LA COSCIENZA – Romano Guardini

La coscienza

MORCELLIANA – Brescia 1977

 

di ROMANO GUARDINI

ROMANO GUARDINI, nato a Verona nel 1885, studiò in Germania, dove sempre visse. Dopo aver tentato gli studi scientifici e quelli umanistici, riconobbe la sua vocazione autentica nella teologia.

Nel 1923 gli venne affidata la cattedra di ‘visione del mondo’. cattolica nell’Università di Berlino. Insegnò in seguito all’Università di Monaco; morì nel 1968.

Attento ai movimenti culturali e spirituali della Germania fra le due guerre, animatore prestigioso della Jugend-Bewegung, il Guardini concepì ognuno dei suoi libri con l’intento di rispondere ad una od altra delle esigenze più vive nell’uomo contemporaneo.

La sua presentazione delle verità cristiane è sempre tesa a un preciso riferimento critico o polemico alle esperienze culturali che hanno esercitato maggior fascino sull’europeo del nostro secolo: lo storicismo, il nichilismo, l’esistenzialismo.

Fra le numerose opere ricordiamo: Lo spirito della liturgia, Il Signore, L’essenza del cristianesimo, La figura di G. Cristo nel N. T., Il mondo religioso di Dostojevskij, Libertà Grazia Destino, Pascal, La conversione di S. Agostino, Ritratto della malinconia, La fine dell’epoca moderna, Il potere, Ansia per l’uomo, Rainer Maria Rilke, quasi tutte presentate al pubblico italiano dalla Morcelliana.

 

Titolo originale dell’opera: Das gute das Gewissen und die Sammlung 
Matthias – Grünewald – Verlag, Mainz (2. Auflage) 

Traduzione di Giulio DELUGAN

  • I edizione: 1933

  • II edizione: 1948

  • III edizione: 1961 IV edizione: 1977

PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
(Audio 1)
 

Questo piccolo libro è uno scritto pratico, non teoretico. Esso non vuole discutere filosoficamente l’essenza della coscienza del bene, bensì intervenire in aiuto della coscienza cristiana nella lotta intorno ai fondamenti della vita morale, quale è determinata dalla situazione spirituale in Germania.

Lotta: ma chi sono i nemici?

E in primo luogo Kant e lo spirito da lui suscitato che esige l’autonomia assoluta della coscienza ed afferma che il cristiano non è una personalità morale nel vero senso, piuttosto invece è eteronomo perché egli sottopone la sua coscienza al volere di Dio… E poi il Nietzsche che assurge a potenza sempre più vigorosa. Egli esige l’assoluta creatività della personalità morale. Il cristiano, egli afferma, ha solo una morale esecutiva che è condannata all’infecondità; una morale da schiavo che lo esclude dall’ esistenza veramente grande e degna… E il bolscevismo che soffoca lo spirito vivente, e distrugge la libera personalità nella compagine del collettivo e nel processo della storia, umiliandola a mero organo per la realizzazione di necessità superindividuali. Ed esso, poi, ritiene il cristiano un individualista pieno d’egoismo, un fantasioso che si abbandona a realtà incontrollabili e trascura in tal modo l’unica realtà. Ed altri ancora si potrebbero nominare.

Di fronte a costoro, questo libro vuol mostrare quale forte indipendenza e profonda iniziativa presenti la morale cristiana; quanto grandi siano le sue possibilità creative, con quanto senso di realtà essa stia di fronte alle cose. Esso pertanto vuoi animare la coscienza cristiana ed ispirarle fiducia nella sua forza. Il lettore dovrà dunque intendere il libretto in questa prospettiva di lotta e di aiuto: non come una trattazione scientifica, bensì come una parola veniente dalla vita per la vita. Come una parola indirizzata agli uomini d’oggi, in cerca ed in lotta, per ispirar loro forza contro determinati avversari; non quindi come un trattato morale o teologico sulla natura della coscienza.

Sembra che il libretto, con questa intenzione, non abbia fatto in Germania un cattivo servizio. Così può essere giustificata la speranza che non risulti inutile nelle discussioni del pensiero italiano, in cui lo introduce l’amichevole fatica del traduttore.

ROMANO GUARDINI

Questi pensieri vennero svolti originariamente in forma di conferenza. 
Vorrei perciò lasciar loro la forma dell’allocuzione diretta; 
e quindi anche il chiarimento loro premesso.

INTRODUZIONE

Ci siamo radunati per parlare di alcuni problemi fondamentali della nostra esistenza personale. Prima però di entrare in argomento vorrei fare alcune osservazioni.

Mi sia lecito dire che questo nostro conversare intorno a tali cose, dev’esser qualcosa di diverso da una solita conferenza. Non vogliate vedere in ciò presunzione di sorta; non pretendo di fare più di colui, che espone onestamente quello che sa. Ma si tratta invece di diversità sostanziale.

È naturale che uno comunichi ad altri quello che crede di sapere. A tal fine quello che si esige da lui è che sappia veramente ed esponga con chiarezza quello che sa. Chi ascolta poi dev’esser disposto ad ascoltare, a discutere e ad imparare, con mente attenta e con animo schietto.

C’è anche un altro modo di parlare: quando uno dice non soltanto quello che sa, ma quello di cui è personalmente convinto; convinto nel senso specifico, profondo di questa parola. Egli dice dunque delle cose, delle quali si può essere veramente «investiti», delle verità che toccano da vicino. In questa convinzione è entrata la persona vivente; altrimenti non si potrebbe parlar di convinzione. Perciò, quando il discorso è di tal natura, da chi parla si esige che la sua persona si trasfonda veramente nella parola; dall’uditore invece che sappia di esser messo di fronte ad una parola personale e che egli stesso prenda un atteggiamento personale, abbia cioè rispetto e disposizione a discutere seriamente.

Più in là ancora vi è finalmente un terzo modo di parlare: quando uno dice non soltanto quello che sa; parla non soltanto di quello che forma la sua convinzione; ma parla di « ciò che dobbiamo fare ». In questa cosa si tratta del destino umano; di ciò che trova la sua ultima espressione religiosa nella parola: la salvezza dell’anima. Un tal parlare non basta che sia fatto con serietà e con senso di responsabilità. Per essere veramente alla sua altezza, dev’essere un’intesa tra chi parla e chi ascolta, nel senso che entrambi vogliano veramente trattare assieme di quello «che dobbiamo fare ».

Qualche cosa del genere è quello che qui stiamo facendo.

Noi viviamo in un’età devastata. Le cose dello spirito e le cose della salvezza non hanno più una propria sede. Tutto è buttato sulla strada. Ognuno parla, ascolta, scrive e legge di tutto ad ogni istante.

Abbiamo dimenticato che quanto riflette lo spirito è di una nobiltà molto esigente e che il comprenderlo è possibile solo a certe condizioni. Che i diversi interessi del mondo spirituale esigono di volta in volta un diverso modo di parlare e di ascoltare; richiedono uno spazio interiore diverso, nel quale possano svolgersi questo parlare e questo ascoltare.

Viviamo in un tempo, nel quale l’avvilimento dell’onore che spetta allo spirito è diventato una pratica comune, che non impressiona più in modo particolare. Per accorgersene basta dare uno sguardo attento a quanto riguarda l’educazione pubblica, con le sue conferenze, discussioni e riviste e coi suoi giornali; basta osservare l’andazzo seguito nel trattare di cose spirituali, il linguaggio che in ciò si usa… Se vi è un compito di vera formazione, è ben quello di tornare ad erigere in questo caos delle barriere, di tracciare dei confini, di separare ambiente da ambiente, di distinguere gradi gerarchici degli spiriti, di far sentire quello che di volta in volta è richiesto da chi vuol cogliere qualche cosa di spirituale.

Ebbene, un po’ di siffatta riflessione e di quest’ordine dovrebb’essere il frutto di queste parole introduttive.

Qui non si tratta di una conferenza che esponga ciò che si sa ad uditori disposti ad imparare. Non si tratta nemmeno di sostenere una convinzione davanti ad uomini disposti ad ascoltarla rispettosamente e a discuterla. Si tratta piuttosto di scambiarsi, uniti nella medesima preoccupazione per la nostra più intima esistenza, una parola su problemi che riguardano appunto questa esistenza e la sua salvezza.

L’oratore dunque intende parlare qui ad uditori che siano pronti a condividere questa preoccupazione. Soltanto con loro. Questa esclusività è necessaria per la dignità della cosa e per l’onore della propria interiorità. Con ciò è chiarito l’oggetto della nostra conversazione, definito il nostro atteggiamento, e circoscritto il suo ambito.

Se tutto ciò vi dovesse sembrare troppo esigente, eccovi la risposta: il dir questo fa appunto parte dell’argomento di cui ci occupiamo. Ne determina il carattere. Ognuno deve assoggettarsi al giudizio che venne pronunciato sopra la trascuratezza colpevole del nostro tempo. Nessun individuo è esente da quello che tocca tutti. In un punto però può differenziarsi: che egli abbia la coscienza di questa trasandatezza. Che egli non chiami ordine questa devastazione, ma sappia ben distinguere. Che egli chiami con il loro nome il disordine e l’irriverenza e abbia la volontà che le cose cambino.

E ancora un’osservazione: il discorso deve aggirarsi intorno ad alcuni problemi della vita interiore: problemi religiosi e morali dunque. Però non si intende con ciò di esporre un sistema di etica, ma soltanto di mostrare un fecondo punto di partenza; uno fra i tanti. Se qui e in tale contesto non si fa espressa parola della morale cristiana positiva, non è per escluderla, ma anzi perché viene esplicitamente presupposta.

Le tre conferenze hanno un nesso vicendevole, e pertanto sulle prime apparirà poco chiaro qualche punto, che poi troverà spiegazione nel corso della trattazione.

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