lo colmerà di Spirito Santo fin dalla nascita. 16Questo tuo figlio riporterà molti Israeliti al Signore loro Dio: 17forte e potente come il profeta Elia, verrà prima del Signore, per riconciliare i padri con i figli, per ricondurre i ribelli a pensare come i giusti. Così egli preparerà al Signore un popolo ben disposto. (Lc 1,15-17)
Cos’è questo “spirito e forza di Elia”? Ce lo spiega Sant’Ambrogio commentando il passo evangelico: “Elia ebbe una grande virtù e grazia: la virtù di convertire gli animi dalla incredulità alla fede, la virtù di una vita mortificata e paziente e lo spirito della profezia”.
Ti sei ben guardato dal sentirti un  profeta, né hai tentato di essere un dottore della legge o un maestro della Parola. Non eri il tipo di assume atteggiamenti da convertitore carismatico ed avevi scelto di stava semplicemente davanti a Jahvé: “Per la vita del Signore Dio d’Israele alla cui presenza io sto” (1 Re 17,1). Il segreto della tua forza è qui: “Oggi si sappia che tu sei Dio in Israele e che io sono tuo servo” (1 Re 18,36). Sei stato un servitore fedele che conosce i pensieri del Re, che ascolta dalla viva voce i suoi comandi e li esegue prontamente.
Come hai vissuto la ricerca del Dio solo, lo stare alla sua presenza, il regolarti soltanto sulla parola del Signore? Come Elia:
· Egli non ha paura di nessuna autorità umana;
· Egli non ha paura del giudizio della gente
· Egli è pieno di zelo per il Signore;
· Egli vive la solitudine spirituale, senza temerla.
Sono atteggiamenti che andrebbero esplicitati ma già sufficientemente indicativi di una dimenticanza di te stesso, nella povertà di spirito, nella riverenza adorante.
Il frate è per definizione l’uomo della libertà, liberato com’è dai voti di povertà, castità, obbedienza ed ospitalità, per meglio servire. E’ un uomo leggero, quindi, attento a non accumulare zavorra sulla sua piccola imbarcazione. Ma talvolta, come nel tuo caso, si trova anche ad essere un imprenditore sui generis che ha la responsabilità di un’ impresa che, in fin dei conti, non è sua.
Chi ama l’Altare (quello che viene baciato ad ogni messa perché rappresenta Cristo pietra angolare) ha le sue paure, sente il peso delle responsabilità ma non teme. Sa che lo Spirito soffia: sulla Mensa, pane e vino, divenuti corpo e sangue di Cristo, annunciano già la trasformazione delle realtà di questo mondo, una trasformazione che va al di là dell’Altare per giungere a tutta la creazione.
Più d’una volta mi sono sentito interrompere la comunicazione telefonica: “Devo andare. Abbiamo la Messa”. Un uomo che aspetta “cieli nuovi e terra nuova” ha bisogno di Eucaristia, il pane di vita che lega gli uni gli altri, e a Dio. Perché il finale è perentorio: “Andate e fate lo stesso”. La preghiera, il culto, esigono l’azione. Con tutto ciò, tu  avevi la chiara consapevolezza che, rispetto alle attese, alle aspettative, le possibilità erano sempre modeste. Direi che di ciò ne hai fatto un motto esistenziele: “Il ben poco che si può fare, bisogna farlo. Ma senza illusioni”. A Messa tu ci andavi  come a “fare il pieno” di Vita  per ricominciare la corsa.
Entrare a fondo nei meandri del tuo cuore umano è quasi impossibile. Se ho lasciato divagare la mente senza un rigoroso filo logico è perché ho nel cuore la certezza che tu terrai in seria considerazione le mie, le nostre riflessioni e perplessità, quelle della famiglia religiosa e della comunità terapeutica per la quale non ti sei risparmiato affinché fosse anche evangelica.
Ora saprai valutare lucidamente i nostri poveri ragionamenti. Perciò, continua a stare con noi, ad ispirarci pensieri di cielo ed a stimolarci per una “nuova fantasia della carità”, che sia allo stesso tempo amorosa e operosa ee a richiamarci con la tua preghiera d’intercessore, ogni volta che avverti il nostro deviare, magari convinto e determinato, sulle rotte suggerite dalla miopia umana dell’uomo psichico. Aiutaci a tenere sveglio in noi l’uomo “peumatico”, affinche sia lo Spirito a guidare i nostri passiu, ad ispirare le opzioni che impone il tormentato quotidiano.
PROFETA?
Bisogna intendersi. Nella Bibbia vi figurano due razze: i profeti e i falsi profeti.
I primi si riconoscono meno facilmente dei secondi che dispongono di mezzi persuasivi di sapienza umana che fa molta presa sugli spiriti fragili e perciò più manipolabili. Ma c’interessano i primi.
La nostra è un’età “aggredita” da spiritualismi d’ogni genere (New Age) che guardano in alto ed hanno i piedi che sembrano aver perduto il contatto con la terra degli uomini; e ci sono, all’opposto, persone, religiose o laiche, talmente incollate al proprio frammento di terra da perdere di vista l’insieme e l’orizzonte più grande. Da qui la necessità di avere dei profeti autentici che sembrano scarseggiare. Martin Buber ha trovato le parole giuste per definirli: “ coloro che tengono lo sguardo fisso verso il Dio che viene”. La loro mente è supportata dai piedi ben piantati per terra. Che vuol dire leggere con passione le cose che si vedono ma sempre nella prospettiva del Mistero e delle cose che non si vedono: visibilia et invisibilia.
La mia umanità si fa autentica e vera nella misura in cui cresco nella conoscenza della Pasqua che fa “nuovi” tutti gli uomini. Vuol dire che do spazio allo Spirito del Signore Risorto che mi abita. Dunque, a portata di mano.
Il profeta sta in mezzo a noi per insegnarci a ripartire da Dio. Fra Raimondo lo è stato. Egli sentiva prepotente il bisogno di compiere dei gesti, delle azioni simboliche che anticipavano e rappresentavano sinteticamente azioni ora intuite come in un lampo, ma che avrebbero poi richiesto un lungo periodo di realizzazione. Sapeva anche riconoscere in un dettaglio, un una sfumatura, l’elemento decisivo, il tassello mancante. Quanto sia stato in grado di farlo recepire anche agli altri, non sono in grado di dirlo. Temo che non vi sia riuscito anche per via di un sordomutismo diffuso che preferisce galleggiare più che rischiare.
CANTO
Ci legava una convinzione comune: il canto era tante cose, ma anche un modo per ricoprire le persone della misericordia del Signore. Dove ci sono dolori, difficoltà, tristezze, il canto ispirato è terapeutico: ha la capacità di consolare, lenire, infondere speranza. Un esempio semplicissimo: si provi a cantare le Litanie del Sacro Cuore di Gesù, senza la preoccupazione di terminarle in fretta perché barbose. Se pregare è cantare due volte, come insegna S.Agostino, l’implorazione cantata coinvolge, va in profondità, scava nell’anima:
· Figlio di Davide, abbi pietà di me.
· Signore se tu vuoi, salvarmi puoi…
· Signore, che io veda…
Solo Dio può modificare il mio cuore perché raggiunge le sue profondità che vibrano con il cosmo:
· Acqua viva, disseta la mia anima,
· Spirito di Dio, Signore della creazione…
· Spirito di gioia, Spirito d’amore…
· Signore Dio dell’Universo, dalla Tua bontà…
Povera psichiatria! Quanto ci sarebbe da approfondire.
CORPOREITA’
Che bello se tutto, ma proprio tutto della giornata fosse vissuto come una perenne liturgia.
Alzarsi dal letto, prendere il tè, avere l’influenza o un dolore reumatico, recitare un salmo o rispondere al telefono…
Santificarci per contagio, per vicinanza corporea, avere la capacità di sollevare, innalzare, santificare, trasmettere. Fare in modo che gli altri possano dire: quando ti vedo, mi sento bene! Con la corporeità trasmettere l’anima. A me è riuscito di coglierla nell’amico.
MAESTRO
E’ sempre rifuggito dalla tentazione di sedersi in cattedra. Era convinto che la verità non si lascia possedere. La sua saggezza si è rivelata nel non ritenersi maestro ma soltanto amico dello Sposo, uno che si accompagna a cercare la verità senza presumere di possederla. Bravo chi sa scomparire al momento giusto e in nessuna occasione si sostituisce allo Spirito santo, né si rende indispensabile mediatore dell’incontro con Dio.
Credo che fra Raimondo abbia sempre ritenuto compito essenziale quello di limitarsi a preparare la strada, di PROFETA?
facilitare l’incontro, di liberare il cuore e la mente…E lasciar fare allo Spirito, vivo, presente e operante.
S’E’ FATTO BUIO TUTT’INTORNO(Mc 15,21-41; cfr. Mt 27,32-56; Lc 23,26-49)
Alle Molinette di Torino, verso il Mezzogiorno di quel giovedì, 30 Agosto, memoria del Beato Alfredo Ildefonso Schuster, vescovo, di cui da ragazzi avevamo tanto sentito parlare e anche qualcosa letto sulle feste del Messale,  ci hai lasciati. La liturgia Eucaristica del giorno celebrata in tutto il mondo sembrava fatta per la circostanza apposta.
Questo è il Salmo responsoriale che è risuonato nelle chiese:
Sal.89

Tu o Signore, fai ritornare l’uomo in polvere
e dici: «Ritornate, figli dell’uomo» .
Ai tuoi occhi, mille anni
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte.

Insegnaci a contare i nostri giorni
e giungeremo alla sapienza del cuore.
Vòlgiti, Signore; fino a quando?
Muoviti a pietà dei tuoi servi.

Saziaci al mattino con la tua grazia:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di noi la bontà del Signore, nostro Dio:
rafforza per noi l’opera delle nostre mani.

E il canto al Vangelo, tra un alleluia e l’altro:
Vegliate e pregate in ogni momento,
per essere trovati degni
di comparire davanti al Figlio dell’uomo.
Non parliamo del Vangelo:
Mt 24, 42-51
Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà.
Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa.
Perciò anche voi state pronti, perché nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà.
Qual è dunque il servo fidato e prudente che il padrone ha preposto ai suoi domestici con l’incarico di dar loro il cibo al tempo dovuto?
Beato quel servo che il padrone al suo ritorno troverà ad agire così! In verità vi dico: gli affiderà l’amministrazione di tutti i suoi beni.
Ma se questo servo malvagio dicesse in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire, e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a bere e a mangiare con gli ubriaconi, arriverà il padrone quando il servo non se l’aspetta e nell’ora che non sa, lo punirà con rigore e gli infliggerà la sorte che gli ipocriti si meritano: e là sarà pianto e stridore di denti»
.

A sentir queste parole, ogni nota aggiuntiva risulterebbe superflua. Se non fosse che abbiamo tanto bisogno di sfogare le nostre tensioni emotive e che il parlarne potrebbe farci anche bene. E’ vero: a prenderti è venuto nientemeno che il Figlio dell’uomo e dovremo scoppiare di gioia, segno che eri importante ai Suoi occhi. Ma i nostri alleluia si confondono ancora con i singhiozzi.
A coloro che t’hanno conosciuto meno da vicino vorrei dire che sei stato un normale ragazzo prima ed un normale frate poi. Senza le “ali”, perché non sono di rigore. Per andare in alto a noi non sono strettamente richieste. Anche a te è bastato soltanto essere uomo. A guardar bene, questa apparente limitazione del non disporre di ali è stata la tua fortuna: ti ha impedito di “starnazzare” come un pollo per richiamare l’attenzione del pollaio. E se ti sei trovato in posti di responsabilità, vi sei giunto senza far rumore. Hai sempre parlato più con le scelte che con i proclami farciti di luoghi comuni o parole ad effetto. Avevi uno sviluppato intuito naturale ma non eri impulsivo nelle decisioni che maturavano nella riflessione della Parola di Dio. Eravamo giovanotti quando Papa Giovanni ci ha iniziati a scrutare i  “segni dei tempi”. Era un’espressione evangelica ma in disuso e il Papa buono l’ha ripresa e ci ha insegnato a guardare in altro, ad andare oltre, a non peccare di miopia… Così anche tu ti sei limitato a cogliere l’incanto che l’aurora di ogni giorno riserba, quasi che il mondo ricominci da capo.
Nelle nostre conversazioni, mai fatte di pettegolezzi o di pregiudizi sulle persone o sulle decisioni da altri poste in atto e non sempre da te condivise, ti stava a cuore il futuro del tuo Ordine ma con quel distacco di consapevolezza che a ciascuno compete di far bene la sua parte, non di più. Avvertivi le forti limitazioni che talora nascono tra il dire e il fare, l’intuire ed il realizzare. Ed avevi una tua filosofia che più di una volta mi hai espressa: “Se la Vigna è Sua, ha pure Lui da pensarci, no?”.
Si avvertiva che avevi percorso un lungo cammino, fatto anche di tanta solitudine. Ma, ad ogni risveglio, conservavi sempre una grande capacità di stupire. Ricordo le stringate parole al telefono nel risentirci dopo anni: “E’ proprio vero…quando poniamo resistenza, Dio poi ci sbalordisce…”. Ho capito ciò che intendevi dire. Seguivi attivamente su internet le nostre timide evoluzioni perché credevi che anche da un semino di senape trasportato dal vento su un metro di terra, per opera di Dio, può svilupparsi fino a diventare  albero frondoso e gigantesco, destinato a stupire, come ogni iniziativa del Signore Gesù. Dove io sarei stato più portato al pessimismo, ho notato che in te vigilava sempre la speranza. Non quella di un allocco. Ma la virtù bambina, che ha il potere di guidare le sorelle più anziane: la gioia, il dolore, la routine, la novità, l’amore, il sesso, la stupidità, il canto degli uccelli e la nascita di un bambino, un anniversario, un venticinquesimo di lavoro, come la nascita di un nuovo giorno o la notizia di un nuovo progresso scientifico nella ricerca …
Ti ho perso di vista per tanti anni. E quando t’ho ritrovato, eri quello di sempre. Tutto aveva concorso a rendere straordinaria la tua vita di frate che, non essendo né angelo né aquila, è rimasta sempre senz’ ali per volare. Ma lo stesso t’è riuscito di andare in alto. Il segreto? Forse più di uno. Ma riassumibile nella  sublime cantica dantesca che vede in Maria, la
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’ etterno consiglio”:
Ne avevi fatto l’esperienza diretta:

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
Che, qual vuol grazia e a te non ricorre,
Sua disïanza vuol volar senz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
A chi domanda, ma molte fiate
Liberamente al domandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
In te magnificenza, in te s’aduna
Quantunque in creatura è di bontate!
(Paradiso, XXXIII, 1-39
Volendo, oggi si potrebbe sostenere con più d’un buon argomento che la pedagogia dei nostri tempi faceva acqua da tante parti. Apparteniamo ad una generazione, forse l’ultima, venuta grande con i metodi di una formazione tradizionale, entrata in crisi già con noi e processata aspramente nel ’68 e negl’anni successivi. Ma, grazie ad esempi autorevoli, a parole forti e sublimi tramandate dalla tradizione, attinte dalla  letteratura latina o italiana come il testo sopra che i nostri educatori ci hanno quasi imposto di memorizzare, dal Manzoni, dal Vangelo in briciole e dagli avvenimenti liturgici ed ecclesiali… abbiamo avuto anche la fortuna di mettere dei punti saldi nella vita. E qualche buon principio, capace di resistere alle intemperie, ce l’hanno pure inculcato. Quello almeno di scoprire che in noi urge qualcosa di più grande della banalità  di tutti i giorni: il rapporto con il proprio destino, con lo scopo ultimo della propria vita che si è reso incontrabile nella grande presenza amica di Cristo.
I manuali di spiritualità del tempo possono aver suscitato sia negli educatori che negli educandi non pochi equivoci moralistici, a cominciare dalla smania di metterci le “ali”, insistendo più sulla innata capacità di perfezione attraverso l’esercizio quotidiano delle virtù (?) che puntando a coltivare una vera maturità psico-affettiva individuale e comunitaria. Ma la familiarità con l’Altare,  e il Tabernacolo ce l’hanno inculcata ed ha lasciato il suo segno positivo: un po’ alla volta, ci siamo  resi consapevoli di una Presenza costante nella vita che avrebbe potuto sollevarci dalla insignificanza del quotidiano verso una più piena ed umana realizzazione di sé. Ricordo ancora bene un passo formidabile della Populorum Progressio di Paolo VI del 26 marzo 1967 che allora, proprio quando venivano posti in discussione certi metodi, ci dava la dritta per non sprofondare nello sterile avvilimento:
Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione. Fin dalla nascita, è dato a tutti in germe un insieme di attitudini e di qualità da far fruttificare: il loro pieno svolgimento, frutto a un tempo dell’educazione ricevuta dall’ambiente e dello sforzo personale, permetterà a ciascuno di orientarsi verso il destino propostogli dal suo Creatore. Dotato d’intelligenza e di libertà, egli è responsabile della sua crescita, così come della sua salvezza. Aiutato, e talvolta impedito, da coloro che lo educano e lo circondano, ciascuno rimane, quali che siano le influenze che si esercitano su di lui, l’artefice della sua riuscita o del suo fallimento: col solo sforzo della sua intelligenza e della sua volontà, ogni uomo può crescere in umanità, valere di più, essere di più.” (n.15)
Qui ho imparato a prendermi le mie responsabilità, evitando di distribuire ad altri le colpe dei miei insuccessi, la miopia delle mie scelte. Il Papa non intendeva spronare ad una pedagogia balorda ma a reagire alla rassegnazione fatale. Alcuni che portiamo nel cuore potrebbero non avercela fatta e per questo ci stanno ancora più a cuore.
Le opere di misericordia che la tradizione cristiana ci invita a compiere affondano le loro radici nella infinita misericordia divina, che tocca la sua vita più eccelsa in Gesù Cristo che ha dato la sua vita per noi. La verità è che Dio, nostro Padre, passa ancora oggi davanti a tutti noi come quando apparve a Mosè, per dirci: Ecco, io sono il Signore, l’Iddio pietoso e misericordioso, lento all’ira e grande in benignità e verità (Es 34,6).

La misericordia, con tutte le sue opere, non viene lasciata all’arbitrio delle creature umane. Esiste infatti un comandamento che ci vincola tutti: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19.18).

L’Antico Testamento ci presenta un bell’esempio in Giobbe. Nella sua difesa contro i suoi accusatori egli esclamava:
“Io liberavo il povero che gridava
e l’orfano che non aveva chi l’aiutasse
e facevo cantare il cuore della vedova.
Io ero occhi al cieco e piedi allo zoppo
e padre ai bisognosi” (Gb 29).
Ricordi Raimondo quella carità così visibile in tanti anziani imitatori di San Giovanni di Dio? Possiamo dire che abbiamo conosciuto da vicino i santi del quotidiano che sapevano coprire limiti e debolezze personali con lo scapolare della carità misericordiosa. E ne siamo rimasti influenzati, contagiati. Sarebbe laborioso voler stendere un elenco nominativo. A quanti di essi si potrebbero applicare le parole di Giobbe!
Ci sono tanti modi di andare incontro ai nostri fratelli. Ma una cosa è assolutamente necessaria: un cuore nuovo secondo Dio. “Allora donerai qualcosa di tuo al fratello bisognoso, gli andrai incontro con qualche piccolo gesto, ti interesserai di lui, della sua salute corporale e di quella spirituale “(cfr Dt 15.7-8). Così è stato il tuo silenzioso lavoro di ogni giorno, benedetto da Dio, per la salvezza di tutti, per la divinizzazione dell’uomo.
Hai avuto incarichi di responsabilità. Essere il “Padre Provinciale” lì per lì può dare appagamento, emozione, apprensione. Ma poi…Quel santo vescovo e pastore che fu dom Helder Camara mi offre parole su misura per te e che posso dirti solo ora, senza farti arrossire:
Beato chi si sente eternamente in viaggio e in ogni viaggio, in ogni prossimo vede un compagno desiderato. Un buon camminatore si preoccupa
dei compagni scoraggiati e stanchi. Intuisce il momento in cui cominciano a disperare. Li prende dove li trova. Li ascolta. Con intelligenza e delicatezza, soprattutto con amore, ridà coraggio e gusto per il cammino
”.
Non posso giurare che tu vi sia riuscito in pieno ma sono certo che hai provato a farlo. Ed il richiamo non può tornare che benefico anche per il domani.
E ti ricordi del Prof. Celli, il nostro insegnante di lettere al ginnasio? Delle sue lezioni di greco m’è rimasto poco più dell’alfabeto ma ho caro nel cuore il “ Pater emon o en tois uranois…” ossia il Padre nostro (Mt 6, 9-13) che talvolta ancora recito. E quella passione che ci ha inculcato, senza forzare, leggendo i “Promessi sposi”? Non si è più assopita in me e in te s’è fatta anche vistosa nelle iniziative sanitarie, psichiatriche e missionarie che hai avviato ed animato fino all’ultimo. “La c’è la c’è la Provvidenza”, eccome!
Anche per la musica sacra e la divina liturgia ci siamo dati da fare insieme. Qualche traccia , come alcuni canti della Novena in onore di San Giovanni di Dio che avevamo messo insieme, su richiesta del P. Marchesi, sono ancora in circolazione. Continuo a ribadirlo: nulla si capisce di te se vieni separato dall’Altare.
FORMIDABILI QUEGL’ANNI
E gli anni del Concilio Vaticano II ? Il discorso si farebbe lungo, interessante, impegnativo, critico. Poiché abbraccia il quarantennio post-conciliare, quello che molto ha interessato gli Ordini Religiosi alle prese con la revisione e adattamento delle Costituzioni, sono sicuro che risulterebbe anche proficuo per capire, capirsi, rileggere fatti ed atteggiamenti con il senno del poi, avere ripensamenti, ridimensionare progetti, buttarsi nell’oltre… Lo spazio non c’è. Ma poi ne sarei capace? Comunque, volendo, non mancherà il tempo, anche con il tuo aiuto, per rileggere un periodo di storia formidabile e travagliata. Forse si capirebbe l’origine della sterilità attuale della Provincia Lombardo-Veneta. Il sollievo del  “mal comune mezzo gaudio” non era nel tuo temperamento.
Equivoci. Se negl’anni in cui hai dato il meglio di te equivoci vi sono stati  in una cultura dominante, malata di eventi e incapace di cogliere la forza nascosta nelle opere dei giorni feriali e anonimi di tanti membri della  famiglia religiosa, sarebbe salutare che venissero messi in luce. La storia della grazia e della fedeltà si verifica anche nel silenzio. Ci sono tempi di fedeltà tacita ma sempre tenace, nella difficile volontà di non cedere alle pulsioni di rottura o di separazione. In questo ci sei stato di esempio, proprio quando hai provato a dire cose che forse non sono state capite, sottovalutate.
A ragion veduta posso sostenere che hai mantenuto una fecondità nascosta e viva fino agli ultimi giorni, mostrandoti maestro di vita e di fede, perseverante nell’alveo del Concilio e della profezia, ma sempre con un’attenzione di carità perché l’Ordine e la tua Provincia in particolare non assomigliassero alla conflittuale Chiesa di Corinto. Proprio per questa ragione bisognerebbe provare a interrogarsi.  E, poiché i dati si presentano sempre complessi e le analisi semplificatrici sono di per sé inadeguate e quindi sconsigliabili, è auspicabile che nasca una tavola rotonda, informale e aperta, per verificare che non siano state osteggiate le linee di profezia che lo Spirito non fa mai mancare e che non vi sia in atto una sistematica e subdola volontà di sradicamento dei fermenti, seppur inconscia e ammantata da buoni propositi che talvolta nascono proprio per  evadere le scomode domande.
Se il silenzio non ha parole, è pur vero che la superficialità non riesce a conoscere l’esistenza di tempi e di modi di fedeltà silenziosa e sofferta, ma per questo anche redentiva e vitalizzante.
Di te mi sento di dire che hai lavorato per una Chiesa che abbia davvero  il dono di quella contemporaneità, senza la quale si cade nella falsa coscienza. Mi chiedo: e se, nel tuo contesto, a un certo momento fosse venuto a mancare quel profondo substrato di intensità spirituale che sempre prepara, provoca e sostiene i tempi della profezia?
In questo momento a te è dato di vederlo chiaramente. Se così fosse, non ti resta che accentuare il tuo ruolo di intercessore e propulsore affinché le nostre vite siano capaci di sostenere e di accentuare una prassi cristiana segnata da molta generosità. Potrei sbagliarmi ma l’impressione è che, nella Chiesa in senso lato ma anche in quella che ci riguarda più da vicino, la Chiesa locale, il Convento, sia in atto una ideologizzazione del vangelo, frettolosa e non profetica. L’intensità delle intenzioni non deve far velo alla verità intera. Purtroppo, le incomprensioni generano irrigidimenti e cosi si rifugge dalla critica benefica che non dovrebbe mai mancare e che dev’essere generosa ed intus-legente, ossia intelligente.
Alcuni temi dovrebbero convocare a una riflessione faticosa ma inevitabile. Guai a evitarla. I cammini si mostrano spesso opinabili e tuttavia dotati di qualche ragione. Se viene a mancare quel discernimento sapienziale che va chiesto giornalmente in ginocchio, non c’è altro che possa far schivare l’inevitabile deriva.
E’ facile fare l’apologia del glorioso passato ma non paga se non alle condizioni descritte. Ogni volta che si trasformano i carismi in miti, si finisce in un culto della personalità e si apre la strada della decadenza. Il carismatico Giovanni di Dio non ha mitizzato ma scavato un solco fecondo. Il tempo galantuomo dirà se anche tu, amico mio, stavi dalla parte della profezia, come io penso. La memoria che suscita lo Spirito di Dio nella Chiesa (Gv 14, 26) è anche il processo per il quale nel nuovo e concreto storico si attualizza quello che i padri fecero nel loro tempo e nelle loro condizioni.
Negli ultimi tempi avvertivo che respiravi un’aria di disagio. Segnato da una volontà di fede, di presenza nella vita sociale e scientifica, di dialogo ecclesiale (facevi considerazioni lucide e severe quando ti provocavo anche sulla Chiesa locale), sentivi il bisogno di sciogliere la vela al vento dello Spirito.
Ogni tentazione di deriva verso progetti di potere andrebbe scongiurata ed è cosa evangelica dire il proprio dissenso, porre domande e chiedere dialogo. I votati all’ospitalità sono discepoli del Verbo Incanato. E voler fare ancora opera di incarnazione non costituisce una deriva mimetica, perché è una essenziale linea evangelica, quella per cui Dio si confibra alla vita umana e ad essa si propone e non s’impone.
In ciò che sto per dirti spero di non equivocare: anche tu hai fatto l’esperienza del venir meno dell’autorità. Sono molti gli elementi che hanno determinato il calo di obbedienza. Oggi c’è un altro modo di ascoltare. Potrà essere deprecabile quanto si vuole ma bisogna realisticamente prenderne atto. Se l’autorità vuole essere ascoltata, deve dialogare con un tempo nel quale non vige l’autorità della persona ma la persona di autorità. Al limite, qualcuno può perfino ritenerlo un percorso di peccato. Ma perché non chiedersi: “e se fosse un provvidenziale fatto di liberazione che non sia più vero “iustum quia iussum – giusto perché ordinato”, ma che venga il faticoso e costoso criterio dello “iussum quia iustum – ordinato perché giusto”?
Dove può trovare sostegno scritturale una simile posizione? Lo esplicita Matteo: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». (28, 19-20) Manasce dal cuore del Dio trinitario, come ben evidenzia il vangelo di Giovanni: “Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’ insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. (Gv 14, 26)
Solo nel criterio trinitario della auctorias: la “monarchia” del Padre è gloriosa, perché è una “archè”, un principio per “augere”, per far crescere la vita ed essere fonte di “altri” che nella loro autonomia (”hypostasis”) vivano una ricchezza che è quella della fonte e pure è altra. La gioia di Dio è nel constatare che “l’altro” vive nella sua autonomia di vita. La compiacenza di Dio (“e Dio vide che era cosa bella-buona”) coglie la forma di sé data attraverso il Verbo che in Amore dà la vita e la dà in abbondanza.

Se l’autorità non vive tale forma trinitaria, ma cerca il povero sussidio di capacità organizzativa o di riduzione dell’alterità all’uniformità, allora la Chiesa viene a mancare di un elemento essenziale alla sua vita, appunto l’autorità come segno della ”monarchia” del Padre che è “unità di principio”, non “unicità di potere

”. Fantasie retoriche, si chiede Paolo Giannoni l’autore benedettino-camaldolese di tale riflessione ?

Spero che le parole  che ti attribuiscousate come modo per spiegare, non finiscano per aver bisogno di essere spiegate. In tal caso, vedrò di ritornare sull’argomento un’altra volta. E tu mi aiuterai dal seno della Trinità.
Adesso mi piacerebbe provare a parlarti della Compagnia dei 72 di cui anche tu hai fatto parte. Non avendo ricevuto la sacra unzione presbiterale, non appartieni al “gruppo dei Dodici” bensì alla quello dei “Settantadue discepoli”. Il Vangelo di Luca chiarisce tutto e in questo testo viene esplicitata anche la tua e nostra comune vocazione: In quel tempo, il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe. Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada.
In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua mercede. Non passate di casa in casa.
Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi, curate i malati che vi si trovano, e dite loro: È vicino a voi il regno di Dio”. (10, 1-9)
Considerazioni sulla pagina evangelica ci porterebbero in alto mare.
Visto che le nostre strade ad un certo punto si sono divise, mi verrebbe da chiederti: com’è andata la spedizione? Qualcosa ti ho raccontato della mia ma della tua so molto poco. Farebbero bene a parlare i tuoi compagni di viaggio perché non c’è miglior circostanza per fare il punto della situazione. Non credo giovi a nessuno operaio giocare a nascondino nella Vigna che appartiene al Signore. Io resto fiducioso in attesa.
Forte dei principi in cui credevi, hai lasciato che il disegno di Dio su di te si adempisse al meglio, agendo in base a ragioni che non sono umane.
Come recita il Magnificat che abbiamo cantato tutta la vita a squarciagola fin dalla giovinezza, si può dire senza esitazione che “Il Signore ha fatto della tua vita un luogo di prodigi, dei tuoi giorni un luogo di stupore” (Lc 1,47). Che importa se non sappiamo elencarli, spiattellarli sulla tavola come biscotti fragranti. E’ che avevi fatto tuo quel canto che la Compagnia…cerca ogni giorno di memorizzare e vivere e che recita così:
1.  “Cerco nel cuore  le più belle parole per il mio Dio, l’anima mia canta per il mio amato” (Lc 1,46).
2.  Perché ha fatto della mia vita un luogo di prodigi, ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore” (Lc 1,47)
3.  “Ha guardato a me che non sono niente: sperate con me, siate felici con me, tutti che mi udite. Cose più grandi di me stanno accadendo. E’ Lui che può tutto, Lui solo, il santo!” (Lc 1, 48-49)
4.  “ E’ lui che ha guardato, è lui che solleva,  è Lui che colma di beni, è lui…” “Santo e misericordioso, santo e dolce, con cuore di madre verso tutti, verso chiunque” (Lc 1,50).
5.  “Ha liberato la sua forza, ha imprigionato i progetti dei forti”  (Lc 1,51).
6.  Coloro che si fidano della forza sono senza troni. Coloro che non contano nulla hanno il nido nella sua mano” ( Lc 1,52)
7. Ha saziato la fame degli affamati di vita, ha lasciato a se stessi i ricchi: le loro mani sono vuote, i loro tesori sono aria” (Lc 1,53)
Ed è proprio con queste parole così pregne, pronunciate per la prima volta dalla Madre di Dio, che vorrei avvolgere come in un manto regale la tua persona di frate per gli uomini.
Capita nella vita di trovarsi soli. Soli contro tutti. Soli nella folla. E si può perfino essere soli in famiglia. Ma capita, talvolta, di avere ragione contro tutti e di apparire perfino, nella migliore delle ipotesi,  sognatori ridicoli, degni di compatimento. Forse è accaduto anche a te.
In te ho constatato un atteggiamento interiore, uno stato d’animo, una forza che ti derivavano derivano dall’amore. E se è vero che gl’occhi sono l’espressione dell’anima, i tuoi sono da innamorato.
Tutto quello che sale, converge, diceva Teilhard de Chardin. Perché la montagna della vita noi la scaliamo gli uni gli altri in modo diverso ma con la speranza di ritrovarci tutti sulla cima.
Mi piacerebbe sentirti dire: “Hai parlato in mio nome, bene dixisti de me”. Se così non fosse, compatiscimi lo stesso, perché sono un tuo fratello, limitato e confuso.
LA BENEDIZIONE PASQUALE
Mentre la bara scendeva dall’auto funebre e venivi trasportato per le esequie nella cattedrale gremita di fedeli e tante persone in piedi in ogni angolo, la piazza era inondata di sole e le pietre bianche del duomo rifulgevano, con la maestosa cupola, nell’azzurro cielo, accentuando il desiderio delle colse dall’alto.
Il tempio è dedicato all’Assunta; un invito in più, un motivo più forte per aspirare alle cose di lassù. Un uomo è un nulla. Ma se è in ginocchio davanti alla Trinità, come te ora, è improvvisamente grande. Perciò, prima di chiudere questo colloquio in cui spero solo apparentemente di aver parlato solo io, a nomi di tutti sono a chiederti un favore: benedici questa tua grande famiglia che si è costituita nel tempo intorno a te.
Da cielo abbassa la mano come per riversare la grazia e la vita sulla terra. Benedire: “bene-dicere”, cioè “dire del bene”, vuol dire aiutarci a vivere. Tante persone muoiono per non avere incontrato l’ individuo capace di dir loro la verità: “Tu sei amato”, “tu puoi vivere”, “tu puoi essere te stesso”. La sete è grande e un po’ tutti siamo in ricerca della parola che ci sproni a esistere. Del resto, “tu sei amato”, non è il magnifico significato del termine “grazia”? Cosa c’è al mondo di più confortante del sapersi “amati da Dio” ?
A questo punto, per una volta, lascia che ti chiamiamo “padre. Perché ora lo sei a tutti gli effetti, caro Padre Raimondo. “Padre di una moltitudine”, come il patriarca Abramo. E quando ci si sente soli, è bello ricordarsi che qualcuno ci ha benedetto.
E’ stato scritto che “nel giovane brucia un fuoco, nell’anziano brilla una luce”. In te ho visto il miracolo di entrambi. Segno di perenne giovinezza.
Con queste parole che ti appartengono, tu ci passi il testimone affinché noi si continui la corsa:
Siamo tutti chiamati, credenti e non credenti, a creare una società nella quale venga eliminata la violenza, l’emarginazione, la competitività, la manipolazione e sia instaurata la giustizia, la solidarietà, il rispetto e la dignità di tutti nell’amore. Assumere gli atteggiamenti di San Giovanni di Dio significa lanciarsi nella vita senza paura, con coraggio, con speranza”. (Dalla Prefazione a …)
Mandi, frari! Proveremo a camminare sulle tue orme.


Per questo, preghiera silenziosa, ascolto della Parola, meditazione biblica, riflessione personale, non sono disgiunti dall’Eucaristia, ma sono vitalmente collegati ad essa”.

IL SASSO NELLO STAGNO – Risponde Salvino Leone

  

IL SASSO NELLO STAGNO

Salvino Leone è uno dei delegati laici al 66° Capitolo Generale dei Fatebenefratelli che si è svolto quest’anno. Con e-mail del 23/05/2007, mi ha manifestato il suo sostanziale dissenso su quanto ho avuto modo di scrivere nell’ultimo numero della rivista sui “laici al Capitolo Generale”.

 

Ho ritenuto di riportare il testo integrale della lettera, ovviamente con l’avvallo dell’autore, nella speranza che le considerazioni espresse del medico di Palermo suscitino dibattito. Resta così aperta la possibilità di ritornarci sopra.

 

L’articolo di riferimento:

religiosi-e-laici-nella-gioia-della-fede-e-nella-prospettiva-della-missione-a-nocent/

capitolo-generale-66-rappresentanti-laici

Al centro il Prof. Salvino Leone

 

Preg.mo Angelo Nocent

 

ho letto il suo articolo sui “collaboratori laici” pubblicato sulla rivista Fatebenefratelli e devo dire che sono rimasto sinceramente addolorato per la violenza e la durezza di alcune sue critiche nei confronti del documento da noi prodotto. Certo nessuno ritiene che questo non possa essere esente da critiche ma quelle che lei formula mi sembrano non solo ingiustificate ma anche offensive, per più di un motivo.

 

1)     Innanzitutto perché il documento è stato redatto da persone che da numerosi anni (qualcuno anche da più decenni) lavorano fianco a fianco con i Fatebenefratelli condividendone pienamente il carisma e le quotidiane fatiche. Conoscono molto bene, quindi e condividono lo spirito di umiltà, povertà ecc. del quale, a suo avviso sembrerebbero privi.

2)     Non sono certo arrivati con “povertà di idee” ma le ricordo che canonicamente non avevano alcuna “voce in capitolo” essendo lo stesso riservato ai Religiosi. Per cui è stato un atto di grande apertura e profezia, da parte dei Religiosi, l’averci chiamato a presentare un documento.

3)     La Scuola dell’Ospitalità era una semplice e opinabile proposta operativa e, come tale, giustamente collocata alla fine. Il carisma “già posseduto” non si riferisce di certo a tutti i laici ma a quelli che, non per loro scelta ma perdono dello Spirito, lo incarnano già. Riconosciuto o meno.

4)     I laici non “vogliono contare” (ma non è laico anche lei?) ma solo servire insieme ai FBF e stanno dando alcuni possibili suggerimenti per farlo. Il riferimento all’aspetto dottrinale non è nostro ma del card. Newmann e della teologia conciliare. D’altra parte un Ordine non fa affermazioni dottrinali.

5)     Tutti gli aspetti religiosi (affidamento alla Provvidenza, profezia, dimensione sapienziale ecc.) appartengono all’essere dei laici e il Capitolo non ci chiedeva una trattazione sulla teologia del laicato ma “cosa chiedono i laici all’Ordine”.

6)     Mi consenta di dirle che tutti noi non equivochiamo, sappiamo bene cos’è il laicato e il suo rapporto con la vita religiosa. Peraltro mi permetto ricordare che dai tempi del Decretum di Graziano che prevedeva “duo genera Christianorum” alla Christifideles laici e alla Vita Consecrata sono passati più di 8 secoli e la teologia del laicato e della vita religiosa è molto cambiata. Peraltro quanto detto è stato pienamente condiviso dai religiosi che non hanno ravvisato alcuna “volontà sostitutiva” ma solo un fraterno aiuto a venire in soccorso con una forte presenza carismatica laddove la penuria di religiosi avrebbe fatto chiudere una casa.

7)     Ancora più offensivo e calunnioso mi pare il dubbio sul superamento delle logiche “proprietarie” che, contrariamentea quanto lei dice è proprio…francescana. Tutti i laici presenti e i tanti altri che rappresentavamo erano persone che con spirito di sacrificio e abnegazione hanno dato e danno il loro contributo. Certo anche come operai degni della giusta mercede ma ben al di là di quello. Nessuno vuol diventare proprietario o alcuna rivendicazione in tal senso.

8)     10) Quanto alla “farneticazione pura” delle opere gestite da laici è quanto ormai da parecchi anni avviene in molte parti dell’Ordine, con la piena approvazione del Consiglio Generale e l’auspicio che questo possa anche ampliarsi consentendo una piena sopravvivenza e diffusione carismatica, quindi caritativa ed evangelizzatrice. Se questa è farneticazione !!

Ci sarebbero molte altre cose da dire ma mi fermo qui augurandomi che il suo sincero desiderio di una diversa e migliore presenza dei laici possa trovare le più consone vie di espressione. Forse non saranno le nostre ma proprio perché non abbiamo alcuno spirito di protagonismo o prevaricazione l’importante è che si realizzino per il bene dei bisognosi e la gloria di Dio.

 

Fraternamente, Salvino Leone

 

Da FATEBENEFRATELLI Luglio/Settembre 2007

 

NEL SEGNO DEL RINNOVAMENTO – Rina Monteverdi

 

insieme-per-servire

Insieme per servire

NEL SEGNO DEL RINNOVAMENTO

Di Rina Monteverdi


 

Roma, Curia Generalizia, 2-3 Aprile 2007


 

Noi, collaboratori dei centri dei Fatebenefratelli, siamo informati e sollecitati ad un costante rinnovamento per essere espressione dei valori dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio attraverso l’attività professionale che svolgiamo. Essere corresponsabili di rendere umano ed ospitale l’ambiente di cura richiede un continuo adattarsi ai tempi in cui viviamo.

 

Questo è un obiettivo molto affascinante, ma spesso difficile da realizzare nella realtà. Come desiderabile, ma faticoso da attuare è l’invito di alleanza tra religiosi e laici per meglio servire il malato che da decenni i Fatebenefratelli,

anche attraverso i loro documenti propongono.

 

Ebbene, con il nuovo Governo Generale, abbiamo assistito ad alcune scelte innovative che sono nella linea di rendere più concreta l’alleanza con i collaboratori, anche in ambiti di maggiore responsabilità. Un segno molto significativo è stato di allargare il Definitorio Generale alla presenza di sei laici, operanti in varie nazioni europee.

 

Questi collaboratori rappresentano le varie aree linguistiche e sono stati segnalati dalle rispettive Province Religiose, per il senso di appartenenza all’Ordine e per il ruolo e la competenza manifestate nel realizzare un servizio secondo la Missione dell’Ordine.

 

Essi sono: Susana Queiroga, responsabile della pastorale della salute della Provincia Portoghese, Brigid Butler, direttore del programma di sviluppo della Provincia Irlandese, Rina Monteverdi, coordinatrice della pastorale della salute della Provincia Lombardo-Veneta, Xavier Pomés Abella, direttore generale della Provincia Aragonese, con incarichi anche in Messico ed in America Latina, Georges Kammerlocher, direttore dell’asilo notturno di Marsiglia, della Provincia Francese, Adolf Inzinger, direttore della Provincia Bavarese, per l’area amministrativa, informatica e controllo di gestione.

 

Perché queste presenze

 

Prendiamo direttamente dal discorso del P. Generale, fra Donatus Forkan il significato e le ragioni di tale scelta. «Questa è veramente un’occasione storica, in cui per la prima volta alcuni nostri collaboratori si uniscono a noi in questo Definitorio Generale che abbiamo definito “allargato”. Vi ringraziamo per aver accettato l’invito a sedervi al nostro fianco in questa riunione. Sono certo che qualcuno rimarrà sorpreso e perplesso all’idea che dei laici facciano parte del Governo Generale di un Ordine religioso.

 

Per noi invece si tratta di un’evoluzione naturale. Senza i nostri collaboratori, la capacità della missione dell’Ordine sarebbe decisamente inferiore a quella che invece è oggi. Essi dedicano la loro vita e i loro talenti a portare avanti la nostra comune missione. In particolare, desidero ringraziare le nostre collaboratrici: voi portate sensibilità, comprensione ed empatia nei nostri ambienti; tutte qualità che sono estremamente necessarie nel trattare con le persone vulnerabili e malate. Sono qualità fondamentali nell’esercizio dell’ospitalità, così come era praticata da Giovanni di Dio.

 

Spero che, come membri del Governo Generale, tutti noi ci sforziamo per cementare questo rapporto, cercando di approfondire la nostra comprensione del ruolo dei confratelli e dei collaboratori, nel senso di essere complementari gli uni con gli altri, e insieme promuovere una maggiore consapevolezza dell’urgenza della missione, in cui tutti siamo impegnati attivamente. Dovremo altresì promuovere una formazione comune, che ci porti all’obiettivo di una visione condivisa del futuro della nostra missione.

 

In secondo luogo, il fatto di trarre beneficio dalle vostre esperienze di uomini e donne totalmente inseriti nella realtà del mondo di oggi, ci consentirà di promuovere idee e iniziative che rispondano ai reali bisogni della gente, in linea con la nostra tradizione ospedaliera.

 

Credo che dovremmo misurarci costantemente con ciò che facciamo, con il nostro lavoro, pianificando l’azione secondo il modo di agire di Giovanni di Dio.

Dobbiamo essere innovativi, creativi e professionali nella nostra risposta ai bisogni della gente, in special modo coloro che sono stati abbandonati o emarginati dalla società.

 

Come Consiglio Generale, le persone guardano a noi, e per questo dobbiamo essere per loro una leadership creativa, una guida e una fonte di ispirazione. Se lavoreremo insieme a livello di gruppo, il nostro operato sarà più efficace e mostrerà gli aspetti che costituiscono l’Ordine.

 

Ringrazio perciò i sei  collaboratori laici per aver accettato l’invito a lavorare con noi per gli aspetti riguardanti la Missione dell’Ordine. Affidiamoci a Dio e alla guida amorevole di Maria, Madre del Buon Consiglio, e al nostro Fondatore San Giovanni di Dio. Guardiamo al futuro con speranza e con fiducia».

 

Agenda di lavoro

 

Il primo incontro è avvenuto in Curia Generale il 2-3 aprile 2007, con lo scopo di conoscerci e di avere una panoramica generale dello “stato dell’arte” dell’Ordine in tutti i continenti in cui opera.

 

Il vissuto dei collaboratori è stato all’inizio di grande trepidazione per l’incarico avuto, senso di inadeguatezza per le responsabilità che ne derivano. Al termine della “due giorni” eravamo stremati per le molte informazioni ricevute, ma era pure presente un rinnovato vigore ed entusiasmo per sentirci parte di un Ordine che ha a cuore il bene dell’uomo ferito e sollecito a lenire ogni vulnerabilità umana.

 

Ci siamo trovati partner con i religiosi a livello fraterno e valoriale. La gratitudine ai Fatebenefratelli ed al Signore per questa preziosa opportunità di condivisione è stata sempre più grande. Aver visto da vicino le lettere di S. Giovanni di Dio è stato percepito come un sigillo che confermava la bontà e la necessità di questa corresponsabilità.

 

Prime proposte emerse, in risposta al quesito “Come unire l’Europa” riguardano:

 

  • L’avere un organigramma dei vari servizi dell’Ordine in Europa per poterci incontrare tra servizi analoghi e creare sinergia e condivisione dei percorsi (esempi asili notturni, comitati etici, servizi di pastorale).

  • Condividere sperimentazioni di gestione carismatica, non come potere ma come missione. In Spagna si sta implementando un sistema di valutazione che potrebbe essere utilizzato anche in altre realtà provinciali.

 

L’obiettivo di questo primo incontro era di gettare le basi della collaborazione attraverso informazioni generali. Nel secondo incontro, che si terrà sempre a Roma il 15-16 ottobre 2007, il consiglio generale religioso si aspetta dai laici contributi sulle conoscenze ed i problemi condivisi.




FACCIAMO UN PATTO? – Angelo Nocent

FACCIAMO UN PATTO?

Cari amici,

se da oggi l’umile frate di cuba è “Beato”, lo si deve anche a colui che gli ha fatto da guida: San Giovanni di Dio, di cui abbiamo celebrato ieri (28 Novembre) la memoria della traslazione delle reliquie. Alcune considerazioni per ossigenare i polmoni.

Introduzione

Questa è un’opportunità per mettere a fuoco sogni sognati un po’ da tutti ma che faticano a concretizzarsi perché non sono partecipati, messi in comune, condivisi. Le sfide del nostro tempo coinvolgono Chiesa e Mondo, cristiani e non , laici e consacrati, credenti e pensanti.

Qui vengono proposti degli spunti per una riflessione aperta ad ulteriori sviluppi d’indagine, al fine di progettare una grande casa da costruire su solida roccia e non sul terreno friabile di entusiasmi passeggeri.

Oggi qui, sul Web, è giorno di gioia. Lo è in modo particolare perché ci sei tu, ci siete voi, per la ricchezza di fede e di amore che il Signore ci ha messo nel cuore, per l’amore alla Chiesa che ci porta ad aderire al richiamo della Voce, proprio nel giorno della Traslazione delle Reliquie di San Giovanni di Dio (28 Novembre) nella Basilica a lui dedicata in Granada, meta di chi vuol tornare alle radici di un’avventura illuminata, a riscoprire il suo  carisma che alcuni di noi già lega e che altri potrebbe aggregare.

Che il Signore ci benedica da oggi in tutto il cammino di questo anno e di quello del tempo che vorrà destinarci, prima di chiamarci al Premio. Che lo Spirito del Signore Gesù porti a compimento la nostra vocazione di cristiani, laici o consacrati, chiamati tutti indistintamente alla pienezza della santità, a niente di meno di questo.

Dal cuore traboccante del laico Giovanni di Dio scaturisce l’ Ordine Religioso che mancava nella Chiesa: Gli Ospedalieri, la mano hospitalitas, accogliente, sanante, illuminante… del Vescovo nella  Chiesa locale.

È molto bello che la giornata della “proposta” di un patto coincida con la memoria di San Giovanni di Dio che ne fa la Liturgia della Ambrosiana e che mette in circolazione tra il Popolo di Dio una tra le pagine più suggestive e commoventi che del Santo di Granada ci siano pervenute:

“Se guardassimo alla misericordia di Dio, non cesseremo mai di fare il bene tutte le volte che se ne offre la possibilità. Infatti quando, per amor di Dio, passiamo ai poveri ciò che egli stesso ha dato a noi, ci promette il centuplo nella beatitudine eterna.

O felice guadagno, o beato acquisto! Chi non donerà a quest’ottimo mercante ciò che possiede, quando cura il nostro interesse e ci supplica a braccia aperte di convertirci a lui e di piangere i nostri peccati e di metterci al servizio della carità, prima verso di noi e poi verso il prossimo? Infatti come l’acqua estingue il fuoco, così la carità cancella il peccato (cfr. Sir 3, 29).

Vengono qui tanti poveri, che io molto spesso mi meraviglio in che modo possano esser mantenuti. Ma Gesù Cristo provvede a tutto e tutti sfama. Molti poveri vengono nella casa di Dio, perché la città di Granada é grande e freddissima, soprattutto ora che é inverno.

Abitano ora in questa casa oltre centodieci persone: malati, sani, poveri, pellegrini. Dato che questa é la casa generale, accoglie malati di ogni genere e condizione:

  • rattrappiti nelle membra,

  • storpi,

  • lebbrosi,

  • muti,

  • dementi,

  • paralitici,

  • tignosi, ù

  • stremati dalla vecchiaia,

  • molti fanciulli

  • e inoltre innumerevoli pellegrini e viandanti, che giungono qui e trovano fuoco, acqua, sale e recipienti in cui cuocere i cibi.

Non esistono stanziamenti pecuniari per tutti costoro, ma Cristo provvede. Perciò lavoro con denaro altrui e sono prigioniero per onore di Gesù Cristo. Sono così oppresso dai debiti, che spesso non oso uscire di casa a motivo dei creditori ai quali devo rispondere.

D’altra parte vi sono tanti poveri fratelli, mio prossimo, provati oltre ogni possibilità umana, sia nell’anima che nel corpo, che io sento grandissima amarezza di non poter soccorrere. Confido tuttavia in Cristo che conosce il mio cuore.

Perciò dico: maledetto l’uomo che confida negli uomini e non confida in Cristo. Volente o nolente, gli uomini ti lasceranno. Cristo invece é fedele e immutabile. Cristo veramente provvede a tutto. A lui rendiamo sempre grazie. Amen.” (Dalle lettere)

Quando cantiamo nel Salmo responsoriale : «Abbiamo contemplato, o Dio, le meraviglie del tuo amore», ci viene spontaneo di pensare ai santi che ne sono testimoni e protagonisti. Ricorrendo proprio quest’anno l’ottantesimo di Professione Religiosa di san Riccardo Pampuri, il medico laico che si è consacrato a Dio nella famiglia dei Fatebenefratelli il 24 Ottobre 1928 nell’Ospedale Sant’Orsola in Brescia, questa è una buona occasione per ricaricarci e gridare al Mondo una gioia incontenibile: Dio è ricco di amore così bello e grande che compie meraviglie e miracoli.

Quali sono queste meraviglie che Dio ha compiuto?

Una di esse è certamente San Giovanni di Dio. Ma non è su di lui che vorrei soffermarmi ora, quanto piuttosto sulla festa dell’Annunciazione del 25 Marzo perché Maria di Nazareth è il capolavoro di Dio al quale tutti gl’altri s’ispirano. Maria santissima è un capolavoro di Dio; è una persona umana con tutte le piccolezze, le debolezze e i limiti della condizione umana, eppure Dio in lei ha fatto un capolavoro di santità senza riserve e ombre.

Immacolata Concezione vuole dire questo: che non c’è mai stato un istante della vita di Maria, dal momento del concepimento in poi, dove la grazia di Dio non trionfasse, dove la santità di Dio non fosse stampata sulla sua umanità. L’umanità di Maria di Nàzaret è sigillata dalla forza e dalla santità dell’amore di Dio: Immacolata Concezione. Un capolavoro che la Chiesa ci invita a contemplare.

“Contemplare” vuole dire: guardare e capire, ma anche amare e gustare; è come qualche cosa da guardare con gioia, perché è così bello che ci allarga il cuore, ed è così ricco che riempie anche noi di coraggio e di forza.

Ma in che direzione? Che cosa significa per noi contemplare Maria? Lo si scopre confrontando le Scritture proposte sopra: Genesi (3, 9-15.20); Efesini (1, 3-6.11-12); Luca (1, 26-38).

Il luogo dell’uomo nel mondo

Nelle pagine bibliche che narrano del primo peccato, Dio chiama l’uomo “Adamo” e gli dice: «Dove sei? E Adamo risponde: Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gen 3, 9-10). È una descrizione che fa impressione: «Dove sei?… mi sono nascosto… ho avuto paura». Cioè l’uomo, Adamo, vive in questo luogo della paura, perché si sente estraneo a Dio; e proprio per questo si sente vulnerabile nel mondo. Quando dice: «sono nudo»; vuole dire: “Non ho difese, non ho protezione; ho bisogno di nascondermi, altrimenti il mondo che mi sta intorno mi opprime, mi schiaccia e mi impaurisce”. Questo è il luogo dell’uomo: vive in questo mondo, ma sapendo di essere debole e vulnerabile, quindi con la tentazione continua di nascondersi da Dio e dagli altri; ma in fondo anche di nascondersi a se stesso, di non conoscersi e di non accettarsi mai del tutto in quello che è, perché all’uomo non gli piace del tutto il mondo o la sua vita.

Il luogo dell’uomo in Cristo

Però c’è un secondo quadro che ci dà san Paolo nella Lettera agli Efesini, senza dimenticare che quando scrive queste cose, l’Apostolo è in galera, quindi in una condizione non certo gradevolissima perché, se la galera non è mai gradevole, non lo era certamente nell’antichità. Ebbene, quest’uomo in catene riesce a comporre un inno famoso che inizia: «Fratelli, benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo» (Ef 1, 3).

Questa è un’immagine molto diversa: non è quella dell’uomo impaurito che si nasconde. Qui è l’immagine dell’uomo che si sente circondato da una ricchezza di grazia che lo protegge da tutte le parti, e che vive in un luogo preciso che san Paolo esprime con una sua caratteristica espressione: “In Cristo”. “In Cristo” è un’espressione che Paolo usa tantissimo nelle sue Lettere, perché immagina (o fa immaginare) che Cristo sia una specie di spazio dove una persona ci va a vivere dentro; e quando ci vive dentro è ripieno di tutte le grazie di Dio; perché Cristo, lo spazio che è Gesù, è uno spazio di grazia e di perdono; diventa un ambiente nuovo.

C’è un mondo nel quale l’uomo vive impaurito con un atteggiamento di difesa e spesso nascondendosi. Ma poi c’è un altro spazio, che è ancora in questo mondo, ma che è in Cristo, dove l’uomo vive della pienezza delle benedizioni spirituali di Dio.

Noi tutti siamo chiamati ad essere come Maria “in Cristo”

Le feste dell’Annunciata, dell’Immacolata Concezione, dell’Assunzione…Ciò che noi celebriamo in Maria è tutto qui: evidenziare che Dio, dal primo istante del concepimento di Maria, ha messo Maria dentro allo spazio che si dice “in Cristo”. Maria è vissuta in questo mondo, nel luogo concreto di Nàzaret di Galilea, ma il vero luogo della sua vita, in cui si è mossa con tutti i suoi sentimenti e comportamenti, era il luogo di Gesù Cristo; l’amore di Dio che in Gesù Cristo è diventata carne, storia umana, spazio e tempo umano di salvezza.

Il discorso che fa Paolo è di sottolineare che questa meraviglia che Dio ha compiuto in Maria in un modo unico, l’ha compiuta non solo in Lei ma in ciascuno di noi come comunità cristiana. Perché dice: «In lui – in Cristo, sempre con questo spazio che è Gesù Cristo – Dio vi ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati davanti a lui nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà» (Ef 1, 4-6a).

Dunque: come Dio ha scelto Maria, l’ha amata, e dal primo istante del concepimento l’ha inserita nello spazio di salvezza che si chiama Gesù Cristo, così Dio ha pensato da sempre a voi, a noi, a me e ci ha dato una vocazione, un progetto di vita, che è la santità in Cristo; perciò anche noi dobbiamo entrare nello spazio di Gesù Cristo.

La misura della santità è la carità

In quello spazio anch’io, anche tu, noi, voi… dobbiamo diventare «santi e immacolati davanti a Dio». E come? Paolo ce lo ricorda con una sola piccola parola ma che è fondamentale: «nella carità». Perché la santità e la carità sono la stessa cosa. La misura della santità è la stessa misura della carità. La misura della santità non sono i miracoli che uno fa. Se c’è qualcuno tra noi che fa miracoli, non s’illuda, non è santo per questo. La misura della santità non sono le parole che uno dice, perché anche se dite delle belle parole non dovete illudervi di essere dei santi. (Quando mi capita di dire belle parole, ho sempre l’amaro in bocca perché mi vergogno, sapendo di non essere santo).

La misura della santità è la carità: quanto è grande l’amore che hai dentro al cuore, tanto è grande la tua santità davanti a Dio.

La vocazione alla santità laicale dei Globuli Rossi.

Formulare la proposta di adesione al “Progetto GR” collegandola al modello “Maria” credo sia la sola carta spendibile, credibile e vincente per tante ragioni:

  • Perché ci fa sempre bene guardare Maria con amore e con gioia, giacché in lei troviamo una base di speranza.

  • Perché Maria, L’Annunciata, L’Immacolata, vuol dire questo: che Dio, con del materiale povero com’è la natura umana, può fare dei santi, dei capolavori; quindi a guardando a lei troviamo il coraggio, osiamo sperare.

Ma questa speranza diventa anche un itinerario di santificazione. Io credo che se il “Progetto GR” vuol dire tante cose, sostanzialmente ne dice una: è un cammino di santificazione vissuto in un’esperienza laicale.

“Un cammino di santificazione” vuole dire che io come appartenenza GR sono chiamato sì a prestare servizi nelle istituzioni o nella Chiesa locale, a prendere iniziative pastorali, a organizzare…. Però questa non è la prima cosa e non è nemmeno quella fondamentale. Ce lo dobbiamo ripetutamente ricordare: ciò che è fondamentale nella vita non è l’ avere e nemmeno il fare, ma è l’essere.  Prioritaria nella GR Company è una sola cosa fondamentale: che io sia santo nella dimensione globale della mia vita laicale, che tu sia santo/a nella tua vita laicale…nel modo che ognuno è capace.

Ma che cosa vuole dire “santi laici” ?

Santo l’abbiamo già detto: è lo stesso che dire carità-amore. Laico vuole dire: che c’è una vita laicale, di laici, che deve essere trasformata in amore. Se lo chiediamo ad un prete, la santità è fatta di quello che è chiamato a fare: celebrazione, annuncio della parola, preghiera, studio… Costui, come prete, eve cercare di trasformare in amore queste cose che sono il suo ministero, deve vivere con amore il cammino del suo ministero che è quello della sua santificazione. Idem per i consacrati, frati e suore.

E noi laici abbiamo un contenuto di vita, che è quello della vita nel mondo, che è fatto di famiglia, di lavoro, di studio, di rapporti sociali… Dunque, è quel materiale che noi dobbiamo trasformare in amore, in santità e “in lode della gloria di Dio”, “a lode della sua gloria”.

In altre parole, la mia vita di laico deve diventare un inno alla bellezza della gloria di Dio, che fa meravigliare la gente allo stesso modo che rimaniamo a bocca aperta davanti a Maria.

Che, se Dio ha compiuto cose così belle in Lei che rimaniamo gioiosamente stupiti, la nostra vita, non dico che deve diventare come quella della Madonna perché non ci riusciremo, però deve riprendere l’itinerario mariano nel senso di assumere un itinerario di vita simile a quella di Maria.

Dunque, essere Globuli Rossi vuol dire seguire l’itinerario di Maria. Solo che noi lo facciamo con quel concreto materiale di cui è fatta la vostra vita: un insieme di tante povere cose. Ma attenzione al colpo di scena: l’Artista che è Dio, riesce a stupire nella misura in cui il fango che ha tra le mani si lascia plasmare dal Vasaio. Diversamente, anche Lui fa cilecca. Non è Lui che non sa fare i vasi; sono io che non glielo permetto. A tanto può giungere la mia arroganza.

Le dimensioni fondamentali nella vita di un laico

Qui non è possibile sviluppare ampiamente il tema. Ma almeno una cosa va sottolineata per intenderci: ci sono alcune dimensioni fondamentali nella vita di un laico che un laico deve imparare a trasformare in amore, e non è una cosa facile. Le dimensioni a cui faccio riferimento sono:

  • L’ECONOMIA, QUELLA DEI SOLDI. La vita di un laico inevitabilmente ha a che fare con i soldi. Evidentemente anche quella di un religioso, ma dai soldi deve essere fondamentalmente distaccato; non ha il problema di usarli. Ma un laico deve imparare ad usare i soldi rendendo gloria a Dio; che non è la cosa più facile di questo mondo ad usarli correttamente in modo che diventi carità-amore nei confronti della propria famiglia e della società. Il discorso diventerebbe lungo ma intendo questa dimensione.

  • LA SESSUALITA’. Scrivendo ai Corinzi san Paolo, proprio parlando della sessualità, arriva ad un certo punto a dire: «Glorificate Dio nel vostro corpo» (1 Cor 6, 20). Vuole dire: la dimensione di sessualità nella quale vivete, deve diventare essa stessa un luogo di glorificazione di Dio, deve manifestare la capacità di amore, la fedeltà e il dono di sé. La sessualità quando la viviamo in questa dimensione diventa “gloria per il Signore, gloria di Dio”.

  • lL POTERE. Perché poco o tanto un potere nella nostra vita l’abbiamo. Un medico esercita un certo potere su quel gruppo di persone che si rivolgono a lui. Un insegnante ha un certo potere, se pur piccolo, sulla sua classe, sulle persone con cui ha dei rapporti. Ciascuno di noi ha un piccolo ambito di potere che deve essere trasformato in carità-amore. E non è facile perché anche quando abbiamo un potere, se pur piccolo, noi a quel potere ci attacchiamo il cuore e ci sembra di essere chissà chi se riusciamo ad affermarci in quel piccolo ambito in cui comandiamo. Ebbene, si tratta di trasformare questa dimensione in servizio e in amore: «perché il Figlio dell’uomo, non è vento per essere servito, ma per servire» (Mt 20, 28). Il potere che il Figlio dell’uomo ha esercitato è stato quello di dare la vita, non quello di prenderla agli altri, ma di dare la sua vita agli altri.

IL patto di fraternità dei Gruppi di GR

Il cammino della santificazione laicale va in quella direzione. Poi il resto ce lo dobbiamo insegnare vicendevolmente, accomunando le esperienze. Ognuno deve poter portare la sua esperienza e far emergere il senso da dare alle affermazioni riportate sopra: per me vivere un cammino di santificazione laicale nell’economia dell’uso dei soldi, nella sessualità e nel potere vuole dire questo, s’incontrano queste difficoltà e bisogna percorrere queste strade.

Il senso della GR Company è proprio questo: aiutarci insieme, perché il cammino della santificazione nel mondo non è facile. “Essere insieme” vuole dire:  prendersi per mano e fare una specie di “patto di fraternità”. E il “patto” consiste nel portare insieme le gioie e le fatiche del cammino di santificazione, per non tirarsi mai indietro anche quando le cose pesano. Quindi il patto è questo: potere contare gli uni sugli altri, sulla fedeltà degli altri, e insieme percorrere questo cammino di santificazione. Patto difficile, ma possibile, perché nasce dalla grazia di Dio: «Benedetto sia Dio… che ci ha benedetti con ogni benedizione… e lui ci ha scelti… per essere santi… al suo cospetto nella carità».

“Ci ha benedetti”. Allora è la benedizione, è la grazia di Dio che rende possibile il cammino della santificazione.

Non devo pensare mai che la santificazione appartiene a qualcun altro, che io sono così debole, fragile, povero e malfatto che la santità non è per me. Questo sarebbe un piccolo disastro.

  • La santificazione è per ogni cristiano; il cammino della vostra vita è niente di meno di questo.

  • La grazia di Dio è promessa e donata proprio per questo.

  • L’importante è non rinunciare mai e ricominciar ogni volta da capo nel tentativo di plasmare la vita e farla diventare un piccolo capolavoro, di seconda o terza categoria;

  • perché il capolavoro di prima categoria è Maria santissima;

  • noi bisogna che ci accontentiamo di un po’ di meno, ma questo non è importante.

  • L’importante è che anche con la mia vita il nome di Dio possa essere glorificato e santificato.

Poi ci sarebbero chissà quante cose da dire sui GR…   ma spero che capitino anche delle altre occasioni.

Il messaggio che mi interessava far circolare era quello del “PATTO”. Poi il “Progetto GR” viene da sé, naturalmente, spontaneamente, logicamente…

  • Se noi facciamo un patto insieme, di camminare come GR in questo itinerario di vocazione alla santità laicale,

  • di aiutarci gli uni e gli altri a fare questo cammino,

  • di portare gli uni i pesi degli altri,

  • allora la vita diventi bella, piena di senso,

  • allora la Chiesa si fa più luminosa, radiosa come una Sposa, agl’occhi del mondo.

Io ringrazio il Signore per  chi già c’è, per coloro che vogliono starci, per il cammino di chi vuole iniziarlo. Il segno forte, audace si chiama Eucaristia. Da lì si inizia e lì si deve ritornare ogni volta. In attesa della grande Celebrazione dell’ottavo giorno.

Angelo Nocent

Nuovo Testamento: rivelazione di Gesù – Di Gianfranco Ravasi

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Nuovo Testamento: rivelazione di Gesù

di Gianfranco Ravasi

Il Nuovo Testamento è costituito da 27 scritti di diversa estensione, composti con poco più di 140.000 parole greche (il più lungo dei vangeli, quello di Luca, contiene 19.404 parole). Se volessimo ordinare questi libri in settori definiti da elementi comuni, potremmo rimandare sostanzialmente a tre aree.

Ci sono innanzitutto i quattro vangeli – che assommano in sé 64.327 parole greche che dalla tradizione sono riferiti a quattro autori con caratteristiche proprie: Matteo, Marco, Luca, Giovanni. Prescindendo da qualche recente tentativo di anticipare la loro data di composizione attorno agli anni 40-50, la collocazione cronologica più certa è quella che va dalla fine degli anni 60 allo scorcio del I secolo. Il più antico è quasi certamente il vangelo di Marco, seguito da Matteo, Luca e Giovanni.

Il «vangelo» costituisce un vero e proprio genere letterario, cioè un modello di composizione che non ha paralleli prima del cristianesimo, e nel valore del termine stesso – in greco euanghelion, «buona novella», «annunzio di bene» – contiene la caratteristica fondamentale che lo definisce. Infatti, i racconti evangelici si preoccupano di riferire gli eventi storici e le parole di Gesù di Nazaret, l’indiscusso protagonista di queste pagine. Ma non lo fanno come se si trattasse di un manuale di storia né tanto meno se fosse un verbale di fatti e di detti o un documento d’archivio. Gli evangelisti illuminano quei dati, che tra l’altro sono stati da loro selezionati, alla luce della fede e, più precisamente, dell’esperienza vissuta dalla Chiesa delle origini, quella della Pasqua di Cristo.

Perciò, se da un lato è possibile compiere una ricerca sul Gesù storico presente nei vangeli, d’altro lato la testimonianza evangelica si propone la finalità di far comprendere ai lettori il mistero di Cristo, Figlio di Dio, e di condurre il lettore all’adesione nella fede: «[Queste cose sono state scritte] perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Giovanni 20,31).

Storia e fede, eventi e interpretazione, «carne» e «parola» (per usare il linguaggio del prologo di Giovanni) si intrecciano in modo stretto, proprio come accade in Cristo che è uomo e Dio. Si può, allora, dire che «il cristianesimo è nato due volte» (Lucien Cerfaux): la prima nascita avviene con la predicazione, l’azione e la storia di Gesù; la seconda con la sua gloriosa risurrezione che diventa il cuore e la chiave di interpretazione dell’intero Nuovo Testamento.

Ogni evangelista, che respira la fede della Chiesa e che si rivolge alla Chiesa (anzi, a una precisa comunità ecclesiale), rivela un suo personale approccio alla figura di Cristo. La lettura dei quattro vangeli lo rivelerà in modo netto e con tutta una serie di puntualizzazioni: ogni testo, infatti, ha una sua struttura, cioè un piano redazionale sul quale l’autore ordina secondo il suo progetto, e una sua visione teologica, cioè un modo specifico per interpretare il volto e l’opera di Gesù.

Così, Matteo sembra privilegiare le parole di Cristo, distribuendo nella sua opera cinque solenni discorsi; ma al tempo stesso rivela un’attenzione particolare a raccordare la figura e l’insegnamento di Gesù all’Antico Testamento. È, questa, una consapevolezza della sua comunità, costituita da cristiani provenienti dall’ebraismo, ma è anche la coscienza di tutta la Chiesa, come testimonia l’apostolo Paolo: «Tutto quanto è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza» (Romani 15,4).

Marco, il primo degli evangelisti in ordine cronologico, si preoccupa invece di avviare il suo lettore su un itinerario che procede dall’oscurità verso la piena rivelazione. Gesù appare innanzitutto come uomo che, però, compie atti sorprendenti di liberazione dal male nei confronti di malati fisici e spirituali. A metà strada è riconosciuto da Pietro come «Cristo», cioè Messia. Una lunga tappa che conduce a Gerusalemme mostra la qualità strana di questo Messia: egli non sarà un trionfatore ma uno sconfitto. Ma è proprio nel momento della sua morte in croce che un centurione romano scopre il segreto ultimo di Gesù, che verrà poi suggellato dalla risurrezione: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (15,39).

Un lungo viaggio è anche al centro del vangelo di Luca. Questa volta, però, è un vero e proprio percorso che si distende nello spazio che conduce a Gerusalemme (capitoli 9-19). Alle spalle ci sono le origini di Cristo e la sua prima predicazione nella regione settentrionale della Galilea; davanti vi sono la morte e la gloria che hanno come meta ultima l’ascensione al cielo, cioè il ritorno di Gesù nell’orizzonte divino, dopo essere stato una presenza viva e salvatrice nella storia umana. Nel viaggio verso Gerusalemme, Luca colloca quei temi che più gli sono cari e che ai suoi occhi meglio raffigurano il volto di Cristo: l’amore, la gioia, la povertà, il distacco, la preghiera e la storia trasfigurata dal passaggio del Signore.

Verso la fine del I secolo, tenendo conto di una lunga predicazione della Chiesa e degli altri vangeli, fiorisce l’ultimo scritto, il più alto e originale, quello di Giovanni, aperto da uno stupendo inno che esalta Cristo come Logos, cioè come Parola, Verbo divino, entrato però nella «carne» dell’umanità. L’evangelista modella il linguaggio di Gesù in modo solenne; imposta la sua vicenda terrena immaginando una specie di processo nel quale Cristo è condannato eppure è vincitore; seleziona sette miracoli che presenta come «segni», cioè come espressione di una realtà superiore a cui il Figlio di Dio ci vuole condurre; presenta la fine della vita terrena di Gesù come l’»Ora» per eccellenza della storia della salvezza, e la sua Pasqua come una «esaltazione» nella gloria per attrarre l’intera umanità a Dio.

Profili diversi, quindi, dell’unico Gesù Cristo, proprio perché ciò che gli evangelisti – e prima di loro i predicatori cristiani delle origini della Chiesa – vogliono rivelare non è solo la vicenda storica del Nazareno, ma l’opera di salvezza che egli ha compiuto, deponendo un seme di eternità e di vita divina nell’umanità. Gli atti di Gesù sono spesso miracoli perché contengono in sé una forza trascendente; le sue parabole sono racconti affascinanti, ma rimandano al Regno di Dio; la sua morte approda a un orizzonte trascendente di luce e di vita, nella risurrezione e nella glorificazione, capace di svelare la divinità di Gesù, ma anche di fecondare e trasformare il dolore e la morte dell’umanità.

Da questa radice fondamentale dell’annunzio di «Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Marco 1,1), che si cristallizza nelle pagine dei vangeli, si dirama la riflessione di Paolo e della Chiesa. Giungiamo, così, alla seconda area del Nuovo Testamento, quella delle Lettere. Essa è occupata da due generi particolari di scritti che rivelano un aspetto epistolare: si hanno, infatti, indirizzo e saluti iniziali, dichiarazioni rivolte a destinatari e raccomandazioni e saluti vari in finale. Dapprima incontriamo il complesso delle Lettere di Paolo, ordinate secondo una sequenza tradizionale che, però, non corrisponde a quella cronologica. Si tratta di 13 scritti contrassegnati in modo esplicito dal nome dell’Apostolo e di un quattordicesimo che è a sé stante, la Lettera agli Ebrei.

Questa è stata attribuita a Paolo fin dal II secolo, ma in modo esitante, e ora è considerata nettamente distinta dal resto dell’epistolario paolino.
Gli studiosi prevalentemente riconducono a Paolo in modo diretto sette lettere, composte tra gli anni 50-60: 1Tessalonicesi, 1 e 2Corinzi, Calati, Filippesi, Romani, Filemone (questo è il probabile ordine cronologico). Le altre sarebbero da riferire all’orizzonte paolino e forse riflettono la mano di discepoli, che si ispirano al loro maestro sviluppandone il pensiero (2Tessaionicesi, Colossesi, Efesini, 1 e 2Timoteo, Tito; le ultime tre vengono chiamate di solito «Lettere pastorali»). Questa divisione non significa che le seconde non siano ispirate e canoniche: tutte portano in sé il sigillo della Rivelazione divina, che si comunica attraverso uomini differenti, ma tutti segnati dallo Spirito di Dio. La Lettera agli Ebrei è, in realtà, una splendida e complessa omelia della Chiesa delle origini, centrata sulla figura di Cristo sacerdote e sul significato del suo sacerdozio.

Difficile è riassumere in poche battute il sistema di pensiero di Paolo, un uomo che ebbe la vita attraversata dall’irruzione di Cristo (la celebre esperienza sulla via di Damasco narrata da Atti 9). Egli è profondamente ancorato alla matrice ebraica: «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla legge» (Filippesi 3,5). Tuttavia, la sua nascita a Tarso in Cilicia (attuale Turchia meridionale), città romana, e la sua formazione lo rendono aperto anche all’orizzonte greco-romano. Dopo la sua conversione, la sua grande sfida sarà quella di trascrivere e di comunicare il messaggio cristiano per quel nuovo orizzonte sul quale la nuova fede si stava allacciando.

In quest’opera egli ordina ed elabora il messaggio di Cristo in un nuovo progetto che ne conservi l’anima profonda, ma anche ne riveli le potenzialità e l’attualità. Usando un vocabolario greco molto personale, cioè scegliendo termini particolari e imprimendo ad essi nuovi significati, Paolo sviluppa la visione cristiana dell’uomo e della storia, tesa tra l’epifania della grazia divina offerta in Cristo e il peccato dell’umanità.

L’abbraccio di salvezza tra Dio e la creatura avviene attraverso la fede che trasfigura l’uomo conducendolo a partecipare alla stessa vita divina. I credenti divengono figli adottivi di Dio nel Figlio, Gesù Cristo. Ed è proprio la figura di Cristo a dominare gli scritti paolini; il nome ricorre, infatti, più di quattrocento volte. L’Apostolo confessa che per lui «il vivere è Cristo» (Filippesi 1,21). D’altronde tutti gli scritti neotestamentari potrebbero essere posti all’insegna di una frase della Lettera agli Ebrei, che, pur non essendo paolina, ne riflette alcuni elementi: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (13,8).

Il secondo tipo di lettere raccoglie, invece, una serie di sette scritti attribuiti a vari apostoli – Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda e oscillanti tra il testo teologico molto ampio e profondo (pensiamo, ad esempio, alla 1Pietro e alla 1Giovanni), l’omelia (Giacomo, ad esempio) e il biglietto breve ed essenziale (2 e 3Giovanni). La tradizione le ha chiamate «Lettere cattoliche», cioè «universali», considerandole un messaggio destinato a tutta la cristianità del I secolo, anche se in realtà esse sembrano riflettere l’ambito ecclesiale dell’Asia Minore. La celebrazione del Dio amore ha reso famosa soprattutto la 1Giovanni, ma non mancano spunti molto interessanti anche nelle Lettere di Pietro e di Giacomo.

Giungiamo, così, al terzo e ultimo settore degli scritti neotestamentari. Esso comprende due opere profondamente differenti tra loro e originali nella loro qualità. La prima è il libro degli Atti degli Apostoli, un grande affresco della vita missionaria della Chiesa delle origini tratteggiato dall’evangelista Luca. Da Gerusalemme, il vangelo, predicato da Pietro, dagli altri testimoni e soprattutto da Paolo, raggiunge Roma, la capitale dell’impero, attraversando l’intera area del Mediterraneo. L’attenzione è riservata in particolare a Paolo e ai suoi viaggi missionari. Ma sono la parola di Cristo e lo Spirito Santo l’anima profonda che sostiene la storia della Chiesa e il suo slancio missionario.

A sé stante è anche l’Apocalisse attribuita a Giovanni, l’ultimo libro, che suggella non solo il Nuovo Testamento ma anche tutta la Bibbia. Anch’essa è una descrizione della Chiesa – quella dell’Asia Minore è al centro dei primi capitoli -, non solo nel suo itinerario travagliato nelle vicende storiche ma anche nel suo destino glorioso, raffigurato dalla Gerusalemme celeste, la città della speranza e dell’incontro pieno con Cristo, invocato con passione nell’ultima pagina («Vieni, Signore Gesù!»).

L’opera, costellata di simboli gloriosi e terribili, affidata al linguaggio «apocalittico» che era presente già nell’Antico Testamento (Ezechiele e Daniele), si rivela perciò come un grandioso annunzio di fiducia rivolto alla Chiesa in crisi al suo interno e perseguitata all’esterno e come una vigorosa interpretazione della storia. Essa è apparentemente dominata dalle forze mostruose del male, ma la meta che l’attende è luminosa e segnata dalla vita e dal bene.

Abbiamo, così, tracciato la mappa essenziale della Scrittura sacra cristiana: essa, però, non si esaurisce in questi 27 scritti ma si unisce in un ideale abbraccio anche ai 46 libri dell’Antico Testamento e tutti insieme i 73 scritti compongono la Bibbia, il grande libro della Parola di Dio.

I due Testamenti, il Primo o Antico e il Nuovo, costituiscono non solo la Rivelazione del mistero di Dio ma anche la «lampada per i passi» dell’uomo nel cammino della storia (Salmo 119,105). Infatti, «tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Timoteo 3,16).

Cristo non è venuto per «abolire la legge o i profeti, ma per dare compimento» (Matteo 5,17). È per questo che egli costituisce la chiave d’interpretazione delle Scritture nel loro progetto unitario di salvezza, iniziato con Israele e condotto a sviluppo e a pienezza nel popolo di Dio, a cui tutta l’umanità è invitata a iscriversi e ad aderire attraverso la fede e la giustizia. Cristo, connettendosi ai profeti, continua a interpellare ogni uomo perché accolga e partecipi al Regno di Dio che egli annunzia ed edifica nella storia. La lettura del Nuovo Testamento non è, allora, soltanto la conoscenza della figura di Gesù e della sua realtà profonda e misteriosa né delle testimonianze che su di lui ci hanno lasciato coloro che lo videro e ascoltarono né delle vicende iniziali della cristianità.

Seguire accuratamente e penetrare le pagine neotestamentarie vuol dire anche essere provocati a una risposta personale, a un incontro con la figura di Cristo che ci ripete la domanda rivolta ai discepoli di allora: «Voi, chi dite che io sia?» (Matteo 16,15).

La nostra risposta è possibile dopo averlo seguito nei percorsi di fede che queste pagine ci delineano, invocando la sua vicinanza, ma anche pregandolo di mettersi lui per primo a cercarci, come diceva il filosofo Soeren Kierkegaard: «Gesù, vieni in cerca di me sui sentieri dei miei traviamenti ove io mi nascondo a te e agli uomini». Paolo, infatti, aveva scritto ai Romani: «Isaia arriva a dire: Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non si rivolgevano a me» (10,20).

Gianfranco Ravasi

CHIAVE CONCETTUALE a cura di C.L. Rossetti

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CHIAVE CONCETTUALE


Carità:

É l’amore in senso cristiano (agape-caritas) che costituisce l’essenza stessa del Dio rivelato da Gesù Cristo (cf. 1 Gv 4, 8). Essa  consiste nel donare la propria vita (Gv 15,13). La forma perfetta della carità è il dono di sé di Cristo sulla Croce (Gal 2, 20). La Croce è la “cifra” e il simbolo dell’amore: in essa Gesù compie il duplice comandamento dell’amore di Dio e del → prossimo, ripreso dalla Legge antica (Torah) (cf. Mc 12, 28ss; Dt 6, 5; Lv 19,17). Sulla Croce infatti Gesù ama totalmente Dio Padre, affidandosi nelle sue mani (Lc 23,44) e il prossimo, → perdonando i suoi nemici (Lc 23, 36). L’amore vero o carità consiste nell’amare con → gratuità, anche chi non lo merita, il peccatore, il malvagio, il traditore, il nemico (cf. Lc 6, 32; Rm 5,11). Questo amore divino, unico e trascendente non è “utopico” per gli esseri umani. Esso diventa realtà quando è riversato nel cuore degli uomini mediante la potenza dello Spirito Santo, il Dono del Signore risorto (cf. At 2; Rm 5, 5), che rende capaci di conformarsi all’amore di Cristo. Tale è l’esperienza dei santi e dei martiri (cf. At 7, 59-60). La carità è pertanto una virtù teologale, cioè soprannaturale e pneumatologica. San Paolo la considera il più grande dei doni dello Spirito Santo e la descrive così: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine” (cf. 1 Cor 13, 4-8). Essa può essere ritenuta opera della → fede  (cf. Gal 5, 6). Avere l’amore è segno di una vita nuova che vince la morte: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” (1 Gv 3, 14).

Tutta la tradizione cristiana l’ha venerata come “regina delle virtù”. Essa consiste per S. Agostino nell’amore delle cose che devono essere amate (dilectio rerum amandarum) e dona di anteporre le cose comuni a quelle proprie (caritas communia propriis non propria communibus anteponit). La carità è “ordinata”: essa fa amare Dio per se stesso; ispira un retto amore di sé (ricordando la propria dignità filiale); stimola ad amare il prossimo in Dio e il nemico a causa di Dio (caritas est amicum diligere in Deo et inimicum diligere propter Deum, S. Gregorio Magno). La carità ama secondo la misura smisurata di Dio (modo sine modo, S. Bernardo). Per san Tommaso soltanto la carità merita veramente il nome di grazia perché è l’unica che renda “graditi a Dio” (nomen gratiae meretur ex hoc quod gratum Deo facit). Essa ha la facoltà di trasformare l’amante nell’amato perché suscita una sorta di “estasi”, un uscire da sé per aderire all’amato (caritatis proprium est transformare amantem in amatum, quia ipsa est quae extasim facit).

La carità è il vincolo di comunione della → Chiesa, e trova nell’Eucaristia il suo sacramento. Mediante la carità lo Spirito riunisce i fedeli in un solo corpo: lo Spirito unifica il corpo con la sua presenza, con la sua forza e con la connessione interna delle membra; produce la carità tra i fedeli e li sprona a viverla. Cosicché se un membro soffre, tutti soffrono insieme con lui; e se un membro viene onorato, ne gioiscono insieme anche gli altri (cf. 1 Cor 12, 26; LG 7, 3). La carità non può essere né confusa né tanto meno sostituita con la nozione non peculiarmente cristiana di → solidarietà. Questa consta dell’ordine umano e sociale della fraternità universale. La carità invece è la relazione di comunione propria della → fraternità cristiana. Essa ha una propulsione universale (fino ad abbracciare i nemici), ma è specialmente arricchita dalla reciprocità nella comunità ecclesiale: “questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri” (1 Gv 3, 11-12); “Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede”, (Gal 6,10). Insieme alla → evangelizzazione e all’intercessione (Liturgia), la testimonianza della carità rappresenta la precipua forma cristiana di svolgere la missione che Cristo le ha affidato.

Chiesa:

É la comunità, la comunione (koinonia) nel contempo spirituale e visibile di coloro che accolgono con fede l’evangelizzazione; condividono la medesima speranza nel Regno e partecipano della stessa carità. Si entra a far parte della Chiesa mediante il Battesimo che suggella la conversione. Principio della comunione intima con Dio - conosciuto e amato come Padre – è lo Spirito Santo: Spirito filiale di Gesù Cristo. Principio visibile di unità dei fedeli di una singola Chiesa particolare è il Vescovo; sul piano universale della comunione di tutti i fedeli, il fondamento di unità è invece il romano Pontefice. Questi è successore di Pietro e capo della comunità cristiana di Roma, che “presiede nella carità” (S. Ignazio di Antiochia). Il principio sacramentale di unità della Chiesa è l’Eucaristia: celebrazione memoriale del mistero pasquale, in cui i battezzati, uniti ai loro legittimi Pastori si uniscono con Cristo e tra di loro mediante i segni del pane e del vino consacrati. Il Credo professa la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Lo Spirito di Amore, donato da Cristo alla sua Chiesa, la rende immancabilmente una (cf. UR 4, 3) e santa (cf. LG 39, 1). Così, lo Spirito di Verità la rende cattolica e apostolica, mantenendola fedele alla tradizione (Parádosis) degli apostoli e alla loro missione di trasmettere a tutti gli uomini e in tutti i tempi tutta la pienezza (Plêrôma) di verità e di santità che è in Gesù Cristo. Questa prerogativa di indefettibilità è concessa alla concreta Chiesa guidata dal Papa e dai Vescovi in comunione con lui, in cui sussiste l’unica Chiesa di Cristo (cf. LG 8, 2). Ciò nonostante essa deve costantemente purificarsi e convertirsi per far risplendere sempre meglio la gloria del suo Signore, per recuperare la piena unità con i fratelli separati e per essere più credibile nella sua missione ad gentes (cf. AG 6;  EN 77; RM 50; UUS 23; 98.).

Dottrina sociale:

É l’insieme del Magistero ecclesiale circa la natura e l’ordinamento morale della società. Anche se affonda le radici nell’insegnamento sociale della sacra Scrittura e dei Padri e Dottori della Chiesa, essa nasce come tale, con l’Enciclica Rerum novarum (1891) di Papa Leone XIII. Il testo leonino diede luogo ad un notevole sviluppo con Pio XI (Quadragesimo anno), Giovanni XXIII (Pacem in terris); Paolo VI (Populorum progressio; Octogesima adveniens) e soprattutto Giovanni Paolo II (Laborem exercens, Sollicitudo rei socialis; Centesimus annus). Dovizia d’insegnamento sociale si trova anche nei discorsi e radiomessaggi di Pio XII, nella costituzione conciliare Gaudium et spes, negli interventi dei Papi Paolo VI e Giovanni Paolo II all’ONU e nei documenti della CDF (specie Libertatis conscientiae e Libertatis nuntius). Punti cardine della Dottrina sociale sono: la legittima proprietà personale nel contesto della destinazione universale dei beni della terra; il primato del bene comune (“cioè l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente”, GS 26); la fraternità universale e l’unità della famiglia umana come fondamento della promozione della pace e dell’amicizia fra i popoli, del dialogo e della solidarietà; la giustizia sociale; il rispetto della dignità umana sancita nei diritti inalienabili della persona; la sussidiarietà; la giusta autonomia nell’interdipendenza tra persone, nazioni e stati. La visione cristiana rifiuta quindi ovviamente ogni forma di totalitarismo, di collettivismo, di nazionalismo, di capitalismo selvaggio, ma anche l’idolatria della democrazia relativistica, che antepone al valore della coscienza il voto della maggioranza: “se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia” (CA 46 = VS 101).

Evangelizzazione:

É il compito primario della Chiesa, che risale al mandato del Signore (Mt 28,19; Mc 16,15ss) e alla prassi degli apostoli (cf. At 2-3; 1 Cor 9, 16…). È la comunicazione dell’annuncio, della buona notizia della vittoria di Cristo sul → peccato e sulla morte (kerygma o euanghelion). Il concilio Vaticano II (LG 17; AG); Paolo VI (Evangelii nuntiandi); Giovanni Paolo II (Redemptoris missio) hanno ribadito il ruolo prioritario dell’evangelizzazione nell’agire della Chiesa. Tramite essa la Chiesa dà la possibilità di aderire personalmente e storicamente al Mistero della Salvezza del genere umano, che Gesù Cristo ha compiuto una volta per sempre nella sua Pasqua. Dall’annuncio scaturisce infatti la → fede nello Spirito, la quale porta ad una relazione viva con Cristo, e tramite lui con il Padre (cf. Rm 10,16ss).

Fede:

É la risposta della persona umana alla rivelazione divina comunicata tramite la evangelizzazione. Essa consiste nell’accettare  Gesù Cristo crocefisso e risorto come principio di salvezza, di redenzione e di giustificazione (cf. Rm e Gal, passim). Essa suscita l’invocazione del Nome di Gesù e tutto un vivere in Cristo, che comporta una soprannaturale conoscenza di Dio: “Dio solo conosce pienamente Dio” (cf. CCC 152). “Il Mistero della Santissima Trinità è il Mistero centrale della fede e della vita cristiana. Soltanto Dio può darcene la conoscenza rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo” (CCC 261). “”Nessuno può dire ‘Gesù è Signore’ se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12, 3). “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6). Questa conoscenza di fede è possibile solo nello Spirito Santo. Per essere in contatto con Cristo, bisogna dapprima essere stati toccati dallo Spirito Santo. E’ lui che ci precede e suscita in noi la fede. In forza del nostro Battesimo, primo sacramento della fede, la Vita, che ha la sua sorgente nel Padre e ci è offerta nel Figlio, ci viene comunicata intimamente e personalmente dallo Spirito Santo nella Chiesa” (CCC 683). La fede è anche inizio della vita eterna in noi (san Tommaso), in quanto infonde la conoscenza delle realtà invisibili (cf. Eb 11, 2) e soprattutto anticipa la comunione filiale escatologica con Dio nello Spirito di Cristo.

Fratellanza/Fraternità:

É il rapporto ontologico esistente tra coloro che hanno una comune generazione (fratellanza/adelphotês) che suscita una peculiare relazione di amicizia (fraternità/philadelphia). Esiste una duplice fraternità, umana e cristiana. Cogliere il nesso esistente tra queste due realtà, distinte ma non separate, è del tutto illuminante per comprendere la relazione tra ecclesiologia e → Dottrina sociale, tra “natura” e grazia, tra Chiesa e società civile. La dottrina cristiana afferma la fratellanza universale fra tutti gli uomini, a prescindere dalla loro religione, razza, nazione, lingua ecc. in virtù della comune origine in Dio Padre creatore: la “legge di solidarietà umana e di carità, senza escludere la ricca varietà delle persone, delle culture e dei popoli, ci assicura che tutti gli uomini sono veramente fratelli” (CCC 361). “Gli sforzi intesi a realizzare la fraternità universale non sono vani” (GS 38). Tutto quello che si fa su questa terra in vista della fraternità tra gli uomini apparirà nella gloria di Cristo alla sua venuta (GS 39). La fratellanza universale tra gli uomini costituisce l’oggetto della missione dei laici nel mondo (AA 14). GS 91 propugna che i fedeli e le Chiese particolari “rendano il mondo più conforme all’eminente dignità dell’uomo, aspirino a una fratellanza universale e superiore, e possano rispondere, sotto l’impulso dell’amore, con uno sforzo generoso e congiunto, agli appelli più pressanti della nostra epoca”. Solo una coscienza di questa fratellanza può garantire la vera → pace tra le nazioni (GS 78). Ma questa fratellanza, iscritta nella natura stessa dell’essere umano è per così dire nascosta, o meglio offuscata dal peccato (e dalle strutture di peccato) esistenti nel mondo. Gli esseri umani, misconoscendo la paternità divina, mancano anche di riconoscere il legame ontologico che li lega e le loro coscienze non percepiscono appieno l’affetto solidale che dovrebbe scaturirne. L’umanità, oggi come sempre, si trova al bivio tra la fraternità e l’odio (GS 9). Usando un’immagine evangelica (cf. Mt. 5, 14ss) diciamo che la fratellanza universale e creaturale tra gli uomini è quella “casa” che esiste, ma che giace nelle tenebre. Occorre una “luce” superiore – divina – perché la bellezza della casa appaia. Questa luce è appunto la Chiesa: la fraternitas christiana. Essa consta di un ordine differente e si radica non tanto nella grazia naturale della creazione quanto nel dono dello Spirito del Figlio (GS 32); essa nasce dal libero e inaudito disegno di Dio di entrare nella storia degli uomini (AG 3). Tale fraternità attinge alla paternità divina rivelata da Cristo e comunicata nel suo Spirito Santo (UR 7). Il Vangelo della fratellanza cristiana costituisce quindi rispetto alla fratellanza umana il ruolo di fermento (AG 8); essa è un faro, un segno di ciò che dovrebbe estendersi escatologicamente a tutti (GS 92; AG 7). “La Chiesa, in forza della missione che ha di illuminare tutto il mondo con il messaggio evangelico e di radunare in un solo Spirito tutti gli uomini di qualunque nazione, stirpe e civiltà, diventa segno di quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo” (GS 92).  La fratellanza cristiana si vive nella → carità; la fratellanza universale fonda invece la → solidarietà sociale.

Giustizia:

É la virtù morale e sociale per cui si compie ciò che è retto e si rende a ciascuno ciò che gli è dovuto. Nella Bibbia la giustizia (tsedaka-dikaiosyne) in quanto attributo di Jhwh è sempre fonte di → salvezza. Il Signore manifesta la sua giustizia liberando gli oppressi e proteggendo i deboli, facendosi “l’avvocato della vedova e dell’orfano”. Gli Israeliti sono chiamati a fare altrettanto, conformandosi alla Legge del Signore (Torah) e osservando i suoi comandamenti che rappresentano il Diritto (Mishpat). Questo consta di condivisione e ospitalità, di equità salariale e di rettitudine giudiziale, e persino di assenza di rancore e di benevolenza verso il nemico (cf. Dt 6, 25; Es 23, 4-5; Lv 19,13ss). I Profeti (specie Is) ribadiranno che solo alla scuola di Jhwh si impara la giustizia: “La mia anima anela a te di notte, al mattino il mio spirito ti cerca, perché quando pronunzi i tuoi giudizi sulla terra, giustizia imparano gli abitanti del mondo” (Is 26, 9). “Chi vuol gloriarsi si vanti di questo, di avere senno e di conoscere me, perché io sono il Signore che agisce con misericordia, con diritto e con giustizia sulla terra; di queste cose mi compiaccio” (Ger 9, 23). “Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1, 16-17). E soltanto le → opere di giustizia sono il vero culto gradito a Dio (cf. Is 58, 1-8; Ez 18, 5-9). Chi accoglie l’ammaestramento del Signore, è così descritto: “cammina nella giustizia e parla con lealtà, rigetta un guadagno frutto di angherie, scuote le mani per non accettare regali, si tura gli orecchi per non udire fatti di sangue e chiude gli occhi per non vedere il male: costui abiterà in alto, fortezze sulle rocce saranno il suo rifugio, gli sarà dato il pane, avrà l’acqua assicurata” (Is 33, 15-16). La promessa però del vero compimento della giustizia, foriera di pace, riguarda un futuro messianico: quando un “Re regnerà secondo giustizia” (Is 32, 1) e “in noi sarà infuso uno Spirito dall’alto; allora il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva. Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino. Effetto della giustizia sarà la pace, frutto del diritto una perenne sicurezza” (Is 32, 1.15-19). La missione del Messia consiste infatti precipuamente nel portare il Diritto e la Giustizia: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio Spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Proclamerà il diritto con fermezza; non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra… Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre” (Is 42, 1-7).

Gesù ha la consapevolezza di inaugurare la Giustizia messianica (cf. Lc 4, 16-21). Nel sermone della montagna, egli predica una giustizia nuova (Mt 5-7) che compie e radicalizza spiritualmente la Torah. Essa si attua nella conversione del cuore umano divenuto filiale nei riguardi di Dio e pertanto liberato dal timore, dalla concupiscenza, dall’ipocrisia e dal rancore è reso capace di affidamento verso Dio e di → gratuità e carità verso il → prossimo. Nel NT la giustizia di Dio si identifica con Cristo stesso, “il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione (1 Cor 1, 30). La misericordia di Cristo lo ha portato a condannare in se stesso il peccato per salvare i peccatori (cf. 2 Cor 5, 17ss). La rinnovata condizione del peccatore giustificato mediante la fede e il dono della grazia lo abilita a vivere a servizio della giustizia (Rm 6, 13).

Gratuità:

É il carattere di ciò che scaturisce in modo incondizionato e libero da un’iniziativa sovrabbondante. É gratuito l’amore di Dio (creazione, elezione), pienamente rivelato in Cristo (redenzione) e proprio anche dei cristiani (cf. → carità). Esiste pure una possibile perversione della gratuità.

- Nella tradizione biblica e cristiana il primo atto di gratuità da parte di Dio è la creazione stessa. La creatio ex nihilo è dovuta unicamente al desiderio di comunicare generosamente la propria bontà (cf. 2 Mac 7, 28; Rm 4, 17; Concilio Laterano IV, DS 800). L’atto creatore avviene con una decisione sovranamente libera (liberrimo consilio, secondo l’espressione del Concilio Vaticano I, DS 3025). La gratuità della creazione è  l’incontro tra la pienezza di bontà del Dio onnipotente e la radicale contingenza della creatura. Altra manifestazione di totale gratuità, secondo le Scritture, è tutta la storia d’Israele: la sua elezione, la sua redenzione dalla schiavitù, il dono della Torah e l’ingresso nella Terra Promessa. Il libro del Deuteronomio non si stanca di rimarcare la sproporzione tra il dono concesso da Jhwh e il beneficiario umano (cf. Dt 7, 7; 6,11; 9, 5). Nel NT risplende ancora più fortemente la gratuità dell’iniziativa divina. Gratuita è la rivelazione di Dio e dei suoi  misteri (cf. Mt 11, 26-27; Lc 11, 32), come anche la scelta degli apostoli prima (cf. Mc 3, 13; Gv 15, 16) e dopo la Pasqua di Gesù (cf. Rm 1, 1). È Dio che ci ha amato per primo (1 Gv 4, 19), donandoci suo Figlio (Rm 8, 32), il cui amore è consistito nel morire per noi, malvagi e peccatori (Rm 5, 6-8). Tale è il → Vangelo della gratuità della → salvezza e della giustificazione (cf. Rm 3, 24; 2 Tm 1, 9). A tutti i testimoni prescelti è affidato il tesoro del Vangelo, del quale nessuno potrà mai dirsi degno (cf. 2 Cor 4, 1.7). Anzi: le due “colonne” della storia della Chiesa, Pietro e Paolo, sono entrambi personalmente segnati dall’esperienza della gratuita misericordia di Cristo (cf. p.e. Gv 21, 15ss e 1 Cor 15, 10; UUS 91). La fedele e gratuita testimonianza diviene una naturale incombenza per gli apostoli (cf. Mt 10, 8; 1 Cor 9, 18; 11, 7).

- All’esperienza dell’amore gratuito di Dio (cf. Lc 6, 35) e preferenziale per i peccatori (cf. Lc 15; 19, 1-10) deve rispondere la gratitudine umana del sapersi beneficato di un dono del tutto immeritato (cf. la peccatrice perdonata, Lc 7, 36-50). Tale riconoscenza si spinge sino alla conversione e alla riparazione del male commesso (cf. Zaccheo, Lc 19, 8). Il peccato più grave è proprio la mancata percezione del dono gratuito ricevuto (cf. il servo spietato, Mt 18, 23-35). Al contrario, se già l’AT aveva intuito la bellezza della gratuità: (cf. Sir 7, 33-34) “La tua generosità (cháris) si estenda a ogni vivente e al morto non negare la tua grazia. Non evitare coloro che piangono e con gli afflitti mostrati afflitto”, tanto più il NT propugnerà l’amore senza condizioni: “Se amate quelli che vi amano, dov’è la vostra gratuità (cháris)? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, dov’è la vostra gratuità? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, dov’è la vostra gratuità? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla (mêden apelpízontes), e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6, 32-35). Nel concreto questo si manifesta nel → perdonare come si è stati perdonati e nel beneficare tutti indistintamente, senza alcuna accezione di persona (cf. Gc 2,1ss). Fa parte della gratuità evangelica anche lo “sprecare” le cose più preziose per il Signore, come ha fatto la donna di Betania (cf. Mc 14, 4) e come nella tradizione ininterrotta della Chiesa lo fanno le persone consacrate (cf. VC 104).

- L’amor di verità esige che si menzioni anche il lato oscuro della gratuità. Corruptio optimi pessima. Così come la gratuità evoca la libertà, l’iniziativa e la sovrabbondanza nel bene, così, la gratuità del male, l’odio, la crudeltà, il sadismo sono il riscontro tragico del perverso capovolgimento del più grande amore. Si trova in questo un segno inequivocabile dell’esistenza del demonio (“mi hanno odiato senza ragione [dôrêan]“, Gv 12, 25).

Lavoro:

Nella rivelazione divina il lavoro emerge sin dalle prime pagine (Gen 1-3) come una realtà duplice. Da un lato esso è il riflesso stesso dell’operare creativo divino (Gen 2, 2), dall’altro esso comporterà fatica e sudore (Gen 3, 17-20). La prima realtà è quella essenziale, la seconda è contingente e dovuta al peccato originale. Il lavoro in sé dovrebbe manifestare la padronanza dell’uomo sul cosmo, che egli è chiamato a ridurre in suo possesso (Gen 1, 28). Per molti studiosi questa dottrina è alla base dello sviluppo tecnico industriale dell’Occidente cristiano. D’altro canto il lavoro come tutte le realtà create, dopo il peccato può essere vissuto in modo idolatrico. Se l’uomo perde la nozione di vicarietà rispetto al suo Creatore, egli dimentica il fine autentico del lavoro (la coltivazione della terra), nonché la gioia del riposo (la santificazione del creato e il rispetto per ogni lavoratore). Sotto il regime del peccato il lavoro diventa facilmente alienante. Esso può mutarsi anche in mero strumento di profitto e pertanto di devastazione della natura e di sfruttamento dell’uomo (cf. i disastri ecologici dell’era tecnicistica e capitalistica). Nella Laborem exercens Giovanni Paolo II ricorda che “l’insegnamento della Chiesa ha sempre espresso la ferma e profonda convinzione che il lavoro umano non riguarda soltanto l’economia, ma coinvolge anche, e soprattutto, i valori personali” (n.15), ribadendone la necessaria integrazione nell’ambito del rispetto della dignità della persona, al di là di ogni economismo e materialismo. Pertanto anche i rapporti di lavoro devono sottostare ad una serie di diritti-doveri regolabili anche tramite trattative sindacali (nn. 16-23). Cristianamente il lavoro può anche essere integrato in una spiritualità della sequela di Gesù lavoratore e del suo mistero pasquale: “nel lavoro umano il cristiano ritrova una piccola parte della croce di Cristo e l’accetta nello stesso spirito di redenzione, nel quale il Cristo ha accettato per noi la sua croce” (LE 27). Avviene in tal modo una redenzione dell’operosità umana che si vede congiunta alla fecondità dell’Opera (cf. l’ergon nel IV Vangelo) di Colui che è Primizia di Risurrezione: “l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì stimolare piuttosto la sollecitudine a coltivare questa terra, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo” (GS 39; LE 27). “Infatti tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità (industriae nostrae), dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando Cristo rimetterà al Padre il Regno eterno e universale. Dio allora sarà tutto in tutti (1 Cor 15, 28)” (GS 39 = CCC 1050).

Libertà/Liberazione:

Nella Bibbia, il campo semantico coperto da questo vocabolo è estremamente ampio. Esso può designare la “libertà da” (l’autonomia o indipendenza socio-economica, a  differenza della schiavitù; cf. p.e. Es 21, 2); la “libertà di” (la capacità di scelta, il libero arbitrio che riguarda soprattutto una vita più o meno consona al volere divino; cf. p.e. Dt 30, 15-20; Sir 15, 14-20); o ancora la “libertà per” (come quella del giovane sposo esentato dal servizio militare per dedicarsi alla moglie e alla casa; cf. Dt 24, 5). La libertà è in ogni modo sempre teo-centrica: è Dio il fautore e il garante della libertà. In quanto Creatore egli pone l’uomo in stato di libertà e responsabilità (Gen 2, 16-17) e in quanto Redentore (Go’el), egli libera il suo popolo dall’oppressione della schiavitù egizia o dell’esilio babilonese (cf. p.e. Es 3, 8; Is 14, 3). L’atteggiamento liberatore di Jhwh verso il suo popolo doveva suscitare da parte degli Israeliti un comportamento liberante verso gli oppressi (cf. p.e. Ger 34, 17). I profeti annunziano però una liberazione più radicale, l’eliminazione della morte (cf. Is 25, 8) e la redenzione per i cuori affranti (Is 61, 1-3). Nel NT Gesù Cristo è il portatore della vera libertà (cf. Lc 4, 1-4). Lui stesso manifesta la sua suprema libertà mediante l’autorità (exousia) e la franchezza (parrhêsia) del suo insegnamento (cf. Mc 1, 22; 8, 32), ma soprattutto, secondo il IV Vangelo, nel libero consegnarsi alla morte per amore al Padre e agli uomini (cf. Gv 10, 18). Gesù dispone del potere unico di donare la propria vita. In questo sta la sua libertà e regalità (cf. Mt 26, 53; Gv 18, 36). Tale prerogativa cristologica affonda le sue radici nell’intimità filiale di Gesù con il Padre, nell’Amore nel quale egli rimane e del quale rende testimonianza (cf. Gv 15, 9-13). I fedeli potranno partecipare anch’essi della divina libertà di amare senza condizioni, nella totale gratuità (cf. Lc 6, 32ss), dopo essere stati amati e perdonati per primi (1 Gv 4, 10), liberati dal peccato e dalla paura della morte (cf. Eb 2, 14-15), colmati dello Spirito di libertà (cf. 2 Tm 1, 7).

La Chiesa con la sua → Dottrina sociale insegna il valore e la necessità della libertà socio-politica ed economica, ma il suo messaggio non può ridursi a questo tipo di liberazione. “La libertà, portata da Cristo nello Spirito Santo, ci ha restituito la capacità, di cui il peccato ci aveva privato, di amare Dio al di sopra di tutto e di rimanere in comunione con lui. Noi siamo liberati dall’amore disordinato di noi stessi, che è la fonte del disprezzo del prossimo e dei rapporti di dominio tra gli uomini” (CDF, Libertatis Conscientiae 53).

Opere:

L’AT propone molti testi in cui sono enumerate le opere buone che Dio richiede dagli uomini. Molte delle opere di giustizia sono contenute nei codici di santità della Torah (cr. Es 19-23; Lv 17ss e Dt 12ss).

Un buon riassunto si trova nello splendido “Testamento di Tobi” (cf. Tb 4, 5-19): si esorta a ricordarsi del Signore, a praticare l’elemosina, a custodire la castità; ad amare i fratelli nell’umiltà; a dare giusta e tempestiva retribuzione; a vivere nella sobrietà e nella generosità verso gli affamati e gli ignudi; nella pietà verso i defunti; nella costante ricerca di crescere in sapienza; nella continua benedizione e invocazione del Signore. È nel cuore di questo mirabile testo che compare la regola d’oro: “Non fare a nessuno ciò che non piace a te” (Tb 4, 15).

La Dottrina ecclesiale, ispirandosi quasi alla lettera a questo insegnamento, elaborerà la dottrina delle sette opere di misericordia, spirituale e corporale. Sono opere di misericordia spirituale: istruire gli ignoranti, consigliare i dubbiosi, consolare gli afflitti, confortare i desolati, perdonare i nemici, sopportare con pazienza i molesti. Sono opere di misericordia corporale: dare da mangiare a chi ha fame, ospitare i senza tetto, vestire chi non ha indumenti, visitare ammalati e prigionieri, seppellire i morti, fare l’elemosina ai poveri (cf. CCC 2447).

Il NT offre un duplice insegnamento circa le “opere”. Da una parte esse sono volute da Dio e da lui saranno ricompensate in quanto meritevoli; dall’altra le opere della legge non sono garanzia della salvezza che dipende unicamente dalla grazia divina rivelata in Gesù Cristo e accolta mediante la → fede. Esporremo questi due capisaldi dottrinali, tentando poi una sintesi che ricerchi la loro unità.

1. Le opere buone (kala erga) sono meritevoli e volute da Dio

Gesù insegna ai suoi discepoli a compiere le opere buone perché gli uomini possano in esse riconoscere la gloria di Dio Padre (cf. Mt 5, 16). Per questo esse devono essere fatte nella più pura → gratuità, senza cercare la gloria dagli uomini (Mt 6,1), ma soltanto per piacere al Padre che vede nel segreto e ricompenserà nell’aldilà. A tal riguardo non è esclusa da parte di Gesù la prospettiva della “ricompensa” (misthós). Così la tradizione interpreterà l’invito evangelico a farsi tesori in cielo con l’elemosina (cf. Mt 6, 19-20) e ad “arrichirsi davanti a Dio” (Lc 12, 21) come un’esortazione a compiere opere buone di generosità in vista del premio celeste (1 Tm 6, 18). Gesù stesso con la sua vita ha compiuto una serie di opere buone (Gv 10, 32). Egli elogia come “opera buona” l’unzione ricevuta nella casa di Betania (Mc 14, 6) e ammonisce che il giudizio verterà sulle opere di misericordia (cf. Mt 25, 32ss). La comunità primitiva considera le opere buone – quasi identificate con l’elemosina -, come segno di retta coscienza e di orientamento alla salvezza (cf. la discepola Tabita, At 9, 36; e il centurione Cornelio, At 10, 1.4). Lo stesso epistolario paolino raccomanda di perseguire “la pace e l’edificazione vicendevole” (Rm 14, 19). “Cerchiamo anche di stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone” (Eb 10, 24). Ricorda anche che “la fede opera per mezzo della carità” (Gal 5, 6). La pratica delle opere buone attesta l’affidabilità di una persona (1 Tm 5, 10) ed è stimolata dall’insegnamento della sacra Scrittura (2 Tm 3, 16).

Il NT insegna che il Signore giudicherà ciascuno secondo le sue opere (cf. p.e. Rm 2, 6; 1 Cor 3, 13; Ap 2, 2.19) e prospetta la ricompensa eterna come un “riposo” per le opere compiute (cf. Ap 14, 3; Eb 4, 10).

2. Le opere sono incapaci di dare la salvezza

Si conosce la contrapposizione posta da san Paolo tra Fede e Opere. Innumerevoli brani enunciano con forza la sproporzione tra la → gratuità del dono di Dio in Gesù Cristo e la capacità delle opere umane, intese come sforzo di compimento della giustizia della legge. Rm  e Gal  hanno questo leit-motiv: “L’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge” (Rm 3, 28). “Questo solo io vorrei sapere da voi: è per le opere della legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione?” (Gal 3, 2). “Egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo” (Tt 3, 5). Per Paolo la Legge insegna e prescrive le opere buone volute da Dio, senza però dare la capacità al cuore umano, ferito dal peccato, di compierle. Pertanto essa “condanna” l’uomo alla consapevolezza del proprio egoismo e funge così da pedagogo: svela la verità del bene morale oggettivo e del male soggettivo intrinseco del cuore umano (cf. Rm 7; Gal 3, 19ss). Solo la grazia dello Spirito concessa mediante la fede in Cristo morto e risorto permetterà di compiere le opere della fede.

3. Le opere sono frutto e segno della grazia

Una volta accettata la dottrina paolina della priorità della grazia per la → giustificazione, occorre mantenere che la Fede e la Grazia danno compimento alle Opere e alla Legge, senza abolirle e senza essere in opposizione ad esse (DS 1559). Cosicché le opere buone divengono come il frutto di un cuore rinnovato e inabitato dalla grazia filiale dello Spirito di Cristo. La conversione cambia il cuore umano e lo rende capace di portare quei frutti di bontà che Dio si aspetta (cf. Lc 6, 44-45) e che scaturiscono dallo Spirito (cf. Gal  5, 22).

Il compendio probabilmente più pregnante della realtà della “sinergia” tra grazia e opere si trova in questi versi: “Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere (ouk ex ergôn), perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera (poiêma) sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone (epi ergois agathois) che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo” (Ef 2, 8-10).

Qui risplende ad un tempo la totale gratuità della → salvezza come dono di grazia e l’imprescindibile fedeltà dovuta a questa stessa grazia, mediante una vita feconda in opere buone. In questa prospettiva si possono conciliare Paolo e Giacomo. Gc ammoniva: “che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? …La fede, se non ha le opere, è morta in se stessa” (Gc 2, 14.17). Gli esempi di Abramo e di Raab dimostrano che già nell’AT la fede rivolta al Signore comportava in modo intrinseco l’obbedienza pratica delle opere: “la fede cooperava (synergei) con le opere” (Gc 2, 22). Le opere dimostrano esternamente l’interiore verità della fede: “io con le mie opere ti mostrerò la mia fede” (Gc 2, 18). Sicché “l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede” (Gc 2, 24). Con terminologia agostiniana possiamo dire che la “prima giustificazione/prima risurrezione” (di cui parla Rm 3, 28: il passaggio dalla morte del peccato alla vita filiale) dipende esclusivamente dalla fede fiduciale nell’iniziativa divina (gratia praeveniens), mentre la “seconda giustificazione/risurrezione” (di cui parla Gc 2, 18: che concerne la salvezza e la retribuzione escatologica) va attribuita alla fede che opera mediante la carità (gratia cooperans).

Peccato:

“Nel suo significato essenziale, il peccato è negazione di ciò che Dio è – come creatore – in relazione all’uomo e di ciò che Dio vuole, sin dall’inizio e per sempre, per l’uomo. Creando l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza, Dio vuole per loro la pienezza del bene, ossia la felicità soprannaturale, che scaturisce dalla partecipazione alla sua stessa vita. Commettendo il peccato l’uomo respinge questo dono e contemporaneamente vuol diventare egli stesso “come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3, 5), cioè decidendo del bene e del male indipendentemente da Dio, suo creatore… Il peccato opera la rottura dell’unità originaria, di cui l’uomo godeva nello stato di giustizia originale: l’unione con Dio come fonte dell’unità all’interno del proprio io, nel reciproco rapporto dell’uomo e della donna (comunione di persone) e, infine, nei confronti del mondo esterno, della natura (MD 9). Comunemente il peccato designa la trasgressione libera e volontaria dell’ordine stabilito da Dio (cf. 1 Gv 3, 4). Il peccato “originale” conduce all’ignoranza esistenziale della paternità di Dio, che conduce all’egocentrismo e alla sottomissione alla concupiscenza. Ciò ha caratteristiche esistenziali come la vulnerabilità, la paura, la solitudine, l’egoismo. Con il peccato entrano nel mondo la sofferenza, la miseria, la morte. L’uomo nel peccato vive nella “carne”, lasciato a se stesso, e costretto a difendere strenuamente la fragile vita che possiede. Ha inizio così la sudditanza alla concupiscenza (cf. Ef 2, 1-3), che raggiunge per propagazione tutti (DS 1512-1513). Il peccato ha indebolito e ferito la natura umana, ma non l’ha distrutta. La dignità umana è preservata nel libero arbitrio che tende al bene e sussiste anche dopo il peccato, sebbene esso sia attenuatum et inclinatum (cf. Trento, DS 1521,1525,1555). Il peccato però come morte dell’anima, rende incapaci di compiere il bene e impone la schiavitù del diavolo (cf. CCC 407). Con i Padri (cf. p.e. Origene, Ireneo) possiamo dire che il peccato senza eliminare l’”Immagine” (Eikôn) di Dio nell’uomo, ha però snaturato la “Somiglianza” (Homoiôsis). Grazie alla conversione e alla giustificazione è data all’uomo la possibilità di “non peccare più” (cf. 1 Gv 3, 6.9), ovvero di non soggiacere più alla tirannia delle passioni egoistiche. Lo Spirito ristabilisce così la “somiglianza” dell’uomo con Dio.

Il Magistero recente ha sottolineato che accanto al peccato personale esistono anche delle strutture di peccato. Queste “si radicano nel peccato personale e, quindi, sono sempre collegate ad atti concreti delle persone, che le introducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere. E così esse si rafforzano, si diffondono e diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini. “Peccato” e “strutture di peccato” sono categorie che non sono spesso applicate alla situazione del mondo contemporaneo. Non si arriva, però, facilmente alla comprensione profonda della realtà quale si presenta ai nostri occhi, senza dare un nome alla radice dei mali che ci affliggono” (ReP 16 = SRS 36). Se il compito sacerdotale della Chiesa consiste nel rimettere i peccati, il suo mandato profetico la porta a denunciare le strutture di peccato e la sua missione sociale la sospinge a creare nuove strutture di bene comune (FM 25).

Perdonare/Perdono:

É l’atto con cui si condona il peccato mediante la carità, giungendo così alla riconciliazione. Il perdonare dovrebbe comportare questi elementi: la comprensione, l’espiazione e l’oblio. La comprensione riconosce che il peccatore è stato ingannato e traviato. Non può darsi vero perdono senza il previo giudizio di misericordia che distingue il peccatore dal peccato (cf. Gv 8, 10ss) e compatisce la situazione di peccaminosità come una “morte” esistenziale (cf. Lc 15, 24.32). Dio perdona, perché conosce il cuore dell’uomo e la sua fallibilità. Per questo egli aspetta con indomita speranza la conversione del peccatore (cf. Sap 11, 23): così fa il Padre del figliol prodigo (Lc 15, 20b). Gesù sulla croce prega: “Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34). L’espiazione consuma la malignità nell’amore e può giungere fino a trasformare la sofferenza subìta in intercessione per il peccatore. “Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti… Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori” (Is 53, 5-6.10-12). Gesù, vero servo di Jhwh e Agnello di Dio (cf. Gv 1, 29) con la sua intercessione d’amore ha espiato tutti i nostri peccati (cf. 1 Gv 2, 2). L’oblio indica che il cuore di chi ha perdonato deve essere totalmente libero da qualsiasi risentimento, astio o rancore. Il Signore si “getta dietro le spalle” i peccati degli uomini (Is 38, 17); egli strappa definitivamente il debito che pesa sui peccatori  (cf. Mt 18, 27; Col 2, 14). Umanamente questo significa avere una disposizione abituale a dimenticare i torti subiti (cf. Mt 18, 21-22). Il perdono non è frutto d’impegno o di sforzo umano, ma è opera della → carità, che “non tiene conto del male ricevuto” (1 Cor 13, 5). Esso è pertanto possibile soltanto per opera dello Spirito Santo che conforma all’amore misericordioso di Cristo (Ef  4, 32).

La → Chiesa ha ricevuto da Cristo lo stesso suo potere divino di perdonare i peccati (cf. Mc 2, 10). Essa lo fa prima di tutto mediante il Battesimo (cf. Mt 28, 20), ma specialmente con il sacramento della penitenza  (cf. Gv 20, 23). L’Eucaristia è anche la festosa celebrazione dei redenti e il memoriale della remissione dei peccati nel sangue di Cristo (cf. Mt 26, 28).

Persona:

Anche se il termine di persona non compare come tale nella Scrittura la nozione è di matrice giudeo-cristiana e racchiude l’essenziale dell’antropologia biblica: si tratta dell’uomo come essere indivisibilmente corporeo e spirituale (corpore et anima unus, GS 14); creato ad immagine di Dio, cioè dotato di intelligenza, libero arbitrio, e capacità di relazionarsi con il prossimo e con Dio. Il carattere di persona rende l’uomo unico e irripetibile e lo colma di dignità. Egli è infatti la sola “creatura che Dio abbia voluta per se stessa” (GS 24). Essendo Dio Amore personale e addirittura tri-personale, la natura teomorfa della persona fa si che essa non possa “realizzarsi pienamente se non attraverso un sincero dono di sé” (ib.). L’unicità della persona umana ha il suo fondamento nell’unicità del Figlio unigenito di Dio, vera e perfetta Immagine di Dio (cf. Col 1, 15).

Povertà/povero:

La povertà materiale è la condizione di privazione di beni, di successo, di sicurezza. L’AT non considera ovviamente tale situazione invidiabile, giacché la → prosperità è considerata segno visibile della benedizione divina (cf. Dt 15, 4). La Legge del Signore assicurava al povero (forestiero, orfano e vedova) il diritto ad essere giudicato con imparzialità (cf. Lv 19, 10), a beneficiare dei racimoli delle mietiture (Lv 23, 22), a godere di prestiti senza interessi (Lv 25, 36), a preservare un minimo vitale (Lv 24, 12); in una parola alla generosità degli Israeliti (Dt 15, 11). I profeti ribadiscono e accentuano le esigenze di giustizia e fraternità contenute nella Torah. Così il soccorrere i miseri equivale al vero digiuno (Is 58, 6-7) e la compassione al vero culto (Os 6, 6). Gesù è in tutto erede della tradizione veterotestamentaria. Egli enfatizza che dando al povero si presta a Dio (cf. Pr 19, 17; Mt 19, 21); che la povertà spirituale è la giusta attitudine per la salvezza (cf. gli anawîm, di Sof 2, 3; Mt 5, 3). Ma entrambe queste accentuazioni sono per così dire connotate cristologicamente, nel senso che Gesù stesso è il vero e perfetto Povero; colui che non ha dove reclinare il capo (cf. Lc 9, 58); che si è fatto povero per arricchirci con la sua umiltà filiale (cf. 2 Cor 8, 9), dando tutto se stesso in misericordia (Fil 2, 6ss). Dopo Cristo – per eccellenza il Povero del Signore (cf. Mt 11, 29)- è sua madre Maria che il NT presenta come l’emblema della povertà umana beneficata dalla ricchezza divina: il Magnificat esalta il chinarsi di Dio sulla “umiltà della sua serva” e canta la sua giustizia che capovolge le sorti: “ha ricolmato di beni gli affamati,  ha rimandato a mani vuote i ricchi” (Lc 1, 48.53).

La vittoria sull’indigenza. L’ideale descrizione della prima comunità cristiana recita così: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune… Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno” (At 4, 32-35). Si vuole documentare la possibilità di vincere la povertà materiale mediante la povertà spirituale e la comunione. La vera condivisione cristiana dipende da queste condizioni: la consapevolezza di non poter servire insieme Dio e Mammona, essendo l’attaccamento al denaro “radice  di tutti mali” (Mt 6, 24; 1 Tm 6, 10); un nuovo stile di vita segnato dalla sobrietà (nêpsis) che sa che tutto è dono di Dio (cf. 1 Cor 4, 7), e che “non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via. Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo” (1 Tm 6, 7-8); la coscienza di essere “membra gli uni degli altri” (Rm 12, 5), e di aver quindi un reciproco debito di carità e di condivisione fraterna (cf. Rm 13, 8); la certezza escatologica che quello che si fa al povero lo si fa a Cristo stesso (cf. Mt 25, 32ss).

Il voto di Povertà. La povertà è anche, insieme all’obbedienza e alla castità, uno dei tre voti professati da coloro che abbracciano la vita consacrata. Essa testimonia prima di tutto “Dio come vera ricchezza del cuore umano” e contesta profeticamente la società del consumo e dell’opulenza che stride atrocemente con la miseria di tante popolazioni. La vita dei religiosi tenderà quindi “all’amore preferenziale per i poveri e si manifesterà in modo speciale nella condivisione delle condizioni di vita dei più diseredati” (VC 90).

Progresso:

Si tratta dell’evolversi e accrescersi delle conoscenze, delle tecniche e delle capacità dell’uomo. Criterio del vero progresso è lo → sviluppo integrale della → persona. Il progresso della scienza e della tecnica che non tenesse conto del primato della persona umana e della sua dignità contraddirebbe il vero sviluppo: “La ricerca scientifica di base come la ricerca applicata costituiscono una espressione significativa della signoria dell’uomo sulla creazione. La scienza e la tecnica sono preziose risorse quando vengono messe al servizio dell’uomo e ne promuovono lo sviluppo integrale a beneficio di tutti; non possono tuttavia, da sole, indicare il senso dell’esistenza e del progresso umano. La scienza e la tecnica sono ordinate all’uomo, dal quale traggono origine e sviluppo; esse, quindi, trovano nella persona e nei suoi valori morali l’indicazione del loro fine e la coscienza dei loro limiti” (CCC 2293). Al riguardo si rileverà che occorre guardarsi tanto da un ingenuo ottimismo sul progresso umano, quanto da un pessimismo circa le capacità distruttrici che la moderna tecnica ha messo a disposizione del genere umano (armamenti, manipolazioni genetiche, diagnostica prenatale…) più che mai si impone una sana critica del progresso che riconduca l’uomo alla sua giusta collocazione di “dominatore vicario di Dio” sulla terra (cf. Gen 1, 26-28; 2, 25). La signoria goduta dall’uomo ne legittima l’operosità e l’inventiva tecnico-scientifica; la sua vicarietà nei riguardi di Dio lo salvaguarda dalla tentazione idolatrica di onnipotenza. La terra e la natura sono state affidate dal Creatore all’uomo perché le domini, le coltivi e ne tragga beneficio, ma non sono un serbatoio di potenzialità da sfruttare in modo scriteriato. Il sano progresso tiene il giusto mezzo tra il tecnicismo (che assolutizza il potere umano e riduce a materia bruta il mondo subumano) e l’ecologismo (che assolutizza la natura e contesta la superiorità dell’uomo).

Notiamo infine che l’idea stessa di progresso deve molto alla concezione teleologica del tempo portata dalla nozione biblica di Storia della salvezza. Il progresso però è una realtà immanente, allorchè la speranza escatologica è di ordine trascendente e meta-storico. “Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce a offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del Regno di Cristo, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, tale progresso è di grande importanza” (GS 39 = CCC 1049).

Prossimo:

Nella Bibbia, è il connazionale, il vicino, colui che concretamente condivide l’esistenza. Nel precetto di Lv 19, 17 esso equivale a un membro del popolo ebraico. Eppure, già nell’AT si profila una dilatazione dell’amore del prossimo. Vi sono dei doveri di giustizia e di solidarietà umana anche verso il forestiero (cf. Es 22, 10) e persino verso il nemico (cf. Es 23, 4). La letteratura profetica e sapienziale sviluppa la coscienza di appartenere ad un unico genere umano (cf. Sap 11, 23; Mal 2, 10). Ma è con il NT che avviene la piena universalizzazione dell’amore del prossimo. Gesù non solo fa suo il comando antico, ma lo collega direttamente con il più grande precetto dell’amore di Dio (cf. Mc 12, 28-31). Egli non solo ratifica la regola d’oro di non fare agli altri ciò che non si vorrebbe subire (cf. Tb 4, 15; Rm 13, 8-10), ma la volge al positivo, chiedendo di fare agli altri ciò che si vorrebbe per sé (cf. Mt 7, 12). I destinatari di questo comando non sono più soltanto i connazionali, ma tutti gli uomini indistintamente (anthrôpoi). La parabola del Buon Samaritano  è il brano più emblematico di questo universalismo (Lc 10, 29-37). Il vero amore del prossimo consiste nell’accostarsi e nel soccorrere il bisognoso tralasciando qualsiasi altra considerazione di tipo religioso o etnico. In verità, lo Straniero che si è fatto prossimo all’umanità morente non è altri che il Signore Gesù stesso. Lui per primo ha dimostrato che non si può amare il Dio invisibile senza amare il fratello (cf. 1 Gv 4, 20).

Prosperità:

Nell’AT la prosperità materiale rappresenta una benedizione divina (cf. p.e. Dt 28, 12). Vi è la consapevolezza che tutto, ricchezza e povertà, viene dal Signore (Sir 11, 14). La ricchezza è buona quando è frutto del timor di Dio (Sal 25, 12-13) e destinata alle elargizioni di beneficenza (Sal 112, 5). Altrimenti l’abbondanza intorpidisce il cuore, rendendo stolto e orgoglioso (Sal 49, 13; Ez 28, 5). La sapienza biblica porterà a chiedere a Dio di possedere il giusto: quel che basta per esser grati al Signore e per non ricorrere al furto (Pr 30, 8-9). Ma la vera prosperità sta nella sapienza, nell’amore di Dio e nell’osservanza della sua Torah, che vale più di “mille pezzi d’oro e d’argento” (cf. p.e. Sal 119, 72; Sap 7, 11). L’insegnamento cristiano si situa in continuità con il Primo Testamento. Gesù stigmatizza spesso il pericolo delle ricchezze che impediscono di entrare nel Regno (cf. Mt 19, 23), che istupidiscono il cuore, lo chiudono all’esperienza della Provvidenza, lo accecano sulla vera ricchezza da procurarsi con l’elemosina e la carità e lo rendono insensibile alla → sofferenza del → prossimo (cf. Lc 12, 15-34; 16, 19ss). Nel Terzo Vangelo si trova una teologia della redenzione delle ricchezze materiali mediante la carità: il fedele è chiamato ad “arricchire davanti a Dio” (Lc 12, 21); a farsi amici con il denaro usato con spregiudicata liberalità (Lc 16, 9). La prospettiva è sempre quella della “vita eterna nel mondo che verrà” (Lc 18, 30). Si capisce così che nel cristianesimo la prosperità non è demonizzata, ma deve essere integrata nella ricerca della Ricchezza vera ed eterna, quella che l’Agnello ha ereditato (cf. 1 Tm 6, 17-19; Ap 5, 12). Quanto più si crede nella ricompensa eterna, tanto più si vive con sobrietà, giustizia e vera pace su questa terra.

Riconciliazione:

Si tratta del recupero di un legame di amicizia o di alleanza che era stato perduto a causa del peccato o del tradimento di una delle parti. In concreto il ristabilire una relazione infranta avviene generalmente chiedendo e dando il perdono. Nel NT (soprattutto nella teologia paolina) la riconciliazione comporta tre piani: con Dio, con se stessi, con gli altri e con il mondo. La prima riconciliazione concerne il rapporto tra l’umanità e Dio. Questi prende l’iniziativa della rappacificazione e la realizza mediante Gesù Cristo, nel quale, Dio condanna il peccato e giustifica i peccatori (2 Cor 5, 18-21). Riconciliazione equivale pertanto a giustificazione e pacificazione con Dio (cf. Rm 5, 1s). Dal momento in cui Cristo muore in Croce, Dio non vede più l’umanità peccatrice e disobbediente, ma soltanto l’uomo Gesù, che in nome di tutto il genere umano, compie l’atto di obbedienza e di amore perfetto. Il suo Sì ha coperto e ingoiato tutti i No dei peccatori (cf. 1 Cor 15, 54; 2 Cor 1, 20). La dimensione personale della riconciliazione consiste nel fatto di aver ricevuto, dopo il perdono dei peccati, “non uno spirito da schiavi per ricadere nella paura”, ma “uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: ‘Abbà, Padre!’. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8, 15-16); uno “spirito non di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza” (2 Tm 1, 7). La vera riconciliazione dell’uomo con se stesso si dà nella scoperta della propria identità filiale nei riguardi di Dio. Adozione, salvezza e riconciliazione combaciano. Ma la riconciliazione ha anche  una dimensione “orizzontale” e cosmica. Per mezzo di Gesù è finito l’ordine antico che stabiliva l’inimicizia tra Ebrei e Gentili. Il sacrificio di Cristo abbatte ogni “muro di separazione”; l’amore disteso sulla croce annulla qualsiasi divisione tra gli esseri umani (cf. Ef 2, 14; Gal 3, 28). La pace ottenuta dal “sangue della sua croce” (Col 1, 20) si estende a tutto l’Universo. In questo nuovo “eone”, che la Chiesa anticipa in quanto mundus reconciliatus (Agostino), si può entrare “lasciandosi riconciliare con Dio”, accogliendo il Vangelo che è la “parola della riconciliazione” (2 Cor 5, 20, → evangelizzazione). Gesù indica la riconciliazione con il proprio avversario come prioritaria condizione per presentarsi all’altare di Dio (Mt 5, 24). Essa suggella il recupero della comunione mediante il perdono ed è pertanto già in quanto tale sacrificio bene accetto al Padre (cf. Mt 9, 13; Os 6, 6).

Salvezza:

É il termine con cui si designa l’azione e il frutto dell’opera di liberazione e di riconciliazione compiuta da Dio per mezzo di Gesù Cristo e comunicata mediante lo Spirito Santo. “La salvezza in Cristo, testimoniata e annunziata dalla Chiesa, è autocomunicazione di Dio: ‘È l’amore che non soltanto crea il bene, ma fa partecipare alla vita stessa di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo. Infatti, colui che ama, desidera donare se stesso’” (RM 7). Cristo stesso in quanto è personalmente l’alleanza tra Dio e l’umanità può essere denominato “la Salvezza” (cf. Lc 2, 30; 1 Cor 1, 30). Con il Concilio Vaticano II possiamo definire la salvezza come “l’intima unione con Dio e l’unità di tutto il genere umano” (LG 1). La salvezza nell’AT era legata alla → giustizia divina che liberava gli oppressi e li introduceva nella sua alleanza. Nel NT Gesù si presenta come il Salvatore escatologico, venuto a liberare l’umanità da ogni forma di male (cf. Lc 4, 18-21; At 10, 38). I numerosi miracoli e guarigioni fisiche che egli compie sono segni del suo potere salvifico che coinvolge tanto lo spirito quanto il corpo (cf. Mc 2, 1-12). La salvezza consisterà infatti nella  liberazione dal peccato e dalla morte. Gesù Cristo ha vinto il primo con la sua Croce e la seconda con la sua Risurrezione. Si ottiene la salvezza mediante la conversione, suscitata dalla → evangelizzazione. La salvezza è nel contempo immanente ed escatologica. Come realtà presente essa indica la vita di comunione filiale con Dio e fraterna con il prossimo, nella pace, gioia e amore: è il Regno che inizia sulla terra (cf. Rm 14, 17). Come dimensione ultraterrena, essa indica la pienezza del Regno: la comunione nella gloria, l’eredità eterna, la gioia del paradiso, la risurrezione gloriosa del corpo (cf. p.e. Mt 19, 29; 25, 34; Rm 8, 23-24). La → Chiesa cattolica dispone di tutti i mezzi di salvezza (cf. LG 8, UR 3): tutta la Rivelazione mediante la Parola di Dio (la Scrittura letta con la Tradizione vivente); i Sacramenti; i concreti vincoli di comunione della vita ecclesiale.

Sofferenza:

La sofferenza e il dolore sono una dimensione dell’esistenza terrena che interroga radicalmente il cuore dell’uomo. Quale senso ha il soffrire? Da questo quesito si sono determinate le più varie risposte. Il modo più tradizionale di parlare del dolore è di riportarlo alla sua causa: il peccato (cf. Gen 3, 16-19). Ma l’AT stesso percepisce che non si può porre sic et simpliciter un legame causale e tra peccato e sofferenza della persona. Esiste il dramma della sofferenza innocente. La figura di Giobbe rappresenta la più audace contestazione delle classiche e benpensanti teodicee, per cui il dolore è il giusto castigo della colpa. Il libro dell’AT si arresta con l’affermazione del necessario silenzio di fronte ad un mistero insolubile (cf. Gb 38-42). Il NT rispetta questo riserbo: “Gesù non spiega la sofferenza ma la riempie con la sua presenza” (Claudel). Cristo ha passato tutta la sua vita beneficando e risanando tutti i sofferenti (cf. At 10, 38), nel corpo e nello spirito. Di fronte alla sofferenza egli si pone come colui che la vuole sollevare (cf. Lc 4, 1-4). Anch’egli, come Giobbe rifiuta di ascrivere il dolore fisico ad una colpa personale. L’unico valore positivo della sofferenza è quello di dare occasione all’uomo di convertirsi (cf. Lc 13, 1-5) e a Dio di compiere le sue opere (cf. Gv 9, 3).  Nella lettera apostolica Salvifici doloris, Giovanni Paolo II ha indagato il significato cristiano del dolore umano. Egli vede in Gesù Cristo la vittoria dell’amore sulla sofferenza: “nella sua sofferenza i peccati vengono cancellati proprio perché egli solo come Figlio unigenito poté prenderli su di sé, assumerli con quell’amore verso il Padre che supera il male di ogni peccato; in un certo senso annienta questo male nello spazio spirituale dei rapporti tra Dio e l’umanità, e riempie questo spazio col bene” (SD 17). I cristiani possono divenire partecipi delle sofferenze di Cristo (19-24), giacché “nella croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta.”. (SD 19). Al Calvario, il Figlio di Dio si è fatto “uomo dei dolori” (cf. Is 53) e nel grido dell’abbandono estremo (Mt 27, 46) è stato messo alla prova in tutto per poter condividere la sorte dell’ultimo degli uomini sofferenti (cf. Eb 2, 18). Gesù ha talmente preso l’ultimo posto che nessuno potrà mai toglierglielo (Charles de Foucauld). Da quel momento la sofferenza è stata per così dire santificata, glorificata, perché è divenuta espressione dell’amore divino. Unendo le proprie sofferenze a quelle di Cristo, i cristiani possono dare un senso pieno ad ogni loro dolore (cf. Col 1, 24). Sapendo inoltre che in ogni sofferente è presente Cristo, essi faranno di tutto per servire il loro Signore nei fratelli doloranti (cf. Mt 25, 32ss). “Cristo allo stesso tempo ha insegnato all’uomo a far del bene con la sofferenza e a far del bene a chi soffre. In questo duplice aspetto egli ha svelato fino in fondo il senso della sofferenza” (SD 30).

Solidarietà:

É la virtù morale e sociale che, nata dalla consapevolezza dell’interdipendenza e corresponsabilità tra gli uomini e le nazioni, si attua nella “determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno” (SRS 38). La solidarietà comporta in se stessa l’esigenza della → giustizia. Fondamento naturale della solidarietà è la → fraternità universale e la comune origine del genere umano in Dio creatore; i cristiani vedono nella vocazione divina di ogni uomo e nella redenzione operata da Cristo il motivo di esercitare la solidarietà come forma di carità: “Il principio di solidarietà, designato pure con il nome di ‘amicizia’ o di ‘carità sociale’, è  una esigenza diretta della fraternità umana e cristiana”. “La legge della solidarietà umana e della carità” ha un fondamento naturale “nella comunità di origine e nell’uguaglianza della natura ragionevole, propria di tutti gli uomini” e uno soprannaturale, nel “sacrificio offerto da Gesù  Cristo sull’altare della croce… per l’umanità peccatrice” (CCC 1939). Deve esistere anche una solidarietà tra le nazioni  che miri a “bloccare ‘i meccanismi perversi’ che ostacolano → lo sviluppo dei paesi meno progrediti” (CCC 2437-2438).

Speranza:

É la seconda “virtù teologale” insieme alla →  fede e alla →  carità. Essa non è soltanto una fiducia e un’attesa dell’intervento salvifico di Dio come la si riscontra spesso nell’AT (cf. p.e. Sal 40, 2), ma un dono dello Spirito Santo che con la sua grazia orienta in modo divino la facoltà intenzionale dello spirito umano. Si tratta della certa, beata, energica e desiderosa attesa della gloria futura. La certezza della speranza deriva dalla fede che fornisce come l’anticipo delle realtà sperate (cf. Eb 11, 1); la gioia deriva dal fatto che la speranza è un’estasi dello spirito verso la pienezza della salvezza di cui si possiedono già le primizie (cf. p.e. 2 Cor 5, 4-10); l’energia o operosità della speranza dipende dal suo nesso con la carità; la speranza è una tensione attiva, che vuole anticipare e affrettare l’avvento del Regno definitivo, mediante il “seminare nello Spirito Santo” con un’esistenza di amore (cf. Gal 6, 7-8). L’essenza stessa della speranza è un perseverante protendersi in avanti del desiderio (cf. Rm 8, 25). Le tre virtù sono come tre sorelle: le due maggiori Fede e Carità tengono per mano la sorellina, Speranza, ma questa trascina le altre due dove vuole lei (Péguy).

Sviluppo (integrale):

Si tratta di tutta l’attività umana tesa a migliorare la condizione dell’uomo, in ogni sua dimensione: fisica, sociale, morale, culturale e spirituale. Il vero sviluppo, cui gli Stati devono tendere, implica quindi una serie di misure sociali miranti ad assicurare un degno tenore di vita, la pace civile, la giustizia sociale, il diritto all’istruzione e soprattutto la libertà di pensiero e di religione. Norma del vero →  progresso, lo sviluppo integrale ha pertanto come criterio il bene della →  persona. “L’uomo vale più per quello che è che per quello che ha. Parimenti tutto ciò che gli uomini compiono allo scopo di conseguire una maggiore giustizia, una più estesa fraternità e un ordine più umano nei rapporti sociali, ha più valore dei progressi in campo tecnico. Questi, infatti, possono formare, per così dire, la materia alla promozione umana, ma da soli non valgono in nessun modo ad effettuarla” (GS 35). Nella Populorum progressio, Paolo VI, descrivendo lo sviluppo integrale come un processo di maggiore umanizzazione elencava così i passi da fare: “l’ascesa dalla miseria verso il possesso del necessario, la vittoria sui flagelli sociali, l’ampliamento delle conoscenze, l’acquisizione della cultura… L’accresciuta considerazione della dignità degli altri, l’orientarsi verso lo spirito di povertà, la cooperazione al bene comune, la volontà di pace… Ancora, il riconoscimento da parte dell’uomo dei valori supremi, e di Dio che ne è la sorgente e il termine… Infine e soprattutto: la fede, dono di Dio accolto dalla buona volontà dell’uomo, e l’unità nella carità del Cristo che ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini” (PP 21). Questo equivale alla promozione di un “umanesimo plenario” cioè “lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini” (PP 42). “Un umanesimo chiuso, insensibile ai valori dello spirito e a Dio che ne è la fonte, potrebbe apparentemente avere maggiori possibilità di trionfare. Senza dubbio l’uomo può organizzare la terra senza Dio, ma ‘senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano’. Non v’è dunque umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento d’una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana. Lungi dall’essere la norma ultima dei valori, l’uomo non realizza se stesso che trascendendosi. Secondo l’espressione così giusta di Pascal: ‘L’uomo supera infinitamente l’uomo’” (PP 42). Il vero sviluppo solidale dell’umanità conduce quindi al rinvenimento della fraternità dei popoli (PP 43-75) e si potrà allora dire che esso è il nuovo nome della pace (PP 76-80).

Volontariato:

Per la fede cristiana ogni forma di debolezza e sofferenza umana può divenire luogo privilegiato della presenza del Cristo. A partire dal secondo dopoguerra, il volontariato, cioè l’impegno diretto accanto alle persone in difficoltà, entra in relazione con i nascenti sistemi di welfare state che istituzionalizzano una solidarietà tra “sconosciuti”, mediata dal prelievo fiscale e regolata politicamente. Dagli anni ’60, la persistenza dei fenomeni di povertà pone la questione di un rinnovato slancio del volontariato. Esso assume connotazioni nuove e motivazioni più forti. Così ora il volontariato consiste nel mettere in modo continuativo, spontaneo e gratuito – preferenzialmente associato -  una parte del proprio tempo libero e delle personali capacità e competenze al servizio della comunità, soprattutto delle persone più deboli.  Esso si esprime attraverso un’attività concreta, spesso creativa e anticipatrice di idee per una migliore risposta ai bisogni con servizi adeguati; tende a coniugare l’intervento diretto con la sensibilizzazione della società e con l’azione politica per cambiare le strutture che producono disagio e ingiustizia; vuole operare in collaborazione con chiunque si muova in sintonia coi valori di solidarietà, giustizia, pace. Nel suo evolvere, il volontariato organizzato ha assunto forme e caratteristiche diverse. Vi sono, infatti, le Organizzazioni dell’area ecclesiale, canonicamente riconosciute dalla gerarchia, spesso promosse dalle Caritas o ad esse collegate; c’è un volontariato di base, individuale od organizzato, che fa capo alle parrocchie;  persiste un volontariato strutturato di stampo tradizionale, che rivendica la propria autonomia laicale pur ispirandosi ai principi cristiani, mentre è sorto un volontariato innovativo e più attento alla dimensione politica della società umana. Infine, e non per ultimo, si realizzano programmi tesi a promuovere l’impegno volontario di condivisione con i poveri come percorso formativo proposto soprattutto ai giovani.

Sigle e abbreviazioni:

AA = Vaticano II, Apostolicam actuositatem (1965)

AG = Vaticano II, Ad Gentes (1965)

CA = Giovanni Paolo II, Centesimus annus (1991)

CCC = Catechismo della Chiesa cattolica (1992);

CDF = Congregazione per la Dottrina della Fede;

CFL = Giovanni Paolo II, Christifideles laici (1987);

DeV = Giovanni Paolo II, Dominum et vivificantem (1986);

DS = Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum;

EN = Paolo VI, Evangeli nuntiandi (1975)

FM = Pontificio Consiglio “Cor Unum”, La fame nel mondo (1996);

GS = Vaticano II, Gaudium et spes (1965);

LE = Giovanni Paolo II, Laborem exercens (1981);

LG = Vaticano II, Lumen Gentium (1964)

MD = Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem (1987);

PP = Paolo VI, Populorum progressio (1967);

ReP = Giovanni Paolo II, Reconciliatio et paenitentia (1987);

RH = Giovanni Paolo II, Redemptor hominis (1979);

RM = Giovanni Paolo II, Redemptoris missio (1990);

SD = Giovanni Paolo II, Salvifici doloris (1984);

SRS = Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis (1987);

TMA = Giovanni Paolo II, Tertio millenio adveniente (1994);

UR = Vaticano II, Unitatis redintegratio (1964);

UUS = Giovanni Paolo II, Ut unum sint (1995);

VC = Giovanni Paolo II, Vita consecrata (1995);

VS = Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor (1993).

A cura di C.L. Rossetti

n. 03 – DARE AL DOLORE LE PAROLE CHE ESIGE – A. Nocent

San Giovanni-di-Dio-porta-la croceGiovanni di Dio mette sulle sue spalle la croce degli altri
C’ERA UNA VOLTA IL CONVENTO-OSPEDALE

Appunti di bordo di Angelo Nocent

n. 03DARE AL DOLORE

LE PAROLE CHE ESIGE


Un passo indietro per avanzare da innamorati


Ho sotto gl’occhi “L’iSOLa della SaLuTe”, il bimestrale della Curia Generalizia e dell’Ospedale “San Giovanni Calibita – Isola Tiberina,  giugno-luglio 2009.
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Commissioni, sottocommissioni, viaggi intercontinentali, meeting,  canali satellitari, risonanze magnetiche, SKY, e perfino Marzullo…Che meraviglia!
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Confrontando grafica, foto, titoli e contenuti con le mie povere indagini su una vecchia storia che si tramanda da secoli, mi par di essere  un sopravissuto cavernicolo o quel soldato giapponese disperso nella foresta  che non si era ancora accorto della guerra finita da un pezzo. Eppure, nulla di quella vivacità spettacolare che infiamma gli abitanti dell’Isola, è paragonabile allo stupore che sto provando mentre rimugino su quella “folgorazione” che, nell’anno del Signore 1538, è caduta sulla testa di un uomo di nome Giovanni mentre si trovava internato nel manicomio di Granada, senza riflettori e telecamere puntate.
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La premessa è una scusante per chiedere in anticipo benevolenza a quei lettori che avranno il coraggio di buttarsi su questo caso clinico che ha fatto storia e che potrebbe aprire un nuovo capitolo. Non escludo che, lettura facendo, si rendano conto di perdere tempo con uno che non si è accorto che il mondo è cambiato. Ma potrebbe succedere anche il miracolo di una Pentecoste che si posa sulla testa e nel cuore di contemporanei, dispersi ma pur sempre comunicantes in Unum .

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La Storia della vita e sante opere di Giovanni Di Dio -  Prima biografia di S. Giovanni di Dio (di Francisco de Castro)” è il compendio della tradizione orale tramandataci dai contemporanei del Santo che hanno condiviso con lui l’Opus Dei, suscitata dallo Spirito e posta nelle sue mani perché la portasse a compimento nella Chiesa del suo tempo.

I sociologi da tempo hanno messo in luce la forza e il carattere irripetibile di un movimento collettivo nel suo status nascendi. Parlando degli stati di effervescenza collettiva, Durkheim ha scritto: “L’uomo ha l’impressione di essere dominato da forze che non riconosce come sue, che lo trascinano, che egli non domina…Si sente trasportato in un mondo differente da quello in cui si svolge la sua esistenza privata. La vita qui non è soltanto intensa, ma è qualitativamente differente”. Per Max Weber la nascita di tali movimenti è legata alla comparsa di un capo carismatico che, rompendo con la tradizione, trascina i suoi seguaci in una avventura eroica, e produce in chi lo segue l’esperienza di una rinascita interiore, una metanoia, nel senso di san Paolo.
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Premesso che la prospettiva di questi autori è sociologica, anche se non è  in grado di spiegare da sola i movimenti religiosi, aiuta tuttavia a capirne la dinamica. Secondo Francesco Alberoni, sono i momenti del nascere delle religioni, della riforma protestante, della rivoluzione francese o bolscevica. E della comparsa dell’Ordine dei Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, aggiungiamo noi. Secondo lui vi è una indubbia analogia tra la nascita di questi movimenti e il fenomeno dell’innamoramento. E’ proprio quanto è accaduto a  Giovanni di Dio ed ai suoi seguaci: un innamoramento. Né più né meno. I testi comprovanti, estrapolabili dalla prima biografia, abbondano. Uno per tutti: ” Era tanta e tanto grande la carità, della quale nostro Signore aveva dotato il suo servo, ed erano così singolari le opere che da essa derivavano, che alcuni, giudicandolo con spirito vano, lo ritenevano per prodigo e dissipatore, non comprendendo che nostro Signore lo aveva messo nella cantina del vino ed ivi aveva stabilito in lui la sua carità1[33], e che egli si era in tal modo inebriato del suo amore, che non negava nessuna cosa che gli venisse chiesta per lui, fino a dare molte volte, quando non aveva altro, la povera roba di cui era vestito, e rimanere ignudo, essendo pietosissimo con tutti e molto austero e rigoroso con sé.” (Cap. 14)
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Entrare nella mente di una qualsiasi persona è impossibile. Tutto si complica se si tratta, per giunta,  di un innamorato-santo come Giovanni di Dio. Ma qualche segreto lo si riesce a carpire osservando i suoi gesti, il suo parlare, il suo scrivere. In questo tentativo mi farò aiutare dallo psichiatra Prof. Eugenio Borgna, maestro riconosciuto, ora anche collaboratore di questa rivista, uomo che riesce a parlare per ore di Dio senza mai nominarlo. Esperto in “Emozioni ferite” (Feltrinelli, 2009), con la sua ultima fatica letteraria permette di leggere un Giovanni di Dio inedito al quale bisognerà rivolgere più attenzione, se si vuole che significhi qualcosa per noi che dalla sanità pubblica riceviamo tutto, rispetto ad allora. Quel di più che manca a noi sono proprio i guaritori di emozioni ferite. In Giovanni di Dio possiamo vedere un precursore al quale ispirarci.
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Nato per la gente dal cuore spezzato

Chi fa giardinaggio sa bene che vi sono  fiori che non si riproducono piantando il loro seme o un ramoscello della pianta ma solo a partire dal bulbo che misteriosamente si ridesta e torna a germogliare in primavera, vedi tulipani, gigli, calle, gladioli. Quando si parla di ri-fondazione io credo che anche l’ Ordine debba sforzarsi di ripartire dal bulbo. E per bulbo intendo la primitiva intuizione – o meglio ispirazione – che Giovanni di Dio ebbe nel 1538: “«Gesù Cristo mi conceda il tempo e mi dia la grazia di avere io un ospedale, dove possa raccogliere i poveri abbandonati e privi della ragione, e servirli come desiderio io». E nostro Signore lo esaudì pienamente.” (Cap. 9)
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Da questa lucida-mente sono nati i “conventi-ospedale” che si sono moltiplicati lungo i secoli sui cinque continenti. Solo che per troppo tempo si è rimasti legati al senso letterale dell’affermazione, non dando peso al significato traslato, metaforico. Quando si dice che ha del rivoluzionario l’aver inventato l’ospedale concepito come casa, luogo di accoglienza calorosa, letti singoli, bagni e pulizia, biancheria candida, pasti caldi, cure adeguate… preghiere, sacramenti…non si dice solo una verità storica ma si vuol sottolineare che queste erano cose notevoli e inconcepibili per l’epoca e geniale l’autore. Ma nel mutato contesto sociale dove ormai tutto questo è dato fortunatamente per scontato, oggi quelle parole devono assumere un significato “altro”, ancor più rivoluzionario, che proverò ad evidenziare. Se ben compreso, ci si renderà conto che si  va ben oltre il concetto di “umanizzazione” che ha spopolato in questi anni.
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L’ “Ospedale” che vuole Giovanni di Dio non può essere mai disgiunto da “poveri abbandonati e privi di ragione”, pena tradirne l’ispirazione . Ciò che lui chiede a Gesù, il Signore della Vigna per il quale lavora, è uno spazio geografico. Ma solo per riuscire ad aprirsi un varco nella direzione del profondo dell’uomo che, proprio nella fase della malattia, solo con le sue inquietanti domande di senso, si sente come un povero abbandonato e privo di ragione. Quando pronuncia queste parole, il santo sta facendo l’esperienza del manicomio. Ha posato i suoi occhi nelle pupille dei suoi compagni di sventura. E’ in preda a grandi emozioni, le sue, e quelle condivise. E’ un miscuglio di “emozioni ferite”, di disperazione partecipata. Kafka doveva ancora nascere ma i castelli kafkiani di tante solitudini già esistevano. Egli chiede di abitarli. E lo chiede come “grazia”, dono. Vuole impegnare le sue ventiquattro ore quotidiane per “servire” con viscere di misericordia, sull’esempio del suo Maestro. Perché lui è in azione anche quando dorme ed il “riposatevi un poco”  del Vangelo (Mc 6, 30-34) lo sperimenta nell’abbandono orante.
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Un San Giovanni di Dio che dedica molto del suo tempo alla questua, potrebbe far pensare che la sua attenzione sia umanitaria, prevalentemente rivolta ai bisogni vitali di una persona: la mensa, un tetto, qualche medicina. In realtà egli tra il dentro e il fuori ospedale non fa distinzione. Quando gira non va solo per questuare ma per snidare il dolore nascosto: il suo ricevere è sempre accompagnato dal dare che gli garantisce nuove entrate. Un piccolo aneddoto, ricavabile da una sua lettera: Dovete sapere che l’altro giorno, quando stavo a Cordova, andando per la città, ho trovato una casa nella più grande necessità, dove vi erano due ragazze che avevano il padre e la madre ammalati a letto e rattrappiti da dieci anni; li ho visti così poveri e così malconci, che mi spezzarono il cuore: seminudi, pieni di pidocchi, avevano come letto dei fasci di paglia; li soccorsi come potevo, perché andavo di fretta per trattare con il maestro Avila, ma non diedi loro come avrei voluto…”. (Prima Alla Duchessa di Sessa, 15). Se ciò che ha potuto fare gli sembra inadeguato, a noi appare notevole: è riuscito a frantumare le resistenze e ad aprire un varco alla luce in quella tana di sepolti vivi; una trasfusione di globuli rossi di speranza nell’asfittica realtà di quattro persone gravemente anemiche.
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Uno che ha fatto di tutto nella vita, dal pastore al militare, dallo spaccapietre al venditore di legna raccolta nei boschi, fino ad ambulante di libri ed immagini, quest’uomo da marciapiede per divina chiamata, è cuore che si commuove. Frequenta contrade, visita tuguri, entra nei postriboli, senza disdegnare i salotti e i palazzi principeschi perché ormai è uomo di Dio per gli uomini. E, se con essi, specie gli emarginati, condivide pane e dolore fisico e morale, verso i ricchi, non esenti da pene, ha sentimenti di riconoscenza sincera:Sono molto obbligato a tutti i signori dell’Andalusia e della Castiglia, ma molto più al buon duca di Sessa e a tutte le sue proprietà: è molto, molto grande la carità che ho ricevuto dalla sua casa”. (idem 5).
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La sua arma segreta è l’essere cristiano in comunione con il mondo, una comunione di destino. I suoi occhi sono buoni, privi di malizia. Perciò il suo sguardo è terapeutico e la sua bocca sa proferire parole capaci di curare ferite d’ogni genere, perfino l’egoismo dei ricchi o l’odio degli offesi. Il suo non è mai un contatto psichico ma un incontro. “Incontro” – dice il Borgna – inteso come un essere-insieme nelle diverse modalità consentite dal destino all’uno e all’altro” (p.32).
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Lavoro terapeutico dotato di senso
Giovanni di Dio nei rapporti con le persone è anticipatore di quei comportamenti timidamente assunti dalla psichiatria di matrice fenomenologica soltanto nel ‘900, quella che “si propone di avvicinare medico e paziente sulla base di un essere-nel-mondo comune a “sani” e a “malati” “ (p.32). La sua “non è vita contrassegnata dalla distrazione, dalla noncuranza, dalla indifferenza e soprattutto dalla incapacità ad immedesimarsi nella situazione psico(pato)logica e umana della persona che, stando male, chiede disperatamente aiuto: non di rado solo tacendo” (idem). Giovanni di Dio proprio durante l’ internato nel reparto psichiatrico dell’Ospedale Regio, dà prova a se stesso e agli altri di “come accostarsi emozionalmente ad un paziente divorato dai suoi fantasmi di angoscia e di persecutività, di colpa e di condanna”.
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Egli possiede un curriculum assai modesto. Appare istintivo, intraprendente ma è fortemente carismatico. Non ha studiato la medicina sui tomi ma ha sperimentato il dolore fisico e morale, sa tutto della vita è perciò ha dovuto essere medico di se stesso. Lo si direbbe terapeuta nato al quale andrebbe attribuita almeno una laurea honoris causa, perché è uomo che, ad un certo momento, sa dare al dolore le parole che esige, come dice Shakespeare nel Macbeth [137]. Il prof. Borgna che lo cita, ci svela cosa accade  nel segreto di chi soffre: “Il dolore che non parla, a un cuore troppo affranto sussurra bensì l’ordine di schiantarsi”. Capite? Il dolore muto non scherza: stimola pensieri suicidi. Quella capacità di Giovanni di captare oltre il sentire comune, quel sesto senso che lo contraddistingue e mette stupore, è talento ma anche sintonia con il divino, un legame che gli allarga gli orizzonti e gli permette di vedere il mondo con gli occhi di Dio che per lui è “sopra tutte le cose del mondo”. Ecco svelato il segreto di quella sua arte maieutica che fa partorire, ossia “sgorgare dal silenzio, o dalla chiacchiera indistinta e acquatica, le parole che i pazienti custodiscono, e imprigionano, nel loro cuore”. Questo – secondo il Borgna – è già un realizzare “un lavoro terapeutico dotato di senso”.
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Invito a riprendere in mano la prima biografia e le lettere per provare a rileggerle con questa particolare attenzione. Non sarà difficile intravederlo e riconoscerlo nelle affermazioni che prendo in prestito dalla mia guida:

- “Le parole, che curano, sono tali quando si accompagnano alla voce, agli occhi, agli sguardi, che confermino le
parole ascoltate.
- Le parole, che curano, non possono non essere animate dalle emozioni che sono in noi;   ma, ovviamente, non tutte le
emozioni ci ispirano parole terapeutiche.
- In ogni caso, anche le parole incrinate dall’ansia, e dall’incertezza, e che vorremmo   rimuovere, o almeno
mascherare, in noi, sono più utili ai pazienti che non quelle ghiacciate e sottratte alle incrinature emozionali: al di là di ogni loro contenuto, e di ogni   loro intenzione” (pag. 31).
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Voce, occhi, sguardi, parole, emozioni… In un punto della biografia si legge: “Con la sua voce lamentevole la virtù che gli dava il Signore, sembrava che trapassasse l’animo di tutti. Ed insieme commuoveva molto il suo aspetto debole e affaticato, e l’austerità della sua vita…”. Ecco gli strumenti terapeutici che fanno emerge in lui quel di più che mi pare oggi ignorato. Quando Luca dice di Gesù che “tutti cercavano di toccarlo perché da Lui usciva una forza che guariva ogni genere di malattia”(6,19), osservando il santo, noi possiamo cogliere lo stesso messaggio che lo ha  plasmato: il Gesù che assumo nell’Eucaristia deve emanare attraverso la mia persona, dal mio intimo, sia fisicamente che psichicamente questa misteriosa energia che, pur impercettibile ai sensi, riflette una sensibilità che si materializza: il mio essere-in-comunione sa dare al dolore le parole che esige. Se la mia personalità e i miei stati d’animo la riflettono, la gente se ne accorge subito ed io incido sull’ambiente circostante non meno delle azioni. Contrariamente, se il mio è un ipocrita volto di facciata, solo la guarigione della durezza del cuore può farmi disponibile alla gratuità del dono di me stesso.  Gesù ha detto chiaramente cosa produce questa mia ipocrisia di sepolcro imbiancato: “è dal dentro, cioè dal cuore degli uomini, che escono le intenzioni di male: l’immoralità, i furti, gli omicidi, le infedeltà, le avidità, la cattiveria, la menzogna, la disonestà, l’invidia, il pettegolezzo, la presunzione, l’imbecillità” (Mc 7,21). E chi di noi non è  produttore d’imbecillità?

A contare non è il numero dei Centri

Sulla scia di Rahner si può  dire che il cristiano del futuro – Fatebenefratelli inclusi – o sarà un mistico o non sarà un cristiano. La sua tesi dà forza alla nostra: se la struttura non è “convento-ospedale”, ossia luogo dove la forza della ragione e il coraggio della fede sfociano nella contemplazione ad occhi aperti, quella dimensione contemplativa della vita che il neo arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini ha messo al primo posto del suo piano pastorale, allora l’ingranaggio s’inceppa. Perché, se così non è, viene meno la missione del cristianesimo in sanità, una missione che non può essere esercitata solo scientificamente ma che è fatta anche di amicizia, emozioni, comprensione, incoraggiamento, promozione, elevazione: una missione di salvezza molto impegnativa. Se tutto ciò deve sussistere, è proprio in funzione di un obiettivo audace quale la condivisione delle infinite emozioni ferite, producendo emozioni che curano, e anelando a quelle che, nel dolore e nella follia, attendono di essere riconosciute.
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Ma se questo afflato sinergico tra religiosi e laici si fa impercettibile, allora la struttura non è che una delle tante. In tal caso, non dovrebbe sorprendere l’eventuale sua esclusione dai Piani Regionali. Il caso che mi sembra emblematico è proprio l’Ospedale San Giuseppe di Milano.
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Sacrificato per necessità, in esso i subentrati continuano a fare ciò che si faceva e gli utenti, dopo qualche borbottamento iniziale, continuano a frequentarlo come prima. Tra coloro che non hanno messo l’ anima in pace, come se mi toccasse di persona, sono io e non so chi altro. Parlo per me: a Milano bisognava restare. O si dovrà tornare. Non per orgogliosi motivi nostalgici ma per almeno una ragione fondamentale: perché s’è lasciato un grande vuoto ideale nella città, dopo quattro secoli di presenza. ù
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L’Ospedale San Giuseppe c’è ancora e funziona più o meno bene, come sempre. Apparentemente è cambiata solo la  gestione e, pur essendo rimasta ogni cosa al suo posto, il Convento-Ospedale voluto da San Carlo non c’è più. Nel precedente articolo è stato largamente illustrato il senso di tale affermazione. Sono certo che il Borromeo darà ancora una mano per riparare la falla. Solo che si dovrà ricomparire sulla scena con uno spirito nuovo, magari per fare altro: caricarsi di alcuni gravi disagi della metropoli che la Chiesa avverte e che la “Casa della Carità”, voluta dal Card. Martini, affronta ogni giorno. Il nome per un luogo complementare già l’avrei: “Villa fiorita”, icona primaverile che rimanda alla Pasqua, spazio inteso come punto di riferimento per chi vuole ri-suscitare, ossia ri-farsi una vita, ri-nascere. Si può fare. Non so quando. Ma si farà, perché la città desolata lo implora!
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San Giovanni di Dio si è posto nell’ottica del Signore: “sanabat omnes”. Epperò, più che a fare i taumaturghi nel senso letterale, egli ci sollecita a ricavare degli spazi su fronti diversi, conformi alle nostre attitudini, ma che devono avere un denominatore comune: aprire varchi per scoprire Dio tra le fessure del territorio, farsi carico del disagio altrui, raccogliere i silenzi, leggere nel cuore, condividere “Le emozioni ferite”. E’ un ritornello, ma necessario, perché è l’aspetto ancora troppo velato del Mendicante di Granada che i Padri Capitolari sono chiamati a s-velare, in questo nostro tempo di grandi sforzi della psicologia e della psichiatria per risalire la china delle stagnazioni in cui sono finite, trascinandosi dietro legioni di sventurati sempre in bilico.
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Il Prof. Borgna è psichiatra, non poeta o letterato, ma vive anche di poesia e di letteratura che gli hanno permesso di collezionare un corposo album di ricordi e di “pagine terapeutiche”. In una di queste rimembranze che riporta nel libro menzionato, ci tratteggia la “comune vocazione“ di esploratori di orizzonti di senso. Commentando una poesia di Georg Trakl, ci spiega:  La solitudine e il silenzio, il silenzio interiore, ci consentono di intravedere forme di vita altrimenti inclini a sfuggire nei deserti della noncuranza e della disattenzione; e, senza solitudine e senza silenzio interiore, come potremmo rinnovare in noi, nel nostro cuore e nella nostra immaginazione, la mirabile esperienza interiore descritta da Dante, nel Purgatorio, quando Beatrice invita il poeta ad avvicinarsi, e i suoi occhi riflettono in quelli di Dante abbagliandoli? Sulla scia di questa splendida immagine si muove il capitolo incentrato sulla fenomenologia degli occhi e degli sguardi. Sono gli occhi che ci rivelano l’essenza, altrimenti insondabile, di una persona; e, in essi, come dice Edith Stein, si vede anche il modo radicalmente personale con cui una persona sia buona, affettuosa, o invece gelida e indifferente. Gli occhi si fanno fonte di delirio, e si riflettono nei modi di essere delle allucinazioni; ma gli occhi si aprono anche alla visione mistica…” (pag.15). Ecco perché fin dalle origini il convento è stato posto come un tutt’uno con l’ospedale: lo “spazio monastico” favorisce la solitudine e il silenzio interiore che consentono di intravedere…
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Mi sovviene in questo momento la figura del novantasettenne discepolo di Giovanni di Dio, Fra Patrizio, la “perfetta letizia” francescana. Settantuno anni di consacrazione religiosa, quasi tutti  trascorsi a condividere il disagio psichico giunto agli estremi. Quando l’ho conosciuto, nel suo reparto aveva più di cento presenze. Nel giorno del funerale, a Brescia (19 Agosto 2009), a riflettere su quella bara c’ero anch’io. Mai una carica. Solo l’incarico di addetto a quel “lazzaretto” che fu la psichiatria fino ad anni recenti.
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Chapeau! caro Patrizio, frate gioiosamente pneumatico, giullare canterino per Dio. Bene. Quel pomeriggio – forse sono stato chiamato lì per questo -  toccando il suo scapolare, prima della sepoltura, ho prontamente ricevuto una grazia che provo a raccontare perché destinata non soltanto a me. Uscito di chiesa, in un breve lasso di tempo, ho avuto modo di sperimentare la fenomenologia degli occhi e degli sguardi. Incontrando diverse persone, ho vissuto, forse non solo io, le une e le altre emozioni: le poche affettuose, le tante indifferenti, e quelle gelide che sono le più brucianti. Questa riflessione ha preso corpo da quell’amaro in bocca, pensando a quanti nelle strutture socio-sanitarie, non importa di chi, fanno questa esperienza.
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Se è vero che lo scrivere, come voleva Kafka, è una forma di preghiera, dopo essermi rivolto a Dio, vorrei suggerire al nostro Direttore, designato Vocale al Capitolo Generale Straordinario, di farsi portavoce di questo malessere che spopola. A togliere il senso all’umanizzazione, concetto che considero ormai sempre più stucchevole perché sfuggito di mano, è proprio questo “mal sottile” che andrebbe sorvegliato. Quando è stato lanciato il messaggio, non è stato supportato dalla spiritualità di comunione che, come s’è detto in altra parte, non è astrazione, ma vita fatta di ascolto, scambio e donazione reciproci: communicantes in Unum, grazie all’unico Spirito (cfr. Efesini 4,4-6). Purtroppo è andata per un altro verso. E adesso pesa.
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Non ho titoli per fare né il moralizzatore né il docente; solo occhi per vedere e una bruciante passione nel cuore. I miei anni giovanili sono stati forgiati da uomini come Paolo VI che pativa una grande e sofferta coscienza del distacco del Mondo dalla Chiesa. Ed il mio vescovo, il Cardinale Martini, mi ha insegnato che Dio entra nelle persone umane per renderle simili a Lui, ossia divinizzarle. Perciò, se nei momenti di oscurità non possiamo non addolorarci, dobbiamo ricordarcelo: Chiesa e Mondo dipendono anche da noi. Da qui la libertà di osare che mi prendo con la parola e lo scritto, superando il concetto  di convenienza. Il comunicare nella fede è l’antidoto  contro l’isolamento che produce chiusure ermetiche e distrugge a poco a poco. Molti hanno alle spalle una stagione euforica.
Negl’anni pregressi lo slogan dell’umanizzare ha fatto presa. A chi ne vanta la paternità o a coloro che se ne sono fatti portavoce, sarebbe ingiusto sottrarre il merito di aver risvegliato il mondo sanitario dal torpore e di aver anche messo in moto la macchina di tante ristrutturazioni che necessitavano. Per qualcuno ha significato soltanto una interessantissima opportunità di business. Pazienza!
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Ma sarebbe ingenuo nascondersi che, con tutte le buone intenzioni, il concetto, frainteso, ha contestualmente prodotto, in nome di fumogeni ideali, uno sciagurato fenomeno che mai avrebbe dovuto accadere: sottrarre i “fratelli ospedalieri” dal capezzale dei malati. E, se non sono lì, a contatto diretto delle “emozioni ferite”, in un ospedale cosa ci starebbero a fare? Tonino Bello vescovo: “evangelizzatori di pratiche”.
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L’ alternativa di volerli trasformare in improvvisati animatori e profeti, vocazione abbastanza incomprensibile ai più, – non sono io a dirlo – ha prodotto laceranti segrete ferite di frustrazione che sfuggono probabilmente a chi è gratificato dalla concretezza di  cariche istituzionali. Vorrei che la provocazione venisse raccolta in positivo: risvegliare l’orgoglio.
I laici hanno bisogno di vedere incarnata l’ identità originaria, non raccontata sui libri o sollecitata nelle omelie. Il futuro che è già cominciato, vorrebbe tornar a vedere i frati nelle corsie, non più solamente distributori di pastiglie o estensori di turni di servizio del personale, ma come infermieri laureati, medici, meglio ancora psicologi e psichiatri, oltre che sacerdoti…Uomini di Dio che, sull’esempio della guida che mi accompagna,  fanno tesoro anche della filosofia e della letteratura.
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Un corpus di consacrati, -  e mi auguro di “donne dello stesso abito”, com’era alle origini – donne e uomini specializzati nell’ascolto, organizzati per santificare e scientificare, come direbbe il Don Luigi Verzé del San Raffaele. Certo, anche con qualche esperto negli uffici, perché vigili sui conti e controlli i controllori, ossia i laici amministratori delegati. Messa così, la loro funzione porterebbe equilibrio all’ambiente affinché non prevarichi l’arrivismo dei non consacrati che, essendo maggioranza quasi assoluta nella nuova “Famiglia Ospedaliera” che va delineandosi, potrebbero mettersi l’uno contro l’altro. Fenomeno prevedibile, se non già in azione.

Il messaggio che proviene dalla scoperta di un San Giovanni di Dio, cui sta sì a cuore la struttura ma in funzione di un progetto terapeutico mirato, potrebbe cambiare la vita dell’intera comunità terapeutica, se non si vuole piegare la parabola del Samaritano alle esigenze funzionali del gruppo, del Centro, forzandone il senso a discrezione e convenienza.
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Mi rende perplesso sentir parlare di “Scuola di Ospitalità”, corsi di una settimana che si svolgono or qua or là in giro per il mondo. Leggo che sarebbe in elaborazione anche un libro di testo. Per quanto voluminoso, risulterà sempre un bigino del Bignami da sfogliare in metropolitana. Ben venga un sussidio. Ma non potrà mai esaurire questo lungo e complesso discorso che presume la frequentazione di quanti più possibile di una scuola di teologia per laici, ormai presente in tutte le Diocesi.
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La struttura FBF o si pone come “modello”,  in funzione di questo obiettivo di condivisione delle infinite emozioni ferite, producendo emozioni che curano, e anelando a quelle che, nel dolore e nella follia, attendono di essere riconosciute, o è una delle tante. Appare evidente allora che la forza non è nel numero dei Centri che si possiedono ma nella condivisa nuova concezione del fare “terapia, di coloro che non solo mettono in comune le scienze mediche ma frequentano anche lo “spazio monastico”, in un mirabile scambiano di emozioni. A cominciare dalla più grande di tutte: Gesù,  detto il Cristo.
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Ma la percezione delle “emozioni ferite”  potrebbe avvenire senza contatto tra pazienti e terapeuti? Mai più!  Le emozioni che rinascono in chi cura, e quelle che rinascono in chi è curato, sono reciprocamente intrecciate in un dialogo senza fine che non può mai essere ignorato nella sua decisiva significazione terapeutica. Se è così, o la “Nuova ospitalità” è questa o non vedo in cosa possa differenziarsi davvero dalle limitate e biasimate altrui esperienze. Sulle labbra di Giovanni di Dio stanno a proposito le parole dell’Apostolo: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1Cor 11,1).
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O lo siamo o ci riduciamo a un goffo scimmiottare, illusi che nessuno lo noti. Il messaggio per tutti, con o senza tonaca, ce lo manda Benedetto XVI: “In Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5,6). Come a dire: non è l’abito che fa il monaco, né il titolo accademico che mi qualifica, ma l’arte di amare, ossia del vicendevole comunicare e recepire le emozioni dello Spirito. Altrimenti è narcisismo, amore che provo per la mia immagine. Un  baciarmi da solo nello specchio. Il massimo della frustrazione.
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Questa crisi senza precedenti, con i giochi di parole la si può solo mimetizzare, non risolvere. Certo, terapeuti non ci si può improvvisare. Preoccupante sarebbe il non avvertire almeno il bisogno di orientare gli sforzi per preparare un domani di persone all’altezza del carisma istituzionale. Ad accendere il fuoco è lo Spirito. Ad alimentarlo tocca a ciascuno con il sapere scientifico, la fede teologica e la frequentazione della città, pullulante di portatori di emozioni ferite. Se il mondo è cambiato, allora bisogna attrezzarsi per gestire, non per subire il cambiamento.

Angelo Nocent

n. 03DARE AL DOLORE
LE PAROLE CHE ESIGE

Un passo indietro per avanzare da innamorati
Nell’anno del Signore 1538, una “folgorazione” è caduta sulla testa di un uomo di nome Giovanni mentre si trovava internato nel manicomio di Granata.
La “Storia della vita e sante opere di Giovanni Di Dio -  Prima biografia di S. Giovanni di Dio (di Francisco de Castro)” è il compendio della tradizione orale tramandataci dai contemporanei del Santo che hanno condiviso con lui l’operosità suscitata dallo Spirito e posta nelle sue mani perché la portasse a compimento .
I sociologi da tempo hanno messo in luce la forza e il carattere irripetibile di un movimento collettivo nel suo status nascendi.
Secondo Francesco Alberoni, i momenti del nascere delle religioni, della riforma protestante, della rivoluzione francese o bolscevica e della comparsa dell’Ordine dei Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, sono paragonabili al fenomeno dell’innamoramento. Abbondano I testi che lo provano.. Uno per tutti: ” Era tanta e tanto grande la carità, della quale nostro Signore aveva dotato il suo servo, ed erano così singolari le opere che da essa derivavano, che alcuni, giudicandolo con spirito vano, lo ritenevano per prodigo e dissipatore, non comprendendo che nostro Signore lo aveva messo nella cantina del vino ed ivi aveva stabilito in lui la sua carità1[33], e che egli si era in tal modo inebriato del suo amore, che non negava nessuna cosa che gli venisse chiesta per lui, fino a dare molte volte, quando non aveva altro, la povera roba di cui era vestito, e rimanere ignudo, essendo pietosissimo con tutti e molto austero e rigoroso con sé.” (Cap. 14)
Nel tentativo di spiegare questo fenomeno mi farò aiutare dallo psichiatra Prof. Eugenio Borgna, uomo che riesce a parlare per ore di Dio senza mai nominarlo. Esperto in “Emozioni ferite” (Feltrinelli, 2009), con la sua ultima fatica letteraria permette di leggere un Giovanni di Dio,  precursore come guaritore di emozioni ferite.
Nato per la gente dal cuore spezzato
Chi fa giardinaggio sa bene che vi sono  fiori che non si riproducono piantando il loro seme o un ramoscello della pianta, ma solo a partire dal bulbo che misteriosamente si ridesta e torna a germogliare in primavera.
Quando si parla di ri-fondazione io credo che anche l’ Ordine debba sforzarsi di ripartire dal bulbo, cioè la primitiva intuizione che Giovanni di Dio ebbe nel 1538: “«Gesù Cristo mi conceda il tempo e mi dia la grazia di avere io un ospedale, dove possa raccogliere i poveri abbandonati e privi della ragione, e servirli come desiderio io». E nostro Signore lo esaudì pienamente.” (Cap. 9)

Da questa lucida-mente sono nati i “conventi-ospedale” che si sono moltiplicati lungo i secoli sui cinque continenti. Quando si dice che ha del rivoluzionario l’aver inventato l’ospedale concepito come casa, luogo di accoglienza calorosa, letti singoli, bagni e pulizia, biancheria candida, pasti caldi, cure adeguate… preghiere, sacramenti…non si dice solo una verità storica ma si vuol sottolineare che queste erano cose notevoli e inconcepibili per l’epoca e geniale l’autore.

L’ “Ospedale” che vuole Giovanni di Dio non può essere mai disgiunto da “poveri abbandonati e privi di ragione”, pena tradirne l’ispirazione . Ciò che lui chiede a Gesù, il Signore della Vigna per il quale lavora, è uno spazio geografico. Ma solo per riuscire ad aprirsi un varco nella direzione del profondo dell’uomo che, proprio nella fase della malattia, solo con le sue inquietanti domande di senso, si sente come un povero abbandonato e privo di ragione. Quando pronuncia queste parole, il santo sta facendo l’esperienza del manicomio. Ha posato i suoi occhi nelle pupille dei suoi compagni di sventura. E’ in preda a grandi emozioni, le sue, e quelle condivise. E’ un miscuglio di “emozioni ferite”, di disperazione partecipata. Vuole impegnare le sue ventiquattro ore quotidiane per “servire” con viscere di misericordia, sull’esempio del suo Maestro. Perché lui è in azione anche quando dorme ed il “riposatevi un poco”  del Vangelo (Mc 6, 30-34) lo sperimenta nell’abbandono orante.

Un San Giovanni di Dio che dedica molto del suo tempo alla questua, potrebbe far pensare che la sua attenzione sia umanitaria, prevalentemente rivolta ai bisogni vitali di una persona: la mensa, un tetto, qualche medicina. In realtà quando gira non va solo per questuare ma per snidare il dolore nascosto: il suo ricevere è sempre accompagnato dal dare che gli garantisce nuove entrate. Un piccolo aneddoto, ricavabile da una sua lettera: Dovete sapere che l’altro giorno, quando stavo a Cordova, andando per la città, ho trovato una casa nella più grande necessità, dove vi erano due ragazze che avevano il padre e la madre ammalati a letto e rattrappiti da dieci anni; li ho visti così poveri e così malconci, che mi spezzarono il cuore: seminudi, pieni di pidocchi, avevano come letto dei fasci di paglia; li soccorsi come potevo, perché andavo di fretta per trattare con il maestro Avila, ma non diedi loro come avrei voluto…”. (Prima Alla Duchessa di Sessa, 15).
E’riuscito a frantumare le resistenze e ad aprire un varco alla luce in quella tana di sepolti vivi.
Uno che ha fatto di tutto nella vita, dal pastore al militare, dallo spaccapietre al venditore di legna raccolta nei boschi, fino ad ambulante di libri ed immagini, quest’uomo da marciapiede per divina chiamata, è cuore che si commuove. Frequenta contrade, visita tuguri, entra nei postriboli, senza disdegnare i salotti e i palazzi principeschi perché ormai è uomo di Dio per gli uomini. E, se con essi, specie gli emarginati, condivide pane e dolore fisico e morale, verso i ricchi, non esenti da pene, ha sentimenti di riconoscenza sincera:Sono molto obbligato a tutti i signori dell’Andalusia e della Castiglia, ma molto più al buon duca di Sessa e a tutte le sue proprietà: è molto, molto grande la carità che ho ricevuto dalla sua casa”. (idem 5).
La sua arma segreta è l’essere cristiano in comunione con il mondo, una comunione di destino. I suoi occhi sono buoni, privi di malizia. Perciò il suo sguardo è terapeutico e la sua bocca sa proferire parole capaci di curare ferite d’ogni genere, perfino l’egoismo dei ricchi o l’odio degli offesi. Il suo non è mai un contatto psichico ma un incontro. “Incontro” – dice il Borgna – inteso come un essere-insieme nelle diverse modalità consentite dal destino all’uno e all’altro” (p.32).
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Lavoro terapeutico dotato di senso
Giovanni di Dio è anticipatore di quei comportamenti timidamente assunti dalla psichiatria di matrice fenomenologica soltanto nel ‘900, quella che “si propone di avvicinare medico e paziente sulla base di un essere-nel-mondo comune a “sani” e a “malati” “ (p.32). La sua “non è vita contrassegnata dalla distrazione, dalla noncuranza, dalla indifferenza e soprattutto dalla incapacità ad immedesimarsi nella situazione psico(pato)logica e umana della persona che, stando male, chiede disperatamente aiuto: non di rado solo tacendo” (idem). Giovanni di Dio proprio durante l’ internato nel reparto psichiatrico dell’Ospedale Regio, dà prova a se stesso e agli altri di “come accostarsi emozionalmente ad un paziente divorato dai suoi fantasmi di angoscia e di persecutività, di colpa e di condanna”.
Egli possiede un curriculum assai modesto. Appare istintivo, intraprendente ma è  fortemente carismatico. Non ha studiato la medicina sui tomi ma ha sperimentato il dolore fisico e morale, sa tutto della vita è perciò ha dovuto essere medico di se stesso. Lo si direbbe terapeuta nato , perché è uomo che sa dare al dolore le parole che esige, come dice Shakespeare nel Macbeth [137]. Il prof. Borgna ci svela cosa accade  nel segreto di chi soffre: “Il dolore che non parla, a un cuore troppo affranto sussurra bensì l’ordine di schiantarsi”. Il dolore muto non scherza: stimola pensieri suicidi. Quella capacità di Giovanni di captare oltre il sentire comune, quel sesto senso che lo contraddistingue e mette stupore, è talento ma anche sintonia con il divino, un legame che gli allarga gli orizzonti e gli permette di vedere il mondo con gli occhi di Dio che per lui è “sopra tutte le cose del mondo”, parole che sgorgano dal silenzio, o dalla chiacchiera indistinta e acquatica, le parole che i pazienti custodiscono, e imprigionano, nel loro cuore”. Questo – secondo il Borgna – è già un realizzare “un lavoro terapeutico dotato di senso”.
- “Le parole, che curano, sono tali quando si accompagnano alla voce, agli occhi, agli sguardi, che confermino le parole ascoltate.
- In ogni caso, anche le parole incrinate dall’ansia, e dall’incertezza, e che vorremmo   rimuovere, o almeno mascherare, in noi, sono più utili ai pazienti che non quelle ghiacciate e sottratte alle incrinature emozionali: al di là di ogni loro contenuto, e di ogni   loro intenzione” (pag. 31).
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Voce, occhi, sguardi, parole, emozioni… In un punto della biografia di S Giovanni di Dio si legge: Con la sua voce lamentevole e la virtù che gli dava il Signore, sembrava che trapassasse l’animo di tutti. Ed insieme commuoveva molto il suo aspetto debole e affaticato, e l’austerità della sua vita…”. Ecco gli strumenti terapeutici che fanno emerge in lui quel di più che mi pare oggi ignorato. Quando Luca dice di Gesù che “tutti cercavano di toccarlo perché da Lui usciva una forza che guariva ogni genere di malattia”(6,19), osservando il santo, noi possiamo cogliere lo stesso messaggio che lo ha  plasmato: il Gesù che assumo nell’Eucaristia , dal momento che sono una cosa sola con Lui, deve emanare attraverso la mia persona, dal mio intimo, sia fisicamente che psichicamente questa misteriosa energia che, pur impercettibile ai sensi, riflette una sensibilità che si materializza: il mio essere-in-comunione sa dare al dolore le parole che esige. Se la mia personalità e i miei stati d’animo la riflettono, la gente se ne accorge subito ed io incido sull’ambiente circostante non meno delle azioni.
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Contrariamente, se il mio è  un ipocrita volto di facciata, solo la guarigione della durezza del cuore può farmi disponibile alla gratuità del dono di me stesso.  Gesù ha detto chiaramente cosa produce questa mia ipocrisia di sepolcro imbiancato: “è dal dentro, cioè dal cuore degli uomini, che escono le intenzioni di male” (Mc 7,21).
Ma perché dalla Comunità Terapeutica scatturisca questa ricchezza di acqua viva, bisogna che essa si metta in discussione. A tal proposito, varrebbe la pena di far tesoro di quanto ha suggerito il Padre Cantalamessa al Capitolo Generale dei Cappuccini:…
Qualcuno obietterà che queste sanno di fanatismo, qualche altro dirà che la gente non è preparata ad ascoltarci. Aveva ragione il Card. Suenens: “siamo noi che non siamo preparati a parlare”.  Proviamo a chiederci: San Paolo per chi ha scritto la Lettera ai Romani, il trattato più difficile di tutta la Rivelazone ? Forse per i teologi delle università di Roma, che ancora non c’erano, o piuttosto per i semplici cristiani, quasi tutti illetterati, che venivano dal paganesimo?
Se siamo tempio dello Spirito Santo, ognuno deve riempirlo con la Sua pienezza e annunziare “Colui che batezza in Spirito Santo e fuoco”. La fase due è scomparire: perché è Lui che deve crescere in chi ha ricevuto l’euanghelion, inteso non soltanto come Buona Notizia, ma nei significati che Paolo attribuisce al termine. Illuminante è il gesuita Ugo Vanni  che provo a sintetizzare:
(1) annuncio di Cristo morto e risorto “per” me;

(2) l’annuncio mi interpella raggiungendomi dove sono. L’annuncio del Cristo morto e risorto che  mi viene notificato mi mette in una situazione dalla quale  non posso fuggire ma pronunciarmi ;

(3) di fronte all’annuncio sono chiamato a decidere per il sì o per il no: se dico “sì”  mi  apro  al vangelo e questa apertura è la fede. Il sì della fede è come girare un interruttore per cui si dà spazio all’energia, si dà spazio al contenuto del vangelo (Cristo morto e risorto) che diventa contenuto agente nell’uomo.

(4) da questa accettazione dipende la mia situazione escatologica, l’oltre, la mia salvezza o la mia perdizione. Più che semplicemente l’“al di là” nella linea del tempo, Paolo sottolinea la situazione cdell’“al di più”, ossia l’ottimale per l’uomo. La prospettiva escatologica è qui la prospettiva positiva per cui l’uomo è visto in un coefficiente infinito, al massimo grado. Accettando il vangelo l’uomo diviene sozomenos, una persona “che si sta salvando”, in cui la salvezza comincia a realizzarsi. Questo uomo è sulla via della realizzazione ottimale, che Paolo chiama “salvezza”. Il rifiuto del vangelo porta, invece, alla perdizione, non come abisso infernale in cui l’uomo va a cadere, ma come vuoto assoluto che si realizza all’interno dell’uomo. L’uomo che si apre a Cristo si realizza, chi lo rifiuta si perde. La salvezza è così intesa come realizzazione piena e totale della persona, la perdizione come il vuoto ed il fallimento. Per Paolo l’inferno è l’uomo fallito, nel senso del progetto di Dio rimasto irrealizzato.

Così la morte e la resurrezione di Cristo sono dei fatti, ma che dimostrano una spinta transitiva in colui che ascolta. Non provocano tanto una compassione, quanto una “giustificazione”, una vita comunicata attraverso l’evento della Risurrezione: la morte di Cristo è offerta per togliere le lacunosità (il peccato) dell’uomo, la risurrezione di Cristo per trasferire il contesto attivo della sua vitalità all’uomo.

Infine, per Paolo il vangelo è Vangelo tou Tseou, “di Dio”, sottolineando così la trascendenza di questo annuncio. Ma Paolo, accogliendo il Vangelo di Dio, può anche affermare che è   “euanghelion mou“, ossia il “mio vangelo”. L’Apostolo non si limita ad accoglierlo, ma lo personalizza, lo fa “suo”.

Un’Equipe Terapeutica sintonizzata su quest’onda, indubbiamente possiede una marcia in più. Ma a una condizione: che faccia sua la consapevolezza di Paolo: ” Io mi trovo tra voi in uno stato di debolezza, di timore e di trepidazione; e il mio parlare come pure la mia predicazione, non si basa su persuasivi argomenti di sapienza. E’ la forza dello Spirito a convincervi. Così la vostra fede non è fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (1Cor 2, 3-5).

http://www.gliscritti.it/approf/2006/saggi/vanni01.htm


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n. 04 –???????????????????

Non conta il numero dei Centri
Sulla scia di Rahner si può  dire che il cristiano del futuro – Fatebenefratelli inclusi – o sarà un mistico o non sarà un cristiano. La sua tesi dà forza alla nostra: se la struttura non è “convento-ospedale”, allora l’ingranaggio s’inceppa. Deve essere un luogo dove la forza della ragione e il coraggio della fede sfociano nella contemplazione ad occhi aperti, quella dimensione contemplativa della vita che il neo arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini aveva messo al primo posto del suo piano pastorale.

Se così non è, viene meno la missione del cristianesimo in sanità, una missione che non può essere esercitata solo scientificamente ma che è fatta anche di amicizia, emozioni, comprensione, incoraggiamento, promozione, elevazione: una missione di salvezza molto impegnativa. Se tutto ciò deve sussistere, è proprio in funzione di un obiettivo audace quale la condivisione delle infinite emozioni ferite, producendo emozioni che curano, e anelando a quelle che, nel dolore e nella follia, attendono di essere riconosciute.
Quando la comunione di intenti tra religiosi e laici si fa impercettibile, allora la struttura non è che una delle tante. In tal caso, non dovrebbe sorprendere l’eventuale sua esclusione dai Piani Regionali. Il caso che mi sembra emblematico è proprio l’Ospedale San Giuseppe di Milano. Sacrificato per necessità, in esso i subentrati continuano a fare ciò che si faceva e gli utenti continuano a frequentarlo come prima. Personalmente ritengo che a Milano bisognava restare. O si dovrà tornare. Non per orgogliosi motivi nostalgici ma per almeno una ragione fondamentale: perché s’è lasciato un grande vuoto ideale nella città, dopo quattro secoli di presenza. L’Ospedale San Giuseppe c’è ancora e funziona più o meno bene, come sempre. Apparentemente è cambiata solo la  gestione e, pur essendo rimasta ogni cosa al suo posto, il Convento-Ospedale voluto da San Carlo non c’è più. Se  si vorrà ricomparire sulla scena bisognerà farlo con uno spirito nuovo: caricarsi di alcuni gravi disagi della metropoli che la Chiesa avverte e che la “Casa della Carità”, voluta dal Card. Martini, affronta ogni giorno. Il nome per un luogo complementare già l’avrei: “Villa fiorita”, icona primaverile che rimanda alla Pasqua, spazio inteso come punto di riferimento per chi vuole ri-nascere.
San Giovanni di Dio si è  posto nell’ottica del Signore: “sanabat omnes”. Egli ci sollecita a ricavare degli spazi su fronti diversi che devono avere un denominatore comune: aprire varchi per scoprire Dio tra le fessure del territorio, farsi carico del disagio altrui, raccogliere i silenzi, leggere nel cuore, condividere “Le emozioni ferite”.
Il Prof. Borgna vive anche di poesia e di letteratura che gli hanno permesso di collezionare un corposo album di “pagine terapeutiche. Commentando una poesia di Georg Trakl, ci spiega:  “La solitudine e il silenzio, il silenzio interiore, ci consentono di intravedere forme di vita altrimenti inclini a sfuggire nei deserti della noncuranza e della disattenzione; e, senza solitudine e senza silenzio interiore, come potremmo rinnovare in noi, nel nostro cuore e nella nostra immaginazione, la mirabile esperienza interiore descritta da Dante, nel Purgatorio, quando Beatrice invita il poeta ad avvicinarsi, e i suoi occhi riflettono in quelli di Dante abbagliandoli? …. Sono gli occhi che ci rivelano l’essenza, altrimenti insondabile, di una persona; ” (pag.15).
Ho avuto modo di ripensare alla figura del novantasettenne Fra Patrizio, la “perfetta letizia” francescana, Settantuno anni di consacrazione religiosa, quasi tutti  trascorsi a condividere il disagio psichico giunto agli estremi. Nel giorno del funerale, a Brescia (19 Agosto 2009), a riflettere su quella bara c’ero anch’io. Mai una carica. Solo l’incarico di addetto a quel “lazzaretto” che fu la psichiatria fino ad anni recenti. Patrizio,  giullare canterino per Dio. Quel pomeriggio in un breve lasso di tempo, ho avuto modo di sperimentare la fenomenologia degli occhi e degli sguardi. Incontrando diverse persone, ho vissuto le une e le altre emozioni: le poche affettuose, le tante indifferenti, e quelle gelide che sono le più brucianti. nelle strutture socio-sanitarie si fa questa esperienza.. A togliere il senso all’umanizzazione, è proprio questo “mal sottile” che andrebbe sorvegliato. Quando è stato lanciato il messaggio, non è stato supportato dalla spiritualità di comunione che, come s’è detto in altra parte, non è astrazione, ma vita fatta di ascolto, scambio e donazione reciproci: communicantes in Unum, grazie all’unico Spirito (cfr. Efesini 4,4-6).
I miei anni giovanili sono stati forgiati da uomini come Paolo VI che pativa una grande e sofferta coscienza del distacco del Mondo dalla Chiesa. Ed il mio vescovo, il Cardinale Martini, mi ha insegnato che Dio entra nelle persone umane per renderle simili a Lui, ossia divinizzarle. Chiesa e Mondo dipendono anche da noi. Da qui la libertà di osare , superando il concetto  di convenienza. Il comunicare nella fede è l’antidoto  contro l’isolamento che produce chiusure ermetiche e distrugge a poco a poco. Molti hanno alle spalle una stagione euforica.  Negl’anni pregressi lo slogan dell’umanizzare ha fatto presa. A chi ne vanta la paternità o a coloro che se ne sono fatti portavoce, sarebbe ingiusto sottrarre il merito di aver risvegliato il mondo sanitario dal torpore e di aver anche messo in moto la macchina di tante ristrutturazioni che necessitavano. Ma sarebbe ingenuo nascondersi che spesso si sono sottratti i “fratelli ospedalieri” dal capezzale dei malati.
L’ alternativa di volerli trasformare in improvvisati animatori e profeti, vocazione abbastanza incomprensibili ai più, – non sono io a dirlo – ha prodotto laceranti segrete ferite di frustrazione che sfuggono probabilmente a chi è gratificato dalla concretezza di  cariche istituzionali.
I laici hanno bisogno di vedere incarnata l’ identità originaria, non raccontata sui libri o sollecitata nelle omelie. Il futuro che è già cominciato, vorrebbe tornar a vedere i frati nelle corsie, non più solamente distributori di pastiglie o estensori di turni di servizio del personale, ma come infermieri laureati, medici, meglio ancora psicologi e psichiatri, oltre che sacerdoti…Uomini di Dio che, sull’esempio della guida che mi accompagna,  fanno tesoro anche della filosofia e della letteratura. Un corpus di consacrati, -  e mi auguro di “donne dello stesso abito”, com’era alle origini – donne e uomini specializzati nell’ascolto, organizzati per santificare e scientificare, come direbbe il Don Luigi Verzé del San Raffaele. Certo, anche con qualche esperto negli uffici, perché vigili sui conti e controlli i controllori, ossia i laici amministratori delegati. Messa così, la loro funzione porterebbe equilibrio all’ambiente affinché non prevarichi l’arrivismo dei non consacrati che, essendo maggioranza quasi assoluta nella nuova “Famiglia Ospedaliera” che va delineandosi, potrebbero mettersi l’uno contro l’altro.
La struttura FBF o si pone come “modello”,  in funzione di questo obiettivo di “condivisione delle infinite emozioni ferite, producendo emozioni che curano, e anelando a quelle che, nel dolore e nella follia, attendono di essere riconosciute”, oppure è solo una delle tante. Appare evidente allora che la forza non è nel numero dei Centri che si possiedono ma nella condivisa nuova concezione del fare “terapia, di coloro che non solo mettono in comune le scienze mediche ma frequentano anche lo “spazio monastico”, in un mirabile scambiano di emozioni. A cominciare dalla più grande di tutte: Gesù Cristo.
Ma la percezione delle “emozioni ferite”  potrebbe avvenire senza contatto tra pazienti e terapeuti? “Le emozioni che rinascono in chi cura, e quelle che rinascono in chi è curato, sono reciprocamente intrecciate in un dialogo senza fine che non può mai essere ignorato nella sua decisiva significazione terapeutica”. Questa deve essere la “Nuova ospitalità” . Sulle labbra di Giovanni di Dio stanno a proposito le parole dell’Apostolo: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1Cor 11,1). Non è l’abito che fa il monaco, né il titolo accademico che mi qualifica, ma l’arte di amare, ossia del vicendevole comunicare e recepire le emozioni dello Spirito.
Angelo Nocent

O2 – IL “CONVENTO-OSPEDALE” UN FARO SULLA CITTA’ – A. Nocent

C’ERA UNA VOLTA IL CONVENTO-OSPEDALE


Appunti di bordo di Angelo Nocent

n. 02Il “Convento-Ospedale” un faro sulla città


Sul carisma dell’Ospitalità sono sati versati negl’ultimi cinquant’anni fiumi d’inchiostro, come non mai nei cinque secoli di storia dell’Ordine. Potrebbe essere il lampeggiatore che segnala l’esaurimento del carburante, la spia rossa che mette in forse le salde certezze di un tempo. A diverso titolo, assistiamo ad una subdola crisi persistente che sgretola silenziosamente l’Istituzione come i tarli le gambe di un tavolo. Ci sono forti indizi – ad esempio la latitanza – per presagire che alcune realtà stiano per implodere. Che significa un cedimento verso l’interno, un afflosciarsi sulle proprie gambe, come fossero state minate le fondamenta. Questa potrebbe anche essere la spiegazione dell’atteggiamento di certa subdola politica che se ne sta in riva al fiume riservata e guardinga, in attesa che passi il cadavere, pronta ad intervenire al momento giusto. E non sarebbe la prima volta…
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No alle conclusioni predefinite

Epperò noto con rammarico che non c’è la tendenza ad analizzare i fallimenti e gli sbandamenti. Incolpando or l’uno or l’altro, s’imbocca la strada più facile che esenta dalla fatica dell’approfondire per capire. Davanti ad un mobile antico, ad un affresco intaccato, si procede al restauro. Quando si parla di un Ordine Religioso si deve parlare – come si sta facendo – di ri-fondazione. Se quella del restauratore è come la mano del chirurgo che rischia, “o la va o la spacca”, quella della rifondazione è arte delicata che si apprendere dalla Chiesa delle origini che crede alle promesse del Signore: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). E questa promessa, all’inizio incredibile, gli Apostoli l’hanno vista realizzarsi: «Di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui» (At 5,32).
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Nello specifico, si tratta di reinterpretare il carisma tramandato, in funzione di nuovi bisogni della Chiesa, della Società e di una mutata situazione culturale. La rilettura compete al Capitolo Generale. Ma sempre in sottomissione a Lui. Leggo che sono in corso sforzi di preparazione all’assise. Mi auguro che siano commisurati all’importanza che assume nella Chiesa. Perché di Chiesa stiamo parlando e non di sociologia, né di scienza delle finanze o di mercato globale. E tutti dovremmo sapere che un carisma non è dato ma affidato. Non appartiene alla persona o al gruppo che lo riceve ma alla Chiesa, cioè al Popolo di Dio tutto intero che ne ha diritto e dovere di vigilanza attraverso la gerarchia ecclesiastica. Perciò, se non è affare privato, vuol dire che in Messico si va essenzialmente a parlare della nuova evangelizzazione in un contesto mondiale diventato altro.
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Una qualche perplessità su quanto sta avvenendo mi viene dalla constatazione del tanto che è già stato detto, ridetto e scritto in questi anni, magari non sempre centrando le cause che hanno originato la crisi. Si tratta di una catena di propositi senza seguito, di auspici rimasti tali, di ipotesi traballanti. La constatazione più amara è vedere che i religiosi ormai sono stati praticamente allontanati dal letto dei malati, per fare di mestiere non si sa bene che cosa. Se la riforma della scuola non si può fare semplicemente cambiando i banchi, figuriamoci se la ri-fondazione di un Ordine può avvenire introducendo gli amministratori delegati!
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Ma si può fare medicina senza i medici?

Non so quanti si sono soffermati sulla Circolare. La prima impressione a caldo per me è stata di disorientamento. Per come la vedo io, si tratta di un documento con alti e bassi e qualche contraddizione. Qui non c’è lo spazio per documentare né per un’analisi dettagliata ma, di sicuro si può dire che richiederebbe precisazioni, integrazioni e magari anche ripensamenti di natura teologica. Ma scendiamo di un gradino. Lì per lì mi sono posto una domanda che può sembrare retorica: si può oggi pensare di rifondare un Ordine Ospedaliero senza fare i conti con i medici che io non vedo così coinvolti? Ed una conseguente: a quanti degli altri operatori sanitari può interessare la svolta che si vorrebbe storica? Non mi risulta che dalle nostre parti sia stata condotta un’analisi conoscitiva. In epoca di maxi sondaggi, questa andrebbe commissionata al più presto, se si vuole restare con i piedi per terra e non perdersi fantasticamente negli spazi siderali.
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Nelle sedi in cui verrà aperto il dibattito, bisognerebbe evitare due insidie: quella di analizzare la Circolare per evidenziarne semplicemente i limiti e sottolineare le lacune, e l’opposta, avvilente, di lasciar correre tutto, come si trattasse delle solite chiacchiere inconcludenti di chi non ha altro da fare. Invece è doveroso discernere, ossia prendere coscienza di ciò che lo Spirito suggerisce attraverso la Parola instancabilmente interpellata. Il testo base deve fungere da tracciato per la riflessione e il dibattito. Ma il documento Capitolare finale dovrà risultare necessariamente irriconoscibile rispetto al testo iniziale. E’ successo per tutti gli schemi proposti dalle Segreterie ai Padri Conciliari per il dibattito e il voto in aula; dovrà succedere anche qui, a costo di rimandare di un anno la sessione di chiusura del Capitolo. E’ l’auspicio che proprio ieri, dopo un funerale, ho formulato al Direttore della Rivista, che è uno dei Vocali al CGS.
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Le imposizione calate dall’alto, pur se elaborate da canonisti ed esperti, sono come i cibi precotti: hanno per natura durata limitata e, quando scadono, intossicano. Solo da un paziente dialogo, che è tollerante ascolto dell’altro, può passare l’illuminazione dello Spirito di Gesù, il Maestro Interiore di ciascuno. La purificazione della memoria, cui fa riferimento la Circolare, non può avvenire che gradualmente. E non va dimenticato che le conclusioni predefinite assomigliano ai progetti sulla fame nel mondo di cui è popolato l’universo: la fame non scompare, gli affamati sono in aumento.
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S’è già detto che l’annuncio che ne ha fatto il Priore Generale, coinvolge – almeno nelle sue intenzioni – religiosi e laici. Anzi, per i secondi, i famosi 40.000 dipendenti sparsi nel mondo, più benefattori, ecc…, quasi non bastassero quelle ordinarie, l’Ordine sembrerebbe intenzionato ad aprire autostrade pur di facilitarne l’adesione. Ma Dio solo sa in quale misura c’è disponibilità ad aggregarsi a livello di base, sia da parte dei consacrati che dei Christifideles laici. Meglio non illudersi. Mentre la Circolare va subito all’osso nell’intento di portarsi a casa un risultato storico, mi parrebbe prudenziale che si provasse a rispondere preventivamente ai tanti interrogativi sorti in questi anni dai documenti ufficiali ed anche da queste colonne, a cominciare da uno: Chiesa, dove stai andando? Naturalmente intendo noi Chiesa particolare, dove, come nelle promesse battesimali e nel Credo, non si può dare una risposta collettiva (crediamo, rinunciamo) ma solo personalissima: credo, rinuncio…
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Un faro sulla città

Nel linguaggio della tradizione FBF c’era il Convento-Ospedale di… Cambiano i tempi, le mode s’impongono, il linguaggio si adeguano: Centri FBF, IRCSS, Fondazioni… Ma quella denominazione che la tradizione ha conservato fino ai giorni nostri, trovo che sia insuperabile ed averla abbandonata o volerla dimenticare è solo un impoverimento, anche se imposto dalle circostanze. Non dico no alle nuove terminologie ma andrebbero usate negli atti ufficiali e solo quando occorre. Perché il Convento-Ospedale richiama il concetto che lì, in quella struttura sanitaria c’è un “angolo monastico”. Come a dire che lì il primato è dichiaratamente di Dio e che vi si respira la divina umanità di Cristo.
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Già nel nome si percepisce l’idea che, proprio nella fase critica di una malattia, volendo, c’è la possibilità per ognuno di avvertire una Presenza, di imbattersi in una Persona, che succeda un Avvenimento sconvolgente. In questo modo il Convento-Ospedale sarebbe anche un faro che orienta e richiama la Comunità territoriale all’esperienza bruciante della Presenza di Dio; un luogo dove il Santo dei Santi fa dell’Ospedale un Tempio, la dimora di Dio fra gli uomini, il Misericordioso e Compassionevole che gli operatori sanitari cristiani fanno percepire ogni volta che accostano i letti dell’infermità.
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Da noi, in ogni struttura ospedaliera pubblica o privata, di solito c’è una chiesa, una cappella. Ma il Convento-Ospedale suscita l’idea di una comunità che non è solo di professionisti della salute ma anche di oranti, che partecipa al dolore della città sofferente, che si fa carico dei destini degli uomini. Ed è proprio qui, in quest’angolo monastico che dovrebbe convergere anche la Chiesa locale, di cui la comunità religiosa è parte integrante ed espressione della sua diaconia e del ministero sanante.
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Giovanni Marcandalli, il parroco e confidente del nostro compianto Dott. Pierluigi Micheli di cui ho più volte riferito, in Sogni e follie di un parroco, prefazione del Card. Tettamanzi, racconta di aver avviato nella centralissima Chiesa di San Marco in Milano, vicino alla Scala, nei pressi dell’antico ospedale Fatebenefratelli, un’iniziativa da moltiplicare: “Ogni settimana, in un giorno stabilito, nello spazio “monastico” del nostro coro secentesco, io mi raccoglierò, con chi vorrà partecipare, per questo momento contemplativo:
  • - per “godere di Dio”,
  • - perseguire il sentimento della Sua presenza,
  • - deliziarsi della bellezza del Suo volto,
  • - lasciarsi rigenerare dalla sua parola nella lectio divina,
  • - non per “sapere” di più, ma per “ardere” di più, cogliere qualche bagliore della Sua gloria, qualche scintilla del Suo mistero “tremendo e affascinante”.(Ed. Àncora).
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Lo spazio monastico”.

Io credo che anche questo sarebbe un modo di concepire la medicina che porterebbe a fare la differenza: curare con gli strumenti della scienza e della tecnica ma anche con un supporto di fede palese, manifesta, espressa e non scontata e vissuta come fatto privato da vivere dietro le quinte. La città lo dovrebbe sapere. Come dovrebbe sapere che il tal giorno, alla tal ora, nell’angolo monastico, il Crocifisso-Risorto si fa trovare in mezzo ai suoi perché ognuno, alla stregua di Maria Maddalena, possa farsi annunciatore della vita nuova: “Ho visto il Signore” ( Gv 20,18).
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Ogni mercoledì, nella cappella dell’Istituto dei Tumori di Milano dove lavoro, il SS. Sacramento resta esposto all’adorazione per tutta la giornata. Ed ogni lunedì la messa è animata da quelli del Rinnovamento nello Spirito, dopo la quale vengono effettuate le “preghiere di guarigione”, secondo le indicazioni della Sacra Congregazione.
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Alla Messa quotidiana sono ricordati coloro che subiranno l’intervento chirurgico il giorno successivo. Se ciò può avvenire in un Ospedale pubblico, allora ben torni a risuonare il binomio “Convento-Ospedale” avvertito come una qualificazione più che sinonimo di superato e di stantio. Basterebbe la sola presenza di un religioso, posto come segno escatologico, per costituire nel territorio un’assemblea di oranti, un far percepire alla città che il luogo di cura è una delle strutture del ministero sanante di Cristo che più sta a cuore al Vescovo, memore del Signore Gesù che “passava di città in città e guariva tutti” (Lc 6,19).
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A guardar con la lente d’ingrandimento, buona parte della pastorale ospedaliera, nella maggior parte dei casi si riduce a ben poco. I ricoveri sono sempre più brevi per via dei costi, i sacerdoti, assegnati con il contagocce, le suore, mosche bianche. Le visite del sacerdote ai degenti, fugaci, tanto per ricordare che la Chiesa esiste e con essa i Sacramenti della Salvezza. Tutte le buone intenzioni e le suggestive proposte che si leggono, provengono da gratificanti convegni e servono più per sfornare libri e articoli che altro.
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Se le cose stanno davvero così, il Convento-Ospedale potrebbe fungere da scuola e palestra, dove ci si prepara, da sani, ad affrontare l’inevitabile periodo della malattia e dove si riceve attenzione per le “emozioni ferite” di cui siamo un po’ tutti portatori. Un modo per fare prevenzione, inculcando, attraverso percorsi educativi, nozioni di igiene mentale ed arginare in questo modo i disastri di una patologica diffusa vita disordinata e del diffondersi dei disturbi della personalità che possono anche degenerare. Un luogo di ascolto e di orientamento.
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Ma attenzione. La tentazione ricorrente nella vita consacrata postconciliare è quella di chiederci che cosa dobbiamo fare e di mettere insieme una lista di impegni, di propositi o elencare dei campi in cui metterci ad operare, dimenticando che la domanda vera cui tentare una risposta è un’altra: a quali condizioni c’è per la vita consacrata un futuro carico d’eternità. “…voi avete il compito di invitare nuovamente gli uomini e le donne del nostro tempo a guardare in alto, a non farsi travolgere dalle cose di ogni giorno, ma a lasciarsi affascinare da Dio e dal Vangelo del suo Figlio. Non dimenticate che voi, in modo particolarissimo, potete e dovete dire non solo che siete di Cristo, ma che «siete divenuti Cristo»!
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A queste sollecitazioni della Chiesa, segue un incoraggiamento da raccogliere: “Voi non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro, nel quale lo Spirito vi proietta per fare con voi ancora cose grandi.” (Vita consecrata.110)
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Ma c’è di più e ce lo suggerisce il Padre Raniero Cantalamessa, predicatore pontificio: “Diciamocelo pure: la preghiera comune delle comunità tradizionali rischia di ridursi facilmente a quello che Isaia definiva “un imparaticcio di usi umani”, un “onorare Dio con le labbra mentre il cuore è lontano da lui” (cf. Is 29, 13-14). Non dobbiamo certo disprezzare la preghiera liturgica, ma è necessario sostenerla e mantenerla viva con altri tipi di preghiera, da sola non basta.
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Noi conosciamo due soli generi di preghiera: la preghiera liturgica e la preghiera personale. La preghiera liturgica è comunitaria, ma non spontanea; la preghiera personale è spontanea, ma non comunitaria. Ci occorre una preghiera che sia al tempo stesso comunitaria e spontanea e questo è ciò che chiamiamo preghiera carismatica, non chissà quali strane forme di preghiera. Essa permetterebbe, in certe circostanze o all’interno della stessa preghiera liturgica quando è consentito, dei momenti di autentica condivisione spirituale tra fratelli.
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Diversamente c’è il pericolo che nelle nostre comunità condividiamo tutto, eccetto che la nostra fede e la nostra esperienza di Gesù. Si parla di tutto eccetto che di Lui. Lo Spirito Santo ha riportato in vita questo tipo di preghiera carismatica, essa è la forza di quasi tutte le nuove comunità e i movimenti ecclesiali del dopo Concilio. Possiamo aprirci a questa grazia senza tradire minimamente la nostra identità, anzi manifestandola”.
E allora, buona preghiera carismatica a tutti. Nello “spazio monastico” che non deve scomparire.

Angelo Nocent
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REVISIONE PER LA RIVISTA “FATEBENEFRATELLI”:

C’ERA UNA VOLTA IL CONVENTO-OSPEDALE – Angelo Nocent

C’ERA UNA VOLTA IL CONVENTO-OSPEDALE

01 – Pellegrini verso il Capitolo Generale Straordinario

La lor concordia e i lor lieti sembianti

amore e meraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier
santi”.

[Dante, Par. XI, vv. 26-28]

Appunti di bordo  di Angelo Nocent

Preambolo

Devo ammetterlo: fino a poco tempo fa sentir parlare di Convento-Ospedale m’infastidiva come l’odore nauseante dei cameroni d’ospedale d’un tempo che i miei coetanei ricordano benissimo: un misto tra disinfettanti, minestrone e pupù, che dava talmente fastidio anche all’arcivescovo di Milano, il Beato Card. Schuster, parroco della Cà Granda, che ha sollecitato il santo prete di Verona Don Calabria a mettergli in piedi quell’ospedale che è l’attuale San Raffaele. E lui che fa? Prende il don Luigi Verzè, lo spedisce a Milano: “ vai a costruire il più bel ospedale d’Europa”. Prima di lasciarlo partire, lo richiama e gli  stacca un assegno di Lire “unmilione”: “Così non potrai dire che tuo padre ti ha mandato a Milano senza una lira in tasca”. Robe da santi.

Ma il provocatore di questa rubrica – che necessiterebbe di qualche puntata per poter entrare nei risvolti del binomio convento-ospedale – è stato proprio  il Priore Generale Fra Donatus Forkan che, nella Circolare pubblicata sull’ultimo numero, ha insinuato: “siamo ancora paragonabili a dei monaci?”. Presumendo che lui abbia già la risposta che porterà ai Padri Capitolari, anch’io proverò a formularne una, certamente più modesta.  Potrebbe corrispondere alla sua ma anche divergere. E qui sta il bello del dialogare, che è ascolto dell’altro, non necessariamente condivisione.

Si tratterà di appunti di bordo di un navigatore solitario, ogni giorno in alto mare, seguendo la bussola della Parola, nelle notti limpide con gli occhi puntati sulla Stella Polare e, negli attraversamenti nebbiosi, invocando Maria. Meditazioni mattutine, riflessioni notturne, annotazioni nei tragitti da pendolare sui mezzi pubblici, pensieri improvvisi…Nulla di necessariamente concatenato, con un tema prestabilito e un filo logico da mantenere, come nei componimenti seri. Solo tanta voglia di comunicare nella fede.

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Quell’inspiegabile fretta di concludere il patto. Ma con chi ?

Qualcuno ha detto che la verità è sempre rivoluzionaria. Pochi la cercano e molti la temono. Altri, invece, pensano di poterla “governare” a proprio uso e consumo. Intenzionalmente non vorrei collocarmi tra questi ultimi, anche se non è facile per nessuno stare in equilibrio. La Scrittura suggerisce la ricetta: “discernimento”: A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune” (1Corinzi 12, 7).

Ho appena finito di leggere per l’ennesima volta la Circolare del Priore Generale con la quale viene indetto il Capitolo Generale Straordinario (in seguito CGS) che si terra in Messico nel Novembre 2009. Come si vede, né a Granada né a Roma, le tradizionali culle dell’Ordine ma a Guadalajara, una metropoli di oltre quattro milioni di abitanti, che se ne sta a 1561 metri sopra il livello del mare. Fa pensare a un ottimo osservatorio per fotografare, come da un satellite, l’Ordine dall’alto. Ma potrebbe essere anche un sintomo premonitore di un futuro sempre più in “forse” nei paesi del benessere occidentale.

Qual è la verità sull’Ordine Ospedaliero? Non saprei. Tanto più che le frettolose o superficiali letture della storia possono trarre in inganno. Utile sarebbe interrogare le verità omesse, che sono poi quelle più odiose è perciò rimosse. Quando sono proprio loro che pesano sul presente ed ipotecano il futuro. Solo che le buone analisi si possono condurre a patto di procedere insieme, accomunati dal medesimo intento, incitati dall’obbedienza al Maestro interiore, sostenuti dalla preghiera comune, corroborati dal Sacramento.

Il Progetto che ha in mente il Priore Generale ed il suo Consiglio, se dovesse passare, produrrebbe una svolta storica. Ed il lavoro di preparazione in atto, con esperti e canonisti, è per fare in modo che lo sia: fare dell’Ordine Ospedaliero, attualmente appartenente alla categoria degli ordini monastici cosiddetti dei mendicanti, una ”Famiglia Ospedaliera” dove ci sarebbe posto per tutti: per mangiare e dormire, pregare, studiare, lavorare, metter su famiglia, distendersi con onesti svaghi e, possibilmente, trovando il tempo anche per frequentare le promesse “scuole di Ospitalità”. Una Famiglia di uomini e donne, consacrati e laici, credenti e non, relativisti, scettici, filantropi…con un denominatore comune: almeno essere dei seri professionisti in campo medico-assistenziale. Sto banalizzando di proposito, tanto mi spaventa la posta in gioco .

La radicale innovazione che si vorrebbe, parte da alcune domande cruciali che gli ispiratori del balzo in avanti si sono posti e che la Circolare evidenzia: “Abbiamo cominciato a chiederci:

· siamo ancora paragonabili a dei monaci?

· Siamo religiosi apostolici?

· Siamo laici o apparteniamo al clero?

· Quale è la nostra missione nella Chiesa?

· Chi sono i destinatari della nostra missione?

L’impulso al cambiamento è scaturito dalla riflessione sulla vita e sul ministero di San Giovanni di Dio. Ciò che abbiamo scoperto quando abbiamo guardato con occhi nuovi alla sua vita è stata una vera rivelazione. La statura morale del Fondatore, con riferimento alla sua spiritualità e alla missione, è straordinaria. Nell’ambito del processo di rinnovamento, questa scoperta ha costituito un momento incoraggiante, determinante, ma che ci ha altresì posto delle sfide, e che ha influenzato l’Ordine come mai era accaduto prima, sin da quando l’istituto religioso avviato dai primi seguaci di Giovanni di Dio venne riconosciuto come Congregazione dal Papa Pio V, nel 1572.

A prima vista parrebbe trattarsi poco più che d’una presa d’atto, partendo da alcuni presupposti che la legittimano:

-         vivente San Giovanni di Dio, c’era già la Famiglia Ospedaliera.

-         Poi i primi discepoli si sono presentati a Roma; sono piaciuti, è stata loro assegnata la Regola di Sant’Agostino, sono diventati Congregazione, Ordine, ecc.

- Oggi, dopo il Concilio Vaticano II, l’Ordine si troverebbe mutato di fatto in Famiglia Ospedaliera e adesso il Capitolo Generale non ha che da prenderne atto e sancirlo negli Statuti che saranno sottoposti alla Sede Apostolica per l’approvazione.

- Con la seguente motivazione: “L’Ospitalità secondo lo stile di Giovanni è il dono che Dio vuole fare al mondo e alla società. Essendosi liberata dalle costrizioni delle vecchie strutture, ormai superate, che ne ostacolavano la crescita e lo sviluppo, ha potuto fiorire per il bene di milioni di persone”.

Apparentemente tutto semplice e molto facile. Ma, a scanso di equivoci, viene fatta una mezza confessione: “Forse qualcuno potrebbe obiettare che ciò è avvenuto solo perché l’Ordine, a causa della scarsità di Confratelli, si è visto costretto ad affidare ai laici un ruolo più attivo nell’amministrazione e nella conduzione dei propri centri e servizi. Dio però agisce in modi diversi, anche se dobbiamo ammettere che forse, se il numero dei Confratelli fosse stato sufficiente, non avremmo visto i nostri Collaboratori sotto la stessa luce”. E viene aggiunta un’altra affermazione, messa lì come un postulato e, come tale, indimostrabile ma da prendere per vera: “Entrambi, Confratelli e Collaboratori, avendo ricevuto il dono dell’ospitalità, sono fratelli e sorelle nell’ospitalità, uniti nella stessa missione. Come fratelli e sorelle, pertanto, siamo membri della stessa famiglia, la Famiglia di San Giovanni di Dio”.

Vorrei rassicurare quanti pensano che vada cercando il pelo nell’uovo:ciò che mi preme capire la dinamica di questo processo che mi sta a cuore, anche perché, trovandomi a metà strada, né carne né pesce, pur volendo, non saprei dove collocarmi, dal momento che non sono un dipendente collaboratore. Mi si perdoni di non riuscire a gioire per l’evento che si profila, come sarebbe doveroso. Ma io quel bel rosso di sera che fa presagire una giornata assolata, proprio non lo vedo. Percepisco invece quel rosso di mattina, presagio di turbolenze meteorologiche in vista. Le perplessità mi vengono proprio dal richiamo della Circolare al senso di responsabilità. Che, se la Famiglia Ospedaliera ha già una fisionomia nella mente dei suoi audaci costituenti, sono proprio loro a precisare che essa però non ha ancora messo radici. Così mi viene in mente il rosmarino che ho piantato in un vaso a metà agosto: ho preso dei giovani rametti, li ho tenuti in acqua per qualche tempo; poi li ho interrati, bagnati, tenuti all’ombra, coccolati…Ma in breve tempo il rosmarino è seccato perché, colpa dell’humus o della stagione sbagliata, i virgulti non sono stati in grado di mettere le radici. Così ho imparato: volere non è sempre potere.

S’è pensato che la prova di assunzione di responsabilità da parte di tutti sia verificabile. Così è stato sollecitato alle Province il “piano strategico”, considerato uno stimolatore di radici: “Affinché il rinnovamento metta radici, deve toccare tutti gli aspetti della nostra vita. Ogni Provincia deve redigere un piano strategico per il proprio rinnovamento, per quello di ogni suo Centro e di ogni sua Comunità. Il processo deve coinvolgere anche i Collaboratori, oltre ovviamente ai Confratelli, e tutti dobbiamo avere la formazione del cuore e un cuore che vede” per portare ed esercitare l’ospitalità di Giovanni di Dio in un mondo devastato da guerre, violenza, corruzione, emarginazione e sofferenze di ogni tipo”.

Secondo me è come ricorrere al guano di pipistrello, fertilizzante ricco di sostanze nutrienti ma direttamente assimilabili solo dai vegetali. Trattandosi di persone, prima del piano, meglio sarebbe dosi massicce di lectio divina, la sola che può far emettere radici. Dopo tanti tentativi andati a vuoto, successivi al Concilio, l’esperienza dovrebbe aver insegnato che il metodo di agitare le acque per illudersi che non sono stagnanti, non paga. Non è vangelo il mio ma solo il parere di uno che si ritrova in questo momento più con un naso che fiuta che con un cuore che vede. Meglio sarebbe possedere entrambi gli organi di senso. Ma, dovendo fare con quello che si possiede, proverò rispettosamente a dire la mia, ma per creare contradditorio e vivacizzare la discussione, non per generare confusione.

Siamo ancora paragonabili a dei monaci?

Domanda imbarazzante. Come rispondere? “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”, recita la saggezza popolare. Ospitalità è sinonimo di spiritualità di comunione, ossia vita fatta di ascolto, scambio e donazione reciproci: communicantes in Unum, grazie all’unico Spirito(cfr. Efesini 4,4-6). In obbedienza alla parola del Signore che “vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1Tm 2,4) e che i credenti siano uno, partecipi della comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, il CGS dovrebbe mettere al primo posto del suo dibattito proprio il tema della spiritualità di comunione e sancire quel principio affermato nell’autorevole relazione conclusiva del Sinodo dei Vescovi del 1985:  “l’idea centrale e fondamentale nei documenti del Concilio Vaticano II deve essere individuata nella ecclesiologia di comunione”. Questa constatazione è ormai ampiamente condivisa nella Chiesa cattolica: possiamo dire che su di essa molti sono stati i contributi teologici, tra i quali paiono decisivi quelli di Jérome Hamer, di Jean-Marie Roger Tillard, di Ioannis Zizioulas, di Walter Kasper…

La ri-fondazione dell’Ordine Ospedaliero può essere avviata solo a partire da un solido ed autentico fondamento teologico, capace di generare anche una spiritualità che dev’essere pneumatica, ossia capace di incidere sulla vita interiore e sull’esperienza del cristiano e della comunità. D’altronde, – come ha chiarito bene il monaco laico Enzo Bianchi parlando a vescovi, clero e religiosi – “la parola “koinonia” nel Nuovo Testamento indica innanzitutto la vita della chiesa nata dalla discesa dello Spirito santo, quella vita “epì tò autò” (At 2,44), perseverante nella didaké apostolica, nella frazione del pane, nella preghiera. La parola “koinonia” riassume le perseveranze essenziali alla chiesa nascente e le conferisce un volto, sicché la chiesa è epiphaneia della koinonia trinitaria, una koinonia partecipata nella dynamis dello Spirito santo attraverso la comunione apostolica (cf. 1Gv 1,3.6), una koinonia che è compimento della salvezza annunciata dal Vangelo”.

Quando il Priore Generale di allora, Padre Piles, lanciava all’Ordine l’appello: “Lasciatevi guidare dallo Spirito”, non faceva che richiamare questo principio che, pur espresso con le categorie linguistiche del tempo, è già presente nella spiritualità delle origini, praticamente delineata nelle Costituzioni e supportata dalla Regola di Sant’Agostino, mirabile fusione che ci è stata tramandata  sotto il nome di  “ospitalità”.

Proprio perché oggi il termine ha assunto significati molteplici, è utile  mettere in luce il suo vero significato originario che va ben al di là del concetto di accoglienza ospitale. E’ necessario che l’Ordine, proprio nel momento in cui si presta ad inserire a pieno titolo il laicato nelle sue Costituzioni, renda esplicitamente consapevoli sia i consacrati che i christifideles laici di un principio fondamentale: quando diciamo comunione, designiamo il mistero eterno della comunione che è la vita stessa di Dio, ma diciamo anche – essendo noi “syn-koinonoi” (cf. Fil 1,7; Ap 1,9), compartecipi – che a questa comunione noi partecipiamo nel corpo di Cristo, nel sangue di Cristo: la koinonia è dunque “essenza”, non “nota” della chiesa. L’ Ospitalità che ci tramandiamo come carisma dell’Ordine altro non è che vita secondo lo Spirito santo, originata dallo Spirito e vita in Cristo. Pertanto, ciò che ne consegue,  non può essere che una spiritualità di comunione.

Dunque la vita del cristiano e della Chiesa, a prescindere dalla consacrazione religiosa e di ogni altra posizione gerarchica, in forza del battesimo, deve essere plasmata dalla comunione, la quale non è opzionale, non è una scoperta recente della teologia, ma è forma ecclesiae.  Sant’Agostino che dalle origini e presente nell’Ordine con la sua Regola, forse troppo dimenticata, lo afferma categoricamente: ”Non abitano insieme, (nella concordia) se non coloro nei quali la carità di Cristo è perfetta. Quelli invece nei quali la carità di Cristo non è perfetta, anche quando stanno insieme, sono odiosi, molesti, turbolenti; e con la loro inquietudine disturbano gli altri… simili a un giumento inquieto sotto il giogo, il quale non solo non tira, ma tormenta anche, con calci, il compagno“. Così è: mentre il dissenso produce le divisioni “la carità produce l’accordo, l’accordo genera l’unità, l’unità mantiene la carità, la carità conduce alla gloria“.

Questa premessa che necessiterebbe di essere sviluppata, è la prima risposta, non esaustiva, all’interrogativo. Poi si potranno aggiungere molte altre considerazioni. Sulla vita monastica ed altri punti, sono sicuro di avere qualche idea un po’ discordante e proverò a dirla. Solo che non so quanto il dibattito di preparazione sia acceso perché non riesco a percepire né rumori né umori. Personalmente conto molto sui S.O.S., amici miei che sono dei Silenziosi Oranti Solidali, noti solo al cuore di Dio e già all’opera. Vorrei che non fosse vero, ma con le deboli antenne di cui dispongo, percepisco solo la sgradevole impressione che gradirei smentita: buona parte dei ”laici collaboratori” dei Centri FBF del Lombardo-Veneto dormono placidamente, indifferenti a quanto bolle in pentola a livello Centrale, ossia a Roma. Mi sovviene la parabola che riferisce Matteo: “…ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata”. (Mt 20, 1-16).

Sarebbe il colmo ma può accadere: quando le Province dell’Ordine avranno diligentemente steso il “piano strategico”, sono certo che s’inserirà il Maligno e più d’uno udrà la diabolica voce sghignazzante del falsario che insinuerà: “Hai voluto la bicicletta? Adesso pedala”. E qui cadrà l’asino, ossia noi tutti, più o meno convinti che per ri-fondare basti riscrivere gli Statuti ed introdurre gli Amministratori Delegati.

L’ecclesiologia di comunione deve inverarsi in quelle realtà che un tempo  venivano sapientemente chiamate “Convento-Ospedale”. Ma questo sarà possibile e autentico alla sola condizione che si percorra un cammino spirituale e che si riesca a instaurare nel tessuto quotidiano dei Centri una spiritualità di comunione. Diversamente, il fallimento è annunciato. Il comunismo è crollato nei cervelli almeno vent’anni prima della caduta del muro di Berlino.

Angelo Nocent

ADATTAMENTO PER LA RIVISTA “FATEBENEFRATELLI”:



ADESSO- “bambini”

http://www.sehaisetediluce.it/bimbi_tutto_ITA.htm

LA PRIMA ADERENTE ALLA COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI

Rosanna 12 - La montagna

ERA IL 17 NOVEMBRE 2005

Ore  16.16


ROSANNA

la prima aderente alla COMPAGNIA….

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rosanna2001la prima iscritta alla Compagnia dei Globuli Rossi. it@yahooSilenziosa, invisibile, ma presente, appartiene a una comunità di laiche consacrate…:

“…la strada della consacrazione a Cristo a servizio dei fratelli; di tutti i fratelli che avrei incontrato sul mio cammino, i poveri, gli ultimi, i soli, gli abbandonati, gli scoraggiati, gli anziani, i sacerdoti, i piccoli, tutte quelle anime che il Signore mi avrebbe affidato e anche tutte le altre anime che non avrei mai conosciuto personalmente su questa terra ma per le quali avrei pregato” .

Noi le apparteniamo a diversi titoli. E in questo cammino abbiamo sperimentato l’ effetto della sua preghiera segreta, nascosta, ma anche comunitaria: con le consorelle adoratrici. Da questo suo scritto su Don Aldo Prato, comprendiamo tante cose. E ne faremo tesoro.

Grazie, Rosanna, anche noi preghiamo per te.

Ricordando Don Aldo Prato Parroco di Cristo Re – San Severo

NON VI LASCERÒ ORFANI, SARÒ SEMPRE CON VOI

E’ una parte del testamento spirituale di Don Aldo, lasciatoci pochi mesi prima della sua morte, così prematura e inattesa; parole, tantissime volte ricorrenti nella mia mente, nella mia memoria, che mi hanno dato sostegno e forza nei momenti difficili e non, durante questi lunghi 10 anni.

Mi ha sempre sostenuto sapere che ci sarebbe stato lui a guidarmi, a continuare a guidarmi nelle mie scelte più impegnative, come quella di seguire Gesù nella vocazione religiosa-missionaria. Ricordo che quando decisi di consacrarmi a Dio, circa un anno dopo la sua morte, seguendo una spiritualità forte e stupenda, per me congeniale con quanto avevo appreso prima, ritenni salutare e naturale consegnare nelle mani del mio nuovo direttore spirituale della nuova comunità, come mie credenziali, tutto quanto sapevo di Don Aldo e avevo appreso da lui, come per dire:

“Ecco, questi è stata la guida dell’anima mia, il conoscitore delle mie più recondite aspirazioni, il promotore del Divino in me. Voglio continuare su questa linea.”

A distanza di anni posso dire che la sua presenza nell’anima mia come guida, è sempre costante e corroborante. La natura poi e la fisionomia della spiritualità abbracciata, in sintonia perfetta con le sue direttive, mi hanno garantito quella continuità necessaria per procedere serena lungo la strada indicatami da Dio:

la strada della consacrazione a Cristo a servizio dei fratelli; di tutti i fratelli che avrei incontrato sul mio cammino, i poveri, gli ultimi, i soli, gli abbandonati, gli scoraggiati, gli anziani, i sacerdoti, i piccoli, tutte quelle anime che il Signore mi avrebbe affidato e anche tutte le altre anime che non avrei mai conosciuto personalmente su questa terra ma per le quali avrei pregato.

Avrei trovato nei volti dei miei fratelli di tutto il mondo quel Cristo che Don Aldo ci invitava a scorgere e ad amare nei volti dei tanti bisognosi che accorrevano a lui per essere aiutati nel corpo e nello spirito; nel volto di Nicolino, il senza tetto, che lui tanto amorevolmente aveva accolto, nutrito e amato nella sua canonica.

Mi è tanto caro il ricordo di Nicolino e di tutto quello che l’amore nei suoi confronti aveva generato in tutti noi: la sensibilità e la partecipazione alle sofferenze dell’altro, la carità che è amore, dono non elemosina, la gioia di far felice l’altro.

Ricordo a questo proposito l’emozione grandissima che suscitò in me e in tutti noi la commozione di Nicolino nel ricevere un pacco regalo la notte di Natale che trascorremmo tutti insieme, con lui e Don Aldo, nel caro e caldo salone della sacrestia, memorabile luogo di incontro in indimenticabili serate invernali presso il “caldo” camino.

Un camino sempre acceso, segno tangibile di unione di anime che, dopo aver attinto alla fonte dell’Eucarestia, si stringevano nello stesso grande amore per Dio, per i fratelli e per tutto ciò che è bello, buono, giusto, puro, edificante, valori ai quali ci richiamava continuamente Don Aldo con i suoi discorsi, le sue adunanze, i suoi richiami, il suo costante testimoniare con la sua stessa vita, con la sua stessa persona, i suoi atteggiamenti, il suo fare, che apparteneva tutto a Cristo.

La pace interiore, la serenità, la fortezza d’animo, il corpo e il silenzio parlano eloquentemente nelle persone che hanno incontrato Dio. Testimoniare per lui diventava una necessità vitale, un fuoco, uno stimolo, un bisogno di proporre pure agli altri la gioia di essere finalmente liberi!

“Liberi dalla superficialità che ci attanaglia, ci affligge e ci soffoca, e quel che è peggio non ce ne accorgiamo neppure.”

Sono sue queste parole, ricche di una forza travolgente alle quali non si poteva rimanere indifferenti. A noi giovani soprattutto era rivolto il suo disperato appello a non cedere alle lusinghe del mondo, di quelli che comprano l’anima in cambio di misere e passeggere soddisfazioni umane; a rimanere fedeli, coerenti ai grandi ideali cristiani che soli danno pace e gioia; ad andare fino in fondo, vincendo ogni rispetto umano e falsa diplomazia umana, pure a costo dell’incomprensione, della solitudine, della morte stessa.

Mi è rimasto profondamente impresso, a questo proposito, una processione organizzata da lui e partecipata da una grande folla parrocchiale, in riparazione di un atto sacrilego verso la SS. Eucarestia. Era stato fatto scempio di alcune ostie consacrate, in una chiesa vicina. Ricordo che per me fu un esempio di grandissimo amore per Gesù Eucarestia e ancora un’occasione per me, giovane adolescente, di vincere quel rispetto umano tipico che il partecipare ad una processione comporta soprattutto nei ragazzi.

Pregare ad alta voce, pubblicamente, insieme a tanti altri, trascurando tutti gli sguardi e commenti di spettatori insensibili e cristiani superficiali ai bordi delle strade, significava per me una testimonianza chiara e precisa del mio appartenere a Cristo; e di questo non mi vergognavo, anzi mi riempiva di gioia.

Questa e tante altre esperienze mi portarono a coltivare dentro di me un’ansia grande di uscire fuori dal mio ambiente, per portare Gesù a tutto il mondo. Avrei voluto subito partire per il mondo intero e mettere in pratica quanto credevo di aver appreso sufficientemente per evangelizzare i popoli, convinta che fossi già abbastanza preparata da affrontare i rischi e pericoli che il mondo fuori mi avrebbe riservato.

Qui interveniva l’attenta e paziente azione dell’educatore – pastore che ci invitava tutti e me in particolare, a saper attendere il momento propizio permesso da Dio, dopo lunghi esercizi di autocontrollo, di silenzi, di piccole rinunce, di meditazione, di riflessioni, di saper cogliere il divino dentro e intorno a noi, nella natura, negli eventi, nei nostri stessi pensieri e desideri. Tutto questo in risposta alla pretesa dei giovani di oggi e di sempre, di voler tutto, subito e sempre, senza fatica, senza dare spazio a quel mistero inesprimibile di cui lui ci parlava come profondamente insito in noi, nella nostra anima e che dovevamo tener caro come la cosa più preziosa di noi stessi.

La sua persona incuteva rispetto e timore, ma nello stesso tempo una confidenza sconfinata che mette pace e dà fiducia. Un giorno ebbi modo di assistere ad un evento straordinario, per me toccante in una maniera molto particolare che attesta questa sua straordinaria capacità di favorire il rispetto verso la sua persona, non solo in quanto uomo, ma anche e soprattutto in quanto sacerdote, ALTER CHRISTUS.

Era nostra consuetudine infatti salutarlo baciandogli la mano e pronunciare la bellissima frase: CRISTO REGNI, SEMPRE NEI NOSTRI CUORI. Incontrai un giorno, per strada una mia compagna di liceo che sapevo essere dichiaratamente allergica a chiese, preti, suore, ecc., e con alcuni problemi di tossicodipendenza. Fui contenta di incontrarla e scambiare alcune parole con lei circa la scelta della facoltà universitaria e altro. Ma giunti a mezzogiorno, ed essendo nelle vicinanze di Cristo Re, volli sospendere cortesemente la conversazione per portarmi in chiesa e salutare Gesù. Mi congedai da lei dicendole molto spontaneamente che sarei andata in chiesa a pregare per alcuni minuti, e con molta naturalezza la invitai ad accompagnarmi

Con grande gioia da parte mia, acconsentì ed insieme entrammo in chiesa.

Sarà stato il profumo dell’incenso ancora nell’aria, il silenzio, l’atmosfera un po’ magica del sentirsi dopo tanti anni nuovamente in una casa a lei non completamente estranea, anche se lontana nel tempo, il balbettare alcune preghiere non completamente dimenticate; tutto questo fece sì che in lei si riaccendesse un’emozione intensa, bella che non provava da tanto tempo.

Ma la cosa più sorprendente fu quando, alla vista di Don Aldo che, vedendoci, ci venne incontro per salutarci e complimentarsi con noi per la bella idea di essere entrati in chiesa per salutare Gesù, la ragazza dietro il mio esempio si portò anch’essa a baciargli la mano in segno di saluto.

Io fui molto sorpresa di questo atto sapendola appunto “mangia-preti”, ma lungi dal renderla manifesta, mi tenni ben bene la mia sorpresa, e con molta naturalezza, dopo aver salutato Don Aldo e Gesù, uscimmo dalla chiesa.

E’ inutile dire quanta sorpresa e stupore manifestò la stessa ragazza all’uscita. Non finiva più di dire che non credeva ai suoi occhi per tutto quello che le era capitato quella mattina; una cosa tanto insolita per lei: essere entrata in una chiesa, aver recitato delle preghiere dopo tanti anni ma soprattutto aver baciato la mano ad un PRETE!! …

Probabilmente fu la santità di quel PRETE ad attirare quell’anima a Dio, che tanto ama, e tutti ama, anche i mangia-preti!!

Che dire poi della sua grandissima fede nella potenza della preghiera che, fatta con amore e sincerità, diventa un’arma potente per ottenere da Dio i miracoli. Come non ricordare il miracolo della guarigione del mio carissimo papà, per la cui salute e guarigione pregammo tutti intensamente, e con amorevole cura paterna Don Aldo seguiva, insieme a noi della famiglia, tutti gli esiti della difficile degenza post-operatoria al cuore, in ospedale, di mio padre.

Apprezzai tantissimo questo suo interessamento per il nostro caso, e soprattutto sentii molto forte l’unione delle nostre anime oranti, insieme a quelle di tutta la parrocchia, sollecitata da Don Aldo, per strappare a Dio il miracolo della guarigione.

Ricordo che quell’esperienza fu molto importante per me, perché toccai con mano e capii fino in fondo la potenza misteriosa e sublime del dolore e della sofferenza; e come attraverso esse Dio ci avvicina a Lui in un modo meraviglioso.

Mi maturò moltissimo spiritualmente quell’esperienza, e mi permise, insieme ad altre successive, di comprendere sempre più profondamente il significato del dolore e della partecipazione alle sofferenze delle anime e dei corpi dei fratelli, che avrei poi incontrato nei miei apostolati da religiosa.

Rosanna – 16 Maggio 2002


Miracolo!

Si chiama ROSANNA ed è stata la prima ad iscrivrsi alla COMPAGNIA…

Allora sapevo pochissimo di lei, solo che era una consacrata e che avrebbe pregato perché il sogno si realizzasse.

Ora è emerso qualcosa di più: tutto quello che ho riportato sopra.

Grazie, Rosanna. Resta pure nell’ombra, se vuoi, ma noi ti ringraziamo tanto e ti sentiamo energicamente presente perché sei una orante solidale.
Ricambiamo come possiamo, ma con tutto il cuore.

E la benedizione di
san Giovanni di Dio
e San Riccardo Pampuri
siano sulla tua comunità.

RIPESCATO IN ARCHIVIO

“Mi associo con tutto il cuore!!!!!

Vi ricorderò nelle mie e nostre preghiere davanti al Santissimo nella nostra cappella!!!

Il Signore vi benedica per tutto il bene che fate!

Con affetto in Cristo. Rosanna “


Grazie, Rosanna, per la rosa, ma soprattutto per il “Mi associo con tutto il cuore!!!!!” che leggo come un segno dello Spirito. Infatti, tu sei la prima associata dal battesimo del sito e fai quindi parte della Compagnia dei GLOBULI ROSSI.

Forse non sai che non si tratta di una delle tante proliferazioni del nostro tempo ma la ri-scoperta di un Movimento dalle origini divine. Infatti, la Compagnia nasce la sera stessa in cui il Signore Gesù fu tradito:

Quando fu sera (Vespere autem facto) Gesù si mise a tavola insieme con i dodici discepoli” (Mt 26,20).

Tutto ha inizio con quel gesto ospitale che la liturgia ambrosiana nell’ntifona dopo il vangelo dell’Ultima Cena così condensa:

Oggi mi ricevi come ospite alla Tua cena mirabile”. Dunque, all’inizio c’è un gesto di ospitalità. Quel fatto è narrato dall’evangelista Giovanni che di quella Cena non fa menzione del Pane e del Vino ma solo del gesto così eloquente e sconvolgente

4Allora si alzò da tavola, si tolse la veste e si legò un asciugamano intorno ai fianchi, 5versò l’acqua in un catino, e cominciò a lavare i piedi ai suoi discepoli. Poi li asciugava con il panno che aveva intorno ai fianchi.
6Quando arrivò il suo turno, Simon Pietro gli disse:
- Signore, tu vuoi lavare i piedi a me?
7Gesù rispose:
- Ora tu non capisci quello che io faccio; lo capirai dopo.
8Pietro replicò:
- No, tu non mi laverai mai i piedi!
Gesù ribatté:
- Se io non ti lavo, tu non sarai veramente unito a me.
9Simon Pietro gli disse:
- Signore, non lavarmi soltanto i piedi, ma anche le mani e il capo.
10Gesù rispose:
- Chi è già lavato non ha bisogno di lavarsi altro che i piedi. È completamente puro. Anche voi siete puri, ma non tutti.
11Infatti, sapeva già chi lo avrebbe tradito. Per questo disse: “Non tutti siete puri”.
12Gesù terminò di lavare i piedi ai discepoli, riprese la sua veste e si mise di nuovo a tavola. Poi disse: “Capite quello che ho fatto per voi? 13Voi mi chiamate Maestro e Signore, e fate bene perché lo sono. 14Dunque, se io, Signore e Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. 15Io vi ho dato un esempio perché facciate come io ho fatto a voi. 16Certamente un servo non è più importante del suo padrone e un ambasciatore non è più grande di chi lo ha mandato.”(Gv 13, 4-16)

Ancora più stupefacenti sono le parole successive del Maestro: “Io vi assicuro questo: chi accoglie uno che è mandato da me accoglie me; e chi accoglie me accoglie il Padre che mi ha mandato” (v.28)

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Il mandato alla Compagnia è preciso: “anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. 15Io vi ho dato un esempio perché facciate come io ho fatto a voi.”.

Anche Giovanni di Dio, dopo tanta resistenza, si è lasciato lavare dalla Parola di Gesù nella festa di san Sebastiano. Come frecce sono entrati nella sua carne gli inviti alla conversione, a lasciarsi lavare, lanciati dal santo Giovanni d’Avila, maestro di spirito di numerosi santi, chiamato a Granata per la festa del martire

Lavare i piedi è sinonimo di ospitare in casa propria, servire l’ospite, renderlo commensale di una Cena che da allora quotidianamente viene servita in migliaia di punti della terra “per la vita del mondo” (Gv 6,51). Coloro che hanno avuto la grazia di cenare con il Signore sono consapevoli di aver ricevutoi un mandato : “perché facciate come io ho fatto a voi”. E ancora: “Fate questo in memoria di me”.

Ecco spiegata la Compagnia dei GLOBULI ROSSI.

Chi si lascia trasfondere nelle vene i sangue di Cristo, (lavare il sangue, la dialisi), diventa a sua volta “DONATORE”.

Fra i grandi santi che la Chiesa ha additato come campioni di donazione è Giovanni di Dio. E in questi untimi tempi san Riccardo Pampuri, un giovane medico “eucaristico”, e san Benedetto Menni, frutti di quella pianta plurisecolare che si chiama “Fatebenefratelli”. Tutto qui. Ma non è poco: compagnia di “sangue blu”, di nobile casato, eredità cospicua: 26Ma il Padre vi manderà nel mio nome un difensore: lo Spirito Santo. Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quel che ho detto. 27Vi lascio la pace, vi do la mia pace. La pace che io vi do non è come quella del mondo: non vi preoccupate, non abbiate paura.” (Gv 14, 26-27). Da notare che due giorni prima della Cena Pasquale Gesù aveva parlato del giorno del giudizio:

“Quando il Figlio dell’uomo verrà nel suo splendore, insieme con gli angeli, si siederà sul suo trono glorioso. 32Tutti i popoli della terra saranno riuniti di fronte a lui ed egli li separerà in due gruppi, come fa il pastore quando separa le pecore dalle capre: 33metterà i giusti da una parte e i malvagi dall’altra.

34“Allora il re dirà ai giusti:

- Venite, voi che siete i benedetti dal Padre mio; entrate nel regno che è stato preparato per voi fin dalla creazione del mondo. 35Perché, io ho avuto fame e voi mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato nella vostra casa; 36ero nudo e mi avete dato i vestiti; ero malato e siete venuti a curarmi; ero in prigione e siete venuti a trovarmi.

37“E i giusti diranno:

- Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando ti abbiamo incontrato forestiero e ti abbiamo ospitato nella nostra casa, o nudo e ti abbiamo dato i vestiti? 39Quando ti abbiamo visto malato o in prigione e siamo venuti a trovarti?

40“Il re risponderà:

- In verità, vi dico: tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me!
41“Poi dirà ai malvagi:
- Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno che Dio ha preparato per il diavolo e per i suoi servi!
42Perché, io ho avuto fame e voi non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; 43ero forestiero e non mi avete ospitato nella vostra casa; ero nudo e non mi avete dato i vestiti; ero malato e in prigione e voi non siete venuti a trovarmi.
44“E anche quelli diranno:
- Quando ti abbiamo visto affamato, assetato, forestiero, nudo, malato o in prigione e non ti abbiamo aiutato?
45“Allora il re risponderà:
- In verità, vi dico: tutto quel che non avete fatto a uno di questi piccoli, non l’avete fatto a me.
46“E questi andranno nella punizione eterna mentre i giusti andranno nella vita eterna”.” (Mt 31-46).

Dunque, la Compagnia dei GLOBULI ROSSI nasce dal Sacramentum Hospitalitatis, ossia dall’ Eucaristia, dove la lavanda dei piedi è un tutt’uno, fa corpo con essa:

  • Gesù mi ospita perché io divenga ospitale,

  • Gesù Samaritano perché io mi faccia samaritano,

  • Gesù Medico perché io sia medicina,

  • Gesù servo perché io diventi servitore,

  • Gesù compassionevole che mi si fa prossimo perché io mi faccia prossimo (Lc 10,36).

La Compagnia allora è VITA NUOVA NELLO SPIRITO: donne e uomini, giovani e adulti, sacerdoti e religiosi, sani e malati… tutti possono aggregarsi e fare comunione: “Congregavit nos in unum”. Compagnia dei GLOBULI ROSSI non è che una traduzione moderna di questo antico aforisma. Ognuno con il suo carisma: unità nella molteplicità dei carismi per l’hospitalitas, il servitium, dove ci si trova. Ma anche con un punto di riferimento per la condivisione delle esperienze.

Quando scrivi: Mi associo con tutto il cuore!!!!! Vi ricorderò nelle mie e nostre preghiere davanti al Santissimo nella nostra cappella!!!”, anche qui vi leggo il segno dello Spirito: la coincidenza tra Santissimo e Sacramentum hospitalitatis. Parliamo della stessa cosa, siamo attratti dallo stesso Signore. E poi “le mie e nostre preghiere” rimandano vangelo di Matteo:“19E ancora vi assicuro che se due di voi, in terra, si troveranno d’accordo su quel che devono fare e chiederanno aiuto nella preghiera, il Padre mio che è in cielo glielo concederà. 20Perché, se due o tre si riuniscono per invocare il mio nome, io sono in mezzo a loro“.

Poiché nessun Movimento regge se non ha lo sguardo in alto e le ginocchia piegate, voi siete Compagnia ed allo stesso tempo la sua ricchezza più preziosa.

Cara Rosanna, dal tuo angolo di mondo sostieni anche questa avventura che ti appartiene. Se avrai modo di rileggere questi appunti in Cappella, sono sicuro che lo Spirito ti darà parole di discernimento.

Prega anche per la mia salvezza, perché non sono quello che sembro.

Fraternamente. Angelo

N.B. SCUSAMI PER LE LUNGAGGINI E PER IL TEMPO PREZIOSO CHE TI RUBO.



4 Dicembre 2007

ROSANNA PIRULLI - Il suo ultimo messaggio:

Rosanna - rw506h380

Rosanna 12Rintracciata di nuovo casualmente su un sitio internet, è di ieri pomeriggio l’ultimo strattone che le ho dato: “Biricchina, scappi sempre!”.

Così questa bambina in cui la Prima Comunione deve aver lasciato una nostalgia indicibile, s’è nuovamente rimaterializzata ed è ricomparsa all’orizzonte con in mano Gesù Bambino e avvolta in un abito che non immaginavo:

Si, sono io carissimo, e ho anche letto il tuo scritto riguardante me, riportato sul tuo bellissimo sito di globuli rossi!!!!
Sono contenta di constatare che siete in tanti, complimenti!!
Vi seguo con la preghiera!
Buon lavoro.
Rosanna
.
Rosanna 11
Lo so che Rosanna, il nostro “IL PRIMO GLOBULO ROSSO”, è molto impegnata in tante iniziative. So anche che se ne sta in adorazione davanti al SS. Sacramento a pregare per un mare di gente e anche per noi. So inoltre che è Curatrice Rubrica Meditazioni per tutti : Rosanna Pirulli.
Ora che è ri-comparsa nel nostro piccolo cielo vedremo di riuscire a trattenerla. Solo che assomiglia a un glillo e, se vogliamo che canti, bisogna “catturarla” e metterla in gabbia. Perciò la affidiamo al Custode della Compagnia, lo Spirito Santo ed alla Virgo Pontens di cui è devota.

www.sehaisetediluce.it ,  sito web di apostolato cristiano cattolico a cura di Rosanna Pirulli .

So anche che dietro lei c’è una realtà: l’Associazione Volontari della Carità : vedi in segito.
Rosanna però deve sapere che abbiamo bisogno anche di un rapporto umano, di un filo diretto.

Se dallo Spirito ci perverranno istruzioni, troveremo il modo di creare un ponte di collegamento, sempre pensando in grande ma muovendo i piccoli passi di cui sono capaci le nostre gambe corte.

Per il momento ci fermiamo qui.

” IMMACOLATA MARIA “

preghiera di Madre Provvidenza

Immagine:Bartolomé Esteban Perez Murillo 021.jpg

Immacolata Maria

Bella, fulgida stella che all’orizzonte appari coi Tuoi fari di luce nella notte fonda, quando un Tuo figlio Ti invoca:«O Madonna, speranza mia», Tu che sei Madre del Divino, ascolta la mia preghiera.

Vorrei poggiar il capo sul Tuo sen virgineo, e con le mie braccia stringerTi al petto, come un giorno Tu stringesti il Diletto, Pastor dell’immenso gregge.

Bella, assisa sul trono d’un mondo immenso, denso d’amarezza, nell’ebbrezza della Tua Potenza, o Maria, vita mia Tu sei.

Il Tuo Cuor di sofferenza pieno, invita il figliol a prostrarsi ai Tuoi piè in riverentia e affetto.

Donna dai lineamenti dolci e soavi, che tieni nelle mani le chiavi del Regno dei Cieli, conserva un posto anche a me e a tutti quelli che hanno servito il Tuo Figlio Gesù.

Guarda a questa terra intrisa di sangue che langue alla ricerca di pace, e provvedi con la Tua tenerezza, mentre volgi i Tuoi dolci occhi di lacrime pieni.

Proteggi il peccator pentito, e col Tuo dito segnalo al Tuo Figliol che il mondo regge perché anch’egli fa parte del Suo gregge.

Sorella dei naufraghi, potente liberatrice degli ossessi, forze dei tribolati, speranza dei carcerati, ultimo rifugio dei disperati, veglia, o messaggera d’Amore, Immacolata più di un fiore. Nel silenzioso deserto diffondi il Tuo profumo quasi a dar vita al nulla di quel luogo solitario dove Tu, qual vegliardo, custodisci fin nelle estremità della sua esistenza.

Maria, Nome dolce e soave, sii benedetta. Tu, la concepita senza peccato perché sei la Madre del Dio vivente che a noi s’è dato qual cibo per ristorar le ossa fredde ed intirizzite.

Coprici col Tuo manto, gran Regina, perché dalla sera alla mattina, vogliamo stare appresso a Te perché sei nostra Madre.

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Se tutto nella vita è relativo, Relativa è anche l’ idea che ognuno ha della Felicità….
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L’Associazione Volontari della Carità, coordinata attualmente da Padre Luigi Graziotti, è formata da volontari e volontarie al servizio dei fratelli per svolgere le opere di misericordia verso quanti scrivono in cerca di consiglio e aiuto.  Vi sono anche delle laiche consacrate che vivono la spiritualità di Madre Provvidenza, scomparsa nel giugno 2002 in odore di santità , con un unico spirito e una medesima vocazione : il loro compito è di pregare per quanti presentano le loro necessità e per tutti i Sacerdoti del mondo , specie i Missionari .  Hanno anche una rivista di spiritualità “Virgo Potens”.

Chi desidera scrivere per chiedere preghiere può farlo liberamente sia per e-mail che per lettera .

Recapito : Associazione Volontari della Carità , via S. Lucia , 5 , 24020 , Pradalunga (BG) – tel/fax 39035767618

Sito internet : www.sehaisetediluce.it - E-mail : ama@sehaisetediluce.it


ADORAZIONE AL SS. SACRAMENTO

madreprovvidenzaDicevo che solo col tempo son venuto a sapere che Rosanna Pirulli è una consacrata che appartiene all’Associazione Volontari della Carità,  fondata da Madre Provvidenza (Anna Maria Andreani)

Lo scritto della Fondatrice è illuminante:

“Adorare Gesù è dovere cristiano. Gesù, che è nato e morto per noi, ha voluto rimaner prigioniero d’Amore nel SS.mo Sacramento dell’Altare. Il tabernacolo, o figlio, è la fonte di ogni grazia, di ogni forza, di ogni luce.

Se camminerai senza essere devoto a Gesù Sacramentato, presto ti fermerai, arido, freddo, insipido, incostante, scoraggiato, dubbioso, solo.

Gesù, vita della nostra vita vuole abitare non solo vicino a noi, ma dentro di noi. Perciò, figlio, accostati spesso a Lui, anche nei ritagli di tempo, e vedrai che il Paradiso non è lontano da te.

Cosa dirai, figlio carissimo, a Gesù?

Forse ti addormenterai, perché la sua presenza non ti dice nulla? O invece ti si riempirà il cuore di letizia, pensando che finalmente è giunto il momento in cui puoi liberamente discorrere con Lui?

È proprio davanti al SS.mo Sacramento che le anime ascendono nei gradi di contemplazione unitiva.

Incomincia a parlare come parleresti ad un amico. Parla, parla molto. Questa è la preghiera affettiva, quella che viene subito dopo la preghiera vocale. È la preghiera affettivo-vocale.

Rendi consapevole la guida del tuo spirito, il tuo Padre Sirituale, sul come preghi, affinché meglio ti conosca e ti istruisca.

Sempre dietro suo consiglio, passerai alla preghiera affettivo-uditiva.

Come vedi, voglio spiegarti con molta semplicità a salire, voglio ammaestrarti come una mamma ammaestra i suoi figli.

Affettivo-uditiva significa parlare con Gesù e d ascoltarlo.

Se saprai in silenzio ascoltarlo, proverai un balsamo alle tue ferite. Sentirai un’acqua dolce scendere nel vuoto del tuo cuore stanco e forse inaridito, e i bruciori del tuo corpo si quieteranno. Egli ti farà sentire la sua reale presenza, dentro di te.

Passerai poi alla preghiera affettivo-meditativa, durante la quale, scandendo ogni tanto una frase affettuosa allo sposo Gesù, ti soffermerai a meditare, facendoti aiutare molto dalla fantasia.

Raccoglierai la tua immaginazione su fatti o episodi, su letture, o parabole, su momenti della vita di Gesù, sulle leggi della Chiesa, sui Comandamenti di Dio, sulla creazione, la redenzione, sulla Trinità, su qualsiasi verità rivelata, e li mediterai profondamente per trarne realtà di vita.

In tal preghiera, conoscerai molto e vedrai la differenza che passa tra Dio e te.

Passerai poi alla preghiera meditativa. La preghiera meditativa è il passaggio tra il giorno e la notte. Durante tale preghiera, non sentirai più nulla. Le risorse, gli sforzi umani della meditazione, hanno ormai esaurito la tua fantasia, e tu ti troverai sul monte del nulla. Vedrai tutto il passato nel buio. Non  ti conoscerai più. Il demonio lotterà per possederti. Non riuscirai a distinguere il bene dal male. Ti sentirai gran peccatore. Ogni prova te la sentirai insopportabile.

È Gesù che gioca con la sua pallina. Ti prende tra le mani, ti stringe al suo Cuore, gioca con te, lasciandoti e riprendendoti, per poi lasciarti nel vuoto, come un pallone gonfiato che vede il mare e il precipizio eterno.

Sospeso così tra terra e cielo, soffrirai le pene della notte, “la notte dello spirito”.

Come ogni giorno si alterna alla notte, così il giorno dell’anima si alterna alla sua notte. Ma siccome la vita dell’anima è eterna, più lunghi sono i suoi giorni e più lunghe sono le sue notti. Se il giorno del mondo dura 24 ore, il giorno dell’anima non ha orario, così come il tempo con il suo sereno e  i suoi temporali.

La notte dell’anima, è proprio quella che segna il progresso della Comunione eterna. Essa può durare un giorno, come anni, e anche tutta la vita. Gesù nella SS.ma Trinità, si manifesta nell’anima come vuole, quando vuole, e quanto vuole. L’importante è che la notte non sia divisa da Dio col peccato.

Gesù vuol vedere quello che l’anima sa fare da sola. Povera pallina…sospesa nell’universo mondo, si sente sperduta e, tra le nubi del cielo, si nasconde perché ha paura del sole.

Figlio mio, non pensare che ogni qual volta ti trovi nella notte, tu abbia raggiunto tale grado di preghiera. Nella vita dell’uomo molte possono essere le notti dello spirito e da molte cose possono dipendere. Il direttore di anime capirà in quale tipo di notte si troverà il suo figlio spirituale, dopo aver esaminato ogni cosa. “Dai frutti si conosce l’albero” (Mt.12,13).

La notte temporanea è quella dell’anima che trovasi al suddetto grado di preghiera, mentre la notte istantanea sono le varie notti in cui un’anima per qualsiasi motivo si può trovare. Le notti istantanee non rallentano la preghiera, anche se talvolta non ne sentono la stessa efficacia.

Dalla preghiera meditativa, passerai alla preghiera meditativo-contemplativa, e sino a tale grado possono arrivarvi tutti gli asceti.

La preghiera meditativo-contemplativa è la preghiera che porta l’anima dalla meditazione alla contemplazione.

L’anima, davanti al tabernacolo, ogni tanto si dimentica di meditare, cioè di rappresentare la materia su cui vuol meditare, per contemplarla. Qui si vede un lavoro particolare di Dio. L’anima che trovasi in tale stato, non si occupi di sforzarsi a ritornare su stessa nella meditazione, ma si lasci condurre da Dio.

La preghiera del mistico comincia con la contemplazione infusa affettiva.

Tale preghiera consiste nell’amore affettivo involontario.

L’anima mistica, infusa dei sette doni in abbondanza, contempla l’amore di Dio nelle verità rivelate, non già per mezzo del suo personale sforzo, quanto per mezzo del ladrocinio di Dio, impossessatosi radicalmente dell’anima all’atto del suo concepimento. È Dio che obbliga l’anima ad amare. Più l’anima cresce in virtù e più Dio la trasporta alle rivelazioni, facendosi conoscere nelle verità occulte, manifestandole i disegni del Suo Cuore.

Senza che l’anima faccia sforzi, Dio la trasporta alla preghiera della contemplazione unitiva. L’anima e Dio sono una cosa sola.

In questi due gradi di preghiera mistica, l’anima ama e opera e prega in Cristo, con Cristo e per Cristo, e perciò diventa potente sui fratelli vivi e defunti: la Chiesa, militante e purgante, trovandosi sin da questa terra nella Chiesa santificante.

In tali stati l’anima non si riconosce ove si trova, e talvolta afferma al suo Padre Spirituale che non sa pregare. Egli la studi molto e molto la interroghi. Il Signore non sempre le fa capire il grado in cui essa si trova per non elevarla in superbia. Neppure il suo Padre le renda chiaro tale stato, ma la lavori molto nell’umiltà. Talvolta, invece, l’anima gode dell’unione beatifica di Dio, senza pericolo che la superbia l’afferri. Ormai Dio l’ha stretta nel vincolo indissolubile dell’Amore. Perciò, figlio caro, che leggi questa meditazione, progredisci davanti al tabernacolo, imparando a pregare Gesù, con Gesù, e per Gesù, il Padre e lo Spirito Santo.”


Fonte : www.sehaisetediluce.it

Il brano di Madre Provvidenza (Anna Maria Andreani) è tratto dal Vademecum di Spiritualità ai suoi figli Sacerdoti, ed è stato gentilmente segnalato, redatto ed inviato da Rosanna Pirulli. Per note biografiche su Madre Provvidenza visita il sito www.sehaisetediluce.it

Associazione Volontari della Carità

L’Associazione Volontari della Carità, coordinata attualmente da Padre Luigi Graziotti, è formata da volontari e volontarie al servizio dei fratelli per svolgere le opere di misericordia verso quanti scrivono in cerca di consiglio e aiuto .

Vi sono anche delle laiche consacrate che vivono la spiritualità di Madre Provvidenza , scomparsa nel giugno 2002 in odore di santità , con un unico spirito e una medesima vocazione : il loro compito è di pregare per quanti presentano le loro necessità e per tutti i Sacerdoti del mondo, specie i Missionari .

Hanno anche una rivista di spiritualità “Virgo Potens” a cura di Rosanna Pirulli .  Chi desidera scrivere per chiedere preghiere può farlo liberamente sia per e-mail che per lettera .  Recapito : Associazione Volontari della Carità , via S. Lucia , 5 , 24020 , Pradalunga (BG) – tel/fax 035-767618 – sito internet:

www.sehaisetediluce.it – email : ama@sehaisetediluce.it

rosanna2001ityahooitConosco Madre Provvidenza dal 1989 quando, studentessa universitaria alla facoltà di Lingue e Letterature Straniere, ero alla ricerca della mia vocazione, per rispondere a quella voce insistente che nel mio cuore mi chiamava a offrirmi totalmente per una causa grande, a servizio di Dio e del  prossimo.

Era diventato forte in me in quel periodo, il senso missionario; mi entusiasmava l’idea di lasciare tutto, tutte le mie pseudo certezze, seppure buone, tutte le mie sicurezze economiche, affettive, i miei programmi, forse non sempre presi in accordo con Lui, sotto la Sua direzione e secondo il Suo volere.

Sì, erano in potenziale belli i miei programmi: volevo laurearmi, e chi non vuole raggiungere finalmente l’agognata meta a distanza di soli 4 esami e con la tesi già avviata?!?;  contemporaneamente seguivo un corso di Radiotelefonia aeronautica e assistenza di volo: volevo volare, sorvolare spazi aperti, belli, e per dare comunque al tutto una vena spirituale e “missionaria” ipotizzavo anche di proporre la recita del Santo Rosario e preghiere di intercessione nei probabili casi di pericolo durante i voli intercontinentali che avrei fatto da Assistente di volo!

Tanti sogni, forse poco realizzabili, tanti progetti …. e tanta confusione nella mia mente che trovarono risposta solo al mio primo incontro con Madre Provvidenza. Ricordo, fu l’11 Aprile del 1989 a Roma in una casa di formazione da lei aperta. L’incontro con lei, con questa donna possente nell’aspetto, rassicurante ma soprattutto “carismatica”, mi trasmise tanta pace e serenità!

Sembrava che già mi conoscesse, leggeva in me soprattutto tutta quell’ansia missionaria che voleva uscire ma non sapeva come. Mi disse: “Sì, volerai, ma non come pensi tu, lo farai raggiungendo il mondo intero, popoli lontani, anime tristi, sole, lontane da Dio, con la fede, con Gesù, sotto la Cui volontà metterai la tua”.

Iniziò così la mia vita religiosa, abbracciando con gioia la sua spiritualità. Una spiritualità molto simile a quella della Piccolissima via di Santa Teresina di Gesù Bambino: santificarsi nelle piccoli cose e amare il mondo intero pur rimanendo nel piccolo villaggio, nella piccola comunità dove il Signore chiama!

Il Signore, pur non mandandomi tanto lontano, in quei famosi posti esotici che tanto avrei desiderato raggiungere, mi ha permesso tuttavia di fare “missione” in diverse località italiane, in qualità di maestra d’asilo, mamma di anziani, collaboratrice parrocchiale, promotrice vocazionale. Sì, in diverse discipline e campi di apostolato, perché lo spirito di Madre Provvidenza non voleva interessare solo un campo, ma tutti quelli dove poteva essere richiesto il nostro aiuto, dove potevamo portare Dio e il Suo sorriso. Qui vorrei riportare alcune sue riflessioni che era solita fare a noi suore:

“Dio, chi è Dio?

È padrone di tutto, di noi, del nostro cuore, del nostro corpo, del nostro apostolato.

È l’Essere perfettissimo, e la Sua sposa deve essere quella che Lo imita.

Lui nella II  Persona della SS Trinità è uomo, uomo vero, santo, purissimo, degnissimo d’amore, di lode, ecc.

Mai pensare di Lui come di chi non ci ama, o che non ci ama davvero.

Se la suora sapesse davvero parlare con Lui non sarebbe mai dubbiosa, triste, arrabbiata, scontrosa.

Tutto è vanità all’infuori di Lui.

Lui è Amore!

Perché si vede la suora con musi lunghi, triste? La colpa è sempre della suora!

Se sapesse parlare con Lui, se avesse sete di Lui, sarebbe davvero felice.

Se c’è qualcosa che non và dentro di me , dico: aiutami!

Guai alla suora permalosa!

Le sante chiedevano di essere sempre corrette, sempre riprese.

La permalosità allontana il cuore dello Sposo!

Chi è permalosa è contrario allo spirito dell’Amore!

Gesù è contrario alla suora tiepida. La suora deve essere ricca di entusiasmo.

La terra di missione ci chiama: totale obbedienza.

Ho accettato questo spirito -   spirito di totale rinuncia, radicale distacco.

Bisogna sorridere sempre!

La suora deve essere il sole che scalda, il sorriso che porta gioia, l’acqua che disseta, con le sue parole dolci, soavi, serene.

Gli altri vogliono vedere nella suora il volto del suo Sposo.

La suora deve essere sempre sorridente anche quando è malata.

Bisogna vincere se stesse; la parola donna significa DONNA. Prima di essere suora devo essere donna!

Devo affrontare tutte le difficoltà, non piangere le minime difficoltà.

Radicale distacco!

Devo essere prudente, silenziosa, seria, santa dovunque vado: in apostolato e ovunque!

Nolite tangere untos meos! – Non toccate i miei consacrati!

Riservatezza nelle case dei preti! Serie!

Chi vuol venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua!

Devo sfogarmi solo col Signore! Devo confessarmi presto e riavere la pace!

Noi siamo creature privilegiate solo perché chiamate alla perfezione, e se non corrispondiamo a questo non siamo neanche donne!

Aiutami Signore a conoscere le tue virtù!

La santità non è fatta di sentimento, di affetto, di azioni; è fatta di eroismo, di rinuncia alla propria volontà.

Siamo Missionarie della Fede!

Umili strumenti, strumenti semplici, poveri ma ricchi di Dio.

Aver paura di avere anche solo £ 50 senza che la superiora lo sappia, perché Dio lo sa, lo vede; vede tutto.

Il voto di povertà ci chiede di essere prive di tutto!

Una suora pulita, ordinata, bianca, pura, richiama negli altri, in chi ci vede il senso della purezza.

Non perdere mai tempo!

Amare le anime, non dormire!

Fare di tutto per trovare una vocazione. Dobbiamo essere umili tra noi, dobbiamo amarci.

La superiora deve essere sempre lei la prima ad usare dolcezza, bontà, dolcezza, amore. Mai vedere solo i difetti negli altri.

Rispondere con amore.

L’UMILTA’, la generosità, la carità verso i poveri. Nulla però senza il permesso della superiora! A noi tocca sempre di obbedire.

Chi sta a vedere la pagliuzza nell’occhio dell’altro e non vede la trave nel suo è molto indietro nella via della santità.

Noi siamo monache di clausura.

Il distacco da tutto: da quella persona che mi tenta al male, che mi fa perdere tempo, mi fa chiacchierare o altro. Chi vive con i bambini ha davanti il libro dell’innocenza, basta guardare il viso di un piccolo, ci rendiamo conto di essere sporchi nell’anima. La vita religiosa è di perfezione, è di penitenza.

La santità bisogna guadagnarla attraverso le mortificazioni, il distacco, la povertà.

Bisogna essere sinceri!

Noi dobbiamo diventare santi!

I Fondatori grattano, scolpiscono perché vogliono farci santi.

La santità!

Nessuno è capace di curarsi da solo!

Abbiamo bisogno del dottore, cioè del padre spirituale.

Dove l’obbedienza mi manda è Dio che mi vuole!

Quanto è dolce il Signore!

Cristo s’innamora di chi lo ama! Amare vuol dire spogliarsi di tutto e rendersi simili a Lui!

Lo spirito contemplativo- attivo è quello che attinge direttamente da Lui, Gesù crocifisso!

- Va, vendi tutto e seguimi!   Liberi di volare a Lui.

Noi siamo Monache Missionarie!

Non abbiamo solo la clausura, abbiamo anche la missione! Cristo non ha dove posare il capo!

Perché possiamo vivere più profondamente il distacco, la povertà assoluta, io non devo essere attaccata, legata alla mia cella, al mio comodino.

In cappella cerchiamo Dio grondante sangue, che cerca il mio amore, il mio tutto e mi dice: tu almeno amami.

Missionaria della Fede!

Priva di tutto per abbracciare il tutto. Ecco che missionaria della Fede va dal bimbo, dal nonnino, dall’infedele. Avvicineremo tutti perché saremo col nostro Dio solo e tutto per noi e lo porteremo a tutti.

Bisogna aver paura di chiedere il permesso per cambiare le cose, per vedere i propri parenti, perché si rompe la clausura della propria anima con Gesù.

Ecco la Madonna del si, umile, semplice, non dotta!

Non lasciarmi sterile, senza figli! Dammi tanti figli, frutti del tuo amore Gesù con me! Trovare vocazioni!…… “

Gli anni più intensi però sono stati quest’ultimi anni, quando, in seguito a un aggravarsi della sua salute fisica, ha dovuto ritirasi nella sua casa e un gruppo di noi suore ha voluto seguirla e assisterla. Sono stati anni fecondissimi per la nostra vita spirituale, intensi, perché abbiamo visto da vicino quanto fosse profondo e ricco il suo rapporto con il Divino e, quanto forte la sua disponibilità a soffrire con Gesù la Sua passione per salvare le anime!

Quante volte l’abbiamo vista soffrire nel suo corpo per strappare al suo Amato le grazie che in tanti le chiedevano, per  sovvenire alle loro necessità spirituali e materiali! E quante volte soprattutto constatare la pronta risposta dall’Alto!

Ora che non è più con noi fisicamente, perché scomparsa nel giugno del 2002, ci rimane l’arduo compito di continuare la sua opera e di far conoscere a quante più persone la sua eccezionale figura!”

L’ANZIANO NELLA COSTRUZIONE DEL PIANO DIVINO DI SALVEZZA – Gianfranco Ravasi Arcivescovo

ravasi-commentatore-biblico

L’ANZIANO NELLA

COSTRUZIONE DEL PIANO

DIVINO DI SALVEZZA

Gianfranco Ravasi


Abbiamo scelto come soggetto del nostro itinerario biblico una presenza importante nelle sacre scritture, quella dell’anziano, una delle cosiddette “emergenze” nella società attuale, mentre nel passato (compreso quello biblico), egli era considerato un simbolo e una risorsa.

Certo, come ricorderanno coloro che ci seguono con assiduità, nella precedente puntata della nostra rubrica abbiamo delineato il profilo realistico e fin negativo che la vecchiaia comporta, a livello fisico, mentale ma anche morale. Tuttavia il ritratto del vecchio non comprende solo questi lineamenti e soprattutto agli occhi di Dio certi giudizi umani possono essere ribaltati.

Non dobbiamo, infatti, ignorare che la logica di Dio non procede necessariamente secondo le nostre vie, anzi le sue scelte possono essere paradossali come afferma Paolo nella prima lettera ai Corinzi: “Dio sceglie le realtà stolte per confondere i sapienti, le realtà deboli per confondere i forti, le realtà ignobili, disprezzate, che sono nulla per confondere le cose che sono” (1, 27-28).

Come Cristo ha optato per le anime sole, bruciate dal male, emarginate, così Dio può operare una svolta nella storia della salvezza proprio attraverso la fragilità dei corpi deboli e anziani. È il meraviglioso parallelo di due coppie vecchie, Abramo e Sara per l’Antica Alleanza, e Zaccaria ed Elisabetta per la Nuova.

Con la prima il germe insperato della vita nasce da un grembo sterile e morto, dato che “era cessato a Sara ciò che sogliono avere le donne” (Genesi 18, 11), e la storia dei credenti prende il suo avvio.

Al riso dubbioso di Abramo (Genesi 17, 17: “Abramo si prostrò fino a terra e rise dicendo in cuor suo: Potrebbe forse nascere un figlio ad un uomo di cento anni?”) e a quello di Sara (18, 12:“Rise Sara dentro di sé, pensando: “Dopo essere invecchiata, proverò ancora io il piacere?”) si sovrappone, potente e grandioso, il riso di Dio incarnato nel nome del figlio Isacco che in ebraico significa “Il Signore ha riso” e che ricorderà all’umanità la potenza di Dio “il quale fa rivivere i morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono” (Romani 4, 17).

E San Paolo, continuando nella sua meditazione sulla figura di Abramo, suggerisce l’impegno di fede per essere strumenti di salvezza col proprio carisma senile: “ripensando al suo corpo morto (egli era quasi centenario) e all’utero quasi morto di Sara, Abramo non vacillò nella fede… ma si fortificò nella fede dando gloria a Dio, ben sapendo che quanto Egli promette ha anche il potere di effettuarlo” (4, 19-21).

Come da una radice spenta era sorto il popolo dell’alleanza, così da un grembo ugualmente morto inizia la nuova storia con Elisabetta e Zaccaria, i genitori del Battista: “…il Signore Dio d’Israele ha visitato il suo popolo… e tu, o bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo poiché andrai innanzi al Signore per preparare le sue vie” (Luca 1, 68.76). È la risposta all’interrogativo dell’anziano che ritiene ormai esaurite tutte le sue capacità di donazione nella costruzione del piano divino di salvezza. Aveva, infatti, domandato Zaccaria all’angelo Gabriele: “In qual modo riconoscerò questo? Io infatti sono vecchio e mia moglie è avanzata negli anni” (1, 18).

Dalla coscienza della propria fragilità può nascere, allora, un impegno nuovo perché, “quantunque il nostro uomo esteriore vada deperendo, quello interiore però si rinnova di giorno in giorno” (2Corinzi 4,16) e la dignità della vecchiaia e del suo carisma può ancora essere chiamata a operare nel Regno di Dio. Perciò, come osservava lo scrittore Giovanni Arpino (1927-1987), “niente è più umano dell’invecchiare, niente è più naturale. Bisogna, però, saperlo, accettarlo, sorreggerlo senza cadere in giovanilismi schiocchi e pericolosi, senza pretendere di truccare le carte del gioco, senza fingere in positivo o in negativo”.

Abbiamo finora illustrato l’aspetto realistico della terza età, quello che faceva dire al tragico greco Euripide: “O vecchiaia, ognuno vuole a te arrivare; ma, quando ti ha trovato, si pente”. O faceva ironizzare un altro classico greco, Aristofane, che nella commedia Le nuvole dichiarava senza mezzi termini che “i vecchi sono due volte fanciulli”. Ora, invece, vorremmo esaltare l’aspetto positivo dell’anzianità, che ha in sé un suo valore e persino una sua bellezza, se è vero che il poeta inglese del Seicento John Donne, parlando del volto di sua moglie, come lui anziana, affermava che “nessuna bellezza primaverile o estiva ha una tale grazia quale ho visto in un volto autunnale”.

Nella Bibbia l’anziano è l’emblema del sapiente e del maestro e la sua testimonianza è vividamente presentata nella scena esemplare della celebrazione pasquale di Esodo 12, ove la generazione antica trasmette la risposta di Dio all’interrogativo della giovane generazione, riunita attorno alla tavola del pasto pasquale: “Voi osserverete tutto questo; è un decreto per te e per i tuoi figli per sempre… E quando i vostri figli domanderanno: Che cosa significa questo rito che state facendo?, voi risponderete: È il sacrificio della Pasqua per il Signore, che passò oltre le case d’Israele, percorse gli Egiziani e liberò le nostre case” (12, 24.56). Il tema della comunicazione della fede da parte della generazione anziana alla nuova discendenza è costante nella Bibbia: “Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato, non lo terremo nascosto ai loro figli ma diremo alla generazione futura le meraviglie che Dio ha compiuto” (Salmo 78,3-4).

L’anziano diventa, così, maestro di fede. Egli è radice anche dell’autentica sapienza: “Quanto si addice agli anziani saper consigliare! Quanto si addice la sapienza ai vecchi, il consiglio e la prudenza agli uomini venerandi! L’esperienza è corona degli anziani, la loro gloria è il timore di Dio” (Siracide 25, 4-6). Speriamo, perciò, che le nostre comunità abbiano sempre, come auspicava Paolo nella sua Lettera a Tito (2,2-5), questi “vecchi sobri, dignitosi, assennati, sani nella fede, nella carità, nella pazienza…, queste donne d’età che abbiano un santo decoro nel loro comportamento…che siano maestre nel bene, che sappiano insegnare alle giovani ad amare i loro mariti e i propri figli, ad essere prudenti, caste, affezionate alla casa, buone…”.

Certo, lo sguardo rivolto al passato può diventare facilmente conservatorismo chiuso, velleità nostalgica, pedanteria: sono rischi non ignorati anche dal messaggio biblico. Il vecchio può giungere a forme esasperate di orgoglio quando trasforma la sua esperienza in infallibilità. È il caso dell’ansiosa e tormentata vecchiaia di Saul la cui violenza diventa incubo, intolleranza e follia (“lo Spirito del Signore partì da Saul e uno Spirito cattivo, venuto da parte del Signore, lo teneva agitato”, (1Samuele 16, 14), o quello degli orgogliosi spettatori della scena dell’adultera (Giovanni 8, 1-11) che “incominciando dai più vecchi” dimostrano la reale miseria nascosta dietro la superba facciata “imbiancata” (Matteo 23, 27) del loro perbenismo. La polemica del Cristo contro ipocrisia e intolleranza deve richiamare l’anziano a una continua e coraggiosa autocritica che lo trasformi nel generoso padre della parabola del figlio prodigo (Luca 15), infinitamente più grande e aperto del giovane ed egoista figlio maggiore. O lo renda paziente e comprensivo come David anziano nei confronti del suo ribelle e turbolento figlio giovane Assalonne (2Samuele 18-19). O lo accomuni agli intelligenti e tolleranti consiglieri anziani di Roboamo, figlio di Salomone, contrapposti ai fanatici cortigiani giovani (1Re 12, 6-11).

Fermiamoci per ora qui con questo appello a ritrovare la dote che dovrebbe essere propria di chi ha molto vissuto (e anche molto sbagliato), cioè la sapienza. Essa non comprende che una parte di intelligenza: è, invece, soprattutto capacità di guidare, di insegnare, di dar gusto alle cose. Non per nulla il verbo latino che sta alla base è sàpere che significa “aver sapore”. È con questa passione di vita, con questo equilibrio saggio che l’anziano diventa maestro agli altri. È ciò che approfondiremo nella prossima puntata di questo particolare viaggio nel mondo della vecchiaia.


Fra Eulalio Valdés proclamato Beato – Giuseppe Magliozzi o.h.

Fra Eulalio Valdés proclamato Beato

Olallo - Beatificazione - Il Cardinale e il Presidente getpic


Olallo Caldès beato - Primo piano


Olallo Beatificazione - frayolallo5La stampa internazionale ha dato ampio rilievo alla cerimonia tenutasi a Cuba nella città di Camagüey il 29 novembre 2008 per la Beatificazione del nostro Confratello fra Eulalio Valdés, non solo perché era la prima volta che tale cerimonia veniva celebrata in quell’isola dei Caraibi, ma soprattutto perché vi perdura un regime comunista ancora piuttosto restrittivo nei confronti della Chiesa Cattolica.

In questa occasione, forse anche per la grande popolarità di fra Eulalio, che i cubani amano familiarmente invocare come Padre Olallo, il Governo ha offerto la più ampia collaborazione ed il Presidente Raul Castro era in prima fila alla Messa celebrata all’aperto dinanzi alla Chiesa della Carità, che affaccia sulla piazza più grande della città.

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Ha presieduto il Rito Sua Eminenza il cardinale José Saraiva Martins ed hanno concelebrato con lui il Nunzio Apostolico a Cuba e l’intero episcopato cubano, oltre al Vice Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, agli ausiliari di Miami e di Panama ed ovviamente al nostro Confratello vescovo, mons. José Luis Redrado, e ad altri vari sacerdoti, tra cui molti del nostro Ordine.

Come mai successo in altre Beatificazioni, accanto all’altare è stata deposta l’urna del Beato, che dopo il Rito i fedeli, mentre squillavano a distesa le campane della città ed erano liberati stormi di colombe[1], hanno riaccompagnato per 2 km fino alla Chiesa di San Giovanni di Dio, nella quale si trovava esposta alla venerazione fin dall’8 marzo 2004.

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Olallo Valdes  coi malati Srv123

Tra i fedeli convenuti a Camagüey per la Beatificazione c’era una rappresentanza dei Confratelli e dei Collaboratori di tutte le Province del nostro Ordine, i quali conserveranno un ricordo indimenticabile dell’evento, ma son convinto che la più commossa di tutti era una dodicenne del luogo, Danielita Cabrera, che a tre anni fu miracolata dal Beato e della quale riporto qui di seguito il testo integrale di un’intervista fattale alla vigilia della cerimonia e citata da quasi tutte le Agenzie di Stampa, ognuna però sintetizzandola a suo modo.

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- Ricordi qualcosa della malattia?

- Ricordo tante punture nelle vene. La mamma m’ha raccontato che avevo un cancro addominale e che i medici le dicevano che non sarei sopravvissuta.

- Che cosa sai del Padre Olallo?

- Che era un esperto fatebenefratello cubano che dedicò la sua vita ai malati, che amava come fratelli prediletti.

- Che cosa ti sembra della coincidenza di abitare in una strada oggi intitolata a Padre Olallo e prima ai Poveri?

- Al tempo del Padre Olallo la chiamavano dei Poveri perché ve ne vivevano tanti e lui passava di porta in porta recando cibo a ciascuno. È certo curioso che io viva proprio in quella strada, ma così son le cose di Dio.

- Pensi che sia stato Padre Olallo a guarirti?

- Mamma mi dice che all’ammalarmi tutti sia di casa, sia vicini ed amici, gli indirizzavano preghiere perché ottenesse da Gesù che io non morissi.

- A chi attribuisci la guarigione?

- A Gesù, per intercessione di Padre Olallo.

- Che provi al pensare che Dio ha scelto proprio te per concedere un miracolo ad intercessione del Padre Olallo?

- Ora che son cresciuta, posso dire che rendo grazie al Signore d’essere stata scelta per un miracolo, poiché nella corsia dell’Ospedale c’erano tanti altri bambini malati come me e che morirono.

- Andrai alla Beatificazione? Che cosa chiederai al Signore durante la Messa?

- Certo che ci andrò! Pregherò il Signore affinché il mio papà riesca ad avere un buon trapianto di rene e possa guarire; e chiederò al Buon Iddio di stendere la sua mano su tutti i bambini malati e di guarirli come ha fatto con me e che Egli regni in pace ed amore su tutta la terra.

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Ed a chiusura, cito la risposta data dal card. Saraiva Martins durante l’intervista concessa a Roberto Piermarini, quando questi gli ha chiesto perché amino additare come “padre dei poveri” il Beato Eulalio: “Viene definito il “padre dei poveri” perché lui ha vissuto una vita tutta dedicata ai poveri, ai malati.

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Mi ha sempre molto colpito, in questo servizio di carità, il fatto che fra Eulalio esercitasse questo suo ministero con un entusiasmo incredibile: era sempre vicino ai malati, ma come un fratello, come un padre gioioso, perché vedeva pienamente realizzata in quel servizio la propria vocazione. Ecco perché, certamente, è il “padre dei poveri” ed è un modello non soltanto per i Fatebenefratelli di cui faceva parte, ma per tutti coloro che oggi lavorano nelle cliniche e negli ospedali, e che hanno in lui un esempio bellissimo da seguire e da imitare: donarsi, senza riserve, ai poveri e con gioia, con entusiasmo, perché la gioia e l’entusiasmo fanno parte della fede cristiana.

Una fede cristiana, se vissuta senza gioia, non è fede cristiana; un servizio ai poveri, che non è fatto con gioia, non è un servizio cristiano”.

Fra Giuseppe MAGLIOZZI o.h.



[1] Non so se in voluto riferimento alla di lui patrona Santa Eulalia, od Olalla come l’amano invocare a Cuba, alla morte della quale gli astanti videro una colomba uscirle di bocca e volarsene al Cielo.

Fra Olallo Valdes verso la beatificazione – Giuseppe Magliozzi o.h.

mercoledì, 19 marzo 2008

OLALLO VALDES


verso gli altari

Olallo Valdes, Scolasticato di Manila oratory 009

Sarebbe il secondo santo cubano


Apri i video: Fray José Olallo Valdés catholicnewsagency

la santa astuzia del vescovo Valdés
Avana - La Cattedrale

La Cattedrale dell’Avana

Tre secoli or sono, quando molti erano sensibili al valore della vita nascente, accadde a Cuba che la gente rimanesse costernata nell’apprendere che un neonato, gettato via dai genitori, fosse stato divorato dalle bestie. Per impedire il ripetersi di tali gesti inconsulti, l’allora vescovo dell’isola, mons. Diego Evelino Hurtado de Compostela, pensò d’aprire un orfanotrofio e chiese al Re di Spagna d’approvare il progetto. La distanza dalla madre patria e la lentezza burocratica fecero sì che la richiesta fosse accolta con Regio Decreto del 16 maggio 1705, quasi un anno dopo la morte del vescovo, deceduto il 29 agosto 1704. Al suo posto fu nominato il 15 dicembre 1705 mons. Jerónimo Valdés, un personaggio sul quale merita soffermarsi non solo perché prese assai a cuore l’iniziativa, dandole piena attuazione, ma soprattutto per l’acume che vi dimostrò[1].
Egli era nato nel 1646 ad Aramil (Siero), nelle Asturie: i suoi genitori furono Domingo de Nosti e Toribia de Valdés ed egli assunse, essendoci allora libertà di scelta, come proprio cognome principale quello della madre. Entrato giovanissimo dai Monaci Basiliani, fu ordinato sacerdote a 25 anni. Addottoratosi in Teologia, ottenne una cattedra nell’Università d’Alcalà. Nell’ambito del suo Ordine ricoprì gli incarichi di Abate e di Provinciale. Fu consacrato vescovo a Madrid il 28 dicembre 1704 nel Monastero di San Basilio Magno ed assegnato oltremare, inizialmente a Portorico, ma prima di insediarvisi fu mutata la sua destinazione ed inviato a Cuba, dove giunse il 13 aprile 1706. Con zelo e ricchezza di iniziative guidò per oltre vent’anni la diocesi, finché a l’Avana lo colse la morte alle due del pomeriggio del 29 marzo 1729 e vi fu sepolto, in ossequio alle sue ultime volontà, nella chiesa dello Spirito Santo. Nel 1760, durante alcuni lavori di ristrutturazione di tale chiesa, il sepolcro fu traslocato e se ne perse traccia, finché fu nuovamente localizzato nel 1936 e poi dignitosamente ricostituito nel sito originario nel 1961.

Quest’attenzione nella capitale cubana a mantener vivo anche ai nostri giorni il ricordo di mons. Valdés si spiega soprattutto per le sue benemerenze sociali, avendo dotato la città nel 1711 dell’Orfanotrofio, nel 1718 del Convalescenziario di Belén e nel 1722 dell’Ospedale di San Lazzaro.

L’orfanotrofio costò 16.000 pesos e sorse ufficialmente col titolo di Casa de Niños Expósitos de La Habana[2], ma la gente prese a chiamarla più semplicemente Casa Cuna[3]. Nell’atrio c’era uno sportello con una ruota nella quale, generalmente a notte inoltrata per meglio passare inosservato, qualcuno veniva a deporre in una culletta il neonato e poi spariva, non prima d’aver rigirato verso l’interno la ruota e dato un colpo alla campanella affinché il personale accorresse a prendersi cura della nuova creatura, sfuggita in tal modo all’aborto e della quale venivano assicurati non solo lo svezzamento ma anche l’educazione.
L’Istituzione ebbe come prima sede il Convento di Santa Teresa e fu affidato alla protezione di San Giuseppe, ragion per cui nella Cappella fu posto un quadro che ritraeva il Santo mentre gli appariva in sogno l’angelo dicendogli accipe puerum[4]. Nel 1852 si trasferì e fuse con la Real Casa de Beneficencia, inaugurata nel 1792 nel versante orientale del Malecon e che da allora si chiamò Real Casa de Beneficencia y Maternidad de La Habana e conservò tale denominazione, tranne ovviamente l’aggettivo Real, anche dopo la fine dell’impero coloniale spagnolo e la proclamazione della Repubblica Cubana.
Nella versione cinematografica del romanzo di Graham Greene Il nostro agente all’Avana”, interpretato da Alec Guinness nel 1959, l’edificio della Casa di Beneficenza, in quegli anni ancora in feconda attività grazie alla presenza delle Suore della Carità di San Vincenzo de’ Paoli, compare in varie sequenze, dove viene però fatto passare come la scuola frequentata dalla giovane amica dell’attore. Oggi il fabbricato non esiste più, poiché al suo posto nel 1982 fu innalzato il moderno Hospital Docente Clínico Quirúrgico “Hermanos Ameijeiras”, che con i suoi 24 piani è l’edificio più alto del centro cittadino.
Solo una piccola targa ricorda oggi ai passanti la Casa Cuna, ma il ricordo imperituro è dato da quanti, nello scorrere dei secoli, vi sono stati riscattati da un destino di morte ed aiutati ad inserirsi nella società. E qui merita ricordare i vari di loro che, dopo aver beneficiato dello spirito di carità che contraddistinse la Casa Cuna, decisero di improntare la propria vita a tale spirito, riflettendolo e diffondendolo tra i bisognosi tramite la personale consacrazione al Signore quali religiosi dell’Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli. Nell’albo d’oro dell’Ordine è facile riconoscerli poiché portano tutti lo stesso cognome, Valdés, il che è un dettaglio che va ad onore del vescovo Valdés.
Bisogna, infatti, sapere che nella cultura europea, e di riflesso in quella coloniale, era usuale in passato attribuire ai neonati senza genitori ufficiali un cognome di fantasia, legato alle esigenze anagrafiche, ma che purtroppo bollava per sempre questi individui, poiché era crudamente la descrizione del loro stato civile. Nel Napoletano, ad esempio, il cognome usualmente imposto loro era quello di Esposito[5], a Roma quello di Proietti e così via, a seconda del termine usato localmente per indicare i trovatelli. Mons. Valdés decise di ribellarsi a quest’atroce uso e dette disposizione che nel suo Orfanotrofio tutti i figli di nessuno assumessero per l’anagrafe lo stesso cognome Valdés che aveva lui. La generosa direttiva continuò ad essere applicata per secoli e solo con l’avvento dell’attuale regime castrista si smise di attribuire ai trovatelli della Casa Cuna il cognome del vescovo Valdés e si preferì scegliere per ognuno un cognome preso a caso dall’elenco telefonico.
Normalmente il trovatello era abbandonato nella ruota assieme ad un foglietto con scritto il giorno di nascita e l’annotazione che non era stato ancora battezzato, poiché ovviamente il Battesimo avrebbe rischiato di far individuare la famiglia. Al Battesimo si provvedeva perciò nell’Orfanotrofio ed anche qui la santa astuzia del vescovo suggerì di dare almeno due nomi di battesimo, di cui il primo per i maschietti era generalmente Giuseppe, in onore del Santo Patrono della Casa Cuna, e l’altro variava per poter distinguere gli orfanelli tra loro.
La duplicità dei nomi di battesimo era per meglio nascondere lo stato civile. Dato che nella cultura spagnola è richiesto negli adempimenti ufficiali indicare dopo il nome di battesimo sia il cognome del padre sia il cognome della madre, quando una persona indica un solo cognome, risulta evidente che è un illegittimo. Quando ci si presenta tra amici, se la persona, senza entrare in spiegazioni, fornisce tre nomi, la tendenza di chi ascolta è di ritenere che il primo sia il nome ricevuto al battesimo, il secondo il cognome paterno ed il terzo quello materno. Di questa tendenza profittavano i trovatelli che, quando nel conversare capitava di dover fornire verbalmente le proprie generalità, snocciolavano uno dopo l’altro i due nomi di battesimo ed il loro unico cognome, con la speranza che si creasse l’equivoco e che nessuno facesse domande per fugarlo.
Questo è il motivo che nello scorrere l’elenco dei numerosi Valdés che entrarono nel nostro Ordine, scopriremo che avevano sempre doppio nome di battesimo. Naturalmente, nella loro cartella personale la certificazione fa netta distinzione tra nomi e cognomi, ma nelle relazioni interpersonali spesso la distinzione rimaneva fraintesa.
Ben due di questi nostri Valdés cubani sono ormai prossimi ad essere proclamati Beati dalla Chiesa: fra José Olallo Valdés, nato a L’Avana il 12 febbraio 1820 e morto in concetto di santità a Camagüey il 7 marzo 1889; e fra Jaime Oscar Valdés, nato a L’Avana il 6 gennaio 1891 e morto martire della fede a Valencia durante la Guerra Civile Spagnola il 7 agosto 1936.
Desta stupore che mentre il primo entrò nell’Ordine quando a Cuba esistevano due Comunità di Fatebenefratelli, di cui una proprio nella capitale, il secondo entrò in un momento di pausa di tale presenza, interrottasi con la morte appunto di fra José Olallo nel 1889 e ripresa solo nel 1941 con la costruzione di un Ospedale Psichiatrico nella capitale, seguita poi da altre due fondazioni, una nella capitale nel 1945 ed una a Camagüey nel 1992. Pare che fosse stata suor Rosa Homr[6], appartenente alle Comunità di Suore della Carità operanti nella Casa Cuna, ad indirizzare la vocazione ospedaliera di fra Jaime Oscar Valdés e del suo compagno José Angel Valdés, i quali assieme varcarono l’Oceano ed entrarono nel nostro Centro di Formazione di Ciempozuelos il 13 febbraio 1913.
Tornando a fra José Olallo Valdés, egli trascorse quasi tutta la sua vita religiosa a Camagüey, dove giunse il 13 aprile 1835 e non se ne mosse fino alla morte. Quando egli cominciò a presentarsi alle persone, la gente pensò che Olallo fosse il cognome paterno e tutti sempre lo chiamarono padre Olallo. Fu tale per ben 54 anni la sua dedizione ai malati, che quando morì, pur essendo l’ultimo sopravvissuto dell’Ordine a Cuba e non ci fossero Confratelli a rendergli gli estremi onori, l’intera popolazione si mobilitò non solo per i funerali, ma anche per erigergli un solenne monumento funebre con didascalie di commosso elogio, sulle quali spiccava la sintetica indicazione anagrafica di “Padre Olallo”.
Similmente, quando si concluse la dominazione spagnola ed il primo Consiglio cittadino nato col costituirsi della Repubblica Cubana si sentì in dovere di intitolargli la piazza dove sorgeva l’Ospedale di Camagüey, in cima alla lapide commemorativa che collocarono il 7 marzo 1901 sul portone d’ingresso dell’Ospedale posero la sintetica indicazione “Plaza del Padre Olallo”.
Negli anni seguenti a Camagüey si conservò sempre vivissimo il suo ricordo e quando si compì il centenario della morte un comitato cittadino organizzò solenni celebrazioni alle quali invitò anche i Fatebenefratelli, tornati ormai a Cuba da oltre quarant’anni. Intervenne personalmente alle celebrazioni l’allora Superiore Generale dei Fatebenefratelli, fra Brian O’Donnel, il quale acconsentendo all’esplicita richiesta del presule di Camagüey decise di promuovere l’apertura del Processo di Beatificazione, che poté iniziare già nel marzo 1990.
L’incartamento del Processo Diocesano fu spedito in Vaticano ed il primo febbraio 1991 l’Assemblea Ordinaria della Congregazione per le Cause dei Santi riconobbe la correttezza della procedura seguita. Nel verbale latino di tale seduta si parla di “Processus Servi Dei Iosephi Olallo Valdés”, ossia del Processo del Servo di Dio José Olallo Valdés, ma il fatto che José appare tradotto in latino ed invece Olallo no[7], è chiara conseguenza del fatto che tutte le testimonianze cubane parlavano di lui come padre Olallo, facendo supporre al consesso vaticano che fosse questo il cognome paterno.
Per la verità, nell’ampia biografia che la Postulazione dei Fatebenefratelli pubblicò nel 1994, non solo non viene nascosta la condizione civile di illegittimo di fra José Olallo Valdés, ma viene ampiamente precisata l’usanza di attribuire un duplice nome di battesimo ai trovatelli[8]. A tutt’oggi il Dicastero Vaticano non ha mostrato però d’averne preso nota, probabilmente perché lo stesso libro si guarda bene dall’avvalersi di tali dati per evidenziare l’inesattezza storica dell’appellativo popolare cubano, che anzi adotta come titolo di copertina.
Tanta cautela nasce dal desiderio di non creare rotture con un’ormai più che secolare consuetudine dei cubani, anche se errata, poiché é stata essa a permettere che il ricordo del frate non andasse perduto ed a giustificare l’apertura del Processo di Beatificazione.
Quando però si scrivono libri o articoli in altre lingue, credo non abbia senso adottare la stessa cautela e si debba invece dar priorità alla fedeltà storica, indicando con chiarezza il vero cognome, meglio se al contempo dando la traduzione d’entrambi i nomi di Battesimo, come già feci in un contestato articolo del 1998[9]; o quanto meno, come accettabile compromesso tra obiettività dei dati e salvaguardia della tradizione popolare, é opportuno che si lascino in spagnolo tutti e due i nomi di battesimo, identificandoli senza alcuna ambiguità come tali e magari raccontando come la santa astuzia del vedovo Valdés trasse in errore i cubani.
Fra Giuseppe MAGLIOZZI o.h.


[1] Il profilo biografico più attendibile di mons. Valdés è ancora quello pubblicato nel 1878 da Calcagno e disponibile in riedizione anastatica moderna: Francisco Calcagno, Diccionario Biográfico Cubano, Miami, Editorial Cubana, Inc., 1996. Per un profilo più recente cf. Jorge Le Roy y Gálvez,Fray Gerónimo Valdés. Obispo de Cuba. Su vida y su obra. La Habana, Impresos Vida Habanera, 1963.
[2] Casa dei Bambini Esposti de L’Avana.
[3] Cuna in spagnolo significa culla.
[4] Sono le parole latine del Vangelo (Mt 2,13) con le quali l’angelo invita San Giuseppe a prendere il bimbo nottetempo ed a metterlo in salvo, sottraendolo agli intenti omicidi di Erode.
[5] In pratica è l’equivalente, di memoria borbonica, del cognome spagnolo Expósito.
[6] Cf. Félix Lizaso Berruete,Jaime Oscar Valdés. Hermano de San Juan de Dios. Testimonio cubano de santidad por martirio, Barcelona, Orden Hospitalaria de San Juan de Dios – Postulación General, 2006, pp. 29-30.
[7] In latino Olallo corrisponde ad Eulalius. Sant’Eulalia fu martire a Mérida nel 304 e la sua devozione si diffuse ampiamente in Spagna, dove spesso finì popolarmente invocata come Santa Olalla e sotto tale denominazione ne fu particolarmente devoto San Giovanni Grande (cf. Salvino Leone, San Giovanni Grande. Genio e santità di un riformatore ospedaliero, Roma, Centro Studi “San Giovanni di Dio”, 1996, p. 32, nota 25).
[8] Cf. Francisco de la Torre Rodriguez, El Padre Olallo. Un Cubano Testigo de la Misericordia, Roma, Orden Hospitalaria de San Juan de Dios – Postulación General, 1994, pp. 100-109.
[9] Cf. Giuseppe Magliozzi, Il Papa e fra Giuseppe Eulalio, in «Vita Ospedaliera», LIII (1998), 3, p. 21.


Olallo Valdes Beato

Il  Servo di Dio Fra  José Olallo Valdés

(1820-1889, Religioso cubano dell’  Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio)

Decreto Beatificazione

Venerabile José Olallo Valdes

COMUNICATO DELLA POSTULAZIONE

E’ con grande gioia che in questa Domenica delle Palme vi informiamo che ieri, sabato 15 marzo, il Santo Padre Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione per le Cause dei Santi a promulgare il Decreto per la Beatificazione del nostro Confratello, il Venerabile José Olallo Valdés (1820-1889).
Con la promulgazione di questo Decreto, si approva il miracolo attribuito all’intercessione del Venerabile Servo di Dio, e ci viene concesso di iniziare ad organizzare la cerimonia di Beatificazione di José Olallo Valdés, che avrà luogo a Camagüey (Cuba).
Fra José Olallo Valdés sarà il secondo Beato per la Chiesa cubana, e il primo ad essere beatificato a Cuba. Sarà perciò un grande avvenimento per la Chiesa cubana che, attraverso la voce dei suoi Pastori, nell’ultimo messaggio di Natale ne ha parlato come di “un avvenimento molto significativo per la Chiesa di Cuba”.
Per il nostro Ordine, avere un nuovo modello di santità costituisce un motivo di grande gioia, che ci conferma come l’esperienza profonda della nostra spiritualità di misericordia e della nostra ospitalità costituisca un cammino per la santità.
Rendiamo grazie al Signore per questo passo definitivo, mentre imploriamo l’intercessione del nostro Fondatore e degli altri nostri Santi e Beati.
Roma, 16 marzo 2008
Fra Félix Lizaso Berruete, oh
Postulatore

Olallo oratory 007

La Cappella

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Famiglia Cristiana n.4 del 4 febbraio 1998 - Home PageDai nostri inviati a Cuba

ll ricordo di padre Varela,


l’eroe dell’indipendenza

di RENZO GIACOMELLI – foto di GIANCARLO GIULIANI / AP

Il Papa in preghiera davanti alla tomba del padre Félix Varela (nella foto, sotto). La tomba si trova non in una chiesa o in un cimitero, ma nell’aula magna dell’Università de L’Avana. Perché Félix Varela, prete della prima metà del secolo scorso, quando Cuba era ancora colonia spagnola, è uno dei grandi della cultura di questo Paese. È anzi considerato, per il suo grande impulso al rinnovamento pedagogico, «colui che insegnò ai cubani a pensare». Filosofo, prete esemplare, patriota insigne, fu deputato di Cuba alla corte di Spagna, dove si battè per la liberazione degli schiavi nelle colonie latino-americane, e questo sessant’anni prima dell’abolizione della schiavitù. Infaticabile fautore dell’indipendenza di Cuba, per sfuggire alla persecuzione del potere spagnolo, che lo condannò a morte, fuggì negli Stati Uniti dove morì nel 1853. Durante il trentennale esilio, fu parroco a New York, impegnatissimo nella pastorale per gli immigrati, per i quali aprì scuole, ospedali, asili. Nel 1985 è stata introdotta la causa di beatificazione del padre Varela.Il Papa in preghiera davanti alla tomba del padre Félix Varela.

Dopo la preghiera sulla tomba del grande patriota, il Pontefice ne ricorda l’impegno politico, con chiari riferimenti alla realtà attuale di Cuba. Il padre Varela, dice il Papa, «è

stato il primo a parlare di indipendenza in queste terre. Ha parlato anche di democrazia, considerandola il progetto politico più consono con la natura umana». Varela cercava Dio in tutto e soprattutto. «Ciò lo portò a credere nella forza di quel che è piccolo, nella efficacia dei semi di verità, nella convinzione che i cambiamenti devono avvenire con la dovuta gradualità verso le grandi e autentiche riforme». Riforme che portino «ad una società più giusta, più libera, più umana e più solidale».

Il Papa ricorda poi un altro “padre della patria”, lo scrittore e poeta José Martí, continuatore delle idee di Varela, e afferma: «Sono convinto che questo popolo ha ereditato le virtù umane, di matrice cristiana, di questi due uomini». Perciò è necessario continuare nel «dialogo culturale fecondo».

Il Papa conclude esprimendo la fiducia che «in futuro, i cubani raggiungano una civiltà della giustizia e della solidarietà, della libertà e della verità, una civiltà dell’amore e della pace». A sorpresa, ad ascoltare il Pontefice è venuto anche Fidel Castro. E pure lui applaude a lungo e con calore l’augurio di una società cubana più giusta e più libera. Nel futuro.

r.g.

Una corona per la Patrona di Cuba

Ogni discorso del Papa in terra cubana è terminato con l’invocazione alla Virgen de la Caridad del Cobre. È la patrona di Cuba, venerata fin dall’inizio del secolo XVII. Il santuario che le è dedicato sorge su una collina in un’area un tempo ricca di rame (cobre), a 25 chilometri da Santiago de Cuba, nella parte orientale dell’Isola. Questo luogo di pellegrinaggi, alle pendici della Sierra Maestra (dove incominciò la guerriglia di Fidel Castro e di Che Guevara), è intimamente legato alla storia patria: qui pregò e si impegnò per l’indipendenza di Cuba il “padre della patria”, Carlos Manuel de Céspedes; qui, nel luglio di cent’anni fa, fu celebrata la messa di ringraziamento per la fine della colonizzazione. Giovanni Paolo II non è salito al celebre santuario, per ragioni logistiche e di tempo, ma ha incoronato la piccola statua della Madonna “meticcia” (nella foto) durante la messa celebrata la mattina del 24 gennaio a Santiago.Giovanni Paolo II incorona la piccola statua della Madonna "meticcia".

Con la Madonna sono scesi a Santiago gli abitanti del villaggio di El Cobre, guidati dal parroco, padre Jorge Palma, che è anche rettore del santuario. «Al Cobre si tocca con mano, forse più che altrove, la grande crescita della religiosità negli ultimi anni a Cuba», dice il parroco. «Ogni domenica vengono al santuario dai 3 ai 4 mila pellegrini. L’8 settembre, festa della Virgen del Cobre, i pellegrini sono decine di migliaia: circa 60 mila se è giorno lavorativo, il triplo se è festivo. Chiedono di tutto: la guarigione dalle malattie, la pace in famiglia, il miglioramento del loro lavoro. Anche dalla visita del Papa il popolo si attende miracoli. Spera che ne segua maggiore benessere e che cadano molte barriere tra i cubani. Io spero che si proceda nella strada di maggiore tolleranza e rispetto per la religione intrapresa qualche anno fa e percorsa a grandi passi in occasione della visita del Santo Padre. Come ha detto il Papa, i credenti non chiedono privilegi. Chiedono di poter partecipare attivamente alla costruzione della nostra società».

r.g.

155° video – CUBA – Giornata storica a Cuba, la prima Beatificazione di Fra Olallo

Beato Giuseppe Olallo Valdes Religioso Fatebenefratelli

Radio Vaticana
29/11/2008 13.41.03

Giornata storica a Cuba per la prima Beatificazione nell’isola
caraibica: fra Olallo all’onore degli altari

Cuba sta vivendo una giornata storica: proprio in questo momento, nella città di Camagüey, il cardinale José Saraiva Martins, prefetto  emerito della Congregazione delle Cause dei Santi, sta presiedendo a nome del Papa la Messa per la Beatificazione di fra José Olallo Valdés, religioso professo dellOrdine Ospedaliero di San Giovanni di Dio vissuto nel 1800. Fra i presenti anche presidente cubano  Raul Castro.

Il servizio di Sergio Centofanti.

E la prima volta che nell’Isola caraibica si svolge un rito di Beatificazione. Il cardinale Saraiva Martins, che ha portato il saluto e la benedizione del Papa, ha affermato che quella di oggi è una “pietra miliare” per la Chiesa in Cuba e per tutto il popolo cubano, una tappa memorabile, che segue di dieci anni un altro evento storico, la visita di Giovanni Paolo II nell’isola.


Fra Olallo, ha detto il porporato con la sua dedizione ai malati, ci insegna, in un tempo pervaso da una cultura materialistica che esclude  i deboli e gli indifesi, che ogni uomo è voluto e amato da Dio e possiede  una singolarità e una bellezza irripetibili. Fra Olallo, abbandonato alla nascita  dai genitori, che mai conobbe, era il padre dei poveri come ha spiegato ai microfoni di Roberto Piermarini lo stesso cardinale Saraiva Martins:

R. Sì, viene definito il padre dei poveri ed anche il campione della carità, che è la stessa cosa, perché lui ha vissuto una vita tutta dedicata ai poveri, ai malati. Questo era il suo ideale, essere a servizio dei poveri, dei malati, soprattutto dei malati più abbandonati. Allora lui andava sempre rincorrendo questi poveri e malati e diceva: Questi sono i miei fratelli, i miei figli prediletti.
Quindi è un esempio vivo della carità di Cristo. Fra Olallo ha avuto sempre  presente, come principio di vita, le parole di Gesù: Tutto ciò che avrete fatto ad uno dei più piccoli dei miei fratelli, lo avete fatto a me.


Poi a me ha colpito sempre molto, in questo servizio di carità, il fatto che fra Olallo esercitava questo suo ministero con un entusiasmo incredibile: era sempre vicino ai malati ma come un fratello, come un padre, un padre gioioso perché vedeva in quel servizio la sua vocazione pienamente realizzata. Ecco perché, certamente, è il campione dei poveri, è il padre dei poveri, è un modello anche per coloro che oggi, seguendo le parole di Gesù, dedicano la loro vita a questo ministero dei malati. Non soltanto una lezione per i membri dei fratelli dellOrdine di San Giovanni di Dio di cui lui, Olallo era membro, ma per tutti coloro che oggi lavorano nelle cliniche e negli ospedali, hanno qui un esempio bellissimo da seguire e da imitare: donarsi, senza riserve ai poveri e con gioia, con entusiasmo, perché la gioia e lentusiasmo fanno parte della fede cristiana. Una fede cristiana, se è vissuta senza gioia, non è fede cristiana; un servizio ai poveri che non è fatto con gioia, non è un servizio cristiano. Fra Olallo l’ha capito molto bene e ne era così convinto che lui era disposto a dare la vita per difendere i poveri.

D. Fra Olallo è molto amato a Cuba. Quale eredità ha lasciato la sua opera alla Chiesa cubana?

R. Certamente ha lasciato un grande entusiasmo tra i cubani. E molto ben  voluto, fra Olallo e per loro è come un padre. Perciò, l’eredità che ha lasciato ai cubani, è proprio questo entusiasmo di vivere la propria fede, il non scoraggiarsi mai anche in mezzo alle difficoltà perché fra Olallo ha avuto sempre molte difficoltà  le ha superate sempre coraggiosamente, pensando a Cristo, servitore dei poveri.


Allora, questa è leredità principale secondo me che lui ha lasciato ai cubani: vivere la fede, vivere la solidarietà che noi cristiani chiamiamo carità, e sapere  sempre che noi non siamo delle monadi ma siamo dei membri di una comunità.

La carità, per noi credenti, è una legge necessaria, non è facoltativo ma è un’esigenza, un dovere stringente: esattamente quello  che ha fatto fra Olallo.

http://www.oecumene<WBR>.radiovaticana.<WBR>org…

Canto:

Virgen de la Caridad Patrona di cuba
Santuario del Cobre
Santiago de Cuba

IN PELLEGRINAGGIO

CON IL PADRE OLALLO

Santuario del Cobre
Santuario del Cobre
Entrada del Santuario
Entrada del Santuario
La Virgen del Cobre
La Virgen del Cobre
Ofrendas
Ofrendas
Nicho de la virgen
Nicho de la virgen
La Virgen de la Caridad del Cobre
La Virgen de la Caridad del Cobre
Santuario por detrás
Santuario por detrás
Interior del Templo
Interior del Templo
La Virgen del Cobre y la Bandera Cubana
La Virgen del Cobre y la Bandera Cubana
Altar
Altar
Altar
Altar
La Virgen del Cobre
La Virgen del Cobre
Santuario por detrás
Santuario por detrás
Las Minas
Las Minas
La Hosteleria
La Hosteleria
La Virgen del Cobre
La Virgen del Cobre
Agradeciendo a la Virgen
Agradeciendo a la Virgen
Agradeciendo a la Virgen
Agradeciendo a la Virgen
La Virgen de la Caridad del Cobre
La Virgen de la Caridad del Cobre
Monumento al Cimarrón
Monumento al Cimarrón
Camino al Santuario
Camino al Santuario
Capilla de la Virgen
Capilla de la Virgen
Fondo del Santiuario
Fondo del Santiuario
Hospedería del Cobre
Hospedería del Cobre
Lateral
Lateral
Fondo del Santuario del Cobre
Fondo del Santuario del Cobre

JOSE’ OLALLO VALDES “BEATO” Salvino oh – Magliozzi oh

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Beato José Olallo Valdés

Camagüey (Cuba), 29 novembre 2008

“Ricordo anche il Servo di Dio José Olallo, dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, testimone della misericordia, la cui vita esemplare al servizio dei più bisognosi è un fecondo esempio di vita consacrata al Signore. Auspichiamo che il suo processo di canonizzazione si concluda presto e possa essere invocato dai fedeli”. Sono, queste, le parole che  pronunciò papa Giovanni Paolo II nella Cattedrale metropolita di La Habana, a Cuba, nel contesto del suo storico  viaggio nell’isola caraibica, il 25 gennaio 1998. Proprio 10 anni dopo, il 29 novembre 2008, questo auspicio è “parzialmente” realizzato.

Quel giorno, infatti, a Camagüey, fra José Olallo Valdés, è stato dichiarato Beato. Il rito di beatificazione ha destato comprensibile e immensa gioia nel popolo cubano e nei pastori della Chiesa locale, ma ha anche avuto notevole risonanza e risalto sulla stampa e nei mezzi di comunicazione internazionali, per la sua straordinarietà; è stata, infatti, la prima beatificazione celebrata in territorio cubano, Paese ufficialmente refrattario a manifestazioni di popolo che non fossero organizzate dal regime comunista, che da 50 anni governa la grande Isola. La preparazione e la celebrazione del solenne rito sono stati una grande festa e testimonianza di fede, caratterizzata da vere manifestazioni di giubilo, di intensa e folta partecipazione, con quella calorosa e colorata ritualità che è tipica di quei paesi. Era molto numerosa anche la presenza dei religiosi e dei collaboratori dell’Ordine, che non hanno voluto mancare a questa solenne celebrazione, provenienti da tutti i Paesi nei quali l’Ordine è presente. Anche la Provincia era rappresentata da quattro confratelli.

Il rito di beatificazione è stato preceduto la sera del 28 novembre da un Gala culturale, nel corso del quale, tra esibizioni di danza classica e contemporanea, esecuzione di brani operistici e di musica da camera, come pure di alcuni canti corali, veniva presentata, con suggestivi dialoghi, la figura e l’opera di fra Olallo, il tutto tenutosi nella piazza S. Giovanni di Dio, di fronte all’antico ospedale dei Fatebenefratelli, ora “Museo Pubblico San Giovanni di Dio”.

Alle ore 8.00 di sabato 29 novembre la gremita piazza della Carità ha accolto festante il cardinale José Saraiva Martins, Prefetto emerito della Congregazione per le Cause dei Santi, i vescovi dell’isola di Cuba e numerosi sacerdoti, che facevano il loro ingresso per iniziare la celebrazione dell’Eucaristia. Erano presenti anche il Presidente del Consiglio di Stato e dei Ministri, Castro e altri autorevoli esponenti del Governo centrale e locale.
Dopo la petizione del vescovo di Camagüey e la presentazione della vita dell’ancora Servo Dio da parte del postulatore dell’Ordine, fra Felix Lizaso, il Cardinale ha letto il decreto con quale papa Benedetto XVI dichiarava “Beato” fra Olallo. A questo sono seguiti lo svelamento quadro raffigurante il volto del nuovo Beato ed il volo delle colombe e di palloncini che hanno animato e colorato l’azzurro e terso cielo di Camagüey.
Momenti emozionanti sono stati quando alcuni religiosi Fatebenefratelli, tra il suono festoso
delle campane e il gioioso inno che presentava la vita di fra Olallo, hanno portato a spalla su una portantina l’urna dorata contenente le reliquie del Beato e quando, durante la processione offertoriale, Daniela Cabrera Ramos, (la bambina che a tgre anni è stata guarita da un linfoma non Hodkin, tipo Burkitt, al terzo stadio, per lp’intercesione di Fra Olallo), ha portato all’altare i doni: tutti i vescovi hanno voluto affettuosamente abbracciare la ragazza, ora tredicenne, testimone del prodigio divino che ha contribuito in modo determinante alla causa di beatificazione del religioso cubano.

Lo stesso cardinal Saraiva, nella sua omelia, ha voluto richiamare alcuni aspetti della vita e dell’opera del nuovo Beato, definendolo “una pietra miliare per la Chiesa di Cuba e per tutto il popolo cubano” e come apostolo della carità cristiana nei confronti dei poveri, dei bisognosi e di tutti i malati, anche di quelli che erano dichiaratamente nemici della fede cristiana e della stessa Chiesa cattolica. Così il Prelato terminava il suo intervento: “Di fronte ad una cultura materialista sempre più imperante e che si dimentica dei deboli e degli abbandonati, apprendiamo da padre Olallo la virtù di  confidare in Cristo, di saper amare il prossimo in modo universale”.

Terminata la solenne Eucaristia e dopo il saluto del Padre Generale, fra Donatus Forkan, questi ha donato a tutti i vescovi delle Diocesi di Cuba e di Miami un reliquiario del Beato. Una solenne e lunga processione tra due ali di folla religiosamente festante, ha accompagnato l’urna delle reliquie presso la chiesa di San Giovanni di Dio, situata accanto a quell’ospedale dove il Beato visse e operò ininterrottamente per oltre cinquanta anni.

Fra Olallo, da tutti i fedeli chiamato “padre”, ora riposa ed è venerato in quella stessa chiesa nella quale per molti anni si raccoglieva in preghiera e partecipava all’Eucaristia con alcuni “suoi” malati. Si sa che egli morì la vigilia della solennità di San Giovanni di Dio, il 7 marzo 1889, e con la sua morte terminò anche la presenza dell’Ordine Ospedaliero a Cuba, dove era attiva e operante fin dal 1603. Per molti decenni, a causa anche delle diverse vicende
politiche, i religiosi dell’Ordine non ebbero più possibilità di tornare a Cuba e la figura di fra Olallo venne dimenticata. Ma il popolo di Camagüey ne ha sempre  conservata integra la memoria: per loro fu un varo padre premuroso e sollecito, rispettoso e determinato, colui che aveva amato Cuba e la sua gente e che non aveva mai abbandonato i poveri e i malati che accoglieva, assisteva e curava personalmente. Per questo, a lui subito innalzarono, nel cimitero della città, un monumento funerario nel quale vollero incidere il ricordo della diuturna consolante attività assistenziale del religioso,
aggiungendo tali parole: “Questo monumento arriverebbe al cielo, se lo formassero i cuori dei poveri grati al Padre Olallo che li assistette per 53 anni nell’ospedale di San
Giovanni di Dio”.

Dopo molti anni di incolpevole dimenticanza, con il ritorno dei Fatebenefratelli a Cuba nel 1942, questi constatarono la viva memoria del loro confratello, ma ancora per le note vicende rivoluzionarie, fuori Cuba non se ne parlava, fino a quando, nel recente 1989, in occasione del I centenario della morte di fra Olallo, venne invitato a Cuba il Priore Generale  dell’Ordine, fra Brian O’Donnel, che con altri confratelli toccarono con mano la reale “popolarità” e stima del religioso cubano. Così, venne aperta la Causa per il processo di canonizzazione, che, grazie al miracolo avvenuto nel 1999, ha portato alla sua beatificazione.


L’Ordine attualmente è presente a Cuba con tre centri assistenziali (due a La Habana: Sanatorio San Juan de Dios e Clinica San Rafael; e uno a Camagüey: Casa Padre Olallo) e alcuni religiosi, tra i quali quattro cubani; tutto ciò è concreta e visibile testimonianza che fra Olallo, fedele discepolo di San Giovanni di Dio, è stato seme fecondo perché il carisma dell’Ospitalità potesse rifiorire e svilupparsi in terra Cubana.

Salvino Zanon o.h.


Urna reliquie Beato Olallo

Beato Giuseppe Eulàlio VALDES

dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio

Oh Dio, Padre Onnipotente, Nella «Vita del Beato Giuseppe Eulàlio VALDES Tu ci hai dato un esempio mirabile, manifestando tua Misericordia con i malati ei poveri. Donaci, per sua intercessione, Che ha infiammato dal tuo amore SI PUÒ imitare il nostro Signore Gesù, Buon Samaritano, Che vive e regna con Te e con lo Spirito Santo, un solo Dio, nei secoli dei secoli. Amen.

Beato Giuseppe Eulàlio VALDES

(1820-1889)

Beato Giuseppe Eulàlio VALDES, OH è nato il 12 febbraio 1820 UNO L’Avana, Cuba. Si è unito al dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio in età molto giovane e fu subito TRASFERITO all’ospedale Camaguey per assistere le Vittime del Colera 1835 Peste. Dopo 54 anni di servizio dedicato ai malati e ai poveri di Camaguey, Che comprendeva SIA I tempi di Carestia e di guerra, scomparso il 7 marzo 1889. La sua morte così spostato i Cittadini di Camaguey, Che una Moltitudine partecipato al Suo funerale e pianto Il suo passaggio. Br. Eulàlio fu proclamato Beato nel Camaguey il 29 novembre 2008.

Per informazioni: ohmanila@yahoo.com

155 ° video – CUBA – Giornata storica a Cuba, la prima Beatificazione di Fra Olallo

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Cuba - Beatificazione di Fra Olallo Valdès dei Fatebenefratrelli

Olallo caldès beato - FBF

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Il rapporto tra fede e filosofia, il nichilismo: un dialogo fra Giovanni Reale e Dario Antiseri

Sito Web Italiano per la Filosofia-Avvenire-2 FEBBRAIO 2001

filosofia

I CREDENTI E LA SCOMMESSA DEL PENSIERO

Roberto Righetti

La fede cristiana s’accorda con una sola filosofia? O va oltre il pensiero umano e non si lega dunque a nessuna singola formulazione speculativa? E si può dunque parlare o no di “filosofia cristiana”? È questo uno dei temi del dialogo fra Giovanni Reale e Dario Antiseri che esce ora in libreria per i tipi di Cortina col titolo Quale ragione? (pagine 314, lire 38.000). Entrambi credenti, autori insieme del manuale per le superiori più adottato nelle scuole italiane, i due filosofi si cimentano senza timori sui temi più forti del confronto tra fede e ragione.

Antiseri, cui va il merito di aver importato in Italia il pensiero di Karl Popper e della “società aperta” in tempi in cui il dogmatismo ideologico condizionava fortemente lo sviluppo delle idee, dichiara subito la sua posizione antimetafisica: “La fede – si chiede – ha davvero bisogno di trascinarsi sulle stampelle delle diverse metafisiche?”. E racconta un episodio dei suoi anni giovanili. Era il 1962 e il suo maestro Pietro Prini gli affidò una tesina su Gilbert Ryle: il problema era come conciliare fede cristiana e filosofia analitica.

In quei giorni ebbe a incontrare a Roma Sofia Vanni Rovighi la quale, interrogata in proposito, rispose: “Io, come cristiana, mi sono trovata bene nella tradizione scolastica e tomista; altri si sono trovati bene in altre tradizioni. Proseguite pure, con onestà, a studiare gli autori che trovate e troverete di vostro interesse”. Su questa linea per Antiseri il credente non si deve legare a nessuna filosofia precisa, ma entrare in dialogo con tutte, compreso il pensiero debole. È un’illusione. dice Antiseri, pensare di imbrigliare la verità cristiana nelle secche di un sistema filosofico.

Diverso l’atteggiamento di Reale, studioso del pensiero antico: per lui se è vero che Dio non ha bisogno per rivelarsi della scala dei nostri sillogismi, tuttavia, quando si vuole esprimere i contenuti della fede in modo razionale, non si può fare a meno dei concetti desunti dalla metafisica. Anche Reale racconta un aneddoto, più recente. Si tratta di un colloquio col cardinale Martini durante una visita pastorale compiuta dall’arcivescovo a Luino. Dopo la messa, Reale chiede confidenzialmente a Martini se è ancora opportuno presentare l’eucarestia nella forma classica, ossia parlando di transustanziazione, o se non è meglio oggi stare al testo evangelico mantenendo il senso di mistero che esse implicano.

Dopo un attimo di silenzio, Martini gli risponde: “Lei intende dire che la chiamata in causa del concetto di transustanziazione con le connesse categorie aristoteliche di sostanza e di accidente risulta dipendente da una determinata cultura, mentre la parola di Dio è al di sopra. Lei mi chiede cosa ne penso e io le rispondo. Vuole che io mi scosti dalle parole del Vangelo e che insegni al mio Signore come si dovrebbe parlare? Io dico quelle stesse parole che ha detto Lui e con Lui ripeto: “Questo è il mio corpo dato per voi, fate questo in memoria di me”".

Reale accoglie dunque, sulla scia peraltro della Fides et ratio, il concetto che la Chiesa non propone una propria filosofia ufficiale né canonizza una qualsiasi filosofia particolare a scapito di altre, ma al contempo sostiene che “la metafisica si pone come mediazione privilegiata nella ricerca teologica”. Proprio nell’enciclica il Papa cita come pensatori cristiani moderni filosofi assai diversi fra loro (da Newman a Maritain, da Solov’ev a Florenskij), a dimostrazione che la fede non si esaurisce certo all’interno di un solo pensiero. Ma giunta a termine la parabola delle metafisiche dell’immanenza (da Hegel a Marx), Wojtyla indica nel nichilismo, ovvero nella rinuncia alla ricerca della verità – una verità che il filosofo non arriva mai a possedere completamente – , uno dei pericoli del postmoderno. Invitando poi i filosofi contemporanei a volare alto, a vincere la tentazione della disperazione da parte della ragione. Una sfida che interpella tutti, credenti e non credenti.

L’ENCICLICA “FIDES ET RATIO E GIUSEPPE MOSCATI – Alfredo Marranzini s.j.

L’Enciclica “Fides et Ratio” e Giuseppe Moscati

L’Enciclica “Fides et Ratio”
e la testimonianza di Giuseppe Moscati

Alfredo Marranzini s.j.

San Giuseppe Moscati

San Giuseppe Moscati

La tredicesima Enciclica “Fede e Ragione”, firmata da Giovanni Paolo II il 15 settembre 1998, affronta la questione dei rapporti tra ragione e fede. Il testo, si articola in sette capitoli: Rivelazione della sapienza di Dio; Credo per capire; Capisco per credere; Rapporto tra fede e ragione; Interventi del Magistero in materia filosofica; Integrazione tra teologia e filosofia; Compiti attuali.

Nell’impossibilità di dare una visione esauriente di questo denso testo, che si estende per 142 pagine, mi limito a qualche accenno sul suo nucleo centrale.

L’argomento a prima vista sembrerebbe riservato ai vescovi, ai teologi, ai filosofi e agli uomini di cultura. In realtà esso interpella tutti noi, perché ognuno è ansioso di conoscere la verità e trovare una risposta agli interrogativi fondamentali della propria esistenza: Chi sono? Da dove vengo e dove vado? Qual è il senso della presenza del male, della sofferenza, della morte? Che cosa ci sarà dopo questa vita?”

Questi interrogativi affiorano prima di Cristo non solo nei libri del Vecchio Testamento ma anche nei Veda, negli Avesta, negli scritti di Confucio, di Lao-Tze, nella predicazione di Tirthankara e Budda, nei poemi di Omero, nelle tragedie di Euripide e Sofocle, nei trattati filosofici di Platone e Aristotele. Essi possono trovare una risposta solo se si scioglie in antecedenza la questione primaria ed ineliminabile della verità, che attraversa tutti i periodi della vita individuale e della storia dell’umanità.

Sin dall’esordio il Papa ci avverte: “La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità. È Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui, perché conoscendolo e amandolo, possa giungere alla piena verità su se stesso”.

L’annuncio cristiano, basato sulla rivelazione che è verità, fa appello a tale apertura della ragione, per penetrare nei nostri cuori. Non vi può essere quindi contrapposizione, separazione tra fede cristiana e ragione umana, perché ambedue, pur essendo distinte, sono unite nella verità, svolgono un proprio ruolo specifico e trovano in essa il loro fondamento.

L’Enciclica, alla vigilia del terzo millennio, indaga il rapporto tra fede e ragione, e di conseguenza tra teologia e filosofia: perché la fede deve occuparsi della ragione e la ragione non può fare a meno della fede?

La storia del cristianesimo ha conosciuto splendidi periodi di armonia tra fede e ragione, tra teologia e filosofia, ma anche momenti di duro contrasto contro ogni lettura riduttiva dell’una o dell’altra disciplina.

Il clima filosofico e culturale attuale nega per lo più alla ragione la capacità di conoscere la verità, e le attribuisce solo una funzione strumentale, utilitaristica, sociologica. Cosi la filosofia perde la sua dimensione metafisica, e le scienze umane ed empiriche diventano il criterio unico della razionalità.

La ragione scientifica e storica non s’interessa affatto delle verità ultime dell’esistenza, limitandosi alle conoscenze sperimentali. La fede, relegata così nel soggettivismo e nella privatizzazione intimistica, non sarebbe più in grado di comunicarsi e farsi valere sul piano razionale e culturale. Pertanto, trovandosi la ragione in una situazione debole, “tutto è ridotto a opinione”, e ci si accontenta di “verità parziali e provvisorie”.

Di fronte a questa situazione culturale il Papa riafferma con forza la nostra capacità di conoscere Dio e di raggiungere, nonostante i nostri limiti, le verità fondamentali dell’esistenza: la spiritualità e immortalità dell’anima, la possibilità di fare il bene e di seguire la legge morale naturale, l’idoneità a formulare giudizi veri, l’affermazione dell’autentica libertà dell’uomo.

L’uomo però è in grado di conoscere con la sua ragione la verità di Dio, di se stesso e del mondo, se dispone di una filosofia aperta agli interrogativi fondamentali dell’esistenza, alla totalità del reale, senza chiusure pregiudiziali.

San Giuseppe Moscati - libri di medicina suo sudio

Testi di Medicina che Giuseppe Moscati teneva nel suo studio medico

La fede cristiana non può quindi accettare le filosofie che escludono la capacità dell’uomo a conoscere la verità metafisica, come il positivismo, il materialismo, lo scientismo, l’eclettismo, il relativismo, il nichilismo.

La fede invece, difendendo la possibilità di una riflessione razionale che conserva la propria autonomia e il suo specifico metodo di ricerca, salvaguarda la dignità dell’uomo e promuove la stessa filosofia. Escludere l’uomo dall’accesso alla verità, negargli “l’insaziabile bisogno del bene, la fame della libertà, [...] la voce della coscienza” (Fides et Ratio 5), costituisce la radice di ogni alienazione.

Ragione e fede convergono nell’ammettere la capacità di conoscere le verità e la Verità. La Fides et Ratio insiste a tal fine sul ruolo della filosofia accanto alla teologia, e, nella filosofia, sul compito della riflessione razionale sulla concezione della verità come rispondenza tra la realtà e l’intelligenza. Secondo Clemente Alessandrino la filosofia greca “non rende più forte la verità, ma confuta gli attacchi proditori dei sofisti contro la verità”.

Rigettata ogni forma di fideismo, Giovanni Paolo II ricorda che il sapere filosofico costituisce un mezzo idoneo per cogliere la Rivelazione. Il Mistero cristiano non potrebbe essere rivelato e neppure essere reso intelligibile e trasmissibile dalla teologia senza un sapere filosofico, altrimenti la teologia giungerebbe solo all’analisi dell’esperienza religiosa e non permetterebbe all’intelligenza della fede di esprimere con coerenza il valore universale della verità rivelata.

La Fides et Ratio pone un nesso inscindibile tra verità e libertà. La libertà non è semplice capacità di compiere scelte indifferenti o interscambiabili, ma possiede un orientamento verso la pienezza di vita e di verità.

La nostra libertà è inscindibilmente legata alla verità dell’uomo creato ad immagine di Dio, e consiste soprattutto nell’amore di Dio e del prossimo.

Son questi solo alcuni spunti desunti dai sette capitoli dell’Enciclica, che offre un messaggio di fermezza e di apertura, il quale mostra che la fede, come accoglienza della verità di Dio rivelatosi in Gesù Cristo, non costituisce una minaccia né per la ragione né per la libertà, anzi le custodisce e valorizza.

Equilibrio fra scienza e fede in Giuseppe Moscati

Nel leggere l’Enciclica Fede e Ragione, il mio pensiero è corso istintivamente a S.Giuseppe Moscati. Il nunzio apostolico Giuseppe Roncalli (poi Giovanni XXIII), nel ringraziare l’arcivescovo di Amalfi Ercolano Marini, per avergli inviato in omaggio la biografia, da lui stesa, del Moscati, nella lettera inviata da Sofia il 3 novembre 1929, definiva Giuseppe Moscati “mirabile figura di laico perfetto; splendido fiore di santità e di scienza, onore del nostro secolo e della nostra razza: lumen Ecclesiae.[...] novello luminare, il cui chiarore, come quello del sole, è destinato a espandersi e ad accendere tante anime” (1).

Nel 1930 Agostino Gemelli, che aveva più volte incontrato a Napoli Moscati, scriveva di lui: “C’era in quella chiara, limpida coscienza che aveva della propria missione un’altissima comprensione tanto della scienza quanto della futura attività di professionista, come semplici mezzi ad un’opera più infinitamente nobile ed alta: scienza ed azione si risolsero per il Moscati in un bene irradiato dall’amore” (2).

L’equilibrio armonico fra scienza e fede fu per Moscati una lenta conquista, nell’ambiente in cui uno studente di medicina doveva allora modellare la propria formazione professionale, ma fu anche e soprattutto una certezza posseduta intimamente, la quale guidò poi le sue ricerche, illuminò le sue cure, animò il suo insegnamento, che ha lasciato impronte incancellabili nell’animo dei suoi discepoli.

In Italia, dopo il 1860 e soprattutto dopo il 1870, sono largamente diffusi il naturalismo scientifico e l’hegelismo idealistico. Mentre spira con impeto violento un vento politico settario, non pochi si abbandonano a forme scientifiche e filosofiche di moda, demolitrici di ogni tradizione. Per di più i fautori “nuova scienza” mostrano uno zelo “pseudoreligioso” nel propugnare una fede atea o agnostica.

San Giuseppe Moscati - lo studio medico

Studio medico del Prof.Moscati

Nell’Università di Napoli si accendono vivaci contrasti, specie tra la facoltà di Filosofia e quella di Medicina: la prima pervasa da idee fichtiane ed hegeliane, dominata dal gergo asciutto, quasi matematico e ironico, di Bertrando Spaventa; la seconda sotto l’influsso dilagante del positivismo scientifico. I giovani vengono così invitati a divinizzare la materia, da quelle stesse cattedre da cui avevano insegnato grandi maestri dello spirito, quali Tommaso d’Aquino e Giambattista Vico.

Il giovane Moscati però ha già una visione di fede in contrasto con l’atmosfera agnostica e atea di non poche aule universitarie. Certo non può non risentire della dialettica positivistica ed hegeliana, e sarebbe stato facile lasciarsi affascinare da uomini di scienza che, chiusi in una indifferenza sdegnosa verso qualsiasi realtà metafisica e trascendente, rigettano ogni affermazione filosofica e teologica su quanto è al di là del puro dato sperimentale.

Intanto l’ingegno di Moscati – aperto e avido di sapere – è pronto ad accogliere ogni immagine ed elemento di vita, ed avverte forte il gusto per la filosofia, la letteratura, la storia, le arti e il pensiero in genere. Di fronte agli attacchi contro la fede, che nutre continuamente con letture ascetiche e teologiche, con la riflessione e preghiera sulla parola di Dio, non si lascia fuorviare.

Lo studente Moscati si laurea brillantemente a 23 anni, e alcuni mesi dopo, il 17 ottobre 1904, scrive: “Lo scetticismo è degli spiriti deboli” (3).

Da uomo di scienza non si arroga un assurdo potere discrezionale sui limiti della conoscenza; Si apre senza pregiudizi alla rivelazione di Dio e alla realtà integrale dell’uomo, e si volge con totale dedizione a Dio e “all’infinita bellezza di tutti gli esseri creati a sua immagine e somiglianza”.

Si rende conto che restringere la prospettiva della conoscenza a ciò che è quantificabile e raggiungibile solo con le proprie risorse non è conforme all’autentica vocazione dell’intelligenza umana, perché l’uomo è creato uno nelle sue diverse possibilità di conoscere il reale: siano esse analitiche o sintetiche, induttive o deduttive, sperimentali o intuitive.

Fa suo l’insegnamento della Chiesa, secondo il quale Dio, che mediante la sua Parola ha creato ogni cosa e dirige l’universo al suo fine, può essere conosciuto attraverso lo sforzo della ragione umana, se essa lo ricerca utilizzando l’analogia della conoscenza naturale.

Medita la parola di Gesù: “La verità vi fa liberi” (Gv 8,32), ne riceve luce per la meditazione mattutina, per la contemplazione della natura, per la sua attività di scienziato e di medico.

Moscati mantenne quest’atteggiamento da studente, da ricercatore, da docente e clinico, con lo sguardo fisso in Dio e in dialogo con uomini di ogni credo e ideologia, portando a tutti l’afflato della sua fede ardente e l’aiuto fraterno della scienza più aggiornata.

Valgono anche per noi le parole che Moscati diceva ai suoi allievi: Perseverate nell’amore alla Verità, a Dio che è la Verità medesima, a tutte le virtù, e così potrete espletare il vostro esercizio professionale come una missione” (Lettera del 3 settembre 1923 al Dott.Alfonso Preziosi, che si era laureato in Medicina).

Scriveva il 22 luglio 1922 al Dott.Agostino Consoli: Una sola scienza è incrollabile e incrollata, quella rivelata da Dio, la scienza dell’aldilà. In tutte le vostre opere mirate al Cielo e all’eternità della vita e dell’anima, e vi orienterete allora molto diversamente da come vi suggerirebbero pure considerazioni umane, e la vostra vita sarà ispirata al bene”.

In una lettera al Dott.Antonio Guerricchio, che dopo aver frequentato il corso di specializzazione tornava a Matera, per iniziare la professione, Moscati scrive: Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo in alcuni periodi; e solo pochissimi son passati alla storia per la scienza, ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell’eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa, una metamorfosi per un più alto ascenso, se si dedicheranno al bene. [...] Mi conforta che abbiate conservato in voi qualche cosa di me; non perché valga nulla, ma per quel contenuto spirituale che mi sforzai di trattenere e diffondere intorno: compito sublime, ma tanto irraggiungibile colle mie povere forze”.

L’esempio di Moscati ha assunto nuovo vigore per l’autorevolezza che gli proviene dal suo inserimento nel catalogo dei santi, fatto da Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987. Al Medico Santo chiediamo che venga accolto il messaggio dell’Enciclica: “La grandezza dell’uomo non può essere [...] nel decidere del proprio destino e del proprio futuro confidando solo in se stesso e sulle proprie forze. Determinante per la sua realizzazione sarà soltanto la scelta di inserirsi nella verità, costruendo la propria abitazione all’ombra della Sapienza e abitando in essa. Solo in questo orizzonte di verità comprenderà il pieno esplicitarsi della sua libertà e la sua chiamata all’amore e alla conoscenza di Dio come attuazione suprema di sé” (Fides et Ratio, 107).


NOTE

1 – Alfredo Marranzini: Giuseppe Moscati, modello del laico cristiano di oggi, Roma 1989, p.6.
2 – Agostino Gemelli: Un’esemplare figura di medico: il laico Prof.Giuseppe Moscati, Vita e Pensiero 1930, 26.
3 – Giuseppe Moscati: Scienza e Fede, pensieri scelti a cura di Sebastiano Esposito s.j., Messina 1991.


L’Enciclica Fides et ratio ed il rapporto fra fede e ragione – Joseph Ratzinger

Ratzinger inginocchiato di fronte a Wojtyla

L’Enciclica Fides et ratio ed il rapporto fra fede e ragione

di Joseph Ratzinger

N.B. Il testo è la trascrizione dell’intervento di S.Em il card. Joseph Ratzinger all’incontro su “Fede e ricerca di Dio” tenuto il 17 novembre 1998 nella Basilica Lateranense, Cattedrale di Roma.


Per introdurci ai contenuti essenziali della Lettera Enciclica “Fides et ratio”, permettetemi di cominciare con una citazione presa dalle “Lettere di Berlicche” del noto scrittore e filosofo inglese C.S. Lewis. Si tratta di un piccolo libro pubblicato per la prima volta nel 1942, che mette in luce i problemi ed i pericoli dell’uomo moderno in modo spiritoso ed ironico sotto la forma di immaginarie lettere di un diavolo di grado più elevato, che ad un principiante nell’opera di seduzione dell’uomo trasmette istruzioni, su come egli debba comportarsi. I

l piccolo diavolo aveva espresso preoccupazioni al suo superiore per il fatto che proprio persone particolarmente intelligenti leggessero i libri della sapienza degli antichi ed in tal modo avrebbero potuto mettersi sulle tracce della verità. Berlicche lo tranquillizza ricordandogli che l’approccio storico, al quale fortunatamente gli studiosi del mondo occidentale sono stati convinti dagli spiriti infernali, significa appunto questo, “che l’unico problema, che con sicurezza non si porrà mai, è quello della verità di ciò che si è letto; ci si interrogherà invece su influssi e dipendenze, sullo sviluppo dello scrittore interessato, sulla storia degli effetti della sua opera e così via”.

Josef Pieper, che nel suo trattato sull’interpretazione ha ripreso questo brano di C.S. Lewis, ricorda al riguardo che le edizioni, ad esempio di Platone o di Dante, stampate nei paesi dominati dal comunismo facevano precedere sistematicamente alle opere stampate un’introduzione, che aveva l’intenzione di comunicare al lettore una comprensione “storica” e cosi escludere la questione della verità. Una scientificità esercitata in tal modo diviene un’immunizzazione nei confronti della verità.

La domanda se e quanto ciò che l’autore esprime sia vero, sarebbe una domanda non scientifica; condurrebbe anzi fuori dall’ambito del documentabile e del dimostrabile, facendo ricadere nell’ingenuità del mondo pre-critico. In tal modo viene neutralizzata anche la lettura della Bibbia: possiamo spiegare quando e in quali condizioni una frase ha avuto origine e l’abbiamo così incasellata nell’ambito storico, che ultimamente non ci riguarda.

Dietro questa forma di “interpretazione storica” sta una filosofia, un atteggiamento di fondo nei confronti della realtà, che ci dice: non ha senso interrogarsi su ciò che è; possiamo solo domandarci che cosa possiamo fare con le cose. Non è in questione la verità, ma la prassi, il dominio delle cose a nostra utilità. Nei confronti di una simile apparentemente illuminante limitazione del pensiero umano sorge naturalmente l’interrogativo: che cosa veramente ci è utile? e per quale fine ci è utile? per quale scopo noi stessi esistiamo?

A chi osserva con attenzione si manifesta in questo atteggiamento moderno contemporaneamente una falsa umiltà ed una falsa presunzione: la falsa umiltà, che non riconosce all’uomo la capacità di verità, e la falsa presunzione, con la quale egli si colloca al di sopra delle cose, al di sopra della verità stessa, in quanto eleva a fine di tutto il suo pensiero l’ampliamento del suo potere, il dominio sulle cose.

Sullo sfondo di questo orientamento generale del pensiero moderno si comprende meglio l’intenzione dell’Enciclica, il suo significato per il momento storico attuale: Essa vuole restituire all’uomo il coraggio della verità, incoraggiare nuovamente la ragione all’avventura della ricerca della verità. A questo riguardo si veda quanto dice sul compito dell’interpretazione, proprio avendo presenti tutte le indicazioni di Berlicche: “L’interpretazione di questa Parola (della Parola di Dio) non può rimandarci soltanto da interpretazione a interpretazione, senza mai portarci ad attingere un’affermazione semplicemente vera”.

L’uomo non è rinchiuso nel gabinetto degli specchi delle interpretazioni; egli può e deve tentare di aprirsi un passaggio a ciò che è veramente reale; egli deve chiedersi chi egli è, e per fare questo, deve anche chiedersi se Dio esiste, chi è Dio e che cosa è il mondo. L’uomo, che non pone più queste domande, diventa privo di criteri e smarrito. Di fatto si sta diffondendo, ad esempio, la tesi secondo cui i diritti umani sarebbero un prodotto culturale del mondo giudaico-cristiano e si rivelerebbero incomprensibili e senza fondamenti al di fuori di esso.

Ma che avviene allora? Quando l’uomo non può più riconoscere criteri comuni che vadano al di là delle culture? Quando non gli appare più riconoscibile l’unità dell’essere umano? Non diviene allora inevitabile elevare barriere in cui rinchiudere razze, classi, nazioni?

L’uomo, che al di là di tutte le frontiere non può più riconoscere nell’altro la sua comune essenza, ha perduto la sua identità. Come uomo è in pericolo. Perciò la questione della verità, la filosofia nel suo senso classico ed originario non è un passatempo delle culture del benessere, che possono concedersi questo lusso, ma una questione di essere o non essere dell’uomo. E per questo il Papa invita con tanta decisione a rompere le barriere erette dall’eclettismo, dallo storicismo, dallo scientismo, dal pragmatismo, dal nichilismo ed anche a non abbandonarsi ad una forma di postmodernità, che sfocia in un decadente compiacimento nella stessa negatività, come rinuncia ad ogni senso e sceglie di accontentarsi del provvisorio e dell’effimero.

Chi pone il problema della verità, è oggi – come già accennato – necessariamente rimandato al problema delle culture e della loro reciproca apertura. Alla pretesa di universalità del cristianesimo, che si fonda sull’universalità della verità, si contrappone oggi facilmente la relatività delle culture. Praticamente la missione cristiana non avrebbe diffuso la verità concernente tutti gli uomini allo stesso modo, ma avrebbe sottomesso le altre culture alla propria cultura europea e così distrutto la ricchezza delle culture sviluppate dai singoli popoli. La missione appare così come uno dei grandi peccati dell’Europa, come la forma originaria di colonialismo, e quindi praticamente di alienazione culturale degli altri popoli.

Che nella storia delle missioni si siano commessi degli errori, nessuno lo potrà contestare. Che la molteplicità culturale dell’umanità debba trovare spazio nella Chiesa come nella casa comune degli uomini, è oggi da tutti riconosciuto. Ma nella critica radicale della missione cristiana a partire dal punto di vista delle culture è in questione qualcosa di più profondo: ci si chiede se possa semplicemente esistere una comunione delle culture nella verità che le unisce; ci si chiede se la verità possa essere espressa per tutti gli uomini al di là delle sue configurazioni culturali o se ultimamente dietro la diversità delle culture si possa sempre solo presagire una verità in modo asintotico.

Il Papa ha dedicato a questo problema, a motivo della sua importanza, diversi paragrafi della sua Enciclica. Egli sottolinea che “le culture, quando sono profondamente radicate nell’umano, portano in sé la testimonianza dell’apertura tipica dell’uomo all’universale e alla trascendenza”. Perciò le culture come espressione dell’unica essenza dell’uomo sono caratterizzate dalla dinamica dell’uomo, che supera tutte le frontiere. Perciò le culture non sono fissate una volta per tutte su di una forma; ad esse appartiene la capacità di progredire e di trasformarsi, e certamente anche il pericolo del decadimento. Esse sono predisposte all’incontro e alla mutua fecondazione. P

oiché l’apertura interiore dell’uomo a Dio le plasma tanto più quanto più grandi e pure esse sono, per questo in esse è iscritta l’interiore apertura per la rivelazione di Dio. La rivelazione non è qualcosa di estraneo ad esse, ma risponde ad un’attesa interiore alle culture stesse. Theodor Häcker a questo riguardo ha parlato del carattere avventizio delle culture precristiane, e nel frattempo molte ricerche di storia delle religioni hanno potuto mostrare anche in modo molto evidente questo cammino delle culture verso il Logos di Dio, che in Gesù Cristo si è fatto carne.

Il Papa riprende in questo contesto la tavola dei popoli del racconto di Pentecoste degli Atti degli Apostoli (2, 7-11), che ci narra come la testimonianza resa a Gesù Cristo, superando la barriera di tutte le lingue, diviene percepibile in tutte le lingue, cioè in tutte le culture che si esprimono in una lingua.

In tutte queste culture la parola dell’uomo diviene portatrice della parola stessa di Dio, del suo proprio Logos. Dice l’Enciclica: “L’annuncio del Vangelo nelle diverse culture, mentre esige dai singoli destinatari l’adesione della fede, non impedisce loro di conservare una propria identità culturale. Ciò non crea divisione alcuna, perché il popolo dei battezzati si distingue per una universalità che sa accogliere ogni cultura…”.

Il Papa poi sviluppa, a partire dall’incontro con la cultura indiana, i principi fondamentali per il rapporto della fede cristiana con le culture precristiane. Egli richiama innanzitutto molto brevemente il grande slancio spirituale del pensiero indiano, che lotta per la libertà dello spirito dai condizionamenti spazio-temporali e così realizza in pratica la apertura metafisica dell’uomo, che poi ha anche ricevuto organica forma di pensiero in significativi sistemi filosofici.

Con questo richiamo si rende evidente la tendenza universalistica delle grandi culture, il loro superamento di spazio e tempo e così anche la loro capacità di penetrare nell’essere dell’uomo e nelle sue più alte possibilità. Qui trova il suo fondamento la capacità di dialogo reciproco delle culture, in questo caso fra la cultura indiana e le culture, che sono cresciute sul terreno della fede cristiana. Così dal profondo contatto con la cultura indiana emerge per così dire spontaneamente il primo criterio: esso consiste nell’“universalità dello spirito umano, le cui esigenze fondamentali si ritrovano identiche nelle culture più diverse”.

Di qui segue subito un secondo criterio: “quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha acquisito dall’inculturazione nel pensiero greco-latino. Rifiutare una simile eredità sarebbe andare contro il disegno provvidenziale di Dio…”. Infine l’Enciclica nomina un terzo criterio, che deriva dalle riflessioni finora fatte sulla natura della cultura: ci si deve guardare dal “confondere la legittima rivendicazione della specificità e dell’originalità del pensiero indiano con l’idea che una tradizione culturale debba rinchiudersi nella sua differenza ed affermarsi nella sua opposizione alle altre tradizioni; ciò che sarebbe contrario alla natura stessa dello spirito umano”.

Quando il Papa insiste sull’irrinunciabilità dell’eredità culturale acquisita, che è divenuta un veicolo per la comune verità su Dio e sull’uomo stesso, si pone naturalmente la questione se in tal modo non viene canonizzato un eurocentrismo della fede, che non sembra neanche superato dal fatto che nella successiva storia della fede anche una nuova eredità possa entrare, e di fatto è entrata, nella permanente identità della fede che concerne tutti.

La domanda resta dunque inevitabile: quanto greca e quanto latina è in realtà la fede, che per altro non è sorta nel mondo greco e latino, ma in quello semitico del Medio Oriente, nel quale si sono da sempre incontrati e si incontrano Asia, Africa ed Europa. L’Enciclica prende posizione su questo problema soprattutto nel suo secondo capitolo sullo sviluppo del pensiero filosofico all’interno della Bibbia e nel quarto capitolo presentando l’incontro decisivo di questa sapienza della ragione cresciuta nella fede con la sapienza greca della filosofia. Al riguardo vorrei qui brevemente dire quanto segue:

Già nella Bibbia stessa viene rielaborato un patrimonio di pensiero religioso e filosofico pluralistico derivante da diversi mondi culturali. La Parola di Dio si sviluppa nel contesto di una serie di incontri con la ricerca dell’uomo di una risposta alle sue domande ultime. Non è caduta direttamente dal cielo, ma è propriamente una sintesi delle culture. Ad uno sguardo più profondo è però possibile individuare un processo, nel quale Dio lotta con l’uomo e lo apre lentamente alla sua parola più profonda, a se stesso: al Figlio, che è il Logos, La Bibbia non è semplicemente espressione della cultura del popolo di Israele, ma si trova costantemente in conflitto con la tendenza, del tutto naturale di questo popolo, ad essere semplicemente se stesso, a rinchiudersi nella sua propria cultura.

La fede in Dio ed il Sì alla volontà di Dio gli viene costantemente strappato contro le sue proprie concezioni e desideri. Si pone continuamente contro la religiosità propria di Israele e la propria cultura religiosa, che voleva esprimersi nel culto delle alture, nel culto della regina del cielo, nella ricerca di potere per il proprio regno. Cominciando dall’ira di Dio e di Mosè contro il culto del vitello d’oro al Sinai fino ai profeti del tardo postesilio si tratta sempre del fatto che Israele viene strappato alla sua propria identità culturale ed ai suoi desideri religiosi, che deve per così dire abbandonare il culto della propria nazionalità, il culto “del sangue e della terra”, per piegarsi al totalmente altro, al Dio che non gli appartiene, che ha creato il cielo e la terra ed è il Dio di tutti i popoli.

La fede di Israele significa un continuo autosuperamento della propria cultura per aprirsi ed entrare nella vastità della verità comune a tutti. I libri dell’Antico Testamento possono apparire sotto molti aspetti meno pii, meno poetici, meno ispirati che non significativi passi dei libri sacri di altri popoli. Ma la loro originalità risiede in questo carattere conflittuale della fede contro ciò che è proprio, in questo uscire da ciò che è proprio, che comincia con il pellegrinaggio di Abramo. La liberazione dalla legge, che Paolo raggiunge a partire dal suo incontro con Gesù Cristo risorto, porta questo orientamento di fondo dell’Antico Testamento al suo fine logico: esprime pienamente l’universalizzazione di questa fede, che viene liberata dalla particolarità di un ordinamento etnico. Ora tutti i popoli sono invitati ad entrare in questo processo di superamento della particolarità, che ha avuto inizio innanzitutto in Israele, a rivolgersi a quel Dio, che da parte sua si è oltrepassato in Gesù Cristo ed ha infranto il “muro dell’inimicizia” che era fra noi (Ef 2,14) e ci conduce l’uno verso l’altro nell’autospoliazione della croce. La fede in Gesù Cristo è pertanto di sua natura un continuo aprirsi, irruzione di Dio nel mondo umano e aprirsi dell’uomo in risposta a Dio, che nello stesso tempo conduce gli uomini l’uno verso l’altro. Tutto ciò che ci appartiene ora appartiene a tutti, e tutto ciò che è degli altri diviene allo stesso tempo anche nostro, questa totalità indicata dalla parola del Padre al figlio maggiore: “Tutto ciò che è mio è tuo” (Lc 15, 31), che ritorna nella preghiera sacerdotale di Gesù come parola del Figlio al Padre: “Tutto ciò che è mio è tuo, e tutto ciò che è tuo è mio” (Gv 17, 10).

Questo modello fondamentale determina anche l’incontro del messaggio cristiano con la cultura greca, che in realtà non ha inizio solo con la missione cristiana, ma si era sviluppata già all’interno delle Scritture dell’Antico Testamento, soprattutto attraverso la sua traduzione in greco e a partire da questa nel periodo del primo giudaismo. Questo incontro fu possibile, perché nel frattempo nel mondo greco si era fatto strada un simile processo di autosuperamento. I Padri non hanno semplicemente versato nel vangelo una cultura greca autonoma ed a se stante. Essi poterono riprendere il dialogo con la filosofia greca e renderla strumento del vangelo, dal momento che nel mondo greco alla ricerca di Dio si era messa in moto una autocritica della propria cultura e del proprio pensiero. La fede ha avvicinato i diversi popoli – cominciando con i Germani e gli Slavi, che vennero in contatto con il messaggio cristiano al tempo delle grandi migrazioni dei popoli, fino ai popoli dell’Asia, dell’Africa, dell’America – non alla cultura greca in quanto tale, ma al suo autosuperamento, che fu il vero punto di collegamento nell’utilizzazione del pensiero greco per l’interpretazione del messaggio cristiano. A partire da questa apertura la fede ha attirato la cultura greca sempre più in una dinamica dell’autosuperamento. Richard Schäffler recentemente ha detto al riguardo molto acutamente che la predicazione cristiana fin dall’inizio esige dai popoli dell’Europa (che per altro come tale non esisteva prima della missione cristiana), “l’abbandono… di ogni Dio autoctono degli Europei, molto prima che apparissero sulla scena le culture extraeuropee”. A partire di qui si può comprendere perché l’annuncio cristiano cercava un collegamento con le filosofie, e non con le religioni. Dove quest’ultimo collegamento fu tentato, dove ad esempio si volle interpretare Cristo come il vero Dioniso, Asclepio o Ercole, tali tentativi sono stati presto considerati come sorpassati. Non si è cercato un collegamento con le religioni, ma con le filosofie, per il fatto che non si è canonizzato una cultura, ma si è potuto penetrare al suo interno, in quanto essa aveva cominciato ad uscire da se stessa, si era messa in cammino per aprirsi alla verità a tutti comune ed aveva abbandonato dietro di sé la chiusura nella sua particolarità. Ciò è anche oggi un’indicazione fondamentale per il problema dei contatti e del trapasso al altri popoli e culture. Certamente la fede non può stringere legami con filosofie, che escludono la questione della verità, ma certamente lo può fare con quei movimenti, che cercano di uscire dalla prigione relativistica. Certamente essa non può riallacciarsi immediatamente alle antiche religioni: tali tentativi avvennero nel tempo del Cristianesimo nascente, laddove ad esempio i culti misterici diedero un nuovo contenuto alla venerazione degli antichi dei o anche correnti filosofiche interpretarono in modo nuovo l’antica dottrina sugli dei. Certamente tuttavia le religioni possono offrire forme e strutture, ma soprattutto atteggiamenti – il timore reverenziale, l’umiltà, la disponibilità al sacrificio, la bontà, l’amore del prossimo, la speranza nella vita eterna. Ciò mi sembra – sia detto di passaggio – essere importante anche per la questione del significato salvifico delle religioni. Esse sono salvifiche non per così dire in quanto sistemi chiusi e per la fedeltà dei loro aderenti al proprio sistema, ma esse contribuiscono alla salvezza, laddove conducono l’uomo, “a cercare il volto di Dio” (come si esprime l’Antico Testamento), “a cercare il regno di Dio e la sua giustizia”.

Permettetemi a conclusione di toccare brevemente ancora due importanti concetti dell’Enciclica. Vi è innanzitutto l’accenno alla “circolarità tra fede e filosofia”. L’Enciclica la intende nel senso che la teologia ha come punto di partenza sempre la Parola di Dio, ma poiché questa Parola è verità, la collocherà sempre in relazione con la ricerca umana della verità, con l’impegno della ragione per la verità e così nel dialogo con la filosofia. La ricerca della verità da parte del credente si realizza così in un movimento, nel quale ascolto della Parola divenuta storia e ricerca della ragione si incontrano continuamente. In tal modo da una parte la fede si approfondisce e si purifica, dall’altra però anche il pensiero riceve arricchimento, perché gli si dischiudono nuovi orizzonti. A me sembra che si potrebbe sviluppare ancora un poco questa idea della circolarità: anche la filosofia come tale non dovrebbe rinchiudersi nella sua particolarità e nel frutto delle sue riflessioni. Così come essa deve stare in ascolto delle scoperte empiriche, che maturano nelle diverse scienze, così dovrebbe anche prendere in considerazione la sacra tradizione delle religioni e soprattutto il messaggio della Bibbia come una fonte della conoscenza, dalla quale essa può essere fecondata. Di fatto non esiste nessuna grande filosofia, che non abbia ricevuto dalla tradizione religiosa illuminazioni ed indicazioni, se noi pensiamo alle filosofie della Grecia e dell’India o alla filosofia, che si è sviluppata all’interno del Cristianesimo o anche alle filosofie moderne, che erano convinte dell’autonomia della ragione e ritenevano questa autonomia della ragione come criterio ultimo del pensiero ma rimanevano nondimeno debitrici dei grandi temi del pensiero, che la fede biblica ha lungo il cammino offerto alla filosofia: Kant, Fichte, Hegel, Schelling non sarebbero pensabili senza gli apporti della fede, e lo stesso Marx, anche se nella sua radicale reinterpretazione, vive tuttavia pur sempre degli orizzonti della speranza, che aveva ripreso dalla tradizione ebraica. Laddove la filosofia spenga totalmente questo dialogo con il pensiero della fede, essa finisce – come Jaspers una volta bene ha espresso – in una “serietà vuota”. Alla fine essa si vede allora costretta a rinunciare alla questione della verità, cioè a rinunciare a se stessa. Infatti una filosofia, che non si interroga più su chi noi siamo, perché esistiamo, se sono realtà Dio e la vita eterna, come filosofia è finita.

Con queste considerazioni è connessa la seconda riflessione, che volevo ancora menzionare. L’Enciclica parla espressamente degli apporti della fede alla filosofia, dei compiti, che essa le pone con questi apporti. Menziona innanzitutto alcune scoperte ed alcuni concetti fondamentali, che il pensiero filosofico non può trascurare: il concetto del Dio personale e più in generale il concetto di “persona”, che solo nell’incontro tra fede e filosofia fu formulato. In questo contesto l’Enciclica rimanda al concetto di uomo come immagine di Dio, cioè alla antropologia relazionale della Bibbia, nella quale l’uomo viene concepito come essere in relazione ed a partire di qui, dalla condizione relazionale dell’uomo, diviene visibile poi anche quel Dio che in esso è rappresentato. A ciò si aggiunge come ulteriore concetto fondamentale il concetto di peccato e di colpa; segue il concetto dell’uguaglianza e della libertà degli uomini così come l’idea di una filosofia della storia. A partire di qui il Papa formula poi tre postulati della fede alla filosofia: essa deve ritrovare la dimensione sapienziale di ricerca del senso ultimo e globale della vita; inoltre il Sì alla capacità di verità dell’uomo, da cui consegue poi, come terza, l’esigenza di una filosofia di portata autenticamente metafisica. Ciò significa a sua volta che il pensiero umano non può arrestarsi al fenomeno, ma deve raggiungere al di là delle apparenze l’essere stesso, deve passare dal “fenomeno al fondamento”. Oggi l’impossibilità di andare al di là del fenomeno, dell’aspetto delle cose che ci appare, è divenuto addirittura un dogma. Ma non è forse l’uomo in realtà amputato nel suo essere più profondo, se si arresta solo alle apparenze e non conduce quindi egli stesso ultimamente una vita solo apparente? In questo punto delicato del pensiero odierno si tocca direttamente il cuore del messaggio evangelico. Per il vangelo di Giovanni nella decisione di fede cristiana si tratta proprio di questo, che l’uomo non si pieghi alle apparenze e così non eriga l’apparenza a realtà ultima, ma che al di là delle apparenze ricerchi la gloria di Dio, cioè lo splendore luminoso della verità e ad essa si rivolga. La dittatura dell’apparenza può oggi essere chiaramente osservata su due piani: per l’azione politica, per l’agire pubblico in generale spesso oggi conta ciò che al di là dei fatti “appare”, viene detto, scritto e mostrato, più che i fatti stessi. L’opinione, che viene diffusa, è più importante di quel che in realtà è avvenuto. Nei confronti del messaggio biblico la cosiddetta immagine moderna del mondo diviene – ad esempio in Bultmann – il vero criterio di giudizio, che decide di ciò che può essere e non può essere, sebbene per altro questa immagine del mondo, se è interpretata correttamente, non intenda affatto decidere sull’essere, sul reale, sul possibile e sull’impossibile, ma rileva i determinismi dei fenomeni che ci appaiono, niente di più. Il Papa sottolinea in questo contesto giustamente i limiti del concetto di “esperienza”, che oggi – coerentemente con la dominante limitazione alle apparenze – viene spesso innalzato anche nella teologia a criterio ultimo. L’Enciclica al riguardo dice: “La Parola di Dio fa continui riferimenti a ciò che oltrepassa l’esperienza”. Essa può fare questo, perché l’uomo non è limitato al mondo delle apparenze, dell’esperienza soggettiva. Di fatto la riduzione all’esperienza doveva avere come conseguenza il fissare l’uomo sulla realtà soggettiva. La rivelazione è più di un’esperienza, ma proprio così ci dona un’esperienza di Dio e ci aiuta a mettere insieme le nostre esperienze, ad ordinarle correttamente, a comprenderle nel discernimento degli spiriti criticamente e positivamente ed a comunicarle. Io penso che nell’attuale dibattito filosofico e teologico proprio questi brani dell’Enciclica debbano provocare ulteriori riflessioni ed interrogativi e così potranno divenire una valida fecondazione della ricerca culturale di questo nostro tempo.

Vorrei concludere rinviando ad un commento all’Enciclica, che è apparso nel settimanale tedesco “Die Zeit” di solito piuttosto lontano dalla Chiesa. Il commentatore, Jan Ross, coglie con grande esattezza il cuore della lettera papale, quando dice che la detronizzazione della teologia e della metafisica ha “reso il pensiero non solo più libero, ma anche più ristretto”, anzi, egli non ha timore di parlare di “istupidimento per mancanza della fede” (“Verdummung durch Unglaube”). “Dal momento che la ragione si è allontanata dalle questioni ultime, si è resa indifferente e noiosa, è divenuta incompetente per le questioni vitali del bene e del male, della morte e dell’immortalità”. La voce del Papa “ha dato coraggio a molti uomini e ad interi popoli, per molti è anche risuonata all’orecchio in modo duro e tagliente ed ha perfino suscitato odio, ma se essa tace, sarà un attimo di silenzio terribile”. Di fatto se non si parla più di Dio e dell’uomo, di peccato e di grazia, di morte e di vita eterna, allora le tante parole, che sentiamo ininterrottamente, saranno solo un vano tentativo di coprire l’ammutolire di ciò che è autenticamente umano. Il Papa ha inteso contrastare il pericolo di un tale silenzio con la sua “parresia”, con la franchezza impavida della fede, e compie così un servizio non solo per la Chiesa, ma anche per l’umanità. Per questo dobbiamo essergli grati.


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LA FEDE E IL PROBLEMA DELLA VERITA’ – Emanuele Severino

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La fede e  il problema della verità

Emanuele Severino

Perché si ha fede? (1 , 2)

Severino Emanuele filosofoSEVERINO: Buongiorno. Sono Emanuele Severino e sono qui per discutere con voi il tema

La fede e il problema della verità.

Adesso vediamo la scheda filmata preparata dalla regia e poi sentiremo le Vostre domande.

C’è una tensione fondamentale al fondo della fede cristiana, poiché la fede è un atto gratuito, è un dono della grazia. Non siamo costretti a credere, dai fatti o dalla contemplazione dell’ordine naturale delle cose.

Credere in Dio presuppone che riconosciamo delle affermazioni, dei testi, come la sua parola. Può succedere che delle parole, pronunciate per caso per strada o lette in un libro, ci colpiscano e ci appaiano rivolte a noi.

I testi sacri e le enunciazioni delle Chiese devono entrare in questo processo speciale della comprensione, si devono trasformare da mere dottrine o concezioni del mondo in parole che Dio rivolge a ciascuno di noi, parole in cui crediamo, crediamo che dicano il vero. Ma questo atto di fede, di identificazione di Dio e di fiducia in lui, comporta un’immensa pretesa alla verità assoluta.

Il Dio in cui crediamo non è uno fra tanti, come nella concezione pagana della religione, ma è l’unico, vero Dio che parla con perfetta conoscenza delle cose. Perciò la sua verità è anche la verità in assoluto, l’unica verità. È proprio perché il Dio cristiano si presenta come l’unica autentica verità che il Cristianesimo ha sempre presentato un potenziale di fanatismo e di assolutismo.

Eppure la verità di Dio può esistere solo nel contesto della fede, nell’atto speciale e soprannaturale di credere che alcune parole siano rivolte a noi da Dio. Solo in quel contesto quelle parole si trasformano nella voce di Dio. Fuori dalla fede sono parole tra le parole, che trasmettono un messaggio tra gli altri. E in questo ambito non possono forse essere criticate o contestate ed essere dimostrate talvolta sommamente irragionevoli e false?

Solo nella possibilità di non essere credute, di non ispirare attenzione e fiducia, le parole della religione possono divenire in alcuni casi, per alcuni individui, la parola di Dio.

STUDENTESSA: Nel Suo libro: A Cesare e a Dio, Lei definisce il Cristianesimo come quell’alienazione che poi caratterizza la storia dell’Occidente. In che modo dobbiamo intendere questa affermazione?

SEVERINO: Ha incominciato con la parte più difficile. In tutta la storia dell’Occidente c’è la convinzione che l’uomo e le cose sono caduchi, precari. Dice il Vecchio Testamento: “Adamo è polvere e tornerà ad esser polvere”. È il vecchio Dio a dirlo. Ecco, si tratta di capire che qui sta l’alienazione, nel pessimismo estremo col quale anche il Cristianesimo, come tutte le altre forme della cultura occidentale, pensa l’uomo. Quindi la critica, che dal mio punto di vista viene rivolta al Cristianesimo, non è una critica riduttivistica, dove io mi pongo, mi schiero con coloro che dicono: “C’è soltanto il mondo”. No, c’è di più di Dio, c’è qualcosa di più di Dio. Ecco, questo tanto per dare una direzione a una risposta che, se fosse giusta, ci prenderebbe tutto il tempo della trasmissione.

STUDENTESSA: Un Suo libro, mi sembra nel ’71, è stato messo all’indice, è stato condannato dalla Chiesa. Può spiegarci dove nasce il contrasto con la Chiesa, dove è nato il problema?

SEVERINO: No, non è stato messo all’indice. A un certo momento c’è stato un divorzio consensuale tra me e la Chiesa. Nel senso che, a un certo momento, mi sono reso conto che il discorso filosofico, che già avevo fatto da tempo, implicava la negazione del Cristianesimo. Allora, io insegnavo all’Università Cattolica, un po’ per inerzia, perché ho sempre avuto un’educazione cattolica, la mia famiglia era cattolica – ho perfino degli zii che erano gesuiti -, ho studiato al Liceo Classico “Arici” di Brescia, dove ha studiato Paolo VI.

Però nel contempo c’era mio fratello che era a Pisa e sentiva Giovanni Gentile. Quella è stata la prima voce diversa che ascoltavo in sede cattolica, in scuole cattoliche. Allora, a un certo momento – andiamo però negli anni Sessanta -, mi resi conto che quel discorso che avevo già fatto non poteva tollerare una sorta di alleanza, di solidarietà col Cristianesimo, un po’ per i motivi che ho detto prima alla Sua compagna, perché i motivi erano appunto l’alienazione dal Cristianesimo.

Allora si addivenne a quello che probabilmente è rimasto l’ultimo vero e proprio processo, ma di altissimo interesse culturale. Non crediamo che la Chiesa faccia delle stupidaggini o delle malversazioni a livello spiccio. No. Eravamo anche, tra l’altro, tutti amici. C’erano esponenti della cultura cattolica, della gerarchia cattolica di alto rilievo. E, allora, ci incontrammo a Roma e venne celebrato questo processo, non la messa all’indice dei miei libri, ma la dichiarazione- che poi divenne pubblica – della essenziale incompatibilità del cosiddetto mio discorso filosofico col Cristianesimo.

Io, per conto mio, ero d’accordo di andarmene dall’Università Cattolica, perché penso che una scuola privata abbia tutto il diritto che si insegni all’interno della scuola privata ciò che essa vuole che si insegni. Da parte dell’autorità dell’Università Cattolica c’era il desiderio che io me ne andassi, e quindi per questo, prima dicevo, è stato un divorzio consensuale.

STUDENTESSA: Sì, ma io volevo sapere da dove nasce, proprio dal punto di vista concettuale, il divorzio.

SEVERINIO: C’è un discorso, il quale dice: “Badate, la fede di fondo di tutta la cultura occidentale è la persuasione che l’uomo e le cose sono polvere, sono cosa caduca” ed è una persuasione che è presente in campo filosofico, in campo scientifico, in campo artistico, e poi in campo istituzionale, è diffusa da per tutto, è il vero pensiero dominante dell’Occidente.

E poiché il Cristianesimo condivide questa concezione di un “esser uomo, come esser cosa caduca”, allora discende – ma si trattava di vedere poi, in concreto, il perché di queste affermazioni – che il Cristianesimo appartiene all’alienazione essenziale dell’Occidente, che è alienazione perché pensare che le cose sono caduche, che quindi escono e ritornano nel niente, significa pensare che le cose sono niente. Questa è la follia estrema.

Allora un discorso che dice: “All’interno della follia estrema sta anche il Cristianesimo”, è chiaro che doveva provocare la reazione da parte dei cristiani, ma anche da parte della Chiesa. Quindi nulla di particolarmente drammatico in questo senso. Anzi mi ricordo che ho avuto un’esperienza culturale estremamente interessante.

STUDENTESSA: Poiché la fede, come sappiamo, si basa su dogmi – la verginità della Madonna, la Trinità di Dio, eccetera – come può una persona che non ha fede, considerata come un dono di Dio, avvicinarsi alla religione con la ragione, tenendo presente che questa deve dare delle spiegazioni logiche e razionali, anche a fenomeni con metodologie, metodologie scientifiche?

SEVERINO: Ecco, ascoltando la scheda, ero già in disaccordo – anche se chi l’ha costruita ha fatto benissimo a costruirla come l’ha costruita -, ero già in disaccordo sentendo che la fede è un dono di Dio, un dono della grazia. Chi dice questo? Purtroppo lo sento dire anche da laici: “Io non ho il dono” – lo dice anche D’Alema o Indro Montanelli – “non ho il dono della fede”. Ma chi dice questo riconosce che la fede sia un qualche cosa che valga la pena di ricevere in dono, laddove invece potrebbe benissimo darsi che il dono vero e proprio sia quello di non avere fede.

Detto questo, inviterei voi giovani a non dimenticare l’importanza dell’esperienza ecclesiale, perché oggi – non so fino a che punto risponde alla Sua domanda, però siamo in tema – oggi è rimasta solo la Chiesa cattolica, a difendere l’importanza della filosofia.

Ieri – non lo dico in senso ironico o polemico -, ieri, oltre alla Chiesa cattolica, c’era l’Unione Sovietica, la quale diceva: “Alla radice della società sta la filosofia di Marx”, che è molto meno lontana di quanto si pensi dalla filosofia di Tommaso, perché entrambe confluiscono su Aristotele.

Oggi è rimasta solo la Chiesa cattolica a dire: “Non si può prescindere dalla filosofia”. Questo, direi, al di là di tutte le critiche, che noi possiamo rivolgere alla Chiesa cattolica e al cristianesimo. Non dimentichiamoci di questo formidabile contributo: l’imprescindibilità della filosofia rispetto alla comprensione del nostro secolo, de nostro tempo. Questo è uno dei meriti dell’Enciclica: Fides et ratio, che è uscita recentemente.

STUDENTESSA: Visto che Lei ha detto che la fede non è un dono di Dio, allora a questo punto, io Le chiedo: che cosa diventa la fede e in che modo può aiutarmi con le persone, ma anche a livello di comunità?

SEVERINO: Ecco, se la risposta fosse: “secondo me”, varrebbe la pena che Lei se ne andasse, dicendo: “Ciao, perché non mi interessa quello che pensi tu”. Si tratta di capire che c’è una dimensione in cui la voce che parla non è la voce di uno – tua o Sua – perché, se è la voce di qualcuno, lascia il tempo che trova. Non ho ancora risposto alla Sua domanda, eh! Se è la voce di qualcuno, è una voce storicamente condizionata. Allora si tratterebbe – ma qui non lo possiamo fare – di mettere in luce la dimensione in cui il pensiero possa pensare oggettivamente.

Lei mi dice: “Allora che cos’è la fede?”. Allora qui debbo dire a voi giovani – e dopo farò un piccolo predicozzo, ma brevissimo -, devo dire a voi giovani: “La fede è volere che il mondo abbia un senso piuttosto che un altro”. È d’accordo su questo? È la volontà che il mondo abbia un certo senso, per esempio il senso cristiano e non il senso buddhista. Allora questa volontà che il mondo abbia un certo senso è una prevaricazione, è violenza.

Cioè la fede – se Lei mi chiede così, ex abrupto, di dire: “Che cosa, dal punto di vista dell’oggettività, si deve dire”, allora nella fede non vede uno strumento che possa chiarire il senso della verità, anche se, non avendo fede, noi non staremmo seduti dove stiamo seduti, perché, per essere seduti, dobbiamo aver fede che ci sia un pavimento, una seggiola che ci sorregge, eccetera.

Allora la fede serve dal punto di vista pratico, ma dal punto di vista della verità è proprio lo sbandamento nella direzione opposta a quella della verità. È la prevaricazione, è dire: “Il mondo ha questo senso, non un altro”. Questo è il prevaricare, questo è la violenza. Il predicozzo che volevo fare lo faccio magari rispondendo a un’altra domanda.

STUDENTE: Nel Suo libro: A Cesare e a Dio, Lei dice che è nell’essenza della logica del Cristianesimo, l’interesse sul potere politico, riportando una frase di Gesù: “Date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio”. Io non sono d’accordo su questo, perché, mi permetta, credo che quella frase di Gesù abbia un senso all’interno della situazione in cui si trovava. Cioè: quello era un tranello teso dai farisei ai danni di Gesù, perché i farisei mal tolleravano il governo politico romano.

A questo punto qualsiasi fosse stata la risposta di Gesù si sarebbe automaticamente auto danneggiato. Invece Gesù ha dato una risposta magistrale, che però ha senso all’interno della situazione in cui è stata espressa. Anche perché in altri passi, Gesù dice: “Il mio regno non è di questo mondo “. Per esempio, nel discorso a Pilato, dice: “Il mio regno non è di questo mondo”.

Il potere politico che si è arrogata la Chiesa nel corso dei secoli – e il Papa attualmente è ancora un importante capo politico – è un qualcosa di assolutamente contrario al Cristianesimo, secondo me, è qualcosa che non c’entra niente con il Cristianesimo. Il Cristianesimo riguarda la religione, riguarda il cuore. Lo Stato è un’altra cosa. Il potere politico è totalmente diverso. C’è soltanto un caso in cui il credente, secondo la Bibbia, è autorizzato a non rispettare il potere politico, quando il potere politico vuole dettare anche in campo religioso. Grazie.

SEVERINO: Lei crede che un Gesù, che parla e dice: “Io sono la verità”, quando dice: “Date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio”, sia un furbo, che vuole cavarsi d’impiccio, o pensa che nella sua risposta debba mantenere un minimum di verità?

STUDENTE: In questa risposta, ha spiegato la separazione totale che c’è fra religione e fede.

SEVERINO: Ma facendo il furbo oppure era coerente rispetto alla propria coscienza?

STUDENTE: Gesù, nella sua coerenza, ha saputo anche dare una risposta adatta alla situazione.

SEVERINO: Quindi, nella sua coerenza. Allora siamo d’accordo: è un discorso coerente. È un discorso da prendere sul serio, non in senso metaforico.

STUDENTE: Sì, ma il senso della frase lo vedo molto all’interno della situazione in cui è calato.

SEVERINO: Tutte le frasi evangeliche sono nella situazione, ma c’è un’altra frase di Gesù che può illuminarci: “Non si possono servire due padroni”. Ora, per quanto ogni frase è da interpretare contestualmente, il non poter servire due padroni, è il segreto della frase: “Date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio”. Cioè Gesù può pensare che il vero credente dia a Cesare qualcosa che è contro Dio?

STUDENTE: Io in questo caso credo, quello che ho detto prima, l’unica soluzione è che, quando Cesare chiede qualcosa che sia contrario a Dio, non è possibile ubbidirgli.

SEVERINO: Bene, siamo d’accordo. E allora questo che cosa vuol dire? Vuol dire che non è soltanto la Chiesa attuale che è politica, ma è Gesù che originariamente dice: “Attenzione, il politico, la politicità deve essere intesa in modo tale che non si dia a Cesare quello che è contro Dio”. Allora l’istanza politica è immanente nel messaggio di Gesù. Lo Stato non deve essere contro Dio.

Quando incominciamo a dire questo, incominciamo a dire: “Allora, se in uno Stato c’è la violazione dei diritti di Dio, la violazione non può essere lasciata vivere”, perché, lasciarla vivere, sarebbe tollerare che nello Stato ci sia la violazione. Ma cosa vuol dire: “Non può esser lasciata vivere”? Vuol dire: devono esserci delle leggi che impediscono la violazione e quindi, siccome non ci sono leggi se non ci sono sanzioni, ci devono essere sanzioni che puniscono la violazione delle leggi, quindi ci deve essere uno Stato che sanziona un comportamento contrario al Cristianesimo.

Che la Chiesa, di fronte a queste conseguenze, si tiri indietro e cerchi di evitarlo, questo l’ho sempre riconosciuto, l’ho sempre detto, ma che il pensiero della Chiesa e del Cristianesimo e di Gesù, sibi permissus, cioè tralasciato a se stesso, conduca a queste conclusioni, questo è quanto sostengo.

STUDENTE: Questo lo condivido, però quello che dicevo io è il potere assolutamente politico. Per esempio il Papa ha criticato la Conferenza di Yalta. Non sono cose che riguardano la religione quelle. La Chiesa continua ad intromettersi nei fatti che non le riguardano, soprattutto nella nostra nazione.

SEVERINO: Sì. Ma io continuo a sostenere che una religione intimistica, per cui il cristiano è quello che si diletta nel proprio animo, lasciando che il mondo vada come vada, questa religione intimistica non è Cristianesimo, perché il cristiano non può disinteressarsi del modo in cui il mondo va. Questo doversi interessare del modo in cui il mondo va, Yalta compreso, questo è d’interesse originariamente politico del cristiano, in quanto discepolo di Gesù, in quanto appartenente a quella che si chiama: La Chiesa dei Santi. Non c’è bisogno di arrivare alla Chiesa di pietra, per avere quel carattere di violenza, che noi vogliamo distinguere, ponendo la storia del Cristianesimo come una desacralizzazione dell’originario messaggio cristologico.

STUDENTE: Divergenza di opinioni.

SEVERINO: Ma un cristiano che dicesse: “Il mondo vada come vada”, intanto non è un cristiano che dice: “Diamo a Cesare quel che è di Cesare”, perché sarebbe un cristiano che dice: “Mah, lasciamo che a Cesare si dia quel che capita che gli si dà”.

STUDENTESSA: Non pensa che il consensuale divorzio, che nel ’71 ha avuto con la Chiesa Cattolica, abbia potuto influenzare in un certo modo la Sua critica successiva alla Chiesa e ai dogmi della Chiesa.

SEVERINO: Va bene, se si impostano questi discorsi dal punto di vista psicologico, psicanalitico, si può dir tutto, no? Uno va a passeggio perché è arrabbiato con la fidanzata, però può darsi che uno vada a passeggio perché ha voglia di camminare. Fortunatamente la sostanza del cosiddetto discorso del sottoscritto era già scritta in un’epoca in cui tra l’altro il sottoscritto insegnava all’Università Cattolica. Quindi non è che prima pensassi ‘A’ poi è venuto lo scontro culturale con la Chiesa, e dopo ho pensato ‘B’; ma è perché inizialmente pensavo ‘A’ che è avvenuto lo scontro e dopo ho continuato a pensare ‘A’. Quindi non c’è un cambiamento di modo di pensare, se non la precisazione di quanto originariamente pensavo dal Sessanta al Settanta.

STUDENTESSA: Lei riconosce comunque una certa coerenza nel comportamento e nelle idee della Chiesa e quindi del Papa? E poi un’altra cosa: sempre nell’Enciclica il Papa sottolinea una grande crisi del pensiero e quindi dei pensatori in questi ultimi anni. È d’accordo con questa sua idea?

SEVERINO: Sono perfettamente d’accordo sul fatto che la Chiesa sia profondamente coerente. Proprio per questa coerenza nell’ultima Enciclica non c’è una virgola di novità. È fatta molto bene, è molto interessante, è uno di quei documenti che si dovrebbero moltiplicare, però il riferimento a Tommaso c’è sempre, eh! C’è insieme quel luogo comune per cui si formula questo discorso: la ragione umana è finita, non conosce tutto. Allora, proprio perché la ragione umana è finita, ecco che viene la fede a riempire gli spazi lasciati vuoti dalla ragione umana. Questo discorso lo si trova anche adesso. Sentiamo quel passo di Anselmo d’Aosta, dopo concludo la mia risposta.

S. ANSELMO: La rivelazione immette nella nostra storia una verità universale ultima, che provoca la mente dell’uomo a non fermarsi mai, la spinge anzi ad allargare continuamente gli spazi del proprio sapere, fino a quando non avverte di avere compiuto quanto era in suo potere, senza nulla tralasciare. Ci viene in aiuto, per questa riflessione, Sant’Anselmo. Nel suo Proslogion, l’Arcivescovo di Canterbury, così si esprime:

“Volgendo spesso, e con impegno, il mio pensiero a questo problema, a volte mi sembrava di poter ormai afferrare ciò che cercavo, altre volte invece sfuggiva completamente al mio pensiero, finché, finalmente, disperando di poterlo trovare, volli smettere di cercare qualcosa che era impossibile trovare. Ma quando volli scacciare da me quel pensiero, perché, occupando la mia mente, non mi distogliesse da altri problemi, dai quali potevo ricavare qualche profitto, allora cominciò a presentarsi con sempre maggior importunità. A che cosa tendevo e a che cosa son giunto? A che cosa aspiravo? Di che sospiro? O Signore, tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più grande, ma sei più grande di tutto ciò che si possa pensare! Se tu non fossi tale, si potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma questo è impossibile”.

SEVERINO: Non soltanto – e questo lo sapete tutti -, Dio è ciò di cui non si può pensare il maggiore, ma è ciò che sta al di là di tutto ciò che si può pensare. È il tema al quale mi ero riferito prima dicendo: “Il Cristianesimo prende, per così dire, per la collottola la ragione”, la quale dice: “Io certo non so tutto”. E allora dice: “Ecco, allora lo spazio che tu lasci aperto è al di là di tutto ciò che tu puoi pensare”.

Anselmo dice: “Dio sta al di là di tutto ciò che si può pensare”. Ora, la grossa questione che ho più volte rivolto ai miei amici cattolici e dai quali non ho mai ricevuto una risposta soddisfacente, è: perché che lo spazio vuoto deve essere riempito dalla fede cristiana e non da altre fedi? È come se io aprissi la porta e dicessi: “Va bene, entrino, entri, entrino qui, signori miei che state fuori”; e c’è uno, più prepotente degli altri, che emargina gli altri, entra e dice: “Ecco, io sono il personaggio che tu attendevi”.

Quindi, uscendo dalla metafora: è vero che la ragione è finita e non c’è stata nessuna filosofia o scienza che abbia fermato l’infinità della ragione. Neanche Hegel – lo dico per i giovani che fanno il Terzo Liceo -, nemmeno Hegel si è sognato di dire una stupidaggine del genere. Certo che ci sono dei campi non toccati, non esplorati. Ma perché deve esser proprio la fede cristiana a dire: “Ecco, io sono l’abitatrice legittima di questi campi”. E perché non allora tante altre fedi alternative. Ritornando a quanto dicevo prima sulla violenza della fede, questo entrare in campo, puntare i piedi e dire: “Io sono l’abitatrice degli spazi vuoti lasciati dalla ragione”, questa è la prevaricazione, questa è la violenza a cui mi riferivo.

STUDENTESSA:Scusi, ma la fede può essere considerata come qualcosa che è innato in noi oppure possono intervenire determinati fattori, quali la ragione, a svilupparla oppure a condizionarla in qualche modo?

SEVERINO: Se noi pensiamo alla fede cristiana, i grandi Padri della Chiesa dicono: “Fides ex auditu”, allora, si ha fede solo se si sente una voce che parla, in modo tale che l’uomo da solo non sarebbe mai arrivato a pensare quello che questa voce dice. Allora, dal punto di vista di questa grande ortodossia cristiano-cattolica, non si può parlare di un’anima naturale intercristiana. Non è innata la fede, perché, se fosse innata, non ci sarebbe bisogno della grazia del messaggio di Dio. Quindi è non innata, è storica, viene dal di fuori. Se si parla dell’innatezza della fede, si distrugge la soprannaturalità – o meglio si distrugge quella soprannaturalità – che per il Cattolicesimo è essenziale alla fede. Soprannaturalità vuol dire: il messaggio di Cristo contiene qualcosa che la ragione umana, da sola, non può raggiungere.

STUDENTESSA: Nel contesto del rapporto fra fede e ragione; fede e verità, io credo che il miglior punto di incontro è quello che ci fornisce Cartesio. Cioè fino al tempo di Cartesio, si era visto, nel nome di Dio, il blocco del progresso scientifico. Ora invece Cartesio ci pone Dio come il garante delle verità supreme, come il garante dell’intelletto umano. E si pone come garante di quelle verità supreme a cui l’uomo deve arrivare e che Dio stesso sprona ad arrivare.

SEVERINO: La storia della filosofia – io penso, anche sentendoVi parlare, che abbiate una bravissima insegnante -, la storia della filosofia non è quel campo di lotte senza fine, dove uno va da una parte e l’altro va dall’altra. C’è uno sviluppo dove, a un certo momento, Cartesio è inevitabile, così come c’è un momento in cui Aristotele è inevitabile, così come poi c’è un momento in cui Kant è inevitabile.

Allora, in relazione con la fase dello sviluppo del pensiero filosofico, certo Cartesio è un contributo inevitabile appunto. Ma se vogliamo dire qual’è, come mi pare che Lei voglia dire, qual’è la posizione che più adeguatamente stabilisce i rapporti tra fede e ragione, allora i due modelli sono: quello greco – e non esito a dire greco-kantiano -, il quale dice: “Se la fede contrasta la ragione, la fede è errore. Liberiamocene”. Questo è il gesto originario della filosofia. È inutile discutere.

Ma Platone, e prima Eraclito e lo stesso Parmenide e poi Aristotele, e poi Plotino e gli storici, e gli epicurei dicono questo: “Là dove la fede smentisce la ragione, la fede è un errore da cui l’uomo deve liberarsi”. È il discorso di Kant; badino, che il concetto di Illuminismo è molto più vicino al concetto greco di filosofia di quanto non si pensi. Illuminismo è luce.

Loro sanno che philosophia è amore di sophia, doce sophia è un sostantivo, che esprime saphes, che vuol dire chiaro. Quindi amore di sophia vuol dire amore della luminosità, di ciò che è in luce e che deve essere affermato perché è in luce, non perché è buio. Ecco, allora l’illuminista Kant, dice: “Ma Abramo ha un Dio che voleva il sacrificio di suo figlio? Avrebbe dovuto dire: “Ma questo Dio non è un vero Dio”, perché va contro i principi della ragione”. Allora questa prima posizione di conflitto tra ragione e fede, la parola ultima l’ha la ragione.

L’Enciclica, che è interessantissima, anche se non dice nulla di nuovo, ma insomma ha alle spalle Agostino, Tommaso, Anselmo. Ecco l’Enciclica invece fa questo discorso, riprendendo Tommaso: “Se c’è contrasto tra fede e ragione, allora, poiché la fede è rivelata da Dio e Dio non può rivelare l’errore, allora non ci può essere contrasto tra fede e ragione”. Dunque, quando la ragione smentisce la fede non è una vera ragione, ma è un abuso della filosofia.

Tommaso dice proprio: “Abusus phiolosophiae ex defecturationis”, cioè ” È un abuso della filosofia per mancanza di ragione”. Allora, qui il perno è la fede. Se c’è una ragione che smentisce la fede, quella è non verità. Soltanto che il guaio grosso è che la premessa di tutto questo discorso è che ci sia un Dio che dona una fede vera.

Ora questo discorso si costituisce all’interno della fede, è esso stesso un atto di fede, non è un qualche cosa che sta di fuori della fede e possa essere trattato come una verità oggettiva. È dal punto di vista del credente che Dio dà una fede e la dà in modo tale che questa fede non sia errore.

Allora è per questo che all’interno della storia del pensiero occidentale, il modello greco-kantiano è il modello autentico rispetto a questo che il Cristianesimo e la Chiesa hanno voluto introdurre. Dico un aspetto del Cristianesimo perché un altro filone che parte da Tertulliano, va su, fino a Dostoevskij, per cui la fede deve essere accettata perché è assurda. Per il cattolico questa è una pazzia: la fede è razionabile.

Però il dilemma -che anche qui non vedo come la Chiesa possa evitare, ma non solo la Chiesa, tutti coloro che si ispirano a questa concezione – è di spacciare come verità indiscutibile, l’affermazione che Dio rivela la fede e che la fede che Dio rivela sia una verità incontrovertibile. Ma questo vuol dire che si sa che c’è Dio, che Dio rivela, che l’uomo ascolta, che Dio rivela una fede e che la rivela vera.

STUDENTESSA: Credo che il problema sia proprio nella fede donata da Dio; credo che l’uomo che ha fede, ha fede perché l’educazione gli ha dato la fede, che sia un fatto di cultura.

SEVERINO: Siamo perfettamente d’accordo. La fede, quando dicevo prima, è una volontà e lo stesso Tommaso dice che “l’assenso all’atto di fede è un assenso della volontà”, è un atto della volontà, quindi non è un dono di Dio. Nietzsche diceva: “Se non abbiamo fede, non muoviamo neanche un passo”, però altro è aver fede, altro è che ciò che noi crediamo per poter vivere sia verità. È chiaro che per vivere dobbiamo essere pieni di fede, ma non soltanto in Cristo, ma anche nella stabilità del pavimento. Se vado a prendere l’aereo bisogna che creda che c’è un aeroporto. Cioè, non possiamo muovere un passo, un pensiero senza fede. Ma questo non vuol dire che ciò che è utile sia vero.

STUDENTESSA: Il problema è che io credo che, non solo sia l’educazione a dare l’idea di fede all’uomo, ma l’uomo si aggrappi alla fede soltanto in determinati momenti della sua vita. Cioè spesso la fede viene vista come il bastone della vita dell’uomo, a cui l’uomo si appoggia in un momento di crisi. Io credo che questo sia profondamente sbagliato, perché la fede, nella vita dell’uomo, ci deve essere sempre. Cioè, se uno ha fede, deve avere fede sempre, non fede solo quando si è angosciato.

SEVERINO: Ma anche questo è accettabile. Lei dice: la fede è un rimedio contro l’angoscia. Ma angoscia per che cosa? Angoscia per quello che dicevamo all’inizio della nostra chiacchierata. Angoscia perché l’uomo va nel nulla, perché, da ultimo, cari miei, il terrore estremo di tutti noi è perché si va nel nulla. E in genere quando si va? Si va nel nulla dal punto di vista della filosofia dell’Occidente, cosa che il mio discorso filosofico ha sempre messo in questione. Ma dal punto di vista dei maestri dell’Occidente si va nel nulla. E si va nel nulla in modi dolorosi.

Allora ecco che viene fuori il tentativo di costruire un rimedio contro l’angoscia del nulla. Sì, d’accordo. Lei dice nei momenti di crisi. Anche, ma sempre, il sottofondo è quello di trovare un rimedio, una stampella, un sostegno, un riparo, che ci consenta di allontanare il più possibile l’angoscia dal nulla. La nostra cultura cerca di mettere dei veli di fronte a questa faccenda. Dice ai giovani: “State allegri. Costruite, producete”. Ma, dal punto di vista della nostra cultura, sono veli che mascherano, come stanno le cose.

STUDENTESSA: Come mai ha portato quell’affresco di Raffaello? Che valore simbolico gli attribuisce?

SEVERINO: Ritorniamo a quello che dicevo prima. La grande scuola greca è di Socrate che diceva sempre: “Io in tutta la mia vita ho seguito la verità”. E per Socrate seguire la verità vuol dire non seguire la fede. Tutta questa gente del quadro di Raffaello è gente che dice: “L’uomo deve tener dietro alla verità”. Ma si fa presto a dire verità, che cosa significa verità? A questo punto dovremmo incominciare a vedere che cosa significhi verità per il pensiero greco.

STUDENTESSA: Quale sarebbe allora per Lei il ruolo dell’uomo che nasce dalla polvere e ritorna polvere? Ha comunque un ruolo in un disegno più grande?

SEVERINO: Loro comprendono che in questa sede, le risposte sono degli accenni di risposte. La follia, l’alienazione di cui parlavo prima, è un Dio, un Adamo e un serpente, i quali si dicono tra di loro: “L’uomo è polvere”, perché lo riconosce il serpente, perché dice: “Guarda che tu sarai Dio”, cioè uscirai dalla condizione di esser polvere. Lo pensa Dio, perché lo dice, e poi lo pensa Adamo, perché dà ascolto al serpente e vuole uscire dalla condizione di polvere. Invece il peccato, il peccato radicale, la colpa – peccato vuol dire errore – il peccato, l’errore consiste proprio nella condizione di Adamo di essere polvere, cioè consiste nelle – questo è quanto, nei cosiddetti miei scritti, vado sostenendo -, consiste nell’esser “cosa caduca”.

Se vogliamo rovesciare il discorso, lei mi chiedeva cosa penso dell’uomo. Ma io penso che l’uomo è l’eterna visione della verità, e che cioè noi siamo infinitamente di più di quello che crediamo di essere. E che io prima, quando sono entrato lì, dicevo: “Io sono Emanuele Severino” stavo sbagliando, perché anch’io, come Lei, come tutti, sono infinitamente di più di quello che tutta la cultura pessimistica dell’Occidente dice che noi siamo: povere cose, aiutate da un Dio, aiutate da un Salvatore, che però di per se stesse oscillano tra l’essere e il niente, che hanno bisogno di un sostegno, di un aiuto dal riparo di cui parlavamo prima.

Cosa penso dell’uomo? L’uomo è l’eterna – ripeto- visione dell’eterno, dell’eternità di tutte le cose. A questo punto Lei mi dice: “Ma queste sono chiacchiere”. Sono d’accordo, se non si giustificano. Vanno giustificate.

STUDENTESSA: Poiché un giorno questo mondo che è destinato a finire, che senso ha avuto tutto questo, se non abbiamo la fede come supporto per pensare a un mondo futuro? Altrimenti ogni cosa che avviene in questo mondo non ha poi un gran senso.

SEVERINO: Certo, se stiamo alla convinzione di fondo, all’alienazione di fondo del pensiero occidentale e cioè che le cose escono dal nulla e ritornano nel nulla, allora si deve arrivare per forza a posizioni, come quella di Nietzsche, il quale afferma che il mondo non ha proprio alcun senso. Ma data quella premessa, che è la premessa dei cosiddetti “ottimisti”, “ottimista Aristotele”, “ottimista Platone”, “ottimista Gesù”, “ottimista Vecchio Testamento”, data quella premessa del carattere essenzialmente precario dell’esistenza, allora, certo, la filosofia contemporanea non è quella stupidaggine a cui purtroppo anche l’Enciclica tende a ridurla, cioè come un semplice scetticismo.

No. La filosofia contemporanea – anche questo continuo a dirlo alla Chiesa -, è dire delle conseguenze inevitabili. Non c’è senso; Nietzsche consiste proprio nel dire questo, che non c’è senso. Allora il senso può venire da qualcosa di molto lontano, dal quale Lei si è subito allontanata. Quando io ho detto: “Tutto è eterno’”, Lei ha fatto finta di non sentirlo, e invece è da lì che può venir fuori il senso. Ma, si capisce, non possiamo qui esaurire questo discorso.

STUDENTESSA: Ma non è proprio il Cristianesimo a dire che l’uomo non finisce mai, che lo spirito, l’anima non finisce mai? Il corpo in realtà non è molto importante nella religione cristiana.

SEVERINO: Purtroppo, perché il corpo non si vede che cosa debba avere di inferiore alla psiche, alla coscienza, ai pensieri. Perché questo svilimento del corpo? Il corpo è un eterno, come gli altri eterni. In questo senso Platone diceva una cosa molto interessante: “Sono idee anche i peli della barba di Socrate”. Soltanto che per Platone, oltre le idee c’è il mondo. Allora non è solo il Cristianesimo a dire che c’è un eterno, ma è tutta la filosofia greca, è quel Cartesio di cui parlava la signorina.

STUDENTESSA: Però questa visione del mondo non è pessimistica.

SEVERINO: Aspetti, questo è un anelito verso il superamento del pessimismo. Però l’eternità riguarda soltanto una parte della realtà, la parte nobile, la parte spirituale. La parte caduca, e quindi i sensi, e quindi ciò che riguarda il rapporto dei sensi col pensiero, tutto questo è destinato a andarsene nel nulla, tant’è vero che è necessaria una resurrezione dei corpi, per il Cristianesimo.

Cos’è la resurrezione dei corpi? È un ritornare fuori dal nulla, da quel nulla che di per se stessi i corpi, ma anche l’intera personalità umana, è destinata. Quindi questo, che Lei chiama ottimismo, è un anelito fallimentare di ottimismo, perché alla propria radice ha la persuasione che ciò che da ultimo riguarda l’uomo più da vicino, che è la nostra corporeità, la nostra affettività più legata ai sensi, si perderà. Tutto questo è negativo, è possibilmente da tralasciare, da transvalutare in un mondo ultraterreno.

Poi Le vorrei dire: ma quando il Cristianesimo parla di resurrezione dei corpi, questo è fede. Non esiste un discorso filosofico che possa garantire ciò. Esiste la grande tradizione occidentale, la quale dice: c’è una dimensione del mondo che è eterna: Dio. Ecco, e questa tradizione va dai Greci fino a Hegel compreso, una tradizione che va anche nella scienza.

Anche la scienza da principio concepisce la realtà come una struttura eterna: il determinismo scientifico, la convinzione di Galileo che le leggi siano verità eterne, che le leggi matematiche siano verità eterne. Quindi esiste una struttura eterna. Ecco, questo eterno non è l’eterno di cui parlavo con la signorina, perché questo eterno è il Dio, che fa da padrone sul corpo, sul mondo, sul divenire, fa da padrone e finisce con lo schiacciare la realtà.

Dire che io non posso vivere se non conformemente a questo Dio, che esige il rispetto eccetera, quando si dice che tutto è eterno, si dice che non esiste un padrone e un servo. Tutto è eterno, tutto è paritario: il corpo, il pelo della barba è più sublime dei pensieri di Goethe o la melodia più sublime di Beethoven.. Cioè l’essere in quanto essere è eterno. Questo porta a una dimensione del tutto diverso da quella dell’eterno pseudo-ottimistico, in cui c’è un Dio eterno che trattiene presso di sé l’eternità.

Lei sa che, dopo che Dio manda via Adamo, mette un cherubino alla guardia dell’Albero della vita e dice: Ma costui è diventato quasi uno di noi, ma che non venga a mangiare l’albero della vita, a diventare eterno”. Quindi un Dio che è invidioso dell’eternità possibile dell’uomo.
Allora: mi pare che siamo arrivati al termine della nostra chiacchierata, se non sbaglio, e bisogna che dica loro il mio convincimento.

Riprendendo su quanto dicevo sul prima vivere e poi filosofare. Una educazione religiosa è necessaria. Quindi una scuola in cui l’insegnamento della religione sia bandito o sia mortificato, è una scuola fallimentare. È giusto che i giovani abbiano questo atteggiamento iniziale di fede, proprio perché lo possono mettere seriamente in questione. Quindi con questa esortazione a tenere viva la dinamica tra fede e critica della fede, io concluderei questo nostro incontro.

Da RAI EDUCATIONAL http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=339

IL BEATO OLALLO VALDES – Lettera di Fra Marco Fabello o.h

Manila – Fatebenefratelli – Cappella

Brescia, 1 Dicembre 2008

Caro Angelo

Ti seguo sempre suo tuo sito e, anche se non mi faccio vivo, apprezzo la tua costanza e il tuo continuo richiamo ai valori dell’Ospitalità e ai suggerimenti dello Spirito.

Mi ricordo che ti avevo scritto qualche riga a gennaio circa la beatificazione di Fra Olallo. Ora che questa è avvenuta i miei pensieri si fanno ancora riflessione per capire e cercare di imparare dagli insegnamenti di una vita umile, impegnata, nascosta ma molto visibile ai poveri e agli umili.

Sì, visibile ai poveri e agli umili. Immagino la gioia di San Giovanni di Dio in cielo nel vedere essere raggiunto da un suo figlio che questo mondo aveva dimenticato fino a solo dieci anni or sono. In questi giorni si è verificato il canto del Magnificat: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”.

In questi giorni la stampa, le televisioni hanno parlato di una persona che di grande ha fatto le cose umili: servire i malati e avere cura dei poveri.

Versetto questo che si presta molto bene anche all’inizio ancora della Novena dell’Immacolata.

E’ davvero bello vedere come una persona così semplice può riuscire a dare ad un popolo la possibilità di migliorare la sua situazione sociale e politica: è proprio vero che il Signore si serve degli umili, delle persone che nella società contano meno: è un pensiero questo che fa molto pensare anche alla vita personale, a quanto avviene giorno dopo giorno anche nella vita religiosa che rischia in questi nostri tempi di apparire burocratizzata e senza spinte di generosità e di profezia più soggiogati dai problemi della politica e dell’amministrazione che non spinti dall’azione dello Spirito.

Mentre ti scrivo queste scontate considerazioni non posso non ricordare che il prossimo anno ricorrono vent’anni dalla canonizzazione di San Riccardo Pampuri e che tra pochi mesi ci sarà la beatificazione del tedesco fra Eustachio Kugler.

Non posso non pensare che più crescono i religiosi nella gloria dei Santi, più si assotigliano quaggiù le schiere dei religiosi dediti all’Ospitalità.

Per cui mentre si celebra la gioia di un nuovo testimone riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa, maggiormente aumenta la preoccupazione di rimanere soli quaggiù a cercare di testimoniare che ne vale proprio la pena dare la vita per il prossimo in necessità.

Mi ricordo che in occasione della Beatificazione di San Riccardo ci fu una ventata di nuove vocazioni: succederà anche ora? Pregare il Signore perché ciò avvenga è doveroso e la Speranza è la spinta che invita ad andare sempre avanti.

Questi pensieri sorgono alla sera della prima domenica di Avvento mentre nella chiesa del S. Orsola l’Associazione dei Trapiantati ha celebrato la sua giornata annuale. Capirai quindi perché tanti pensieri anche preoccupati, quantunque sempre illuminati dalla Fede e dalla Speranza, facciano capolino quasi a rimpiangere chi non c’è più e ad auspicare che altri ne prendano il posto.

Un caro saluto, una preghiera e Buon Avvento del Signore.

Fra Marco

155° video – CUBA – Giornata storica a Cuba, la prima Beatificazione di Fra Olallo