LE CINQUE PAROLE DELLA MISSIONE – Enzo Bianchi

1. OSPITALITA’

Abramo disse: “Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo” (18, 1-15) Quanto è difficile essere ospitali, trasformare l’estraneità in affinità, la distanza in prossimità. E quanto sono vicine l’ospitalità e l’ostilità, facilmente l’ospite (hospes) può trasformarsi in nemico (hostis). E’ facile che la stretta di mano che di per sé è segno di pace, si trasformi in un braccio di ferro. L’altro a volte ci sta stretto, sempre è un mistero conturbante. Eppure anche noi un giorno abbiamo fatto irruzione nella vita di altri e se siamo ancora al mondo è perché siamo stati ospitati e accolti per il fatto stesso di essere venuti all’esistenza e non certo perché lo meritavamo.

1. Mia è la terra, voi siete stranieri e ospiti (Lev 25,23)

Il popolo d’Israele ha sempre nutrito la convinzione che la terra è un dono dato all’uomo da Dio come residenza. L’uomo vive in una terra che è proprietà di Dio, appartiene a Lui. Ma questa è anche la verità della condizione umana: ciascuno di noi, in quanto venuto al mondo, è ospite della terra e dell’umanità, e soprattutto è ospite di Dio. Siamo di casa nella ‘casa’ il cui architetto e costruttore è Dio. L’apostolo Pietro, rileggendo la tradizione del primo testamento, qualifica i cristiani come “stranieri e pellegrini”(1Pt 2,11). La condizione dei cristiani è quella di persone che risiedono lontano dalla propria casa (stranieri) e a ridosso della casa altrui, la loro vocazione originaria è pertanto quella di muoversi verso gli altri (pellegrini). Per risiedere presso di sé, per trovare casa devono muoversi verso la casa di altri e farsi ospitare.

L’uomo, essendo un pellegrino, vive un’esistenza esposta, dipende dall’ospitalità dell’altro. Vivere questa condizione è alquanto faticoso. In primo luogo perché ci si sente troppo dipendenti dal gesto e dal cuore di un altro, poi perché si percepisce che il pellegrino è sempre visto come un estraneo. L’incontro con l’estraneità e la differenza può facilmente generare diffidenza e ostilità. Da qui la tentazione della chiusura e dell’immobilismo, la tendenza ad arroccarci e rintanarci in case-fortezza.

La fatica che si sperimenta nel dover dipendere dall’ospitalità, cioè dalla stima e dalla fiducia dell’altro, può portare a rifiutare l’ospitalità ad altri. Ma quando la persona sperimenta sulla sua pelle che quasi mai riesce a trovare una dimora sicura né nel suo corpo né nella sua anima, si accorge che è impossibile eliminare la tenda del pellegrino e che per essere fedeli a se stessi occorre ricevere e offrire ospitalità.

Accettare di essere ospiti e non padroni e vivere aperti all’ospitalità di chi bussa alla nostra porta sono esperienze che si sostengono reciprocamente. E’ per questo che nella parola ‘ospite’ si raccolgono due significati, la parola è infatti utilizzata sia per chi è ospitata sia per chi ospita, si riferisce sia all’atto di ricevere che a quello di offrire ospitalità.

2. Santità e ospitalità

La morte in croce di Gesù sancisce la fine di una santità senza ospitalità. Fino all’ora della sua morte la santità era interpretata come separazione dalle varie forme di impurità. La morte era la più grande impurità, ma tra tutte le morti, la crocifissione era la più lontana dalla santità, la contraddiceva totalmente. Con l’evento della morte in croce di Gesù, impurità assoluta, avviene un capovolgimento radicale: proprio in quell’Ora accade la rivelazione della santità stessa di Dio. Fino ad allora Dio per condividere la sua santità aveva separato il popolo eletto da ogni altro.

La santità si rivela soprattutto nella disposizione di un mondo ordinato, ordine che Dio attuava separando. Le mura del tempio separavano gli israeliti dai gentili, gli uomini dalle donne, i sacerdoti dal popolo. Al centro stava il Santo dei Santi, il luogo separato per eccellenza. Tutte queste separazioni, motivate dalla paura della contaminazione,implicavano delle ripetute esclusioni.

Lo spazio per l’ospitalità si faceva sempre più stretto. Gesù, fin dall’inizio del suo ministero, si pone al di qua della purità religiosa del giudaismo che, come appena accennato, consisteva in una purezza raggiunta per via di separazione di ogni estraneità e perciò di esclusione di ogni forma di alterità e di differenza. Gesù opera una radicale ‘inversione di sguardo’. Il suo è uno sguardo di ammirazione per ciò che avviene nell’altro, chiunque sia, anche oltre i confini di Israele.

Gesù tocca i lebbrosi che erano gli impuri e perciò gli esclusi per eccellenza, tocca e risolleva la figlia morta di Giairo, mangia e beve con prostitute e peccatori, si lascia toccare dalla donna peccatrice in casa di Simone. Gesù non compie questi inimmaginabili gesti di ospitalità perché intollerante della legge, ma perché desideroso di rivelare il vero volto della santità di Dio, una santità che non separa eliminando, ma che ospita trasformando.

Dio in Gesù rivendica tutto come suo (la terra è mia), anche ciò che fino ad allora era escluso e disprezzato. L’accesso a Gesù è facile, il suo infatti è uno sguardo libero da pregiudizi e ospitale rispetto ad ogni novità. Gesù in ogni incontro crea attorno a sé uno spazio di libertà, che rende possibile e benefica la relazione con Lui. La sua presenza di prossimità nasce dall’opera di distanza che egli sa compiere nei confronti di se stesso. Distanza da sé e disappropriazione di sé sono condizioni indispensabili per lasciare in sé un posto libero per l’altro.

Ritirarsi prima di occupare tutta la scena, rende facile e favorevole l’accesso. “Figlia mia, la tua fede ti ha salvata” (Mc 5,34): neppure della fede Gesù si attribuisce l’origine, non si appropria di nulla di ciò che egli stesso accende nell’altro. Il suo stile di vita è stato quotidianamente connotato da una ospitalità ‘aperta’, un’apertura mantenuta fino alla fine e spinta fin dentro l’opposizione e il rifiuto.

Per non rifiutare nessuno, Gesù assume il rifiuto che lo conduce alla morte e alla morte di croce. E’ proprio qui che avviene il capovolgimento: Gesù giunge ad abbracciare e ospitare ogni forma di distanza dalla santità di Dio. Da questo momento in poi la forma della santità di Dio assume il volto di una ospitalità senza confini. Nella Gerusalemme nuova, nulla è maledetto ed escluso, tutto è accolto e trasformato. (Ap 22,3)

3. Per una liturgia ospitale

Risulta singolare come l’esperienza liturgica, che implica sempre una ‘differenza’ di luoghi e di tempi rispetto all’ordinario svolgersi della vita quotidiana, risulti alla fine all’origine di un legame con essa più accessibile e ospitale. Si può notare una certa analogia con la vita monastica che appunto si svolge in un forma di vita ‘separata’ dal mondo ma che alla fine si dimostra la più aperta e implicata nella sua trasformazione. Nella regola di san Benedetto si legge: “Gli ospiti in monastero non manchino mai”.

Un luogo di ‘separazione’ non può concepirsi senza una larga e assidua presenza dell’ospite. Quale il motivo? Una cosa è evidente: liturgia e vita monastica vivono, con l’assiduità dettata dalla preghiera oraria, quella forma di relazione con l’umano che suona come un ripetuto invito a riconoscere e cantare l’origine gratuita di ogni dono e di ogni relazione. La preghiera di lode e di intercessione scavano infatti al centro della persona uno sazio ospitale al dono dell’Origine santa. E lo spazio offerto a Dio anziché rubare spazio all’uomo, lo libera e lo istituisce.

In particolare la preghiera dei Salmi, in cui tutto l’umano –dal grido del dolore a ogni forma di desiderio del cuore- è accolto e ospitato da Dio, plasma nell’orante l’attitudine ad ospitare l’altro in modo altrettanto disarmato e aperto. Ma anche la forma rituale concorre a liberare spazi e tempi ‘ospitali’. A condizione però che se ne custodisca la ‘semplicità e l’innocenza’.

La liturgia è semplice senza essere semplicista: non insegue risultati speciali, è efficace senza essere efficiente, non è il ‘dunque conclusivo’ di ragionamenti elevati e di complicati presupposti, è già predisposta e non richiede troppe predisposizioni, è ricca di promesse senza richiedere troppe premesse. Non esige la perfezione, non pretende che uno conosca tutto o sappia fare tutto. La sua perfezione si dà nella relazione fiduciosa e abbandonata e nella partecipazione.

Il rito ospita volentieri la differenza e non ha paura della fragilità. Chi partecipa al rito incontra il sano e l’ammalato, il dotto e l’analfabeta, l’anziano e il fanciullo, incontra appunto la differenza di età, di cultura, di spiritualità , scopre che la Voce che ha lo ha invitato ha raggiunto persone che non sarebbero mai state raggiunte e per tutti c’è un posto. La semplicità della liturgia ha il carattere di grazia ospitale. Ma perché possa essere mantenuta, occorre custodirne l’innocenza: alla liturgia non si deve chiedere nulla di più di quanto essa ci doni.

4. Chi pratica l’ospitalità accoglie angeli

“ Non trascurare l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Ebrei 13,2). Il riferimento è certamente all’esperienza in cui Abramo accogliendo presso le querce di Mamre tre uomini stranieri, ha ricevuto la visita di Dio (Gn 18,1-16). Ha dato ospitalità a Dio perché pronto nell’ospitare uomini. La pratica dell’ospitalità apre sempre ad una rivelazione: chi ospita si espone all’incontro con una parola che viene da altrove. Per questo l’ospitalità non può essere limitata a coloro che noi stessi invitiamo.

L’invitato è uno che scegliamo noi di venire a casa nostra, nel migliore dei casi è uno che desideriamo far rientrare nel gruppo dei già conosciuti, è una nuova presenza ma frutto di una nostra attenta e scrupolosa valutazione.

L’ospite è invece colui che si presenta, non scelto, davanti a noi; è colui che giunge a noi portato semplicemente dagli avvenimenti. E’ la presenza di uno che chiede di essere accolto nella sua novità che all’inizio si presenta semplicemente e solo come ‘diversità’.

L’ospitalità è accoglienza senza valutazioni ‘previe’, non è il risultato di una analisi accurata delle predisposizioni dell’altro. Ospitare è precedere l’altro nelle buone disposizioni, è offrire i presupposti che rendono l’altro ‘ospitabile’, è accettare l’altro per il fatto stesso che è arrivato nella nostra casa. Anche noi un giorno siamo stati ospitati e accolti con ogni premura senza offrire nessun presupposto se non il fatto di essere venuti all’esistenza.

L’ospitalità rende umano chi la esercita: quando si crea un posto per l’altro il cuore si allarga, quando si dà tempo all’altro i nostri giorni si caricano di un futuro promettente. Ospitare è dire di sì alla propria umanità accogliendo l’umanità dell’altro. “L’ospitalità è un dono. Dono a chi è ospitato e dono a chi ospita.

Praticare l’ospitalità porta con sé un dono inatteso: quasi inavvertitamente finiremo per scoprire che facendo spazio all’altro nella nostra casa e nel nostro cuore, la sua presenza non ci sottrae spazio vitale, ma allarga le nostre stanze e i nostri orizzonti, così come la sua partenza non lascerà un vuoto ma dilaterà il nostro cuore fine a consentirgli di abbracciare il mondo intero” . (E. Bianchi, Ero straniero e mi avete ospitato, BUR, 2009, 107).

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