LE DUE CULTURE – Francesco Paolo Casavola

Posted on Luglio 12th, 2009 di Angelo | Edit

Francesco Paolo Casavola

Storico del diritto romano, costituzionalista, nato a Taranto il 12 gennaio 1931. Conseguita nel 1958 la libera docenza in diritto romano, è diventato (1960) professore di istituzioni di diritto romano, insegnando questa disciplina prima all’università di Bari, poi (1967) all’università di Napoli, dove nel 1977 è passato all’insegnamento di storia del diritto romano. Socio di numerose Accademie e società scientifiche, dal marzo 1998 è Presidente dell’Istituto della Enciclopedia Italiana.

LE DUE CULTURE

Francesco Paolo Casavola


Ludovico Geymonat apre la prefazione all’edizione Feltrinelli del libro di Charles Percy Snow, romanziere e scienziato inglese, intitolato Le due culture1, con questa frase: “Nessuno può essere, oggi, così cieco da non rendersi conto che l’esistenza di due culture, tanto diverse e lontane una dall’altra quanto la cultura letterario-umanistica e quella scientifico-tecnica, costituisce un grave motivo di crisi della nostra civiltà; essa vi segna una frattura che si inasprisce di giorno in giorno, e minaccia di trasformarsi in un vero muro di incomprensione, più profondo e nefasto di ogni altra suddivisione”.


Era il luglio 1964. Sono trascorsi quarantatre anni e quelle parole con quel giudizio “muro di incomprensione, più profondo e nefasto di ogni altra suddivisione”, sono ancora più che mai attuali. Sono mutati i contesti, ma proprio per questo le due culture hanno segnato la loro capacità di sostituirsi ad “ogni altra suddivisione”. Quando Snow preparava il suo libro, uscito per

la Cambridge University Press nel 1959, sullo scenario inglese si avvertiva, come effetto della separazione degli umanisti dagli scienziati, un ritardo, rispetto alla Russia e agli Stati Uniti, nel sistema della istruzione tale da non far fronte alle esigenze del progresso tecnologico.


L’eccesso di specializzazione nel mondo accademico, con una dominanza assoluta della matematica, isolava gli inglesi dalle scienze applicate. L’istruzione media, con fondamento prevalentemente letterario, non dava adito alla comprensione della mentalità e delle leggi logiche della scienza né predisponeva talenti indirizzati alla ricerca e progettazione tecnologica.


Più in generale, ancora, da questa frattura tra umanesimo e scienza, derivava una incapacità di collegare mutamento sociale e rivoluzione scientifica. Snow proponeva una riforma dei programmi scolastici, che non solo riducesse il diaframma tra educazione letteraria e scientifica, e per questa seconda tra scienza pura e scienze applicate, ma che impartisse ai giovani scienziati una profonda e nuova educazione umana.


Per questa educazione umana sembra proporre le scienze della società, dietro le quali potrebbe avanzare una terza cultura. Nel 1968, nella collana Nuovo Politecnico Einaudi, esce di Giulio Preti, Retorica e logica, le due culture2. Il quadro storico è più ampio, la dialettica tra vecchio e nuovo èpiù tagliente.


Si tratta di fare i conti con l’intera tradizione della nostra civiltà: “Di questa tradizione fanno parte una ricca eredità letteraria, una gloriosa storia della scienza: l’una e l’altra, nei millenni, hanno dato, a volte in cooperazione, più spesso in discordia, il carattere e il volto a quella che ancora si chiama ‘civiltà europea’, e non si sa per quanto ancora continuerà a chiamarsi così.


Letteratura e scienza: due forme, due atteggiamenti, che a lungo si sono contesi il primato nella nostra cultura, e che entrambe hanno preteso di caratterizzarla; e che ora si trovano ancora di fronte, forse per l’ultima volta, nel grave momento storico in cui sembra decidersi se la civiltà europea debba continuare a vivere, oppure debba voler morire”3.


Preti è molto severo nel giudicare il libro di Snow “un brutto libro, arbitrario, superficiale, in cui un tema così importante è stato impostato e trattato con una disinvoltura ‘giornalistica’ che non meritava”4. Ad uno scheletrico sunto del libro conferenza di Snow, Preti aggiunge un giudizio sulla ignoranza scientifica degli scienziati, per lo più proletari della ricerca o savant bétes come li chiamava A.Huxley sulla scia di V. Hugo: “piccoli ricercatori senza cultura e senza luce, “Banasoi“ della ricerca scientifica in laboratorio, le cui microricerche si compongono poi nei grandi quadri scientifici che trascendono la loro intelligenza e la loro cultura. Molti di loro riescono poi a salire in cattedra – ahimè: e, se pure possono educare qualcuno, educano soltanto degli altri “Banasoi“, che quando verrà il loro turno saliranno in cattedra. Fuori dal loro ‘Istituto’, smettono di pensare, e ricadono immediatamente al livello di mentalità pre-logica delle loro mogli, madri e nonne. Per questo, proprio per mancanza di intelligenza, cultura e fantasia, sono spesso degli ottusi conservatori.


Mentre per i letterati succede (sempre da noi, in Italia, in Francia e altrove) proprio il contrario: per quanto modesti, non scadono mai al livello di bruti, di “Banasoi“ della penna: conservano un senso di critica, di autonomia, di libertà dal costume e dalla “doxa pollón”. E’ ben giusto, con buona pace di Snow, che si siano arrogati il titolo di ‘intellettuali’5”.


E correggendo Snow, Preti trova che reazionari e progressisti ci sono da una parte e dall’altra. L’opposizione non sta tra gli individui, ma tra humanae litterae e scienza. Due forme mentali, due rappresentazioni della verità. Da diverso altro scrittore inglese, il Trilling, Preti accetta la definizione della letteratura come critica della vita. Ma è nel Seicento che alla tradizione degliantichi, raccolta nel termine delle lettere, viene contrapposta la novità dei moderni, che criticano il modello di pensiero degli antichi. La polemica antiaristotelica contro il principio di autorità vede uniti Galileo, Bacone, Gassendi, Pascal. Il principio di autorità come chiarisce Preti, non è il rifiutodi pensare con la propria testa. Lo stesso San Tommaso affermava argumentum ex auctoritate infirmissimum est. Auctoritas è la tradizione, sono i libri della tradizione, tra i quali si selezionavano i buoni libri degli antichi e i cattivi libri della scolastica medievale. Invece “i moderni ripudiano, di principio, i libri come tali, buoni o cattivi che siano, cercando la verità nella ragione e nell’esperienza, e continuando a leggere i libri solo sussidiariamente, per quel tanto di ragione e di esperienza che possono contenere6”. E’ dunque questa la radicale rottura, come si esprime Preti, delSeicento rispetto al Rinascimento umanistico.


E’ significativa la nota immagine di Bernardo di Chartres “nani sumus supra humeros gigantis”. I moderni nani sulle spalle dei giganti vedono più lontano. Ma se antichi vuol dire più vecchi, e più vecchi vuol dire con maggiore esperienza i veri antichi sono i moderni, idea presente, ricorda Preti, nella Cena delle ceneri di Giordano Bruno, e nei Problemata di Cassmann del 1546. La conoscenza è dunque progressiva. Ma Preti sollecita un approfondimento per quel che riguarda Galileo, l’idea del processo si connette con l’idea dell’infinità del vero: “Extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intellegibili, che sono infiniti,l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come uno zero”7. Intensive, invece, come nei teoremi delle matematiche pure la cognizione dell’intellettuale umano “ragguaglia la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa essere sicurezza maggiore”8.


E tuttavia “Dio conosce tutte le proposizioni matematiche nella loro infinità, in un solo istante e intuitivamente, mentre il nostro intelletto deve procedere con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione”. Senza seguire la ricca analisi sulla polemica antiumanistica del Seicento, giungiamo alla conclusione di Fontenelle, che appare a Preti come uno schema di filosofia della storia: “Il confronto che abbiamo fatto degli uomini di tutti i secoli con un uomo solo può estendersi a tutta la nostra questione degli antichi e dei moderni. Una buona mente colta è composta, per così dire, di tutte le menti dei secoli precedenti: non è che una medesima mente che si è coltivata pertutto quel tempo. Così questo uomo che è vissuto dall’inizio del mondo fino ad oggi ha avuto la sua infanzia in cui non si è occupato che dei bisogni più urgenti della vita, la giovinezza in cui è riuscito abbastanza bene nelle cose dell’immaginazione, come la poesia e l’eloquenza, e in cui anche ha cominciato a ragionare, ma con meno solidarietà che valore. Ora è nell’età virile, in cui ragiona con più forza e con più lumi che mai [143]”9. La civiltà classica è dunque prevalentemente letteraria e umanistica, quella moderna è una civiltà della scienza, e dunque superiore.


Lasciamo a questo punto il libro di Preti, per riprendere il filo del discorso come era proposto da Snow: l’educazione umana degli scienziati. Nella prima metà del Novecento agli scienziati e ai tecnici si poneva il tema della speranza sociale, di come cioè il progresso delle conoscenze e delle tecnologie potesse condurre anche al progresso della condizione umana, non solo nei paesi dell’Occidente, ma in tutto il pianeta. E’ il tema dei rapporti tra scienza e politica nella duplice versione del comunismo e del capitalismo. E’ il tema della dipendenza delle tecnoscienze dal mercato o dallo Stato.


Con la bomba atomica si apre l’era della sovranità della tecnica con la stessa tensione che aveva attraversato la modernità tra potere pubblico e libertà privata. La possibilità che l’uso bellico dell’energia atomica conducesse ad un olocausto nucleare dell’intera specie umana ha determinato all’indomani della seconda guerra mondiale, con la guerra fredda tra le due megapotenze Unione Sovietica e Stati Uniti, il cosiddetto equilibrio del terrore, cioè la minaccia senza seguito del conflitto nucleare.


La fisica atomica è il simbolo della potenza della scienza sul destino dell’umanità al bivio tra impiego bellico o pacifico di una energia scoperta tra calcolo matematico e costruzione tecnica. Ma la civiltà della scienza non si è rivolta solo alla realtà della natura esterna all’uomo, giungendo a dominarla dopo averne letto le leggi, fino a produrla sinteticamente nelle materie plastiche o a manipolarla geneticamente nelle specie botaniche. La scienza si è impossessata del corpo dell’uomo, ne ha spostato i confini naturali della nascita e della morte. La biomedicina è risalita dal nato al feto dall’embrione ai gameti, fin dove la spes hominis è solo un materiale cellulare.


Da quando il sesso del nascituro era ignoto fino al parto, siamo arrivati alla conoscenza dell’embrione, delle sue alterazioni e difettività, che possono portare il nascituro ad una esistenza non degna, come s’usa dire, di essere vissuta, e che consigliano selezione terapeutica o addirittura eugenetica. Le tecniche di procreazione medicalmente assistita combattono sterilità e infertilità e pongono alternative tra inseminazione omologa e eterologa.


La possibilità che la scienza moduli l’individuo umano fino a costituirne una copia con le tecniche di clonazione è un segnale di quanto grande sia il suo potere dal confine dell’inizio della vita. Lungo la vita i progressi delle terapie farmacologiche, delle protesi, della chirurgia dei trapianti, della diagnostica per immagini, hanno migliorato e prolungato l’esistenza umana, nel mondooccidentale per intere popolazioni, e non più, come per millenni, solo per individui particolarmente validi e longevi. Ma sull’altro confine la scienza non ha abolito la morte, ha anzi diffuso un nuovo terrore della morte diverso da quello che da sempre ha assillato gli uomini, che a differenza degli animali sanno di dover morire. I Greci chiamavano gli uomini mortali.


E’ l’artificiale protrazione del termine della vita con le tecniche della rianimazione, della respirazione meccanica, dell’accanimento terapeutico, della conservazione di stati vegetativi permanenti e irreversibili a fondare il modello moderno del terrore della morte intubata. Anche qui viene invocata la dignità della vita perché essa sia spenta, prima di diventare indegna di essere vissuta. Rifiuto legittimo delle cure, autodeterminazione del malato terminale, direttive anticipate sul testamento biologico, divieto dell’accanimento terapeutico, richieste eutanasiche, medicina palliativa, affollano di problematicità il confine dell’esistenza. Nell’entrare con tale invasività nell’esistenza corporea degli umani la scienza scopre la sua non estraneità all’altra parte del mondo storico, cioè a quello morale e sociale.


Qui è il punto che impone di uscire dal dualismo tra cultura umanistica e scientifica. La scienza moderna si poneva il tema della coscienza delle leggi della natura, la scienza contemporanea modifica la natura ivi compresa la natura umana.

  • Può farlo senza adeguata conoscenza dell’universo storico che l’uomo ha prodotto e da cui è stato prodotto?

  • Perché nei confronti del progresso incessante della biomedicina si è adottato un atteggiamento difensivo non solo con pratiche sociali, quale quello del living will o testamento biologico, poi con leggi nazionali e convenzione internazionali?

  • Perché nella convenzione di Oviedo del 1997, è formulato il principio del primato del bene e dell’interesse dell’essere umano sul solo interesse della scienza e della società?


La emersione della persona umana come fine e centro dell’ordine del mondo era stato formalizzato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dalle Nazioni Unite nel dicembre del 1948. La dignità dell’uomo è un bene costituzionale intangibile, come proclama la legge fondamentale di Bonn del 1949.


Da allora sono messe in causa non solo le forme di organizzazione politica degli Stati, ma anche gli ordinamenti sociali. La scienza vive al di sopra delle frontiere nazionali, ma non fuori della società. E ogni società ha il suo patrimonio culturale, di tradizioni, di religioni, di istituzioni, di mentalità.


Quando la convenzione di Oviedo indica i tre attori, la persona umana, la società, la scienza, non designa tre identità astratte, ma tra universi che possono, ma non debbono, gravitare intorno a interessi separati o comunque non finalizzati al bene della persona umana. Non dunque individualismo radicale, né solo libertà della scienza, né ragioni collettive della società. Ecco perché negli anni ’70 del Novecento si intese, introducendo il termine bioethics bioetica, proporre un’etica fondata sulla scienza biologica, di quella parte della civiltà della scienza che andava modificando la natura corporea e morale degli umani. Quel disegno ambizioso è stato sostituito da una esperienza interdisciplinare di diversi saperi, medici, biologici, filosofici, teologici, giuridici, sociologici, storici. In questa attuale bioetica, che vuole produrre anche una biogiuridica e una biopolitica, domina il dialogo o il conflitto? Non v’è dubbio che le posizioni estreme replicano i ruoli che abbiamo già registrato nel più lontano inizio della modernità europea: la scienza non vuole gli impacci dei valori tradizionali, reclama la più illimitata libertà di ricerca; la morale tradizionale, specie quella religiosa, è diffidente di ogni innovazione che scuota le radici naturalistiche e giusnaturalistiche dei principi e delle regole dei comportamenti sociali. Gli uni difendono le ragioni della manipolabilità del corpo per una vita migliore e più degna, gli altri quelle della sacralità della vita.


Uno schema ricorrente per descrivere le due posizioni è che per i primi tutto ciò che si può fare, si deve fare, per i secondi tanto più diviene possibile fare, quanto meno si deve fare. Che si debba uscire da queste due armatissime frontiere sembra necessario.


In un recente confronto delle tesi del filosofo Hans Jonas e del medico Hugo Tristram Engelhardt, Luisella Battaglia, dinanzi alle sfide della ingegneria genetica, si chiede se non sia obbligatorio per il ricercatore “di usare la sua immaginazione morale nella stessa misura in cui usa la sua immaginazione scientifica”10.


Per attivare quella immaginazione morale occorre ben altro che l’esperienza del laboratorio o della clinica. Certo, bisogna ripartire dai sistemi di educazione di base, con maggiore profondità di mira di quanto non apparisse a Snow e ai suoi critici del Novecento. Non sono in gioco l’educazione umanistica e quella scientifica. Il superamento delle due culture sta nello storicizzarle entrambe e allearle nella responsabilità della guida nel mondo umano. La scienza non può fermarsi al qui ed ora, perché è responsabile del futuro. La morale non può trovare la sua risorsa solo nel passato se deve governare e non solo ostacolare il futuro. Questa è la nuova cultura, la scienza e la morale in alleanza dialettica, non in reciproca lotta dogmatica.


Note

1 C.P. Snow, Le due culture, Milano, Feltrinelli, 1964.

2 G. Preti, Retorica e logica, Torino, Einaudi, 1968.

3 Op. cit., p. 9.

4 Op. cit., p.10.

5 Op. cit., p. 12.

6 Op. cit., p. 65.

7 Op. cit., p. 69.

8Ibid.

9 Op. cit., p. 143.

10 I. Sanna (ed.), La sfida del post-umano. Verso nuovi modelli di esistenza?, Roma, Edizioni

Studium, 2005, p. 142.

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