DON CALABRIA AGLI INFERMI

TUTTI GLI SCRITTI DI DON CALABRIA AGLI INFERMI

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6241 Novembre 1948

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia di Gesù benedetto e la Sua santa pace siano sempre nei nostri cuori. – E’ la prima volta che vi scrivo direttamente, ma non è la prima volta che io penso a voi. Fin dalla mia ormai così lontana gioventù, i malati sono stati sempre la pupilla dei miei occhi, e la bella provvidenziale opera dell’Apostolato degli Infermi ha occupato sempre un posto di privilegio nel mio cuore.

Ora il primo segretario della sezione italiana dell’Apostolato Infermi, al quale avevo dato l’incarico di organizzare e dirigere questa bella opera, non è più fra noi; egli è tornato alla casa del Padre, da cui tutti veniamo e a cui tutti siamo chiamati e dobbiamo sentire la nostalgia di arrivarvi. Don Albano, tanto caro al mio cuore, era un sacerdote santo, ed è tornato a casa pieno di meriti; e uno dei suoi meriti più grandi siete proprio voi, la bella famiglia dell’Apostolato Infermi, la quale tanto bene ha fatto e farà ancora per la gloria di Dio e la salvezza della povera umanità.

Nella mia povertà, mi sono sentito di prendere il posto di don Albano, per il grande amore che porto a tutti i malati e in modo particolare a voi, ma soprattutto perché confido che il Signore gradirà questa mia piccola fatica e darà Lui l’aiuto per supplire alle mie manchevolezze.

Per questo mi raccomando tanto anche alla carità delle vostre preghiere e dei vostri sacrifici.

Non pensate che io abbia la pretesa o che aspiri a dirvi cose nuove o dotte, tuttavia quelle poche cose che vi dirò, state sicuri che ve le dico col cuore, perché so cosa significhi la malattia e la sofferenza, perché mi sento vostro fratello anche in questo; da molto tempo, infatti, anch’io sono iscritto all’Apostolato Infermi anzi, se guardiamo all’anzianità d’iscrizione, credo di potermi ben chiamare vostro fratello maggiore, perché la prima tessera dell’Apostolato Infermi in Italia è stata proprio la mia, nel maggio del 1930.

Non consideratemi dunque come un nuovo arrivato, ma come il più anziano della vostra famiglia, il quale vi dirà tutti i mesi, fino a che la misericordia divina lo terrà in vita, una parola alla buona, come a una famiglia raccolta presso il focolare: il focolare dell’amore divino, a cui tutti dobbiamo scaldarci e infervorarci.

Questo fuoco di carità, che ci viene dalle fiamme del Cuore divino di Gesù, ci deve far sentire sempre più fortemente la nostra unione fraterna. Siamo fratelli perché figli di un unico Padre; siamo fratelli perché redenti tutti da Gesù, il primogenito di Dio; siamo fratelli anche perché fin ché siamo su questa povera terra, siamo tutti, per la nostra umana natura, soggetti a soffrire. Perciò l’amore nostro non deve limitarsi alla nostra famiglia, ma, come vuole lo statuto della nostra associazione, deve estendersi a tutti i nostri fratelli, a tutta l’umanità dolorante, perché tutti, vedete, soffrono; tutti hanno bisogno del divino aiuto, e certamente ne hanno ancor più bisogno coloro che sembrano privilegiati, in quanto non sono toccati dai grandi dolori.

A questo proposito, mi viene in mente un grazioso episodio della vita di Pio XI. Un giorno passava davanti a Lui, baciandogli la mano, una lunga fila di pellegrini; a un certo punto, un giovane dal passo incerto e dallo sguardo assente, si arrestò titubante davanti al piccolo trono; allora uno dei prelati che assistevano avvisò il Papa: “E’ cieco”. Pio XI ebbe allora un istintivo motto di pietà, si accostò all’orecchio del giovane, e abbracciandolo gli disse con commozione di padre: “Coraggio, figliolo, non sei solo: siamo tutti un poco ciechi”.

E’ proprio così, cari fratelli e sorelle; siamo tutti un poco, o molto ammalati; tutto il mondo è malato, ed è malato soprattutto perché è cieco.

Fortunati, mille volte fortunati noi che, nelle nostre sofferenze, siamo confortati da quel lume divino che è la santa grazia portataci da Gesù col sacrificio della Sua vita e della Sua dolorosa passione!

Oh la grande medicina che è la grazia per le malattie degli uomini!

Se il mondo non fosse così cieco, se il mondo la conoscesse e l’apprezzasse e ne facesse tesoro, quanti mali di meno vi sarebbero per questa povera umanità! Ci rimarrebbero certamente i dolori, perché il dolore è piuttosto un privilegio che un danno, e non è un segno di castigo o di collera, ma è invece quasi sempre una prova di predilezione divina; ci rimarrebbero, dico, dei dolori nel mondo, ma sarebbero dolori dolci e soavi alle anime, e l’umanità, conoscendone il valore inestimabile invece di fuggirli, li cercherebbe a gara.

I santi, che avevano gli occhi della fede bene aperti e ci vedevano chiaro, facevano così: le desideravano e le cercavano le sofferenze.

Cari fratelli e sorelle, guardiamo le cose dall’alto, ascoltiamo, specialmente in questo mese che sta per tramontare, l’insegnamento che viene da coloro che ci hanno lasciati per il grande viaggio dell’eternità; oh come essi vorrebbero aver sofferto di più, non solo in penitenza delle proprie colpe, ma anche per acquistare titoli a una maggior vicinanza ed unione con Dio nella patria beata! Questa sarà certamente una delle pene maggiori per le anime che penano nel Purgatorio: non aver fatto tutto quello che era in proprio potere per assomigliare di più a Gesù in questa terra e quindi essergli più vicino nella gloria; per le anime che hanno già raggiunto il santo Paradiso invece, neppur questo pensiero potrà intaccare la loro gioia perfetta.

Oh eternità beata, dove non avremo più che da godere dando gloria a Dio! Miei cari ammalati, vogliamo arrivarci anche noi? Guardiamo allora all’esempio di Gesù, che ci parla, dalla croce, del Suo amore per noi. Dev’essere, dunque un gran tesoro la sofferenza, se Iddio ne ha riservata tanta al Suo divin Figliolo! E infatti tutte le anime più care al Signore ebbero in sorte le sofferenze più gravi e acute. Pensate ai santi, pensate alla cara Madonna, che fu la creatura prediletta di Dio. Pensiamo spesso alla Madonna e sentiamoci con Lei ai piedi della croce del Suo divin Figliolo.

Oh la nostra cara Madre Celeste! Ella rimane sempre la Madonna della nostra associazione, anche se la sede del segretario non è più presso il suo Santuario: ogni casa dei Poveri Servi è, si può dire, un Santuario della Madonna, perché in ogni casa la Madonna è con devozione tutta particolare onorata, specialmente nel Suo immenso privilegio dell’Immacolata Concezione; tuttavia il Santuario della Madonna di Campagna rimarrà sempre la cara culla della nostra Sezione Italiana, e il nostro cuore deve rimanere sempre vicino al Suo trono; anzi, ciascuno di noi deve fare per Lei un santuario nella propria anima, così che Ella ci sia sempre vicina, insieme con Gesù, a sostenerci e a darci pace, e insieme con il Suo castissimo sposo S. Giuseppe, per assicurarci, alla fine dei nostri giorni quaggiù, un felice ritorno alla casa del Padre che è nei cieli.

Miei cari ammalati, là è il nostro appuntamento, là dobbiamo ritrovarci un giorno tutti insieme a cantare, senza ombre di dolore, le divine misericordie.

Intanto stiamo strettamente uniti nella preghiera. Cominciando dal dicembre prossimo, il primo venerdì di ogni mese io celebrerò la santa messa per voi e per quelli che avete di più caro nel cuore, per i soci defunti e perché il Signore benedica e fecondi sempre più questa Sua opera dell’Apostolato Infermi. Quelli di voi che possono, facciano quel giorno la santa comunione in unione di intenti e di cuori con questo nostro centro dell’associazione; chi non possa far la santa comunione, in quel giorno offra almeno, in un modo particolare, le sue sofferenze al Signore. E Gesù benedetto vi ricompenserà tutti largamente. Vi avviso che il 24 di ogni mese io celebro la santa messa per coloro che pregano per me e secondo le mie intenzioni. Ne ho tanto bisogno, cari ammalati; aiutatemi tanto anche voi con la vostra carità, di preghiera e di sofferenza Vi saluto tutti, tutti vi porto nel cuore, tutti vi benedico. Vostro in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6242 Dicembre 1948

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia di Gesù benedetto e la Sua santa pace siano sempre nei nostri cuori. – Eccomi di nuovo a voi, per dirvi la mia povera parola. Avrei voluto che questa lettera vi giungesse prima del santo Natale, per portarvi i santi auguri natalizi, ma non è stato possibile; e allora ho cercato di rimediare ricordandovi in un modo tutto particolare al Signore, specialmente nelle messe del Santo Natale.

Spero ora che queste mie parole vi giungano per l’anno nuovo, per portarvi i miei fervidi auguri di bene nel Signore, ma soprattutto per eccitarvi a concepire dei grandi e santi propositi per la vostra vita in questo nuovo anno di misericordia. Ricordatevi: anno nuovo, nuovo grazie, nuove responsabilità.

Questo nuovo anno, poi, dobbiamo riguardarlo specialmente come una preparazione e introduzione all’Anno Santo, e io desidero ardentemente che i cari iscritti dell’Apostolato Infermi si impegnino con tutta l’anima a cooperare perché il santo Giubileo del 1950, che la misericordia di Dio sembra volerci elargire e che la paterna bontà del S. Padre ha già indetto, riesca veramente come il Signore vuole, cioè una tappa importante nella nostra santificazione personale e una vittoria del regno di Dio sul regno delle tenebre.

Ci arriveremo noi all’Anno Santo? Potremo noi approfittare delle grandi grazie che, come speriamo, il Signore elargirà, nel santo Giubileo, ai cristiani di tutto il mondo?

Misteri di Dio! Una cosa però è certa: che noi possiamo, fin d’ora, partecipare a quei frutti salutari di grazia, se cooperiamo, già adesso, alla preparazione di questo grandioso avvenimento.

Vedete, cari Fratelli e Sorelle: quando il Signore vuol fare qualche cosa di grande, aspetta che noi, suoi figli, Gli portiamo il materiale, e finché il materiale non è sufficiente, le opere del Signore non procedono. L’economia delle opere divine è così. Il Signore è abbondantissimo nelle sue grazie, ma vuole la nostra cooperazione, vuole che noi le grazie gliele strappiamo con una santa violenza. E qual è questo materiale che vuole da noi? Che cosa possiamo darGli noi, poveri ammalati?

Cari Fratelli e Sorelle, siamo proprio noi che abbiamo a disposizione il materiale più prezioso per la fabbrica del regno di Dio. I malati non sono, no, lo scarto di questa povera umanità, ma ne sono invece la parte più eletta, quella che più piace e più conta agli occhi di Dio, purché naturalmente sia a Lui unita nella santa grazia, cioè nella santità, che consiste essenzialmente nell’accettazione illimitata e perfetta della Sua santa volontà.

Oh quale potere ha sul cuore di Dio la preghiera di un’anima santa! E quando quest’anima può offrire, insieme con l’ardore del suo cuore, la prova, la testimonianza della sua sofferenza, allora diventa quasi onnipotente sul cuore di Dio.

Io l’ho sempre detto ai miei figlioli spirituali: bisogna essere pronti a soffrire, a soffrire tanto, a soffrire come, dove, quando vuole Iddio, perché le anime e le opere del Signore costano tanto, e delle volte si potrebbe dire persino che grondano sangue. E del resto, non grondò forse sangue il nostro Redentore per salvare le anime nostre?

Preghiera e sofferenza. Ecco il materiale che vuole da noi il Signore, come condizione per aprire i tesori dell’Anno Santo. Può darsi che dipenda proprio dalla nostra preghiera, accompagnata dalla sofferenza, non solo da riuscita dell’Anno Santo, ma anche la sua realizzazione. Siamo dunque generosi col Signore e con le anime dei nostri fratelli.

Coloro che hanno l’incarico di organizzare le manifestazioni esterne dell’Anno Santo, stanno già preparando i programmi e pensano a tante belle iniziative di bene. Tutto il mondo dovrà guardare a Roma, e da Roma dovrà partire tanta luce e calore non solo per tutti i cattolici, ma anche per tutti coloro che non sono ancora del santo ovile della Chiesa e specialmente per i Fratelli Separati.

Chi sono questi Fratelli Separati? Don Albano ce ne parlava tutti gli anni proprio in questi giorni invernali, e quelli che sono da qualche tempo nella nostra grande Famiglia dell’Apostolato, sanno bene che vengono chiamati Fratelli Separati specialmente quei cristiani che, pur professandosi seguaci di Cristo, non accettano però l’intera dottrina e la disciplina della santa Chiesa cattolica, e vivono così formalmente separati da noi, come tralci distaccati dalla vera vite, che è Cristo Signore vivente nella Sua Chiesa, fondata su Pietro.

“Tu sei Pietro e su questa pietra io fonderò la mia Chiesa”.

Sono più di trecento milioni di anime, tra cristiani scismatici e protestanti, che sono fuori della vera Chiesa; se poi contiamo gli Ebrei, i Maomettani e tutti gli altri non cristiani, si raggiunge la cifra di oltre un miliardo e mezzo di persone che non godono degli speciali carismi che il Signore elargisce attraverso il magistero e il ministero della Chiesa romana. Se ci pensiamo bene, è una cifra spaventosa. E dire che noi ci culliamo spesso nel beato ottimismo che tutto vada bene e che presto tutto il mondo sarà cattolico!

Certo, se il Signore volesse, questo voto del nostro cuore potrebbe avverarsi prima e meglio di quel che si possa ragionevolmente sperare; ma, come dicevo prima, il Signore vuole la nostra cooperazione.

Per questo la Chiesa raccomanda tanto la preghiera per le missioni, per la conversione dei peccatori, per l’unità delle Chiese. E appunto per l’unità delle Chiese tutti gli anni, nel mese di gennaio, dal 18 – festa della Cattedra di S. Pietro in Roma – al 25 – festa della Conversione di S. Paolo – in tutto il mondo si fa un’ottava di preghiere speciali, per ottenere dal Signore la riunione di tutti i cristiani in una famiglia sola. “Ut unum sint”, perché siano una cosa sola, come il Figlio di Dio, nostro fratello e capo, è un’unica cosa col Padre e con lo Spirito Santo.

A questo nobilissimo scopo dobbiamo cooperare anche noi con tutte le nostre possibilità, non solo in questa solenne ottava, ma in tutto l’anno. Sarà anche un mezzo utilissimo, che piacerà tanto al Signore, per propiziare la Sua misericordia sul mondo, in vista del prossimo Anno Santo.

Perché possiate unirvi, almeno in ispirito, ai milioni di fedeli che durante l’ottava pregano in unione d’intenti, vi metto qui le intenzioni che sono stabilite per i singoli giorni:

18 gennaio – Per il ritorno di tutte le altre pecorelle all’unico ovile di Pietro.

19 – Per il ritorno delle Cristianità Orientali dissidenti.

20 – Per il ritorno degli Anglicani.

21 – Per la conversione dei Luterani e delle comunità protestanti d’Europa.

22 – Per la conversione delle comunità Protestanti d’America.

23 – Per il ritorno dei cattivi cristiani alla pratica dei Sacramenti.

24 – Per la conversione degli Israeliti.

25 – Per la conversione dei Maomettani e dei pagani.

Come vedete non solo per i cristiani, ma anche per tutti gli altri si prega. Sono tutti nostri fratelli, figli di Dio Padre, tutti redenti dal sangue di Cristo.

Oh preghiamolo il Signore, per questo Suo sangue preziosissimo, sparso per tutti noi; preghiamolo che si faccia presto un solo ovile sotto un solo Pastore, in modo che il divin sangue per nessuno sia stato sparso invano! E offriamo quanto abbiamo di meglio: il nostro amore, le nostre sofferenze e, se fosse necessario, il nostro stesso sangue. E facciamo la nostra offerta per le mani purissime della Vergine Immacolata, e così sarà più gradita a Dio, più meritoria per noi, più salutare per i nostri fratelli.

Prima di terminare, voglio ringraziare tutti coloro che in questi giorni mi hanno fatto pervenire parole gentili di carità e di incoraggiamento e soprattutto promesse di preghiere. Che il Signore li ricompensi tutti con le Sue sante grazie.

Continuiamo a vivere uniti nella santa carità di Cristo: un cuor solo e un’anima sola. Tale unità nella carità è già una preghiera preziosa per ottenere l’unità di tutto il mondo in Cristo.

Vi benedico e, augurandovi ogni bene, vi saluto nel Signore.

In C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6243 Gennaio 1949

Miei cari fratelli e sorelle nel Signore,

la grazia e la pace di Gesù Benedetto siano sempre nei nostri cuori. – Ho ricevuto da voi parecchie lettere, che mi hanno consolato, perché hanno fatto vedere con quanta comprensione ascoltate queste mie povere parole e le mettete in pratica. Il Signore, che conosce il vostro patire e le disposizioni del vostro animo, ve ne darà certamente generosa ricompensa.

Quando ricevo le vostre lettere, io mi trasporto col mio pensiero nelle vostre case, negli ospedali, nelle case di cura dove siete ricoverati, vicino ai vostri letti di dolore, e mentre vi benedico ad uno ad uno, mi pare di passare in rivista un esercito: l’esercito più forte che ci sia su questa povera terra, il solo esercito che possa salvare il mondo dalla rovina.

Qualcheduno, quando è ammalato, pensa: se io fossi sano, potrei fare questo e quest’altro per il Signore… ma, poichè sono malato, non potendo offrirgli altro, gli offro solo queste mie sofferenze e il dispiacere che ho di non poter lavorare per Lui. E dice questo col medesimo tono con cui una persona di buon cuore potrebbe dire a un assetato che chiede da bere: ti darei volentieri del vino, anzi, vorrei darti un liquore squisito, ma poiché non ne ho, contentati di un po’ d’acqua. – No, cari fratelli e sorelle, non è proprio così che dobbiamo giudicare il dolore. La sofferenza, sopportata insieme col Signore non è, no, da meno della nostra attività, del nostro lavoro fatto quando stiamo bene. Il dolore non deve essere considerato come un tozzo di pane che rimane alla fine del pasto e che tante volte si disprezza come un rimasuglio: il dolore è il dolce liquore e il pane squisito che saziano più di qualunque cosa la brama d’amore e di giustizia del cuore di Dio.

La sofferenza è il dono più genuino che possiamo offrire in riparazione di tanti mali nostri ed altrui che Dio dovrebbe punire. Infatti nelle nostre iniziative, nei nostri lavori c’è sempre molto di nostra volontà, di nostro gusto, di amor proprio personale; invece il dolore, se lo accettiamo come se ci venisse dalle mani e Dio e lo offriamo a Lui per il santo suo regno, è più puro dai nostri umani attaccamenti, ed è quindi la preghiera più potente presso il cuore offeso del Signore.

I dolori sono veramente il meglio di noi. Basterebbe guardare la vita dei santi: dai più vicini a noi andando su, su nei secoli, sino al protomartire Stefano, agli Apostoli, alla Madonna. E non ha forse tremendamente sofferto Gesù, l’Innocente, per i peccati dei Suoi fratelli? E che grandi benefici ci apportano quei patimenti! E poiché ora, glorioso alla destra del Padre, non può più soffrire, Egli, volendo continuare nella Sua opera di redenzione, si serve di noi Suoi fratelli, membri di questo Suo corpo mistico che è la Chiesa, dove ciascuno di noi, purché sia in grazia di Dio e distaccato dal peccato, è come un tralcio vivo unito e vivente insieme con la vite che è Cristo. Ma il tralcio è anch’esso una parte della vite: ecco perché si dice che il cristiano è un altro Cristo.

San Vincenzo de’ Paoli, il quale di sofferenza se ne intendeva, diceva che è “ben fortunata quella famiglia ove sia un malato”. Sembra un’eresia, ma è proprio così. Anche la grande famiglia dell’umanità, ma specialmente la santa famiglia della Chiesa di Cristo, può vivere e prosperare solamente perché nel suo seno ci sono i malati e i sofferenti. E se qualcosa di bello e di grande avviene in questa grande famiglia, è il Signore che la dona, dopo aver raccolto una vera messe di atti di amore nel campo smisurato della sofferenza.

Voi direte: ma sono sempre le stesse cose che ci vengono dette e ripetute! E’ vero: ma sono proprio le cose più vere e più semplici che bisogna ripetere a noi stessi e agli altri, perché sono queste che ci portano alla pratica di una vita santa e ricca di meriti. La via della santità è una vita difficile, perché richiede appunto dei sacrifici, non già perché richieda una grande scienza.

Ma io oggi vi ripeto queste cose anche per una ragione speciale. Questa povera umanità, questa grande famiglia redenta da Cristo, ma così poco cristiana, così poco grata al Signore, così poco unita alla fonte della vita, questa povera umanità sta attraversando un’ora di crisi tremenda. Anche se avete la fortuna di vivere un po’ isolati dal mondo, arriva certamente anche a voi l’eco di tanti avvenimenti, non tutti brutti per fortuna, ma in gran parte dolorosi, che ogni giorno le cronache ci riferiscono. Conflitti di dottrine, guerre politiche ed economiche, sconvolgimenti e crisi un po’ dappertutto: e poi in molte regioni del mondo persecuzioni feroci anche contro la nostra santa religione e i suoi rappresentanti; persino in questa nostra Italia continui tentativi, specialmente in qualche regione, per togliere dal cuore del nostro buon popolo il suo patrimonio più prezioso: quello della fede.

Proprio in questi giorni ho ricevuto da una città d’Italia una lettera che io avevo mandato alle suore di un ospedale e che mi è stata respinta con questa scritta: “Non più suore all’ospedale civile”. A questo punto s’arriva: di voler togliere persino il conforto e l’assistenza religiosa dal capezzale degli infermi!

Fortunatamente, insieme con questi fatti dolorosi, ci sono anche fatti e sintomi consolanti: il desiderio sempre più sentito della pace, una maggior comprensione almeno tra alcuni popoli, vasti campi scientifici e intellettuali che si volgono a Cristo, nella santa Chiesa un fermento nuovo di vita, una revisione ardita delle istituzioni vigenti per adattarle alle nuove necessità, il movimento consolantissimo per l’unione delle Chiese, la brama di Cristo che certi popoli pagani sentono più che mai: sono tutti segni che il Signore batte alla porta dell’umanità, perché vuole entrarvi come Re e Dominatore.

E qui mi piace riferire una bellissima immagine di S. Paolo, che pare scritta proprio per questi giorni. Nella meravigliosa lettera ai Romani, dopo aver detto che non vi è paragone tra la sofferenza passeggera di quaggiù e la gioia eterna che ci è destinata nel cielo, egli aggiunge che tutto il mondo sta in attesa guardando lontano, aspettando il rinnovamento in Cristo dei figli di Dio; anzi, dice di più: l’insieme delle creature geme e soffre quasi le doglie del parto, e anche noi, che abbiamo la grazia di essere cristiani, andiamo gemendo, in attesa che si sveli l’adozione dei figli di Dio e la glorificazione di questo nostro corpo, che un giorno non sarà più soggetto a patimenti.

Oggi l’umanità sta veramente soffrendo le doglie del parto di un ordine nuovo. Ma come può nascere un mondo migliore, più cristiano e più santo, può anche scaturire un dragone infernale che divora le creature di Dio e porta strage e rovina. E allora? Allora dipende proprio da noi, cari fratelli e sorelle nel Signore, se il mondo si salverà o si perderà. Oh, noi lo sappiamo bene che il trionfo finale sarà di Cristo e della Chiesa, ma attraverso a quanti dolori, lotte e sventure, se noi non riusciamo oggi a sforzare la misericordia di Dio! Solo la preghiera e la sofferenza dei buoni possono costituire la diga che arresti il corso della giustizia divina e cambiare il corso degli avvenimenti. Che grande, che tremenda responsabilità davanti a Dio e davanti ai nostri fratelli se avendo a nostra disposizione questa immensa forza soprannaturale che il Signore ci dà, non vogliamo approfittarne!

Quando la barca è in pericolo, i marinai buttano in mare anche le cose più care, pure di salvare la vita. La grande nave su cui noi pure navighiamo, la santa Chiesa, è nella tempesta. Facciamo come i marinai: lanciamo a mare tutto il nostro amor proprio, accettiamo lo spogliamento delle ricchezze, della salute, degli onori; salviamo una cosa solo e sempre: la vita della nostra anima, tenendoci uniti all’alimento della nostra vita interiore: l’Eucarestia, la preghiera, la sofferenza. La Stella del mare, la Madre nostra Addolorata, ci illumini la rotta verso il porto del cielo. Siamo forti e perseveranti: arriveremo così tutti al porto che ci attende, dove un giorno ci ritroveremo tutti uniti a lodare il Signore per sempre, insieme con tante anime salvate dalla nostra sofferenza.

In questa dolce speranza, vi saluto e vi benedico.

In C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6244 Febbraio 1949

Miei cari Fratelli Sorelle nel Signore,

la grazia e la pace di Gesù Benedetto siano sempre con noi, e la sua santa gioia sovrabbondi nei nostri cuori. La santa gioia di Cristo, ho detto; non già l’allegria spensierata che in questi ultimi giorni di carnevale abbiamo visto schiamazzare anche nei nostri paesi cristiani.

Poveri uomini, poveri cristiani! Credono di essere oggetto d’invidia e destano invece, in chi abbia appena un poco di vero spirito cristiano, una profonda compassione. Se, invece di far chiasso e di muoversi tanto, si fermassero un pochino e meditassero sulla vanità, e fugacità del piacere che essi rincorrono e che mai li contenta, sentirebbero la voce intima e potente della coscienza che direbbe loro: disgraziato, tu ti diverti, ma non sei contento; sei spensierato, ma non sei tranquillo; sei sazio di piacere, eppure ti senti vuoto e affamato.

- Poveri ciechi! – ci vien fatto di dire, e pensiamo a quel poveretto di cui ci ha parlato il vangelo di questa domenica di quinquagesima. Poveretto, ma fortunato! Infatti ebbe fede in Gesù, e ottenne di vederci. Io son certo che, pensando a quel cieco, tutti voi, domenica scorsa, avete pregato per la guarigione di tanti ciechi spirituali che sono nel mondo. Del resto, questa preghiera ci è stata chiesta, proprio pochi giorni fa, con un appello accorato, dallo stesso Santo Padre, il quale ha disposto che tutta la Chiesa celebri, la domenica di Passione, 3 Aprile, una speciale giornata di riparazione per placare la giustizia di Dio, offesa da colpe sempre più gravi ed insolenti, e per implorare il perdono ai disgraziati colpevoli.

Il primo venerdì d’aprile e la domenica di Passione saremo dunque uniti in modo speciale in questo spirito di riparazione e nell’offerta delle nostre povere preghiere e sofferenze a Dio.

Però… però sarebbe un grave errore pregare per gli altri, senza fare un serio esame su di noi stessi. Nella mia prima lettera, raccontandovi un grazioso aneddoto della vita di Pio XI, vi dicevo che tutti siamo un poco ciechi. Ciechi sono coloro che non vedono; ma ci sono di quelli che sono ancora più ciechi perché, pur essendo immersi nelle tenebre, credono di essere nella luce; peggio ancora: immersi nella luce, non ne sono illuminati, perché mettono degli ostacoli tra i loro occhi e la luce. Chi sono questi disgraziati?

Possiamo essere anche noi, cari fratelli e sorelle, se non corrispondiamo con generosità alla luce che il Signore ci manda per mezzo delle sue grazie, così numerose e così preziose, e poniamo a queste grazie l’ostacolo della nostra cattiva volontà e del peccato. Saremmo ciechi anche noi se, per esempio, non riconoscessimo che anche le tribolazioni sono grazie che il Signore ci ha mandato per il bene nostro e del mondo.

Nel vangelo di domenica scorsa abbiamo anche letto che Gesù chiamò in disparte gli Apostoli e confidò loro che Egli sarebbe caduto in mano ai suoi nemici, che lo avrebbero deriso, oltraggiato, crocifisso. E il vangelo aggiunge che gli Apostoli non capirono nulla di quello che il Signore aveva così chiaramente detto loro. Avevano la stessa luce, Gesù vivente e parlante, quel medesimo Gesù che in tre anni aveva mostrato loro tanti miracoli strepitosi, eppure non vedevano quella luce e non volevano ascoltare quella voce.

A leggere tali cose, noi quasi ci scandalizziamo.

E perché ci scandalizziamo? Perché siamo anche noi dei ciechi che, per guardare le ombre negli altri, non ci accorgiamo delle nostre grosse macchie. Sì, gli Apostoli avevano avuto grandi grazie da Dio; ma forse che noi non dovremmo ringraziare giorno e notte il Signore per le grazie che ha elargito a ciascuno di noi?

Gli Apostoli avevano visto i miracoli di Gesù: e pure noi conosciamo quei miracoli e tanti altri ancora, compresi quelli che la Provvidenza compie anche al presente. E anche noi abbiamo l’insegnamento di Gesù nelle pagine del Nuovo Testamento. E abbiamo anche un cosa che essi non ebbero: la storia meravigliosa e miracolosa della Chiesa e l’esempio di innumerevoli santi. Gli Apostoli avevano Gesù, e anche noi l’abbiamo nella SS. Eucarestia; e l’abbiamo ancora nei suoi rappresentanti, dal Sommo Pontefice all’ultimo sacerdote; essi ebbero la Madonna; e non l’abbiamo anche noi, madre tenera e soave, che sempre ci aiuta e spesso rinnova le sue visite straordinarie alla povera umanità? E i sacramenti? E l’Angelo Custode?

E’ tutta questione di fede: se noi avremo una fede vera e profonda, ci sentiremo avvolti in un’atmosfera soprannaturale e riconosceremo che le grazie a noi date da Dio sono più numerose del pulviscolo atmosferico, che scorgiamo quando un raggio di luce penetra nelle tenebre di una stanza. Abbiamo dunque bisogno anche noi di raccoglierci un poco, in questa santa quaresima, che è fatta specialmente per pensare ai bisogni dell’anima: dobbiamo chiudere la nostra anima al mondo, alle sue passioni, che sono radicate anche in noi per mezzo dell’amor proprio; e aprire bene lo spiraglio della fede, che ci farà vedere attorno a noi quello che forse oggi non vediamo che confusamente: le grazie che il Signore ci ha fatto e la nostra poca corrispondenza alla bontà e generosità del Padre celeste.

Allora vedremo se il nostro cristianesimo lo mettiamo veramente in pratica, o se troppo spesso non si riduce a vane parole: se siamo bravi a predicare agli altri la rassegnazione e l’accettazione della volontà di Dio e poi noi… Forse, prima che la croce venisse, abbiamo detto, nell’entusiasmo del nostro cuore, insieme con l’apostolo Tommaso: andiamo anche noi dietro al Signore e moriamo con Lui! Vengano pure le pene: le accetterò volentieri per il mio Signore… Poi vennero le tribolazioni e ben presto noi ce ne stancammo, perché le avremmo volute in altro tempo, in altro modo, in altre circostanze, perché avremmo voluto scegliere noi la nostra croce, perché insomma, eravamo e forse siamo ancora troppo attaccati al nostro amor proprio.

Ecco la radice di tutti i mali: l’amor proprio: voler più bene alla nostra volontà che alla volontà di Dio.

La quaresima è fatta per la mortificazione. Mortificazioni corporali non mancano a chi è già colpito e piagato in questa povera carne; ma rimane sempre possibile la mortificazione dello spirito, per mezzo della quale dobbiamo vincere la vecchia creature peccatrice per rivestire in noi Gesù Cristo: Gesù Cristo mite ed umile di cuore, Gesù Cristo sofferente e paziente, Gesù Cristo offeso e perdonante, Gesù Cristo crocifisso e Redentore.

Allora saremo anche fatti degni di rivestire in noi Cristo glorioso e trionfante nel seno della SS. Trinità, insieme con la nostra cara Mamma del cielo, nella beata eternità.

Vi ricordo ancora i nostri convegni presso l’altare della preghiera e della sofferenza: il 24 io offro il S. Sacrificio per tutte quelle anime buone che pregano per me; il I° venerdì del mese per tutti gli iscritti vivi e defunti; il 3 aprile tutti i nostri cuori siano vicini al papa, in espiazione per noi e per tutto il mondo peccatore.

Ringrazio di cuore coloro che mi hanno scritto promettendomi preghiere e sacrifici e a tutti mi raccomando nel Signore. Augurando a tutti ogni bene in Cristo Gesù, vi saluto e vi benedico.

In C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6245 Aprile 1949

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia e la pace di Gesù Benedetto siano sempre con noi. Mi pare ieri quando richiamavo alle vostre menti l’augurio di pace che gli angeli cantarono sulla grotta di Betlemme, e già risuona al nostro orecchio e s’imprime nel nostro cuore il saluto e l’augurio di Gesù ai suoi prediletti, nella Pasqua della Resurrezione: la pace sia con voi.

Sono passati ormai quattro mesi e, anche se sono trascorsi nella sofferenza, ora che sono passati ci sembrano brevi; fors’anche perché l’eternità ogni anno si avvicina e le cose di quaggiù impallidiscono sempre più al nostro sguardo.

Il tempo fugge: e che cosa rimane? Noi lo sappiamo bene, anche se qualche volta ci comportiamo come se non lo sapessimo: rimane solo il merito delle opere buone, del sacrificio sopportato con spirito di fede e con la carità di Cristo e dei nostri fratelli nel cuore; e col merito rimane anche la pace, quella pace appunto per cui Gesù venne nel mondo e per cui affrontò il sacrificio della croce. “Vi lascio la pace, vi dono la pace. Io non ve la do come ve la da il mondo. Non si turbi né si sgomenti il vostro cuore” (Giov, XIV, 27).

La mia pace, Egli disse: per distinguerla da quella falsa, apparente ed ingannevole del mondo e dei suoi seguaci. Noi dobbiamo dunque studiarla questa pace, dono di Cristo, studiarla per riconoscerla da quella falsa, per conquistarcela con l’aiuto della divina grazia e per difenderla da chi ce la volesse rapire o turbare.

Tutti parlano di pace, tutti sospirano la pace, le stesse guerre si fanno generalmente nel nome di una pace da conquistare a qualunque prezzo, e dopo le recenti esperienze, tutti diciamo col cuore sinceramente: oh avessimo un po’ di vera pace! – E’ dunque una gran cosa questa pace di cui tutti parlano e che così difficilmente si raggiunge. Ma la pace che il Signore ci ha portato è una cosa ben più grande di questa di cui parlano i giornali. La pace di Cristo è la pace dei cuori che hanno trovato il loro riposo e conforto in Dio: una pace che può allietare l’anima anche in mezzo all’infuriare di una battaglia o di una persecuzione; una pace anzi che è essa stessa lotta continua e frutto di lotta (sono i violenti – con se stessi – che conquistano il cielo); una pace “che il mondo irride – ma rapir non può”.

E’ questa la pace che sorrise sulla culla di Betlemme, che aleggiò sotto le volte del cenacolo nel discorso dell’ultima Cena, e che fu augurata dal Cristo risorto ai suoi apostoli e discepoli. Questa è la pace che, nei primi secoli della Chiesa, risuona così frequentemente dalla bocca e dagli scritti dei nostri padri nella fede, e particolarmente del grande apostolo delle genti San Paolo, che ai suoi figlioli in Cristo non scriveva una lettera senza augurare almeno una volta la pace di Dio.

Ci sarebbero tante cose da dire, su questo argomento, e se la Provvidenza mi darà tempo e forza, mi piacerebbe di svilupparvelo un po’ ampiamente, trattandosi di un punto fondamentale per la nostra felicità eterna, e anche terrena. Ne riparleremo dunque, a Dio piacendo; per oggi, mi piace darvi alcuni principi, che voi mediterete nel vostro animo, ricavandone certamente frutti di consolazione.

La pace di Cristo non vuol dire pigrizia, neghittosità, riposo inerte e privo di moto, di ardore, di passione; è invece un frutto che si matura e si raccoglie nella lotta, nel sacrificio, nella mortificazione di sé.

La pace di Dio, infatti, è il riposo in Dio: ma non può riposarsi in Dio chi non è unito a Dio; e poiché non può essere unito a Dio chi è ancora attaccato al mondo, così la pace di Dio vuol dire distacco dal mondo e da noi stessi, che è il regno di Dio sull’uomo, come ci viene insegnato da Gesù: “Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra” – “Cercate prima di tutto il Regno di Dio”.

Costa dunque sacrificio la pace di Dio; ma essa in compenso santifica i pochi piaceri e conforta i molti dolori di questa povera vita, e finalmente da ordine e serenità, in una divina armonia regolata dalla grazia, a tutti i nostri pensieri e sentimenti.

Non vi pare un bel programma?

Ebbene, questo è anche il mio augurio e la mia raccomandazione per noi tutti, in questa santa Pasqua 1949. Ascoltiamo dunque insieme le parole bellissime di San Paolo: “Non vi date affanno per qualunque avvenimento vi possa accadere; ma, in ogni circostanza, esponete a Dio i vostri desideri con orazioni e impetrazioni. Così facendo, la pace di Dio, incomprensibile a uomo mortale, monterà per così dire la guardia alla porta dei vostri cuori e delle vostre menti in Cristo Gesù” (Philip. IV, 6-7).

Ricordatemi tanto al Signore, com’io sempre vi ricordo, ma particolarmente il primo venerdì del mese e il giorno 24.

Vi saluto e vi benedico. Vostro,

in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6246 Maggio 1949

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia e la pace di Gesù Benedetto siano sempre con noi.

Siamo vicini alla festa di Pentecoste, la quale, come quasi tutti sapete, da molti anni è la data stabilita per la “Giornata dei Malati” consacrata alle Missioni. Sarà dunque una giornata nostra, nella quale il papa e tutto il mondo cattolico guarderanno a noi con una grande attesa e una fiduciosa speranza. Bisogna che questa attesa e questa speranza non rimangano deluse, e perciò ciascuno di noi deve impegnarsi seriamente a santificare quel giorno, cominciando fin d’ora a prepararsi l’animo.

In che cosa consiste dunque questa “Giornata dei Malati”? Consiste nel riunire le sofferenze dei malati cattolici di tutto il mondo e nell’offrirle al Signore con l’intenzione particolare di ottenere una pioggia di grazie sullo sterminato campo missionario. Pensate quale immenso fascio di fiori sbocciati dal sacrificio manderà in quel giorno il suo profumo verso il trono di Dio! Quale immensa nuvola d’incenso prezioso si leverà da questa povera terra dolorante, per farvi discendere la divina misericordia!

Non sono chiamati all’offerta solo i malati gravi, i cronici, quelli costretti al letto, ma tutti coloro che in quel giorno avranno qualche sofferenza fisica, anche se sarà un malessere passeggero che permetta di stare in piedi. Vi dico questo perché, se potete, dovete estendere il vostro apostolato anche ad altre anime, ad altri sofferenti, che potranno così far aumentare il tesoro spirituale di quella giornata.

E perché, chiederà qualcuno di voi, è stata fissata la domenica di Pentecoste per questa offerta? Perché fu nella domenica di Pentecoste che cominciò ufficialmente la vita della Chiesa e che lo Spirito Santo. scendendo sulla Vergine e sugli Apostoli, diede inizio ufficiale all’apostolato cristiano. La Pentecoste poi è la festa dell’Amore increato che si dona agli uomini, ed è ben giusto che gli uomini in quel giorno corrispondano a tanto amore, offrendo il meglio di sé a Dio. E qual cosa migliore della sofferenza può l’uomo offrire al Signore? Vedete dunque che quella di Pentecoste è in modo tutto particolare la nostra giornata.

La santa Chiesa però, in quel giorno solenne, ci invita a stabilire nella nostra offerta intenzioni ben determinate.

Prima di tutto dobbiamo offrire la nostra preghiera e la nostra sofferenza per il Santo Padre e per le speciali intenzioni ch’egli ha nel cuore; poi per le missioni cattoliche, cioé per tutti i missionari e le missionarie e le loro attività; inoltre per la riunione dei cristiani separati alla Chiesa cattolica; e finalmente per la preservazione della fede là dove la fede può essere insidiata e messa in pericolo.

Come vedete, due delle intenzioni – quelle per il santo padre e per il ritorno dei fratelli separati – sono già tra le intenzioni che l’Apostolato degli Infermi si è proposto in modo particolare in quest’anno di preparazione al quell’Anno Santo che speriamo sia l’anno di un grande ritorno alla santa Chiesa di Roma: e questa è una ragione di più per intensificare in quel giorno la nostra preghiera, sentendoci nella dolce e potente compagnia di milioni di malati sparsi per tutto il mondo.

A voi, già ammaestrati nell’apostolato della sofferenza, non è necessario ch’io aggiunga molte spiegazioni; però mi permetto di farvi una raccomandazione: quelli di voi che possono, si accostino quel giorno ai SS. Sacramenti, e tutti, poi, recitino la bella preghiera indulgenziata che per vostra comodità viene pubblicata anche su questo foglio; infine, vi domanderei una carità personale: pregando per le missioni, ricordatevi anche di una mia intenzione particolare che mi sta molto a cuore.

Questa mia lettera vi giungerà, a Dio piacendo, prima della fine del mese di maggio, e non posso lasciar passare questa circostanza senza dirvi una parola sulla nostra cara Mamma celeste.

Del resto, non vi è nessun argomento caro al cuore dei cristiani, dove la Madonna non abbia una parte importante. Potrebbe dunque non averla nella festa della Pentecoste, Lei, la Sposa dello Spirito Santo? Potrebbe non averla nella giornata delle missioni e dei malati, Lei, la Regina delle missioni e la madre buona di tutti quelli che soffrono?

Il sangue di Cristo fu sparso per tutti, perciò la Madonna si sente di tutti madre. E possiamo noi pensare che Ella non abbia una speciale tenerezza per i figli che sono lontani dalla casa del Padre? Figli meno fortunati, dispersi per le vie fangose e dolorose del mondo, privi del tesoro più prezioso che è la fede e l’abbandono nella divina Provvidenza, privi della consolazione di sapere che vi è in cielo una mamma che a loro pensa, essi non sono certamente dimenticati e abbandonati da Maria, la dispensiera dei tesori di grazie del suo divin figliolo Gesù.

Se Ella ha richiamati tanti peccatori all’ovile della penitenza, se con grazie straordinarie ha chiamato, attraverso i secoli, ebrei ed eretici alla vera fede, Ella non mancherà di far sentire la sua voce anche a tanti infelici per far loro conoscere il suo figliolo. E infatti vi sono oggi intere regioni nell’oriente che chiedono di essere evangelizzate. Chi è che chiama quei popoli e che parla ai loro cuori? Oh, è certamente Lei, la grande Missionaria, a far nascere in quelle anime una così forte nostalgia di un Dio che non conoscono.

Miei cari fratelli e sorelle nel Signore, l’ora che viviamo è molto triste, ma è anche un’ora di misericordia: questo è il tempo di Gesù, come lo chiama il padre Lombardi; è il tempo che lo Spirito Santo ha riservato a nuovi trionfi della sua Chiesa; è il tempo in cui il cuore di Maria vuole darci nuove più meravigliose prove del suo amore e della sua potenza sul cuore di Gesù.

Oh, noi beati se sapremo ascoltare l’invito dello Spirito Santo all’apostolato e se coopereremo con Maria all’avvento del regno di Cristo! Ma dobbiamo cooperare in quella maniera che Maria ci ha insegnato: umiltà, preghiera, penitenza, soprattutto penitenza, penitenza, penitenza!

Cari ammalati, teniamo gli occhi volti al cielo, dove c’è il vero gaudio per noi e per i nostri fratelli; e per noi e per i nostri fratelli sforziamo la misericordia divina con la nostra preghiera, con la nostra sofferenza, con una santa vita.

Vi lascio nei cuori di Gesù e di Maria, raccomandandovi alla carità delle vostre orazioni.

Vostro,

in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6247 Giugno 1949

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi. – Oggi, 24 giugno, festa del S. Cuore, il mio pensiero corre specialissimo a voi tutti, che soffrite nel Signore e col Signore. E’ infatti la festa di quel Cuore da cui venne l’invito: “Voi che soffrite, venite a me ed io vi consolerò”; di quel cuore da cui eruppe il sospiro: “Misereor” io ho compassione della turba stanca e affamata; è la festa di quel Cuore che passò per le contrade della Palestina facendo del bene e sanando tutti; di quel Cuore che per amor nostro si lasciò aprire da una lanciata; di quel Cuore finalmente che, per lasciarci un prova perpetua della sua ardente carità, è voluto rimanere con noi nel sacramento eucaristico. – Ecco quel Cuore che ha tanto amato gli uomini! -

Ma se questo Cuore amò tanto gli uomini, amò ed ama soprattutto coloro che soffrono. Se trascorriamo le pagine del vangelo, quante scene di misericordiosa bontà vi troviamo! E non solo per i figli fedeli d’Israele, ma anche per qualche estraneo. Ricordate il servo del centurione romano, ricordate la cananea, ricordate anche la samaritana, che era pur essa malata, di una malattia ben più grave di quelle corporali e più difficile da guarirsi. Poiché Gesù era medico dei corpi e delle anime.

Non si trova nel vangelo neppure accennato che Gesù abbia rifiutato una sola volta il suo conforto a qualche sofferente che glielo avesse chiesto con fiducia.

E’ un fatto importante, e se noi vi mediteremo su bene, ne verrà un gran luce alla nostra mente e un incoraggiamento al nostro cuore forse stanco ed oppresso. Dobbiamo infatti pensare che Gesù è sempre lo stesso di allora e quindi dobbiamo sentirci sicuri che, se allora non mandava via nessuno senza conforto, ancor oggi deve essere così.

E così è, o cari fratelli e sorelle; così è, solo che da parte nostra ci siano quelle disposizioni che Gesù vuole.

Che cosa voleva il Signore per guarire gli ammalati che gli si presentavano?

Prima di tutto una gran fede. Lo disse chiaramente al padre dell’ossesso epilettico: “Credi? Tutto è possibile a chi crede. Ti sarà fatto secondo la tua fede”. E ciò confermò in tante altre occasioni: “Va’ in pace, la tua fede ti ha salvato”.

Ora, questa fede che il Signore ci domanda, noi dobbiamo averla, e sempre, e sempre coltivarla nel nostro cuore; non solo quando chiediamo un intervento straordinario di Dio, ma anche quando ci serviamo dei mezzi naturali, ordinari. Quando un malato prende una medicina, deve pensare che è Dio a dare efficacia a quel rimedio; quando si sottopone a un intervento chirurgico, il suo pensiero deve correre a Gesù, che può guidare la mente e la mano del chirurgo; quando aspetta il sonno ristoratore, quando attende un po’ di sollievo a un troppo acuto dolore, ancora a Gesù deve correre il suo pensiero, così come il pensiero del bimbo, in tutti i suoi bisogni e nei suoi dolori, corre alla mamma. Ancora di più anzi: ché Dio ha detto: “Quando anche la mamma si dimenticasse del suo bambino, io non mi dimenticherò mai dei miei figli”.

Gesù è il re dell’universo: ogni cosa dipende da Lui: Egli lascia agli esseri ragionevoli la libertà della scelta, ma nessuno spirito, nessun uomo, nessuna forza potrebbe agire senza l’intervento della divina potenza.

Tutto dunque dipende da Lui. Ma non basta credere nella sua onnipotenza; Egli è anche tanto buono, infinitamente buono, ed è necessario che per parte nostra noi crediamo a questa sua infinita bontà, a questo suo infinito amore per noi. E’ necessario ed indispensabile, se vogliamo aprire il cuore nostro alla confidenza e il Cuore di Gesù alla misericordia per noi. Che confidenza potrebbe avere un figliolo che non credesse all’amore dei genitori per lui? E come potrebbe ricorrere a loro con fiducia nei suoi bisogni e nelle sue pene?

Noi abbiamo troppo spesso il difetto di ricorrere a Gesù solo nei casi gravi della vita; invece dovremmo essere così confidenzialmente uniti con Lui, che in tutti i momenti e in tutte le circostanze dovremmo sentire vicino a noi, presente e pieno di affettuose attenzioni, questo fratello immensamente buono e amoroso.

Un altro difetto è quello di pensare a Gesù come a un essere buono sì, ma buono verso l’umanità in generale, senza un particolare riguardo alla nostra persona. In tal modo Gesù si presenta alla mente e al cuore come lontano nel tempo e nello spazio, come un essere vago e quasi impersonale che non è strettamente presente all’anima di ciascuno di noi. E invece Egli ama ognuno di noi, cose se ognuno di noi fosse l’unica persona ch’Egli deve e vuole amare. Il sacrificio ch’Egli ha fatto per tutti, lo ha fatto per ciascuno di noi in particolare, e lo avrebbe fatto anche per uno solo di noi.

Questa deve essere la nostra persuasione, il nostro intimo sentimento. E se questa sarà la nostra fede, che cosa ci potrà turbare? Oh, non le angustie della malattia, della povertà, delle nostre stesse miserie spirituali; poiché dove la fede è viva, quindi arde l’amore e domina la confidenza.

Rivolgiamoci dunque con grande fiducia al nostro grande amico, a Gesù: affidiamo a Lui non solo le nostre pene spirituali, ma tutti i nostri pensieri, e anche gli stessi affari materiali non dobbiamo temere di confidarli a Gesù. Abbandoniamoci nelle sue mani, ed Egli ci consolerà ed aiuterà anche nelle malattie e nei nostri dolori fisici.

Certo, non basta, cari fratelli e sorelle, avere la fede: occorrono anche altre buone disposizioni del cuore; occorrono le opere e occorre quel mezzo importantissimo che è la preghiera. Ma di queste cose riparleremo, a Dio piacendo, nelle prossime lettere.

Intanto vi lascio, nel ricordo e nell’amore del Cuore di Gesù, ricordandovi i soliti convegni presso il trono di Dio: il primo venerdì del mese celebrazione della S. Messa per tutti i soci vivi e defunti; il 24 per tutti coloro che si ricordano nelle loro preghiere di questo povero sacerdote, che, augurandovi ogni bene nel Signore, vi benedice di cuore.

In C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6248 Luglio 1949

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi. – In questi giorni fra i più caldi dell’anno quanto penso a voi, cari malati! Infatti, se non si ha la fortuna di trovarsi in un clima mite di montagna o di riviera, questi giorni caldi ed afosi mettono a dura prova la pazienza di tutti, ma specialmente degli ammalati. Come diventano pesanti gli abiti e le coperte, difficile la respirazione, cocente la sete, languido l’appetito! E poi ogni posizione diventa insopportabile, qualche volta le mosche noiose non danno tregua e le forze stesse sembra che ci abbandonino.

E purtroppo non tutti i malati possono avere sempre un’assistenza continua ed affettuosa, non tutti hanno le cure necessarie e i conforti che l’arte medica e la carità hanno saputo escogitare per rendere meno insopportabili gli incomodi delle malattie. Specialmente, dunque, a questi poveretti deve correre il pensiero dei buoni, ma soprattutto di coloro che hanno la fortuna di essere sani, o almeno di avere, in mezzo alle loro sofferenze, qualche agio e conforto per il fisico e per lo spirito.

Il pensare a chi sta peggio di noi e tuttavia soffre, assai spesso, con pazienza ammirabile, ci torna molto utile per richiamarci al dovere di essere pazienti, di portare anche noi la nostra croce con rassegnazione, con calma, e col santo desiderio di recare il nostro contributo soprannaturale al rinnovamento della grande famiglia cristiana e all’affratellamento di tutto il mondo sotto il materno manto della Chiesa di Cristo.

Quante occasioni, tutti i giorni, tutte le ore, tutti i minuti, per offrire al Signore la nostra povera moneta, la nostra piccola elemosina per l’umanità!… Il sopportare la sete, il rinunciare a cambiare posizione, l’ingoiare un cibo o una medicina di gusto non gradito, tollerare con pazienza una mosca, un rumore, una luce importuna…; e quanto più preziose, poi, queste mortificazioni, se siano condite dalla santa carità per il nostro prossimo; se, per esempio, rinunciamo a chiamare chi ci assiste, quando il servigio non è proprio urgente ed indispensabile; un ringraziamento cordiale a chi ci fa un piacere, anche se vediamo che ce lo fa a contraggenio; il tacere una sofferenza a cui non si può recar rimedio, mentre, dicendola, non otterremmo altro risultato che affliggere i nostri cari… alle volte un semplice sorriso in mezzo al dolore, può costituire un atto di grande carità per i nostri fratelli e per Gesù, che nei nostri fratelli è rappresentato.

A tutte queste cose io penso, o cari fratelli e sorelle nel Signore, portando a voi la mia mente in questi giorni afosi e pesanti. Ma contemporaneamente penso a un numero troppo grande di persone, che abusano di questi periodi di caldo straordinario per ingolfarsi nella dissipazione e nei piaceri illeciti, con la scusa di ristorare il corpo e lo spirito dalle fatiche del lavoro e dal caldo della stagione, e così, ai monti e al mare, sui laghi e sui fiumi, nei ritrovi mondani e nella stessa vita normale di città, il mondo si permette cose che sono una vera provocazione alle leggi sante di Dio, della morale, della famiglia, della stessa decenza e del rispetto che si deve alla miseria di chi soffre.

Sappiamo bene che, per loro fortuna, costoro non trovano in ciò la vera felicità, poiché la loro è solo una corsa verso la felicità; e neppure li invidiamo questi poveri nostri fratelli; tanto meno però possiamo permetterci di disprezzarli od odiarli.

Dobbiamo pensare che l’uomo non può arrivare alla vera felicità se non attraverso la sofferenza: coloro che godono o che sembrano godere in questa vita, o non arriveranno alla eterna gioia, o vi arriveranno anch’essi attraverso la sofferenza in questa vita o nell’altra. E Dio volesse che vi arrivassero tutti! poiché è indubitato che molte volte le gioie terrene di certa gente sono il premio che Iddio, infinitamente giusto, non manca di dare neppure ai meno buoni, per quel briciolo di bene che anch’essi compiono quaggiù, almeno nell’ordine naturale; ma poi il castigo del male viene rimesso all’altra vita.

La legge della penitenza e della sofferenza è universale, dopo il peccato dei nostri progenitori. Fu questa la paterna condanna nel Paradiso terrestre, fu questo il continuo richiamo dei profeti nell’Antico Testamento, fu ancora questo il contenuto del battesimo di penitenza predicato da Giovanni Battista; fu infine questa la sostanza della dottrina e della vita del Maestro divino, Gesù: la penitenza…

“La vita dell’uomo è una prova”, diceva già il paziente Giobbe; e questa rimane la legge fondamentale della vita umana e in modo particolare dei cristiani, appunto perché sono chiamati a una gioia soprannaturale ed immensa, di cui devono rendersi degni. Ma poiché l’uomo, per l’istinto della felicità che dentro lo preme, vorrebbe sottrarsi a questa legge e anche, se fosse possibile dimenticarsene, il Signore ce lo ricorda, visitandoci con la sua sofferenza.

Ecco un’altra ragione delle nostre malattie: noi siamo chiamati ad essere anche un esempio, il quale deve rammentare ai nostri fratelli che la felicità non si può raggiungere quaggiù, ma si deve invece guadagnarla per una vita più completa e duratura nell’aldilà. Questo esempio sarà tanto più efficace, quanto più noi saremo rassegnati nella nostra sofferenza e lo dimostreremo con l’attitudine, anche esterna, di chi soffre per espiare, soffrire, adorare.

Ma dobbiamo ben guardarci da un atteggiamento di vana superbia. Il veder noi inchiodati alla croce e tanti altri trasportati dal turbine dei piaceri a vivere nella folle dimenticanza di Dio, ci potrebbe far nascere in cuore il pensiero che noi siamo santi; che, se soffriamo, soffriamo per gli altri; che tutti dovrebbero avere per noi ammirazione e venerazione; che noi, insomma, siamo i salvatori indispensabili dell’umanità.

Dobbiamo, invece, essere umili, sentirci piccoli, indegni delle grandi grazie che il Signore ci ha fatto. Senza dubbio, il dolore con cui il Signore ci ha visitati e ci visita, è un privilegio, ma dobbiamo considerarlo come un privilegio che ci permette di scontare su questa terra, prima di tutto, le nostre stesse mancanze, le nostre stesse infedeltà.

Non saremmo stati abbastanza generosi da noi stessi; ed ecco che il Signore vuol farci generosi quasi per forza (una forza d’amore!), mandandoci una sofferenza che non ci è dato di rifiutare. Che se nel nostro sacrificio, unito al sacrificio di tutti i sofferenti, è una specie di valvola di sicurezza di questa povera umanità, ciò è dovuto alla grande misericordia di Dio, che si serve, come di poveri strumenti, di noi, i quali da noi stessi, come dice S. Paolo, non saremmo neppur capaci d’invocare il santo nome di Gesù.

Se poi il nostro povero sacrificio acquista un valore così grande, ciò avviene perché esso è unito, come a formare una cosa sola, col sacrificio dell’Uomo-Dio, Gesù, il quale continua il suo sacrificio in noi, come lo continua – misticamente ma realmente – tutti i giorni sull’Ara Eucaristica.

Che possiamo dunque fare noi, se non confonderci per le nostre miserie, ringraziare Gesù per la nostra vocazione al sacrificio, e poi espiare le nostre infedeltà offrendo a Dio quel poco che abbiamo?

Soprattutto però offriamo a Dio il desiderio, anzi la volontà decisa di farci santi, che il è sacrificio a Lui più gradito e per noi più meritorio.

E se la coscienza ci rimprovera per le nostre mancanze passate, ricordiamoci che il dolore è appunto per purificarci ed elevarci; se ci tormenta il pensiero dei difetti che tutt’ora abbiamo, cerchiamo di ragionare come quella santa anima che diceva: nessuno ha più difetti di me, ma nessuno potrà riportare più vittorie sopra di se medesimo.

Con questi sentimenti affrontiamo, cari fratelli e sorelle, le nostre piccole e grandi prove. Gesù è con noi, e con Gesù la nostra buona Mamma e il nostro vigile angelo custode.

Chi soffre con rassegnazione è spettacolo a Dio, agli Angeli e al mondo stesso. Cerchiamo di essere l’esempio luminoso che riporta, con l’aiuto e per misericordia di Dio, il mondo a Gesù, il re eterno dei secoli.

Mi raccomando sempre alla carità delle vostre preghiere.

Vi saluto e vi auguro ogni bene nel Signore. vostro

in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6249 Settembre 1949

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre nei nostri cuori.

Dopo tanto tempo – non diciamo di separazione, ma in silenzio – riprendiamo finalmente i nostri colloqui, col desiderio e la viva speranza di poter rinfocolare il nostro amore per il Signore, e di rinsaldare la nostra fedeltà allo spirito dell’apostolato di cui facciamo parte.

E allora, prima di tutto, cosa significa e cosa richiede da noi questo apostolato? M’è venuto in mente di parlarvi di questo argomento fondamentale, perché troppo spesso succede che si vada avanti nelle nostre cose, anche le più importanti, senza conoscerne il preciso valore. Abbiamo di una cosa un’idea vaga e crediamo di saperne tutto quel che se ne può sapere, ma se poi ci domandiamo: insomma, che cos’e di preciso? Molte volte non sappiamo neppure rispondere a noi stessi. Vediamo dunque di penetrare nel senso intimo della parola e nella sostanza dell’apostolato.

Quando Gesù, mandato dal Padre, ha preso la natura umana ed è venuto a predicare al mondo la buona novella, non si è già recato, Lui che era il padrone del tempo e dello spazio, in tutte le parti della terra, non ha parlato a tutte le genti, ma ha rivolto la sua divina parola, per tre soli anni, solamente alle piccole folle di un paese piccolo qual è la Palestina.

Noi però sappiamo bene che Egli non era venuto per salvezza della sola Palestina, ma di tutto il mondo. Infatti, prima di salire al cielo, diede agli apostoli la missione di andare per tutta la terra, ad ammaestrare e battezzare tutte le genti. Come mai ciò? Perché Dio ha voluto così? Perché voleva dimostrare agli uomini, più col fatto che con le parole, che la redenzione deve essere il frutto di una stretta cooperazione tra Dio e l’umanità. Non è bastato che l’Uomo-Dio versasse il sangue suo preziosissimo per i suoi fratelli, ma occorre che questi stessi fratelli si facciano suoi cooperatori nella fatica della salvezza, del mondo. Ecco cos’è l’apostolato: una collaborazione con Cristo nell’opera della redenzione.

La parola apostolo indica dunque colui che ha ricevuto questa missione di aiutare Gesù a salvare le anime. Ma chi può dire di avere da Dio questa sublime chiamata? Certamente i vescovi e i sacerdoti; possiamo aggiungere i religiosi e le religiose; anche i laici dell’Azione Cattolica cooperano in forma ben organizzata con l’apostolato gerarchico della Chiesa, come ben sanno coloro di voi che fanno parte di quella bella grande famiglia. Ma, e gli altri? Possono essi pure sperare di essere apostoli? Hanno avuto anch’essi una chiamata all’apostolato?

La risposta a questa domanda viene dal dogma della comunione dei santi. Questo dogma ci dice che vescovi, clero e popolo fedele non sono già parti staccate una dall’altra, ma costituiscono un corpo solo, che si chiama il corpo mistico di Cristo. Di questo corpo mistico, che è la santa Chiesa cattolica, Cristo è il capo e noi tutti siamo le membra. Sentite come S. Paolo parla di questa sublime verità e quali conseguenze pratiche ne ricava.

“Se tutte le membra – dice – fossero un membro unico, dove sarebbe il corpo? Invece sono molte le membra e unico è il corpo. Quindi l’occhio non può dire alla mano: non ho bisogno di te; la testa non può dire ai piedi: non ho bisogno di voi. Succede anzi che le membra apparentemente più deboli son molto più necessarie (I Cor. 19-22) Cristo – dice in un’altra lettera – diede le varie mansioni nella Chiesa, perché questo suo corpo mistico potesse crescere e divenire grande e perfetto. Cerchiamo dunque, per mezzo della carità di realizzare in ciascuno di noi questo ideale di Cristo, che è la sua santa Chiesa, vivente in Lui e per Lui. “Da Lui, infatti, il corpo intiero viene proporzionato e concatenato mediante il servizio delle singole articolazioni e ad ogni parte è assegnata la sua funzione specifica, e così si attua lo sviluppo e la crescita del corpo fino a che esso sia edificato nell’amore (Efesini IV. 11-6).

Dunque, tutte le membra sono necessarie nella Chiesa di Cristo: il papa e i vescovi ne sono il fondamento per la sua organizzazione, la sua continuità e la sua vita feconda; ma tutte le altre membra devono cooperare, proporzionatamente alle proprie funzioni, alla crescita della Chiesa, per mezzo della carità, cioè della santità. E se tutti sono chiamati a cooperare alla crescita della Chiesa vuol dire che tutti sono chiamati all’apostolato. Che cosa, infatti, significa far crescere la Chiesa se non approfondire e dilatare il vangelo tra gli uomini?

Ecco allora che basta essere cristiani per sentirsi chiamati a questa sublime missione di cooperare all’avvento del santo regno di Cristo nel mondo.

E in che modo possiamo dare la nostra collaborazione? Mediante l’amor di Dio, ci dice San Paolo; cioè aumentando il livello, l’intensità della vita di Dio nella nostra anima. Infatti la vita di Dio in noi è l’amore che noi portiamo a Dio e che ci fa esser santi, unendoci a Lui per mezzo della sua santa grazia, la quale ci è data per merito della nostra fraternità con Cristo. (Quando siamo in grazia, siamo fratelli di Cristo, una cosa sola con Lui, viventi in Lui e per Lui: può il divin Padre amarci e non trattarci da figli?)

Ecco come arrivano a noi i doni della grazia e si diffondono in tutta la Chiesa: proprio come vediamo attuarsi la vita in un organismo. Se ogni organo sta bene, tutto l’organismo è sano e prospero; se un organo è malato, tutto l’insieme ne risente. Quante volte non ne abbiamo fatta l’esperienza nel nostro povero corpo! Solo che la digestione sia un po’ difficile e lo stomaco distolga dalla circolazione una maggior quantità di sangue, ecco che la testa ne risente subito e ce ne fa avvertiti col mal di capo; talvolta basta un piccolo foruncolo a comunicare un fastidioso malessere a tutto l’organismo e a dare persino un senso di tristezza…

Così nella Chiesa, quando tutto va bene, la linfa della grazia circola proporzionatamente alle varie esigenze dei singoli membri, portando ovunque attività e benessere; ma se anche un membro solo è malato, tutta la Chiesa ne risente e ne soffre.

Vedete nella Chiesa che l’apostolato consiste sopratutto in questo: nel far vivere Gesù più intimamente nell’anima nostra, mediante il suo santo amore, cioè col corrispondere, vivendo santamente, ai doni che il Signore ci ha elargito. Prima di tutto, perciò, è necessario essere in grazia di Dio. E’ naturale. Come si fa a comunicare agli altri una cosa che non si ha? Vedete: noi siamo come tante braccia, di cui Cristo si serve per trasmettere ai nostri fratelli la sua grazia, me è evidente che, se il braccio non è unito all’organismo, esso stesso è morto e non può trasmettere una corrente vitale. Se il tralcio non è unito alla vite, dice Gesù, non può dar frutto e muore. La vite è Lui: noi i poveri tralci, dai quali però possono spuntare grappoli prodigiosi, frutti cioè di apostolato, di vita eterna. Non nostri, però, i frutti; ma della vite, che è Cristo.

Volete un’altra immagine? Noi siamo come tanti apparecchi radioriceventi, che siamo in contatto d’onda (sintonizzati, dicono i tecnici) con una radio emittente centrale, che è Cristo Gesù. L’apparecchio ricevente ritrasmette e diffonde tutto quanto riceve dalla emittente ma, se si perde il contatto d’onda, addio trasmissione. L’emittente può allora trasmettere della musica meravigliosa, divina, ma l’apparecchio ricevente tacerà o trasmetterà altre cose, per esempio un semplice disco scelto a capriccio, non già trasmesso dalla volontà della centrale emittente.

E’ proprio così. Noi siamo umilissimi apparecchi, ma uniti a Cristo possiamo diffondere attorno a noi le armonie divine del suo amore, della sua grazia, della sua pace. Ma guai se crediamo di essere noi a fare il bene, a convertire le anime… ricordiamoci che noi rimaniamo sempre dei semplici strumenti, e quanto più dimenticheremo noi stessi per far vivere e manifestare Cristo in noi, tanto più il nostro apostolato sarà efficace. Non siamo noi che dobbiamo vincere le menti e i cuori dei peccatori, ma la verità che è Gesù Signore nostro. Se le anime che avviciniamo si accorgono invece che mettiamo in mostra noi stessi, non ci ascolteranno più.

E’ dunque Gesù che deve parlare in noi e per mezzo nostro. Ma in che modo? Oh voi lo sapete bene: quando nei nostri dolori saremo rassegnati, quando riusciamo a resistere alla lunghezza ed acerbità delle sofferenze, quando sapremo dare l’esempio di quella carità di cui parlammo nell’ultima Lettera, allora Gesù trasparirà in noi, poiché chi ci osserverà dovrà dire: qui non è la povera umanità che agisce, ma una forza superiore, infinitamente potente, infinitamente buona.

Così, e solo così, si ravviverà la fede nei nostri fratelli – in tutti i fratelli – anche in quelli che sono più lontani da Dio e che non si convincerebbero neppure coi discorsi più persuasivi. Il discorso più convincente è quello dei fatti, è quello della carità operante, quello di Gesù vivente in noi.

Per questa volta mi par che basti. Nella prossima lettera continueremo, a Dio piacendo, questo argomento così importante, studiando alcuni mezzi particolari di apostolato anche esterno, che sembrano i più adatti per i malati. Intanto voi pregate perché la mia povera parola possa portare qualche frutto di bene, cominciando dalla povera anima mia.

Il nostro convegno mensile presso il divin Cuore rimane sempre fissato al primo venerdì del mese. Che Gesù ci benedica tutti, come io benedico voi di tutto cuore.

Vostro, in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6250 Ottobre 1949

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

La grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi. – Ricordate di che cosa trattammo l’altra volta? Parlando dell’apostolato, dicemmo che esso consiste nella chiamata da parte di Dio a cooperare alla diffusione del suo santo regno nel mondo: dicemmo che Cristo è il capo e che tutti i cristiani sono le membra di quel gran corpo che è la Chiesa; che se le membra sono sane, tutto il corpo è sano; perciò, se noi saremo uniti a Cristo nella grazia, cioè nella santità della vita, coopereremo efficacemente e nel modo migliore al benessere, all’accrescimento e al perfezionamento della Chiesa.

Dunque la santità è il primo mezzo di apostolato: il primo e il più importante, anzi è l’unico importante e indispensabile, perché senza la santità tutto il resto non conta un bel niente; mentre con la santità, anche senza che ce ne accorgiamo, possiamo fare dei miracoli in tutti i campi.

Guardiamo una quercia colossale. Sotto terra ha delle radici minuscole, grosse quanto un capello, le quali non vedono mai la luce del sole né la bella pianta che esse stesse alimentano. Eppure, la pianta morirebbe se non ci fossero proprio quelle piccole radici, che raccolgono la linfa dal terreno e che mandano sino alle foglioline più lontane.

E’ così anche di noi. Ciascuno di noi e tutti noi insieme, anche se umili e nascosti, trasmettiamo la linfa divina che ci viene dall’unione con Gesù Cristo, a tutto l’organismo della Chiesa sino alle spiagge più remote, sino alle anime più lontane, anime che quaggiù né conosciamo, né immaginiamo, ma che il Signore ci farà un giorno incontrare nella sua gloria. Oh, quale pensiero consolante per la nostra miseria!

Ma veniamo a parlare, come avevo promesso, dei mezzi di apostolato, interni ed esterni, che sono possibili a un malato. Ripetiamo però ancora una volta che questi mezzi, e specialmente gli esterni, non contano proprio niente se manca l’anima dell’apostolato, voglio dire se manca l’amor di Dio, che è il motore che tutto muove. Vedete miei cari fratelli e sorelle nel Signore: si fanno tanti studi e discussioni per trovare nuovi sistemi di apostolato; ed è giusto, perché per i bisogni nuovi occorrono mezzi nuovi: ma se badassimo di più a farci santi ad essere buoni sul serio, a vivere integralmente il santo vangelo, oh allora le soluzioni dei vecchi e nuovi problemi verrebbero fuori da sé: o meglio, scaturirebbero dal Cuore di Gesù stesso, perché è Gesù che indica la via da seguire a coloro che vogliono essere suoi fedeli strumenti di santificazione. Il Signore non ci chiede di esser bravi, ma di essere buoni: se saremo buoni, saremo anche bravi, non già nel senso che intende il mondo, ma nel senso che riusciremo a fare del gran bene alle anime.

Diciamo un’altra cosa: non ci può esser vero apostolato, se l’apostolato non è sentito come un bisogno, cioè se manca quell’interessamento che siam soliti di avere per le cose che ci son più care. Anche qui, però, in fondo, si tratta di amare veramente il Signore, di esser santi insomma. E infatti come si può aver fede in Dio, nella sua grandezza e bellezza infinita, nella sua bontà misericordiosa, nel suo desiderio di comunicarsi all’umanità… come si fa a vedere, a sentire tutto ciò e poi non ardere dal desiderio di consumarsi per far conoscere e gustare questi tesori anche agli altri?

Guardiamo invece quel che succede: in Cina, in Russia, in Romania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Albania, Iugoslavia, la persecuzione contro i buoni arde violenta… eppure, chi tra di noi ci pensa seriamente e se ne affligge? Ben pochi. Come! La patria dell’anima nostra, la santa Chiesa è messa a ferro e fuoco e noi rimaniamo indifferenti?

Sapete cosa dicono tanti? – Son cose che interessano i preti… e poi, qui non ci possiamo lamentare (e fosse vero anche questo!…) E perché dicono così? Perché non hanno capito e non sentono nel loro cuore il dogma della Comunione dei Santi.

Son cose da preti…dicono; e in un certo senso è vero. Ma non pensano che Gesù chiama tutti i cristiani all’apostolato e che perciò tutti quanti devono sentirsi apostoli, e quindi, in certo qual modo, sacerdoti.

L’essere cristiani, ha detto un sant’uomo, è già il primo grado di sacerdozio; e infatti ogni cristiano deve imitare e far rivivere in se stesso Gesù Cristo, primo grande sacerdote, e ognuno deve sentirsi responsabile non solo della propria anima, ma anche dell’anima del suo prossimo.

Dobbiamo dunque sentire come cosa nostra tutte le lotte e i dolori, così come tutti i trionfi e le gioie della Chiesa. In tal modo la nostra vita sarà meno isolata, più piena, più cristiana, più cattolica.

E cattolica deve essere in pieno, comprendendo nel suo amore tutto il mondo, perché questo appunto è il senso della parola cattolico: cattolico si dice di ciò che abbraccia tutto e tutti.

Dovremo amare dunque anche coloro che sono fuori della Chiesa e contro la Chiesa? S’intende! Non ha detto Gesù, e non l’ha insegnato con l’esempio, che bisogna amare anche i nemici? La nostra parola d’ordine sia dunque questa: fermezza nel combattere l’errore, ma carità grande con tutti gli erranti “Soffocate l’errore, ma amate colore che sbagliano!” Ecco l’aurea regola di S. Agostino.

Il nostro amore per la Chiesa e per l’umanità non sia però un amore tenuto nelle nuvole, fatto di vuoto sentimentalismo, ma sia un amore profondo e reale, comprovato dallo zelo e dalle opere. E veniamo finalmente a parlare di queste opere di apostolato.

I primi due frutti della santità sono l’adesione alla volontà di Dio – anche nella sofferenza -, e la preghiera. Dell’accettazione della sofferenza si è già parlato a lungo, perché è lo scopo principale della nostra associazione; della preghiera – argomento importantissimo – bisognerà parlarne in una lettera a parte, perché essa è l’alimento indispensabile della vita interiore ed è anche il mezzo più potente per fare del bene alle anime.

Vediamo ora qualche altro mezzo, di cui lo spirito di apostolato si può servire per far del bene. Abbiamo già parlato dell’esempio. Chi predicasse il bene e non lo facesse, a che cosa si potrebbe paragonare? Forse a un fonografo? Oppure ad un pappagallo? Peggio: perché il fonografo e il pappagallo, privi di ragione, non son tenuti a dare nessun buon esempio… Oh che predica efficace è mai l’esempio! – E poi c’è la parola.

Grande mezzo di apostolato è certo la parola; ma non tute le parole, anche se vere, sono adatte per penetrare nelle anime. Perché la nostra parola sia efficace, bisogna che sia viva, cioè che esca, anzi che erompa, da un’anima traboccante di fede e di amore. Non si convince se non si è già convinti.

E’ inoltre necessario, come vi dicevo un’altra volta, che chi ascolta senta che noi non predichiamo noi stessi e non ci affanniamo per il nostro interesse o per aver ragione, ma solo per far conoscere Gesù e farlo amare. Lui deve essere in vista, Lui, l’eterna verità: noi dobbiamo scomparire.

Perciò dobbiamo evitare qualunque discorso che sappia di polemica. Quando è opportuno, si può anche illuminare chi ne ha bisogno, ma sempre con carità e benevolenza: senza darsi l’aria da maestri, ma dimostrandosi amici e fratelli. La discussione vivace, la polemica, invece di aprire le menti, le serrano e, quel che è peggio, inacerbiscono i cuori; e può succedere che, mentre volevamo portare a viva forza la luce e la pace nell’anima di un fratello, si venga a perdere anche la propria pace e vada disperso il profumo della carità. Iddio e la verità penetrano più facilmente con la brezza delicata della carità, piuttosto che con i tuoni ed i fulmini della polemica e della lotta.

Chi vuol essere apostolo, deve sempre sforzarsi di mantenere e di propagare attorno a sé la cordialità e l’amorevolezza, perché solo così si può conquistare e migliorare il prossimo. Dovremo sorridere sempre, con tutti; e se non potremo e non vorremo sorridere, sarà solo per piangere con chi piange, e soprattutto piangere il peccato. Il sorriso e la gioia di chi soffre sono poi la più bella testimonianza per chi è lontano da Dio: essa dice loro: nella casa di Dio, nella casa del Padre mio, si sta bene!

Quante occasioni ogni giorno di far del bene! Quanti incontri, quante circostanze, che ci offrono la possibilità e dire o di scrivere una parola buona!

E noi ne abbiamo, finora, veramente approfittato? Facciamo un serio esame e vediamo di trarne buoni propositi per l’avvenire. Diventeremo così la lunga mano di Cristo, e saremo anche noi suoi veri apostoli.

Ed ora una notizia: dall’8 all’11 novembre si terrà a Roma il I° Congresso dei Cappellani degli Ospedali d’Italia. Se la notizia deve tornare gradita a tutte le buone anime, in modo particolare deve interessare coloro che portano nel loro fisico le stimmate della malattia e sanno per esperienza quanto sia efficace il conforto divino, che arriva attraverso il ministro sacerdotale.

Preghiamo dunque tutti, perché il Signore, da cui viene ogni dono e ogni lume, benedica questi apostoli dei malati e per mezzo della loro santificazione santifichi tutti gli infermi d’Italia.

Vi ricordo l’appuntamento al primo venerdì del mese.

Vi saluto tutti e vi benedico più col cuore che con la mano. Vostro,

in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6251

Buona sorella in Cristo e nella sofferenza,

la grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi. Siamo lieti di darLe il benvenuto nella grande e bella famiglia a cui Ella ha espresso il desiderio di appartenere.

E’ una grande famiglia quella dell’Apostolato Infermi, non solo perché numerosa, ma anche e soprattutto perché costituisce una forza potente nella Chiesa di Cristo. Infatti il sacrificio, quando è benedetto dal Signore ed è unito con la preghiera e con lo spirito di carità, è l’energia più preziosa che il cristiano possa mettere a disposizione di Dio e della Chiesa.

Chi soffre in unione con Cristo e col desiderio di essere utile ai propri fratelli, non solo per sé guadagna meriti, ma per tutta l’umanità; e il suo sacrificio, offerto a Dio con umiltà e con rassegnazione, arresta tante volte la mano di Dio quando i meritati castighi stanno per piombare su questi poveri uomini, tanto malati nello spirito e tanto bisognosi della misericordia divina.

Che importa se siamo poveri e deboli esseri? il Signore non agisce alla maniera degli uomini. Gli uomini cercano di servirsi di mezzi potenti: Iddio invece si serve tante volte di ciò che il mondo disprezza e rifiuta, perché vuol far vedere che è Lui che agisce per mezzo nostro, mentre noi nulla possiamo fare se non per mezzo suo.

Ma la nostra non è solo una grande famiglia; essa è anche una famiglia scelta, perché il dolore purifica i cuori, li eleva verso le cose spirituali facendo loro sentire il vuoto che lasciano le cose di quaggiù, e li aiuta a comprendere più facilmente i dolori fisici e morali dei propri fratelli. Ciò rende le anime più belle, le avvicina a Dio e all’umanità col santo amore, che tutti unisce in Cristo Gesù.

Buona sorella, cerchi di essere degna di questa famiglia bella e grande dell’Apostolato Infermi.

Ricordi poi, che apostolato vuol dire ardore di carità per Cristo Gesù e per le anime, e che non si può essere veri apostoli se non si sente la brama e un santo entusiasmo di portare anime al Signore. Per questo la preghiera e il sacrificio sono i principali mezzi; ma se può, si serva anche dell’apostolato diretto per comunicare ad altre anime il Suo amore per Cristo; parli spesso di Dio, della nostra cara Mamma celeste, e cerchi poi anche di far conoscere quest’opera dell’Apostolato Infermi, perché siano sempre più numerosi i cuori che si uniscono a Gesù nell’amore e nel sacrificio.

Tutto questo lavoro però sarebbe inutile, se la sua anima perdesse il contatto col Signore; questo contatto si mantiene con la santa grazia, la quale è frutto della divina bontà e del nostro sforzo di essere buoni, perfetti, santi.

Le inviamo la pagellina dei soci e il distintivo benedetto. Tenga cari l’una e l’altro.

Con la pagella le inviamo anche le preghiere speciali dell’Apostolato. Sono due: una lunga e una breve; reciti ogni giorno quella che può e che le piace di più, ma non si faccia scrupolo se qualche giorno le sue condizioni non le permettono di recitare né l’una né l’altra. Un sospiro di amore al Signore, una lacrima offerta in espiazione per sé e per tutti gli altri, valgono talvolta più di una lunga preghiera. Quello che conta è vivere uniti con Cristo, sentendosi confitti con Lui sulla croce della sofferenza per redimere insieme con Lui le povere anime che hanno bisogno della divina misericordia. E’ appunto questo il significato del nostro distintivo, che consiste in una croce co monogramma del Signore (XP, sono infatti le iniziali del nome Cristo) e col motto di S. Paolo: “Sono stato crocefisso con il Cristo” – “Christo confixus sum cruci”.

Col santo battesimo tutti i cristiani sono crocifissi con Cristo, cioè si rivestono dei meriti del suo sacrificio; perciò, continua S. Paolo nella lettera ai Galati: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”. (Gal. 11, 19-20). Ma l’anima che soffre e sa di soffrire per Gesù è tanto più intimamente unita e trasformata in Lui. E’ sempre San Paolo che ce l’insegna. La Chiesa rivive in se stessa, e perciò nei suoi figli, la passione di Gesù: e come Gesù dalla croce salvò le nostre anime, così noi col nostro spirito di apostolato continuiamo, dal nostro posto di dolore, l’opera divina della redenzione.

Ma se siamo i continuatori dei patimenti di Gesù, “siamo anche eredi del regno di Dio e coeredi insieme col Cristo, purché però sappiamo soffrire con Lui, per essere glorificati con Lui” (Rom. VIII – 17)

Quale grande dignità, quale premio, quale occasione di santificazione per noi e per gli altri!

Sorella, cerchi dunque di rivivere e soffrire con Gesù. Se vivrà unita con lo spirito al Signore, le Sue giornate le sembreranno più brevi, ne guadagnerà la sua pace e persino la sua stessa salute; ne guadagnerà soprattutto la sua anima e, insieme con l’anima sua, tutta la santa Chiesa, tutta l’umanità bisognosa.

Unito nel vincolo della dolce carità di Cristo, a nome di tutti i nostri fratelli e sorelle la saluto e la benedico.

Il segretario per l’Italia, Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6252 Gennaio 1950

Cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi. – Il molto lavoro e altre difficoltà di vario genere non mi hanno permesso di farvi giungere la mia povera parola e il mio fervido augurio prima del Santo Natale, giacché è stato impossibile stampare il nostro piccolo foglio del mese di dicembre. In questo frattempo però vi è stato Chi vi ha rivolto una parola ben più autorevole della mia. Io spero che tanti di voi abbiano potuto ascoltare il messaggio radiofonico del S. Padre ai malati, ma esso viene riprodotto anche qui, perché lo possiate rileggere e trarne nuovo profitto. La parola del nostro “dolce Cristo in terra” merita sempre di essere ascoltata e meditata, ma questa volta in modo particolare, perché Egli ha parlato proprio per noi e ci ha fissato un programma che, se lo mettiamo in pratica, ci farà santificare non solamente l’anno di misericordia da poco cominciato, ma tutta la nostra vita.

Ringraziamo il Papa per il balsamo che ha recato alle nostre sofferenze, preghiamo con Lui e per Lui, e cerchiamo di essere suoi fedeli figlioli ed efficaci cooperatori nella dilatazione del Regno di Dio nel mondo.

Quando voi riceverete questo foglio, sarà già cominciata l’ottava di preghiere per l’unità della Chiesa.

Ricordate che l’unità della Chiesa, il ritorno cioè dei Fratelli separati nel grembo della Madre Chiesa, era lo scopo principale che noi ci eravamo proposto nella nostra preparazione all’Anno Santo? Ecco perché, ascoltando il messaggio natalizio del papa al mondo, ho provato una gran gioia nel sentire con quanto amore e con quanto ardore Egli ha parlato di questi nostri fratelli, che il bianco vegliardo aspetta a braccia aperte sulla soglia della Porta Santa del perdono.

Abbiamo dunque interpretato bene il desiderio del S. Padre, quando abbiamo dedicato tanta parte del nostro cuore alla santa causa della riunione delle sparse membra del corpo mistico di Cristo; ed è cosa dolce sentirsi uniti col cuore al vicario di Gesù.

“Oh se quest’anno – Egli ha detto – potesse salutare il grande e da secoli atteso ritorno alla unica vera Chiesa di molti credenti in Gesù Cristo, per vari motivi da lei separati! Con gemiti inenarrabili lo Spirito, che è nei cuori dei buoni, leva oggi come grido d’implorazione la stessa preghiera del Signore: ut unum sint: che tutti siano una cosa sola… Perché ancora separazioni, perché ancora scismi? A quando l’unione concorde di tutte le forze dello spirito e dell’amore?

Se altre volte dalla Sede Apostolica è partito l’invito all’unità, in questa occasione Noi lo ripetiamo più caldo e paterno, spinti come ci sentiamo dalle invocazioni e suppliche di tanti e tanti credenti sparsi su tutta la terra…

Per tutti gli adoratori di Cristo – non esclusi coloro che in una sincera ma vana attesa l’adorano promesso nelle predizioni dei profeti e non venuto (cioè gli Ebrei) – Noi apriamo la Porta Santa, e insieme le braccia e il cuore di quella paternità, che per inscrutabile disegno divino Ci è stata comunicata da Gesù Redentore”.

Per i nuovi iscritti nel corso del 1949, i quali sono numerosi sarà bene dire in che cosa precisamente consiste quest’ottava per l’unità della Chiesa. E’ un periodo di otto giorni, che va dal 18 gennaio – festa della Cattedra di S. Pietro in Roma, al 25, festa della conversione di S. Paolo, durante il qual periodo in tutto il mondo si fanno speciali preghiere per ottenere da Dio che si affretti la riunione di coloro che già credono in Cristo Salvatore, nell’unica vera Chiesa.

Ogni giorno ha la sua intenzione particolare, e qui ve ne riporto l’elenco, per darvi la possibilità di unirvi più intimamente ai milioni di anime che in tutto il mondo pregano per questi santi scopi:

18 – Per il ritorno dei cristiani separati dall’unico ovile di Cristo.

19 – Per il ritorno delle Chiese Orientali dissidenti.

20 – Per il ritorno degli anglicani.

21 – Per la conversione dei luterani e dei protestanti d’Europa.

22 – Per la conversione dei protestanti d’America.

23 – Per il ritorno dei cattivi cristiani alla pratica dei sacramenti.

24 – Per la conversione degli israeliti.

25 – Per la conversione dei maomettani e pagani.

Cari fratelli e sorelle, se sempre dobbiamo stare uniti nel vincolo della carità, in questi santi giorni cerchiamo di essere più che mai

un cuor solo e un’anima sola: quanto più noi saremo uniti, tanto più facilmente otterremo dal Signore che la nostra unione si estenda a comprendere tante altre anime. La santa carità e una calamita potente, che attira più di qualunque altra forza. Preghiamo perciò anche per questo scopo: che i cattolici, specialmente in questo Anno Santo, diano prova al mondo di concordia, di pace, di amore cristiano.

Tante altre cose vorrei dirvi, ma le rimando alla lettera che, a Dio piacendo, scriverò in febbraio. Oggi voglio che una impressione sola vi domini, un solo anelito: il Regno di Cristo nell’unità della sua Chiesa.

Vi ricordo i soliti appuntamenti: il I° venerdì del mese S. Messa per tutti i soci vivi e defunti dell’Apostolato; il 24 S. Messa per tutti coloro che si ricordano di me nella preghiera.

Mi raccomando tanto alla carità delle vostre orazioni e vi benedico più col cuore che con la mano. Vostro in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6253 Marzo 1950

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore

La grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi. – Non sono molti giorni che avete ricevuto il numero speciale sulle indulgenze, ma mi sprona a scrivervi in tutta fretta la lettera-enciclica che il Santo Padre ha inviato a tutti i vescovi del mondo, per invitarli a organizzare preghiere straordinarie nella domenica di Passione.

Quante volte il sommo pontefice ha richiamato i suoi figli sui gravi pericoli che incombono di nuovo su tutta l’umanità! Ma quanto pochi sono coloro che prendono sul serio questi paterni ed angosciati appelli!

Gesù vuole riparazioni da offrire al Padre; la Madonna, la Mamma pietosa, chiama a penitenza: ma parrebbe che gli uomini non possano credere che nuove catastrofi stiano per abbattersi sulla terra se essi non cambiano vita; e fan di tutto per dimenticare, nella ebbrezza dei divertimenti, le sofferenze appena trascorse di una guerra disastrosa.

Ecco che siamo in Quaresima; ma chi lo direbbe, camminando per le nostre strade e frequentando le nostre chiese? Fuori continua ad impazzare un carnevale mai finito, e le chiese continuano ad essere pressoché deserte. E se anche sono frequentate, con quanta serietà poi viene ricevuta e messa in pratica la parola di Gesù?

E quante altre cose tristi succedono, in tutti i campi dell’umana attività! Il papa ne è profondamente contristato.

Consoliamo il cuore del papa: uniamoci col papa nella preghiera; propiziamo il nostro Dio, che è Dio di misericordia, ma anche di giustizia.

Buon per noi se nelle nostre sofferenze e con le nostre sofferenze potremo riparare almeno un poco del tanto male che è nel mondo! Come saremo cari a Gesù e alla Madonna, i quali chiedono l’aiuto di anime generose per placare la giustizia del Padre adirato!

Guardiamo però che, mentre preghiamo per la Chiesa e per il mondo, non dimentichiamo le nostre personali miserie. Il Signore non ascolterebbe la nostra preghiera, se andassimo a Lui come il fariseo del tempio. “Ti ringrazio, o Dio, che io non sono come gli altri uomini…”. Così diceva il fariseo della parabola evangelica, ma Gesù dice che non già lui, ma il povero pubblicano se ne tornò giustificato dalla misericordia di Dio.

La domenica di Passione dobbiamo dunque trovarci tutti riuniti come un cuor solo e un’anima sola a implorare pietà dal Signore.

Ma da Roma, nei giorni scorsi, è venuto anche un altro invito, di cui mi piace farvi un accenno.

Poiché il movimento per la riunione di tutti i cristiani nell’unica vera Chiesa di Cristo va sempre più estendendosi e prendendo vigore, la Santa Sede ha pubblicato alcune istruzioni precise, allo scopo di evitare che le passioni umane e il demonio abbiano a rovinare questo lavoro di avvicinamento che sta tanto a cuore a Gesù e naturalmente dà tanto fastidio al nemico di ogni bene, il diavolo.

Non vi voglio parlare di nuovo della grandezza dell’opera che tende a riunire le sparse membra di Cristo; ve ne ho parlato anche nella lettera di gennaio e voi ricordate bene che il buon esito di tale movimento sta tra le prime intenzioni del nostro Apostolato; vi ripeto solo che ciascuno di noi, coi suoi poveri mezzi ma con l’aiuto del Signore che si serve di noi, può dare un aiuto efficacissimo alla soluzione del grande problema.

Lo dice anche il documento pontificio, il quale si chiude con questo appello: “Tutti si debbono esortare e infiammare affinché con le loro orazioni e sacrifici si sforzino di fecondare e promuovere quest’opera”.

ORAZIONI E SACRIFICI: non vorremo noi offrire con generosità per uno scopo così santo?

Un’ultima cosa. Vi scrivo nel bel mese di marzo, dedicato a S. Giuseppe, anzi nella festa stessa di questo caro e potente santo, protettore della Chiesa universale.

Mettiamo le nostre intenzioni sotto il Suo patrocinio: saranno più gradite a Maria, la Sua santa Sposa, attraverso la quale passa ogni preghiera che va a Gesù, e ogni grazia che da Gesù a noi discende.

Ricordiamo anche che S. Giuseppe è speciale protettore in punto di morte e chiediamogli la grazia di una santa morte, con Gesù e Maria vicini. Il pensiero della morte ci accompagni sempre, così che ogni giorno viviamo come se ogni giorno dovessimo morire.

E nei santi nomi di Gesù, Maria e Giuseppe vi saluto e vi benedico con tutto il cuore.

Vostro, in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6254 Giugno 1950

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore

La grazia e la pace di Gesù siano sempre con noi! – Proprio in questi giorni la piccola martire Maria Goretti è stata elevata agli onori degli altari, con una glorificazione per la quale la stessa piazza di S. Pietro è stata troppo angusta.

Come sono meravigliosi i disegni di Dio e com’è grande la sua bontà verso gli umili di cuore e i più piccoli di questa terra!

Ecco una prima grande considerazione per chi vive nascosto e ignorato e si sente una piccolissima cosa, come un grano di polvere, in mezzo a tanta umanità rumorosa: e pensa che questa stessa umanità è ben piccola cosa di fronte a questo pur minuscolo globo che è la terra, la quale, di fronte allo spazio incommensurabile che contiene tanti mondi, rimane un punto quasi impercettibile. E questi mondi innumeri e giganti che cosa sono di fronte alla infinita grandezza di Dio?

Eppure questo Dio infinito si ricorda della sue creature, dei suoi figlioli, e li segue tanto più da vicino quanto più essi si sentono piccoli, e vive intimamente unito con essi, e li ama quanto solo un padre può amare.

Che se qualche volta lascia che il suo figliolo sia sopraffatto dalla forza della malvagità, come per la Goretti, o che sia provato attraverso il vaglio della sofferenza, come fu per Giobbe, è solo per poterlo poi più compiutamente glorificare.

Direte: Ma sono ben pochi coloro che la Chiesa porta all’onore degli altari!

E che importa? Non è la gloria di quaggiù che conta, ma la gloria del cielo.

Il Signore, nei suoi imperscrutabili disegni, pone solo qualche anima privilegiata sul candelabro della gloria terrena; e questo lo fa soprattutto per il nostro bene, voglio dire per il bene di quelli che restano a combattere sulla terra; ma non è detto che la gloria celeste sia in tutto proporzionata a quella terrena.

Chi sa quante anime, vissute in un eroismo umile e nascosto, godono in cielo una gloria superiore a certe anime che ebbero anche quaggiù il riconoscimento della loro eroica virtù!

Ma poi, senza guardar tanto al più e al meno alto, una cosa è certa: che Dio ci vuol tutti nella sua gloria e che dipende proprio da noi il pervenirci, corrispondendo alla sua grazia misericordiosa.

Infinite poi, sono le vie della divina Misericordia.

Quanti sofferenti, considerando l’esaltazione della piccola martire della purezza, hanno pensato in cuor loro press’a poco così: Lei beata che, rinnegando in un istante il demonio, si è guadagnata, con la sofferenza di poche ore, tanto fulgore di gloria! Noi, invece, si soffre mesi e mesi, forse anni e anni, in mezzo spesso a piccole e anche grandi impazienze, perdendo forse, qualche volta, anche la fiducia e la speranza, col timore persino che venga a mancare la perseveranza finale e con essa il Paradiso, e poi… Oh quanto meglio morire nel fior degli anni offrendo tutti se stessi al Signore!

Questo ragionamento è naturale, così naturale che, tolta la conseguenza, si può quasi dire giusto. Teniamo però presenti questi principi fondamentali:

I°- Non tocca a noi scegliere la via per dar gloria a Dio;

II°- Il merito consiste soprattutto nell’accettare ed eseguire la divina volontà;

III°- Iddio è Padre, Padre buono, il miglior Padre che si possa immaginare, e perciò tien conto di tutte le nostre debolezze e ripaga con moneta sovrabbondante ogni nostro dolore, compreso quello che viene dalla mortificazione di non vederci così rassegnati, così pronti al sacrificio, alla pazienza, alla carità verso Dio e all’amorevolezza verso il prossimo, come il nostro spirito – e forse anche il nostro amor proprio – vorrebbe.

Ma questo discorso, molto importante, ci porterebbe assai lontano e sarà meglio tornarci sopra a fondo un’altra volta.

Intanto raccogliamo questi insegnamenti dalla gloria di S. Maria Goretti e con l’aiuto della sua intercessione, mercé il patrocinio della Vergine Immacolata per cui ci vengono da Gesù tutte le grazie, proponiamoci di imitarla nell’accettazione quotidiana del nostro più lungo e forse non meno meritorio martirio.

Cari fratelli e sorelle, come sempre, anzi più che mai, mi raccomando alla carità delle vostre preghiere e delle vostre sofferenze. Io vi sarò vicino con le mie e con tutto il mio povero cuore.

Vi benedico e vi saluto.

In C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6255 Luglio 1950

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore

La grazia e la pace di Gesù Benedetto siano sempre con noi. – Prima di riprendere il discorso interrotto l’altra volta, voglio parlare di alcuni avvenimenti intimi della nostra famiglia sofferente.

Prima di tutto l’iniziativa per l’harmonium ai detenuti malati. Essa ha trovato nei cuori dei fratelli dell’Apostolato una rispondenza così affettuosa che è davvero commovente, soprattutto se si considera che le offerte – quasi tutte modeste rappresentano certamente un sacrificio non piccolo per le modestissime risorse dei nostri malati.

Molte offerte poi sono accompagnate da espressioni di affetto e di augurio così belle e spontanee che ci si sente veramente il profumo della cristiana carità. Questi sentimenti, ne siamo certi, valgono davanti a Dio infinitamente più del denaro, giacché è la carità radicata in Cristo, Fratello comune di tutti, che rende meritorie le nostre azioni.

Miei cari Fratelli e Sorelle, grazie a nome dei carcerati, ma grazie anche a nome nostro, per l’esempio di comprensione e di carità che ci avete dato.

Secondo fatto: l’entrata nella grande famiglia dell’Apostolato Infermi di un gruppo di sordomuti di Brescia.

Non sono, questi, i primi sordomuti che vengono a far parte della nostra famiglia, ma sono forse i primi che vi entrano in gruppo, e per di più sono ragazzi. Un’immissione, dunque, preziosa di innocenza sofferente.

Pensando ad essi, così ben giudicati nella via della pietà e della sofferenza meritoria, il nostro animo corre pieno di ammirazione e riconoscenza a quei cuori generosi – e sono tanti! – che hanno votato la loro vita alla missione di istruirli ed educarli alla vita della terra e a quella – più importante – del cielo; e pensiamo che la numerosissima schiera dei sordomuti è – soprattutto per merito di questi generosi che li educano – uno dei più preziosi parafulmini che scongiurano dal capo dell’umanità le folgori dei castighi divini.

La stessa commozione provammo l’anno scorso, quando alcune bambine di un ospedale infantile trentino ci chiesero con umile entusiasmo di far parte dell’Apostolato.

Oh! se tutti i bimbi sofferenti fossero educati così alla comprensione del sacrificio, dell’espiazione e dell’apostolato, quanti mali di meno nel mondo!

Riprendiamo ora il discorso sulla paternità di Dio che l’altra volta lasciammo a metà.

Dicevamo dunque che Dio è Padre: ora aggiungo che, se Dio è Padre di tutti, lo è in modo particolare per i più infelici, i più bisognosi.

Consideriamo una famiglia di questa povera umanità. Non sempre i figlioli sono ugualmente sani, ugualmente belli: ma a chi vuol più bene la mamma? Sembrerebbe dovesse amare di più quelli robusti e più fortunati, quelli cioè che le fanno più onore; e invece possiamo spesso costatare, non senza commozione, che il più disgraziato è anche l’oggetto del più tenero affetto. A tanto, anzi, arriva l’amore della mamma per lui, che talvolta il suo difetto diventa anche esternamente il titolo di predilezione, come si può scoprire del tono tutto affettuoso con cui la mamma indica il figlioletto disgraziato che ella chiama con strani vezzeggiativi: il mio zoppetto, il mio gobbino, il mio malatino…

Non può essere diversamente nell’amore di Gesù per le sue creature. Quanto più siamo poveri, malati, sofferenti, tanto più il Signore ci guarda teneramente ed affettuosamente.

Questo poi si verifica non solo per i nostri difetti e miserie corporali, ma anche per le nostre difficoltà e difetti nel campo dello spirito.

Ma qui intendiamoci bene: ho detto difetti e difficoltà, non già peccati.

E siamo giunti al nocciolo della questione.

Quando il nostro organismo è in piena salute e la vita spirituale procede tranquilla e serena, la nostra anima si può paragonare a una nave che a vele spiegate scivola lieta sulle acque, sospinta in poppa dal vento favorevole. Le vele spiegate rappresentano la buona salute, il vento che sospinge è la grazia di Gesù.

In queste condizioni propizie com’è bello amare il Signore e lasciarsi trasportare dalla grazia, scivolando sul mare tranquillo della pace del cuore! Sono quelli i momenti in cui dall’anima, immersa nell’amore di Dio, escono gli slanci d’entusiasmo e di zelo per l’apostolato, per la santità, per la sofferenza. Pare allora che nessun ostacolo e nessun dolore possa strapparci alla nostra pace, alla nostra gioia, al nostro entusiastico ardore. C’è una specie di ottimistica baldanza nel cuore, la quale ci fa dire coi figli di Zebedeo: “Sì, anche noi possiamo bere il calice di Gesù!”. E si arriva persino a desiderare la sofferenza, con la lieta certezza che si soffrirà con rassegnazione, con entusiasmo, con la letizia nel cuore…

La realtà però si presenta bene spesso assai diversa da questi sogni buoni ma ingenui, sì che sembra non corrisponda punto ai propositi generosi e pur sinceri di un giorno.

Basta talora un piccolo ed indefinibile malessere, un disturbo digestivo, un mal di capo, un piccola ferita dolorosa; e già il nostro animo sembra anch’esso ferito, scosso, smarrito, stanco, privo della sua bella e generosa volontà.

Che è successo? E’ successo che è venuto meno all’anima lo strumento prezioso che con essa partecipa a formulare le idee, a sentire gli affetti, ad attuare i propositi. Si è afflosciata la vela della nave, e perciò l’anima ha l’impressione di non procedere più avanti e di essere abbandonata a se stessa.

E fosse almeno un mare tranquillo, dove ci si potesse cullare sereni nell’attesa del vento propizio! Ma no, che invece i flutti sono in subbuglio, la tempesta rugge furibonda da ogni lato… scomparso il sole, scomparsa la luna… non c’è una luce nel cielo a dare almeno l’impressione che qualcuno ci guardi dall’alto… la povera navicella sembra ognora sul punto di far naufragio.

Non è forse così in tanti casi, specialmente quando l’organismo è preda di agitazioni o depressioni nervose?

Addio, allora, bei propositi di calma e di pazienza! E dov’è, allora, la fede che un giorno ci sosteneva? Ora che più ce ne sarebbe bisogno, anche quella luce sembra velata o scomparsa: ci si sforza sì, con quel poco di volontà che è rimasta, ma non si trova la rispondenza nel sentimento: tutto, tutto pare perduto!

Io penso che dovessero avere il medesimo smarrimento Pietro, Giacomo e Giovanni quando, nella notte tragica del tradimento, sentirono in se stessi quanto sia difficile seguire il Maestro sulla via della sofferenza e dell’abbandono.

Ed erano i prediletti di Gesù, quelli che Lo avevano ammirato nella gloria della trasfigurazione sul Tabor! (O Signore, è buono per noi lo star qui…).

Eppure, miei cari Fratelli e Sorelle, neppure in tali casi c’è da disperare, perché, se noi non sembriamo più quelli di prima, non è cambiato per nulla il Padre che ci guarda dal cielo e che conosce appuntino tutte le nostre miserie e le cause da cui provengono.

Queste cause generalmente stanno là, in quella povera vela della salute fisica. Nei frangenti burrascosi che abbiamo descritto, dobbiamo dunque credere che i buoni propositi del passato sono ancor là davanti al Trono di Dio a confermargli la nostra fedeltà e a dirgli quali sarebbero le nostre disposizioni se come allora avessimo l’animo efficiente.

In quei momenti, Iddio è nascosto, ma è presente, vicino, anzi dentro di noi. E’ anzi Gesù stesso che in noi soffre, anche se la nostra coscienza non è del tutto presente a se stessa: Gesù, entrato allora, non se n’è più andato.

Se avessimo dunque tentazioni contro la fede, non spaventiamoci: sentire non è consentire.

E se larve immonde e fantasmi tentatori si affacciassero alla mente stanca; contro la nostra volontà, coraggio: sentire non è consentire.

E se ci assalissero pensieri di sconforto e sembrasse che la disperazione s’impossessi dei nostri sentimenti inferiori, l’anima non disperi: sentire non è consentire.

E se sotto la sferza del dolore i difetti si moltiplicassero: contro la carità, la pazienza, la mansuetudine, non scoraggiamoci: Iddio ci è Padre.

Prostriamoci davanti a Lui che permette la nostra umiliazione e diciamo con la parte più alta di noi il nostro “fiat”.

Per quanto sommesso, Iddio ascolterà il grido soffocato dell’anima e ci userà misericordia, misericordia da Padre buono e generoso.

In questa dolce certezza, raccomandandomi alla carità delle vostre preghiere e augurandovi ogni bene nel Signore, vi saluto nei Cuori di Gesù e di Maria.

Vostro, in C. J. aff.mo Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6256 Settembre 1950

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore

La grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi.

Eccoci di nuovo a colloquio, dopo la parentesi delle ferie estive.

Vi assicuro che in questo tempo io ho pensato a tutti voi, e voglio sperare che questo legame che io sento così intimo nei vostri riguardi, anche voi lo sentiate con i vostri compagni di sofferenza e con questo poveretto che tanto vi ama nel Signore.

Queste ferie estive però mi hanno recato anche un altro motivo per ricordarvi in un modo speciale: intendo dire: il Congresso dei Medici, tenuto proprio qui a Verona, con la partecipazione di alcune migliaia di medici provenienti da tutte le parti d’Italia e un po’ da tutto il mondo.

E’ il secondo anno che Verona ha l’alto onore di ospitare una così nobile accolta di uomini di scienza benemeriti dell’umanità.

Io ho seguito questi due congressi non solo con grande interesse e affettuosa simpatia, ma ho anche cercato di cooperare alla loro riuscita con la mia povera preghiera. Anzi, l’anno scorso volli in qualche modo partecipare anch’io alla bella manifestazione, inviando il mio saluto ed augurio ai medici amici e collaboratori della nostra Opera che a tale congresso prendevano parte.

Mi pare oggi che non sia fuori luogo ch’io ripeta anche a voi, cari ammalati, i concetti che allora espressi. La fiducia e l’affetto per il medico non sono infatti solamente un dovere, ma costituiscono pur anche un conforto e un aiuto morale per chi è vacillante sotto il peso di qualche croce fisica.

La dignità di Medico.

Io sento in me una esuberanza di amore, di stima e di affetto, direi quasi di venerazione, per i medici; fin dai primi anni del mio ministero sacerdotale ho avuto frequenti occasioni di vedere da vicino, e apprezzare l’opera pietosa del medico. Non dubito di affermare che, dopo la missione divina del Sacerdote, quella del medico sia la professione più nobile che il Creatore possa affidare ad un uomo sulla terra.

Che cosa è infatti un medico? E’ diretto collaboratore di Dio autore e conservatore della vita.

La vita! I medici, che ne scrutano i più intimi segreti, sanno meglio d’ogni altro quanto preziosa sia questa vita: opera della infinita potenza e sapienza del Creatore.

Ora, il medico è chiamato da Dio a collaborare sia per il sorgere e l’affermarsi della vita, sia per il suo progresso e rinvigorimento, come per curarne le infermità, o almeno lenirne i dolori, renderne meno sensibile la sofferenza, e procurarne sereno il tramonto.

Pietoso samaritano.

Chino sull’infermo, il medico guarda, osserva, tocca, ascolta, domanda: è tutto proteso a rilevare ogni sintomo che dia luce sul caso, e manifesti l’intima natura del morbo.

Intanto, egli fruga nel proprio spirito, nelle profonde cognizioni apprese sui libri e nella diuturna esperienza propria ed altrui, per trarne le opportune prescrizioni che valgano a far tornare la salute, vincendo i parassiti, rimettendo ordine agli umori vitali.

Per merito del medico, il più delle volte, rifiorisce la salute, riprendono le forze, torna la serenità nelle famiglie, torna il sorriso sulle labbra del fratello ridonato alla vita.

Giusto rilievo.

Ho detto: per merito del medico; e non a caso… Sì, è vero che bisogna ricorrere alla preghiera, e invocare il soccorso dei santi per ottenere la guarigione; ma sarebbe ingiusto dimenticare che il Signore si serve del medico e delle medicine, in via ordinaria, per concedere la grazia; e più ingiusto ancora sarebbe dare la colpa al medico, se la guarigione tarda, o non viene.

Per questa ragione io esorto sempre a non trascurare l’opera del medico, e ad usare i mezzi umani: così vuole il Signore. Insieme esorto a pregare molto, perché il divino medico Gesù illumini il medico terreno nella cura e nelle prescrizioni del caso.

E’ ufficio, quindi, non di semplice professione, ma di vera e propria missione: una specie di paternità che assume il medico di fronte all’ammalato, una intima amicizia che si stabilisce fra l’uno e l’altro, e li stringe con un vincolo spesso indissolubile.

Quale campo di nobile azione non è dunque aperto al medico! quale compito delicato non è il suo! Ecco: il malato è tutto rivolto al medico: lo guarda con implorazione, lo ascolta con venerazione, lo segue con docilità: sente di essere a lui legato da un vincolo di dipendenza.

E il medico sente la sua responsabilità e cerca di rispondere alla fiducia del malato, infondendogli coraggio, illuminandolo con paterni consigli, talvolta riprendendolo con severità piena d’amore.

Ministro della vita.

Oh, quale merito per il sanitario, soccorrere così il fratello! E quale nobilitazione della scienza e dello studio! Forse mai come nel medico, la scienza ha un ideale più alto e sublime di questo: salvare la vita.

Il medico, allora, appare ed è il ministro di Colui, che disse “Io sono la vita”. Cristo non intendeva solamente la vita dell’anima, che più conta; ma anche quella del corpo, che è tanto preziosa: infatti il corpo è strumento essenziale dell’anima nel servire ed amare l’autore della vita.

Cristo, adunque, ha nel medico la “mano potente” che trae la vita, “il dito divino” che ridona la salute. Medico e sacerdote sono ambedue ministri di Cristo: l’uno per la vita dello spirito, l’altro per quella del corpo. L’uno completa l’altro.

Salvare una vita! prolungare un’esistenza! opera altamente umanitaria e meravigliosa, che acquista benemerenze presso il sommo Rimuneratore di ogni bene. Un uomo che vive, non fosse che per pochi minuti, può far del bene; e, col bene, dà più gloria a Dio che non tutte le creature insensate nel giro dei secoli.

Pensiamo quale merito per il medico che riesce a prolungare e moltiplicare vite preziose di uomini intelligenti, capaci di amare Iddio. Quale compiacimento allora da parte di Dio, verso il medico!

Il divino Mandato.

Iddio disse: “Crescete, e moltiplicatevi”.

Nei nostri tempi, questa parola ha avuto una realizzazione stupenda; il mondo si è raddoppiato, triplicato in poco più di un secolo. Donde mai tale beneficio, se non dai progressi dell’arte medica, la quale è riuscita a scoprire nuovi rimedi, a circoscrivere e reprimere sul nascere le epidemie una volta ricorrenti, a debellare tanti parassiti del corpo, a sostenere i novelli deboli virgulti? Gli studi assidui del medico, le cognizioni e scoperte accumulatesi nel corso dei secoli, hanno prodotto tale risultato. E altri ne produrranno, sempre più meravigliosi.

Non ci meraviglieremo dunque se nell’antichità il medico era riguardato come un essere superiore, e l’arte salutare ritenuta di origine divina; e Grecia e Roma fra l’altre abbiano avuto in tanto onore il tempio di Esculapio, il mitologico maestro ed autore della Medicina.

Luce della fede.

Per noi cristiani, poi, la luce della fede si irradia sul campo della medicina, e ne illumina maggiormente le bellezze e le benemerenze.

Cristo Salvatore si è fatto medico: ed ha annoverato tra le opere più belle e meritevoli di premio il “visitare gli infermi”; anzi: negli infermi si è adombrato Lui stesso.

I santi, questi autentici interpreti della mente di Dio, come hanno sempre affiancato l’opera del medico, e dedicato le loro migliori energie all’assistenza degli infermi! Dai primi tempi della Chiesa si profilano le opere specializzate: San Benedetto e i suoi monaci si prendono cura degli ammalati fratelli. Sorgono le scuole accanto ai monasteri e agli episcopii, per la cura dei malati e lo studio della medicina. Gli ospedali si moltiplicano col moltiplicarsi dei bisogni.

Non occorre che vi ricordi i grandi nomi di S. Camillo, S. Giovanni di Dio, S. Filippo Neri, e tanti altri, che rifulgono nei fasti della Chiesa.

Tutte queste considerazioni mi venivano spontanee alla mente, nei giorni dei congressi medici; e mi spingevano a manifestare questi intimi sentimenti del mio cuore a coloro, che dalla Provvidenza sono stati elevati all’altissima dignità di lenire le umane sofferenze, ridurre il campo della morte. valorizzare il dono della vita fisica. Così ho sempre veduto il medico; in questa luce di nobiltà sublime, di missione sacra, strettamente aderente a quella del sacerdote.

Preghiamo per il medico.

Miei cari fratelli e sorelle, stimiamo dunque il medico, rispettiamolo, amiamolo.

Anche lo Spirito Santo, nella sacra scrittura, ci invita all’ossequio verso colui che deve essere considerato un cooperatore di Dio al servizio degli uomini.

Forse qualcuno di voi potrebbe obiettare che non tutti coloro che portano quel titolo si dimostrano degni di così alta missione.

Ciò però nulla toglie alla missione in se stessa: se così non fosse, quale categoria potrebbe salvarsi?

Pensiamo poi che, quanto più alta è la missione affidata da Dio, tanto più difficile è l’esercitarla con onore e perciò preghiamo il Signore anche per i medici, perché lo Spirito Santo li illumini nell’esame dei loro malati, nella scelta dei medicamenti e metta nel loro cuore e sulle loro labbra i sentimenti e le parole più adatti non solo per confortare ed incoraggiare, ma anche per indirizzare e disporre le anime a fare la santa volontà di Dio e a impreziosire il sacrificio unendolo a quello di Cristo.

Se un medico non buono può fare tanto male, quanto bene può fare un medico retto e pio! Aiutato dallo Spirito divino, egli può aiutare i suoi infermi a diventare santi.

Io ne ho conosciuti di questi medici, e penso che potrebbero essere di più se i cristiani pregassero di più per essi, e in particolare per il proprio medico.

Vi saluto, miei cari fratelli e sorelle nel Signore, augurandovi che possiate sempre incontrare sul vostro doloroso cammino medici santi, e se non lo fossero, che possano diventarlo con l’aiuto del vostro esempio e della vostra preghiera.

Ecco un prezioso e bell’apostolato.

Vi benedico più col cuore che con la mano, raccomandandomi tanto e poi tanto alla carità delle vostre preghiere, specialmente per il I° venerdì del mese e il 24.

Vostro, in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6257 Ottobre 1950

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

La grazia del Signore sia sempre con noi. – Tra pochi giorni un grandioso avvenimento rallegrerà tutta la santa Chiesa: la proclamazione solenne del dogma dell’assunzione – anima e corpo – della nostra cara Madre Celeste in cielo.

Si rallegrano le Anime sante della Chiesa Trionfante, liete di offrire il giorno della loro festività – Ognissanti – alla celebrazione solenne con cui una delle glorie della loro Regina viene sancita con atto irrevocabile.

Si rallegrano le anime della Chiesa Purgante, che, alla vigilia della loro commemorazione, vedono i cristiani loro fratelli preparare più degnamente che mai i loro cuori ad impetrare la Madre di ogni favore, e sperano così che ricada su di essi il benefico aumento di meriti che va ad impreziosire il tesoro di grazia a cui essi attingono.

Ci rallegriamo noi, poveri mortali che in questa valle di lacrime formiamo la Chiesa Militante, perché una nuova corona viene a rendere più gloriosa la nostra Mamma e perché nel riconoscimento della Sua gloria vediamo una riabilitazione della nostra povera carne e una speranza, una promessa per il nostro eterno avvenire.

Nella nostra povertà ci vediamo ricchi, per i meriti di Gesù fratello e redentore nostro e di Maria nostra madre e corredentrice.

Sia questo il pensiero santo che più ci si scolpisce nella mente e nel cuore nella solenne proclamazione del 1°di novembre 1950 e tale pensiero susciti in noi il desiderio e il proposito di mostrarci sempre più degni di così grande onore e di così alto destino.

In quel giorno e sempre, nella vostra preghiera ricordate tanto questo povero e umile vostro amico che tanto vi ama nel Signore.

Vi saluto e di tutto cuore vi benedico.

Vostro, in C.J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6258 Dicembre 1950

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

La grazia, la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi. Questo foglio doveva già uscire in novembre. Perdonerete il ritardo. Io spero e credo che esso non sia imputabile a mancanza di buona volontà, ma che sia pienamente scusato, agli occhi di Dio e quindi anche agli occhi vostri, per la difficoltà che in questi ultimi due mesi hanno intralciato il lavoro normale di questo segretariato.

Speriamo che in avvenire le cose procedano più regolarmente, con soddisfazione di tutti.

Sento da molte vostre lettere che il Signore si serve di queste povere parole che io vi scrivo per fare del bene alle vostre anime e ne godo immensamente, perché è la parola di Gesù, non la mia che voi ascoltate, e penso che essa produrrebbe un egual frutto nei vostri cuori, e anche migliore, se un altro ve la dicesse in vece mia.

E’ Gesù che parla ai nostri cuori, da Lui vengono le buone ispirazioni; siamone certi e ascoltiamo sempre con venerazione la parola di Dio, da qualunque parte arrivi a noi.

Io non so se potrò continuare a scrivere in avvenire per voi. Con gli anni anche le sofferenze e le difficoltà si accumulano e il lavoro diventa difficile.

Miei cari fratelli e sorelle nel Signore, se mai io non vi scrivessi più, non pensate ch’io vi dimentichi, perché più che mai ora mi sento della vostra famiglia, a voi unito col santo vincolo della cristiana carità.

Nel salutarvi, permettete che io vi faccia oggi una grande raccomandazione, vi domando, anzi, vi scongiuro nel Signore, di impegnarvi a queste tre cose:

1) – ricordarvi sempre nelle vostre preghiere di questo poveretto e dell’Opera che il Signore gli ha affidata, ne avrete grande ricompensa in questa e nell’altra vita;

2) – stare uniti a questo santo Apostolato con tutto il vostro cuore e rimanere fedeli al suo spirito, ch’è spirito di sacrificio nel silenzio e nel nascondimento;

3) – coltivare e aumentare sempre più la devozione alla Madonna: sarà il modo migliore per andare a Gesù.

Che le prossime feste natalizie ci trovino tutti preparati a far lieta accoglienza a Gesù, che torna piccolo e povero a insegnarci l’umanità e la sofferenza; e che l’anno nuovo ci trovi tutti pronti a compiere sino all’ultimo la volontà di Dio, l’unica cosa che conta per la nostra pace quaggiù e per la nostra felicità eterna.

Per quanti anni ci sia dato di vivere ancora su questa terra, sono sempre un nulla di fronte alla eternità. Breve è il tempo in cui possiamo approfittare dei tesori di grazia che il Salvatore ha accumulato per noi; poi Egli sarà il nostro giudice.

Viviamo sempre con questo pensiero salutare. E’ l’ultimo ricordo che vi lascio in preparazione al Santo Natale.

Auguri cordiali di bene nel Signore, non solo a voi ma anche alle vostre famiglie e a tutti i vostri cari.

Pregate tanto, tanto per me. Non cesserà il nostro appuntamento al 24 di ogni mese, in cui io celebro la S. Messa per coloro che hanno per me la carità di una preghiera.

Vi saluto e vi benedico più col cuore che con la mano. Vostro, in C.J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6259 Maggio 1951

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

mancano poche ore all’inizio del mese di maggio e io penso a voi con una speciale affettuosa commozione, perché vi vedo tutti quanti sotto lo sguardo pietoso della cara Mamma del cielo.

La Madonna ci guarda e pare attenda da noi un omaggio speciale: e l’attende proprio per l’amore che ci porta, perché sa che la nostra devozione verso di Lei è già una grande grazia, una grazia che ne chiama moltissime altre sulla nostra anima ed è l’inizio della nostra santificazione.

Il I° novembre 1950 abbiamo esultato per la proclamazione di una gloria della Madonna: la Sua assunzione al cielo; verrà forse un altro giorno glorioso per Maria: quello della proclamazione del dogma che tutte le grazie di Gesù passano per le mani della Sua e nostra Mamma. Dio voglia che sia dato a noi di godere anche di questa gioia: ma se non la godremo su questa terra, certamente la godremo nel cielo. Intanto, però, cerchiamo di vivere lo spirito della vera devozione alla Madonna.

Questa vera devozione non consiste nel recitare questa o quella preghiera, ma nello sforzo di santificarci con la Madonna, nella Madonna, per mezzo della Madonna.

Noi dell’Apostolato abbiamo un dovere specialissimo a richiamarci a questo principio di santificazione, perché la sostanza del nostro apostolato sta appunto qui: nel santificarci.

Non si può dare agli altri quello che non si ha. Come comunicheremo Gesù alle anime se noi stessi non Lo possediamo? E a noi, chi lo può dare Gesù, se non Maria, la quale già lo diede agli uomini, accettando di cooperare alla nostra redenzione?

Un segreto della Madonna.

La Vergine santa conosce di noi questo nostro bisogno di santità, e allora, da buona mamma, per venire incontro alla nostra debolezza, rivelò a un suo grande devoto, San Luigi Grignon di Monfort, un segreto di santità: il segreto della schiavitù d’amore verso Maria Santissima.

E’ un segreto che non tutti comprendono, ma io lo propongo a voi, che siete più vicini di altri al Cristo sofferente e alla Regina dei martiri, affinché la vostra croce, la vostra sofferenza divenga – per Maria, con Maria, in Maria – feconda e redentrice.

Questo segreto di amore consiste in una devozione, anzi in una dedizione perfetta a Maria. Il santo di Monfort la chiama: “La perfetta devozione a Maria” oppure “la schiavitù di amore verso la SS.ma Vergine”; e ancora “devozione a Maria Regina dei cuori”.

Lo scopo principale di questa devozione è di stabilire nel nostro cuore il regno assoluto di Maria SS.ma per potervi fare regnare più perfettamente Gesù Cristo.

Essa consiste:

1) nel darsi con atto di consacrazione interamente a Maria SS.ma per essere completamente di Gesù;

2) nel procurare di vivere abitualmente in una piena, intera e perfetta dipendenza da Maria SS.ma, seguendo l’esempio del Figliolo di Dio che le visse soggetto per ben trent’anni.

Ora, fate bene attenzione, questa donazione comporta l’offerta a Maria: 1) del nostro corpo coi suoi sensi; 2) della nostra anima con le sue facoltà; 3) dei nostri beni materiali presenti e futuri di cui noi diveniamo semplici amministratori e cassieri per conto di Maria; 4) dei nostri beni spirituali; 5) dell’intero merito delle nostre buone opere passate, presenti e future.

E’ una consacrazione totale, perché con essa riconosciamo Maria nostra vera padrona e ci diamo totalmente a Lei per tutta la vita, senza pretendere altra ricompensa fuori che l’onore di essere a Lei soggetti quali schiavi volontari d’amore, e di appartenere così più perfettamente, per mezzo di Lei, a Gesù Cristo. Di qui il titolo di “filiale schiavitù verso Maria”.

Questa consacrazione si potrebbe paragonare a una rinnovazione cosciente dei voti del battesimo, impegnandoci a vivere il cristianesimo con generosità, sorretti e guidati per mano dalla Vergine tutta santa.

Una difficoltà, potreste obiettare: come potremo, con tale consacrazione, soccorrere poi i nostri parenti ed amici, vivi e defunti, se non saremo più liberi di disporre del merito delle nostre buone opere?

Risponde così S. Luigi di Monfort: “Supponete una persona ricca che avesse dato il suo avere a un gran principe a fine di meglio onorarlo. Non pregherebbe essa con maggiore confidenza questo principe di fare elemosina a qualche suo amico bisognoso? Anzi, farebbe un vero piacere a questo principe offrendogli l’occasione di mostrare la sua gratitudine verso chi s’è spogliato per rivestirlo e s’è impoverito per onorarlo”.

Ricordiamoci bene che Maria e Gesù non si lasciano mai vincere in generosità da noi; se diamo dieci, ci daranno cento; se daremo cento, ci doneranno mille.

Pensiamo bene poi che noi mettiamo i nostri miseri e pochi meriti (spesso impoveriti dall’amor proprio con cui compiamo le opere di bene) nelle mani di Maria, la quale li purificherà e li renderà più belli e preziosi.

E pensiamo pure che li mettiamo nel cumulo immenso di meriti che milioni di schiavi d’amore offrono continuamente a Maria; se noi avremo bisogno di grazie, Maria non terrà conto solo dei nostri meriti, ma attingerà abbondantemente a quel gran mare di grazia di tutti questi fratelli nostri e figli prediletti suoi. Non è consolante questo pensiero?

Pratiche necessarie: ve ne sono di interne e di esterne.

Di pratiche esterne, veramente, non ce n’è nessuna che sia richiesta in modo assoluto. Per essere schiavo di Maria basta aver fatto una volta per sempre l’atto di consacrazione nel modo qui sotto indicato.

Le pratiche esterne consigliate sono: fissato un giorno importante per far la propria consacrazione a Maria, prepararvisi per trenta giorni con preghiere e meditazioni speciali, rinnovare poi ogni mattina l’atto di consacrazione e ogni mattina con queste semplici parole indulgenziate: “Io sono tutto vostro, e quanto posseggo ve l’offro, amabile mio Gesù, per mezzo di Maria, vostra SS. Madre”.

Ma, ripeto, queste pratiche sono solo consigliate, non obbligatorie.

Ricordiamoci che questa devozione è essenzialmente interiore e ci deve portare per Maria a Gesù. L’anima che ha compreso bene questa devozione, fa suoi i sentimenti di Maria e si sforza di vivere alla sua dipendenza e alla sua presenza.

Il segreto della santità sta appunto qui e chi ne userà con fedeltà e costanza, vedrà chiaramente i mirabili effetti di santità che produce nelle anime.

Forse il termine “schiavitù” può piacere poco a qualche anima delicata, perché oggidì questa parola vorrebbe essere solo un triste ricordo di tempi meno belli. No no: niente paura: la schiavitù di amore è semplicemente ricerca di Cristo con Maria, è dolcezza d’amore spontaneo, d’amore divino; un amore che non umilia come le passioni terrene, un amore che non è una catena pesante la quale costringa e soffochi l’anelito della libertà.

La schiavitù d’amore è un dolce legame, non imposto da alcuno, ma scelto da noi e da noi voluto, che ci tiene uniti alla Madonna e ci impedisce di cadere in preda alle passioni, che ci farebbero schiavi del mondo e del demonio, allontanandoci dalla verità, dalla perfezione, da Dio.

E’ una schiavitù, dunque, che ci rende liberi in terra e ci prepara l’eterna felicità nel cielo.

Miei cari fratelli e sorelle nel Signore, forse la lettera di questa volta è stata un po’ troppo lunga, ma spero che non vi dispiacerà. So che siete tutti devoti della Madonna e so che anche alcuni di voi, specialmente nel gruppo di Rovereto, fanno già parte della schiera degli schiavi d’amore della Vergine santa.

Mi auguro che anche altri soci dell’Apostolato entrino nello spirito di questa bella devozione. La Madonna, che già ci guarda benignamente premurosa, si compiacerà tanto dei nostri sforzi per diventare sempre più degni, per mezzo Suo, del Suo amabilissimo Figliolo.

Se qualcuno desiderasse spiegazioni in proposito, può scrivere al direttore della Casa Buoni Fanciulli – Nazareth – Verona.

Nel bel mese di Maggio ricordiamoci nel Signore e nella Madonna, in modo tutto particolare. Non manchi neppure un giorno un pensiero, una invocazione per i fratelli sofferenti dell’Apostolato.

Una preghiera speciale vi chiedo per me alla Madre dei dolori. Non dimenticate l’appuntamento del Primo Venerdì di ogni mese presso l’altare di Dio. Anche il 24 io ricordo nella mia preghiera e nelle mie sofferenze quelli che pregano per me.

Vi saluto e vi benedico tutti più col cuore che con la mano. Vostro,

in C.J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6260 Giugno 1951

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi. Prima di tutto ringrazio di cuore tutti i cari soci che nei trascorsi mesi si sono interessati con grande carità di questo poveretto e hanno pregato per lui in modo speciale.

Ve l’ho già detto altre volte, ve lo ripeto ancora: il Signore ricompenserà con grandi grazie questa vostra carità, non già per riguardo della mia persona, ma per l’Opera che ha affidato a questo povero sacerdote, e che è opera sua, di Dio.

Vi prego poi tutti, anzi vi scongiuro, di continuare a pregare per me, perché il Signore mi conceda – per la intercessione della sua Santissima Madre – di poter compiere sino in fondo la sua santa volontà.

Le sue opere il Signore le ottiene specialmente attraverso la nostra sofferenza, e la sofferenza, voi lo sapete bene, rimane sempre sofferenza e costa alla nostra natura, anche se c’è la santa rassegnazione e la volontà ferma di patire per amor di Dio. Perciò, specialmente nelle prove più acerbe c’è un gran bisogno dell’assistenza divina; e per questo vi scongiuro di stare sempre tanto uniti nella preghiera, così che nessuno si senta mai solo davanti alla prova.

E’ una cosa terribile sentirsi soli, e io sento una grande compassione per quei poveretti che, non avendo il dono della fede, non possono avere un conforto sostanziale alle loro pene morali e fisiche. Almeno noi cristiani, nei nostri dolori, possiamo dirci fortunati perché nei nostri dolori abbiamo sempre compagno Cristo, che ci precede con la sua croce.

Ma Gesù ci è ancora più vicino, in quanto Egli si è degnato di rimanere con noi anche con la sua presenza fisica nella S. Eucarestia. Noi cristiani possiamo veramente dire con la S. Scrittura: “Chi altri mai può vantarsi di avere la divinità così vicina come l’abbiamo noi?”.

Quanto mi piacerebbe di parlarvi a lungo di questo sacramento di amore! Voglio però dirvi almeno due pensieri, in modo che questa lettera, con la grazia di Dio, susciti in ciascuno di noi qualche buon sentimento, che ci aiuti a progredire nella virtù.

Eucarestia: Amore.

Da questo sacramento Gesù ci parla, prima di tutto dell’amore suo per noi, perché ci dice sino a qual punto Egli ha desiderato di stringere con noi legami affettuosi, non contentandosi solo di vivere in nostra compagnia, ma volendosi dare interamente a noi, in cibo di vita e bevanda ristoratrice delle nostre anime.

Il sacrificio eucaristico poi, cioè la santa messa, in cui si rinnova misticamente la passione di Cristo, illumina e rende più chiaro, più eloquente lo stesso sacrificio della Croce.

In croce Gesù vi fu posto dai suoi crocifissori, permettendolo l’Eterno Padre e assoggettandovisi Lui, Gesù, come un tenero agnello sotto il ferro dell’uccisore: ma nel sacrificio eucaristico, istituito nella tragica notte prima della passione, Gesù ci fa vedere che è Lui che si offre all’Eterno Padre che gli uomini, prima ancora che gli uomini lo elevino sulla croce.

Se l’Eucarestia fosse stata istituita dopo, si potrebbe dire un monumento commemorativo come quelli che noi facciamo per ricordare i nostri morti; ma poiché fu istituita prima, essa fu un’anticipazione del sacrificio della croce e ci dimostra che questo sacrificio fu voluto da Gesù stesso e abbracciato con entusiasmo per l’amore che portava agli uomini, suoi fratelli.

Meditiamo questa immensa carità di Cristo e ricambiamola quanto possiamo con amore generoso.

Eucarestia: Umiltà.

Ma per i sofferenti il sacrificio eucaristico ha un altro profondo significato. Gesù-Eucarestia non è solamente cibo di chi langue e soffre; è anche un esempio luminoso di mortificazione.

Poteva Gesù abbassarsi di più? poteva nascondere meglio se stesso? I suoi carnefici avevano fatto di Lui, nella passione, una figura d’uomo irriconoscibile: nella Eucarestia non c’è più neppure la figura dell’uomo, benché sostanzialmente ci sia tutto Gesù, in corpo, sangue, anima e divinità.

Oh, impariamo anche noi a nascondere noi stessi, così da desiderare che solo Dio veda i nostri sacrifici per premiarli nella eternità. Almeno desideriamolo il nascondimento, perché l’umiltà è la custodia che preserva dalla corruzione dell’amor proprio, le nostre opere buone.

Quando noi portiamo un fiore a Gesù, non ci permettiamo di odorarlo per il nostro piacere; quando gli offriamo un sacrificio, facciamo lo stesso: tutto per Lui e solo per Lui: Lui solo deve aspirare il profumo.

Noi dobbiamo solo pensare che il sacrificio torni gradito al Signore: ci penserà Lui a farlo conoscere agli uomini, se ciò sarà per il bene delle anime; ma per conto nostro dobbiamo molto temere del pericolo della compiacenza interna ed esterna per quel poco di bene che facciamo.

Non è facile, lo so; ma sarà meno difficile se ci affideremo alla guida della nostra Mamma celeste. Lei, che ci ha dato Gesù e perciò anche l’eucarestia, Lei ci insegnerà a capire Gesù anche in questo mistero di amore e di umiltà, e ci aiuterà ad adorarlo ed imitarlo.

In questi santi nomi di Gesù e di Maria vi saluto, cari fratelli di sofferenza, vi saluto e vi benedico più col cuore che con la mano.

Stiamo sempre uniti nel Signore, sempre uniti, fino al santo Paradiso. Vi raccomando l’appuntamento del primo Venerdì del mese.

Vostro, in C.J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6261 Agosto 1951

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi.

Prima di tutto sento il dovere di ringraziare tutti coloro che, nell’occasione del 50° della mia ordinazione sacerdotale, mi hanno voluto ricordare al Signore, e quelli in particolare che hanno voluto aggiungere la carità di scrivermi o partecipare in altro modo a questa celebrazione, che io avrei voluto intima e ristretta, ma che la Provvidenza ha permesso venisse risaputa al di fuori, non certo per me, ma in vista dell’Opera di Dio che questo poveretto rappresenta.

Come rappresentante di quest’Opera, ammiro la bontà del Signore e Lo ringrazio per l’affetto che verso l’Opera Egli ha suscitato nel cuore di tante anime buone; personalmente, di fronte alla carità che mi viene dimostrata e di cui non mi sento degno, non posso far altro che confondermi profondamente.

Cinquant’anni di sacerdozio! Qual immenso tesoro di grazie, ma insieme quale responsabilità, come sacerdote e come “casante” di quest’umile Opera del Signore, specie nella grave ora che il mondo attraversa.

Come sento vivo il bisogno di chiedere umilmente perdono a Dio, e a tutti la carità e l’aiuto della preghiera, leva potente che ci innalza alle più sublimi, divine altezze!

A proposito di preghiere, devo qui ringraziarvi, miei cari fratelli e sorelle, anche per la grande carità che mi avete usato durante la mia ultima lunga malattia. La guarigione che il Datore di ogni bene mi ha concesso, è certamente frutto anche delle vostre preghiere e io me ne sento a voi debitore, e perciò più che mai, da povero come sono, cerco di ricambiarvi, raccomandandovi tutti alla bontà del celeste Padre, perché, auspice la cara Madonna Assunta in cielo, dal Signore vi giunga la ricompensa che la vostra carità vi ha meritato.

E voi continuatemi questa santa carità della preghiera, perché il Signore mi conceda di spendere tutti per Lui questi pochi giorni che mi rimangono, facendo fino all’ultimo la Sua santa volontà!

Ed ora lasciamo da parte la mia povera persona e parliamo un poco della nostra dolorante famiglia. Alcuni mesi fa io vi parlai dei medici e vi dissi quanto essi vanno stimati, amati, obbediti e aiutati con la preghiera. Vi sono però tante altre persone che si interessano dei mali e che per i malati tante volte si sacrificano con una semplicità, una pazienza, una rassegnazione e una costanza che commuovono: intendo parlare di coloro che, sia nelle famiglie sia negli ospedali, assistono e curano i poveri ammalati.

Il Personale Infermiere.

Ricordate la parabola del buon samaritano? Lo avrete sentito lodare tante volte questo simpatico rappresentante della pietà per il prossimo, per mezzo del quale Gesù volle insegnare agli uomini che la carità non ammette esclusioni; ma quante volte avete sentito parlare dell’albergatore, che accettò in casa sua il ferito e si addossò la responsabilità e il peso di tenerlo fino alla guarigione? Non fu per la sua lunga carità altrettanto meritoria di quella grande, ma forse meno gravosa, del buon samaritano?

Ecco: quell’albergatore può ben rappresentare il sacrificio nascosto, umile, paziente di tutti coloro che curano i malati.

Voi sapete per esperienza quanto sia difficile essere buoni ammalati. Per lo più, cadendo ammalati, si comincia abbastanza bene: c’è la buona volontà di non esser di troppo peso per gli altri, di offrire ogni sacrificio al Signore, di soffrire con rassegnazione e persino con gioia. Ma ecco che la malattia si prolunga, forse si acutizza; e se pur il male non aumenta, si sente però più intensamente, perché la sofferenza di oggi si assomma a quella di ieri e di ier l’altro. E allora comincia la noia, l’insofferenza dei cibi, dei rumori, delle persone… tutto dà fastidio, si diventa ombrosi, pare che coloro che ci assistano siano stanchi di noi… e allora questi poveretti, già affaticati e logorati dall’assistenza che si prolunga, devono subire anche le conseguenze del nostro carattere inasprito: cattive parole, sgarbi, malumori, insofferenza.

Buon per loro se trovano nell’unione col Signore la luce e la forza per praticare la squisita carità di Cristo: quante opere buone, quanti meriti, che santa caparra per il Paradiso! Gesù l’ha promesso il Paradiso a chi darà per amor suo anche un solo bicchiere d’acqua: quanto più sarà sicuro il possesso eterno di Dio per chi passa l’intera vita nel servizio degli infermi!

Chi è malato, ricordi però che non è mica tale per far guadagnare il Paradiso agli altri con le sue impazienze… se nell’eccesso del male i nostri scatti, le nostre impazienze hanno un’attenuante, non dobbiamo abusare mai della nostra condizione e dell’altrui bontà per crederci lecito ogni capriccio. Soprattutto dobbiamo guardarci dal coltivare l’idea che, essendo malati, abbiamo ogni diritto sugli altri. Ricordiamo che anche gli altri hanno i loro diritti, la loro dignità di uomini e di cristiani, e ricordiamo anche, per compatirli, che pur essi hanno le loro debolezze.

Ma non dobbiamo neppure avvilirci se ci capitasse di mortificare o addolorare coloro che ci assistono: l’avvilimento non è figlio dell’umiltà e perciò non piace a Dio. Cerchiamo piuttosto di umiliarci, di chiedere scusa, di dimostrare la nostra riconoscenza per la carità di chi ci serve. Così si rassoda la carità ed è più facile ricevere da Gesù il perdono e la benedizione.

Se il malato ha bisogno di tutto, anche chi assiste il malato ha tante volte bisogno di una parola di carità, che lo rianimi, lo conforti, gli sia di premio per il suo sacrificio. Quanto bene si può fare con una parola buona! E poi preghiamo per chi ci assiste, perché con l’aiuto di Dio il peso gli sia meno grave.

Tutto ciò miei cari fratelli e sorelle, facciamolo di cuore, e facciamolo per amor di Gesù che tanto ci ama, e della nostra Mamma celeste, madre del bell’Amore.

Viviamo sempre nella luce dell’eternità, perché qui siamo solo di passaggio. Non è un passaggio molto lieto, perché siamo in una valle di lacrime; ma molte lacrime si possono asciugare con la santa carità; e col sacrificio sopportato per il prossimo molte gioie si possono acquistare in questa vita e per l’altra.

Vi ricordo, miei cari, il nostro solito appuntamento al I° venerdì del mese, e poi il grande appuntamento là, nel santo Paradiso.

Augurandovi ogni bene nel Signore, più col cuore che con la mano vi benedico.

Vostro, in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6262 Ottobre 1951

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore

La grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi.

Permettete che ancora una volta io torni a parlare ed a insistere sull’amore di Dio per questa povera umanità.

Per noi l’amore di Dio è un mistero incomprensibile, tanto più se lo poniamo a confronto con la poca corrispondenza da parte degli uomini. Un mistero di carità di fronte a un mistero d’iniquità.

Grande mistero l’amore di Dio per noi! Pensiamoci su un poco. Ha Iddio bisogno del nostro amore? Se così fosse, Egli non sarebbe più Dio, perché mancherebbe qualcosa alla sua perfezione, alla sua felicità, che non può mai venire meno, né diminuire.

Iddio dunque non ha nessun tornaconto ad amarci e a farci del bene, perché neppure i Santi, neppure la Madonna possono aumentare la Sua gloria interna, cioè la Sua intima perfezione, benché aumentino la Sua gloria esterna.

Per noi queste cose sono chiare e insieme incomprensibili. E’ chiaro che Iddio ci ama, è chiaro che Dio non ha bisogno del nostro amore, ma non riusciamo a capire perché Egli ci ama di un amore così intenso, così sviscerato, così pazzo, come diceva qualche santo.

Il vero amore.

Siamo così abituati noi, povere creature, a far tutto per interesse, anche quando ci pare di compiere degli atti di altruismo! Infatti, anche se arriviamo ad un atto disinteressato, sentiamo per lo meno il gusto dell’opera buona, forse anche il compiacimento di sentirci lodare, e qualche volta forse altri sentimenti ancor meno lodevoli. Quanto amor proprio anche in tante azioni buone!

Ma l’amore di Dio è puro da ogni interesse: per questo noi non riusciamo a comprenderlo e soprattutto non riusciamo a sentirlo. Oh se sentissimo quanto è grande l’amore di Dio per noi! Sta tutto qui, cari fratelli: basterebbe questo a farci santi.

Perciò ancora una volta vi scongiuro, miei cari: concentriamo il nostro pensiero e il nostro cuore su questa grande verità, che Iddio ci ama, non come semplici sue creature, ma come figlioli, con un amore paterno che supera in infinità e perfezione l’amore di tutti i padri della terra messi insieme.

Questo amore arriva al punto di riservare le sue tenerezze più preziose al peccatore, così come è arrivato a far sacrificare il Suo divin Figliolo per questa povera umanità che, dopo averlo ucciso, ancor oggi continua a disconoscerlo e a vilipenderlo.

E l’amore di Dio non viene meno! E Gesù continua a sacrificarsi ogni giorno sugli altari per l’umanità che lo tradisce!

Grande verità, grande mistero!

Purifichiamo l’amore cari fratelli, cerchiamo di sentire la compassione per Gesù, cerchiamo di patire insieme con Lui, perché il nostro amore per Lui venga purificato e si assomigli di più al Suo amore per noi.

Se siamo Sue membra, se siamo crocifissi con Lui, è ben necessario che Gli rassomigliamo.

Sono povere parole queste che vi dico, sono cose che già sapete: ma vi raccomando, mettetele in pratica. Guardate che tutta la nostra scienza e sapienza sta qui: riconoscere l’amore, ricambiare l’amore del nostro Dio.

Vi ricordo il nostro appuntamento del I° venerdì del mese e del 24: pregate per questo poverello che tanto vi ricorda e tutti vi porta nel cuore.

E più col cuore che con la mano vi benedico.

Vostro, in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6263 18-11-1951

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore

La grazia, la benedizione e la pace di Gesù benedetto siano sempre nei nostri cuori.

Una gravissima sciagura ha colpito la nostra cara patria: tanti nostri fratelli sono rimasti senza tetto, si son visti portar via dalla furia delle acque i loro averi, le loro case, perfino i loro cari congiunti! Chi può misurare il cumulo di dolori e di privazioni che in così pochi giorni si sono abbattuti su tante famiglie d’Italia?

Miei cari fratelli e figlioli, come mi sanguina il cuore al pensiero di tante sventure! Come vorrei poter sollevare tante sofferenze, andare incontro a tanti bisogni! Solo il Signore lo sa, Lui che insistentemente prego perché dia sollievo e consolazione agli afflitti e dia a coloro che possono la grazia grande di comprendere l’occasione provvidenziale che loro si offre di aiutare con ogni mezzo i fratelli sofferenti.

Pregate anche voi, cari fratelli, preghiamo tutti insieme e facciamo pregare: per i vivi che sono nel bisogno e per coloro che la furia degli elementi ha strappato da questa terra per condurli al giudizio di Dio. E poi facciamo tutti, quanto sta in noi, per lenire tante sofferenze, ricordando che sono nostri fratelli coloro che soffrono.

Anche se poveri, nelle nostre case non rimangano in questi giorni posti vuoti, vuoto soprattutto non rimanga il nostro cuore, chiudendosi all’altrui dolore. Facciamo agli altri quanto vorremmo fosse fatto a noi se ci trovassimo in analoghe circostanze.

Ma poi i bisogni urgenti della misericordia corporale da esercitare coi nostri fratelli non ci distolgano da un attento esame della situazione spirituale, prima nostra e poi della nostra Italia e del mondo intero.

Nostra, prima di tutto. Dobbiamo sentirci responsabili anche noi delle presenti miserie e riconoscere che abbiamo bisogno di santificarci seriamente, se vogliamo tener lontani altri flagelli.

Esaminiamoci bene, ciascuno nel proprio stato: corrispondiamo noi in pieno alle infinite grazie che il Signore continuamente ci elargisce? Noi che oggi ci commoviamo a tante sventure materiali, sentiamo ugualmente la tragedia di tante bufere spirituali del nostro prossimo?

Sapete quanto mi sta a cuore la diagnosi di tanti mali che affliggono l’umanità e in particolare la nostra cara patria! Questa nostra Italia che io vorrei chiamare il paradiso terrestre della Chiesa di Dio; questa Italia che è sede del vicario di Cristo e quindi in qualche modo la centrale di comando di Cristo sulla terra; questa Italia che Iddio ha ricolmato di grazie straordinarie, di miracoli e benefici senza numero!

E come ripaghiamo una predilezione così chiara e tangibile? Come si vive da molti che pur si dicono cristiani? Come, per esempio, viene santificata la festa, giorno del Signore? Quanti si accontentano di ascoltare una messa quasi per moda o per sport, senza curarsi di comprendere il divino sacrificio, trascurando l’istruzione religiosa, il santo vangelo, la frequenza ai sacramenti!

E come si vive nel santo matrimonio? Ci si dovrebbe preparare come ci si prepara al sacerdozio, e invece si tende solo alla ricerca del godimento, allo star bene, ad evitare tutto ciò che sappia lontanamente di sacrificio. E dire che se, invece di pensare solo a star bene, si pensasse di più a vivere da veri cristiani e a divenire migliori, si finirebbe anche con lo stare meglio! Poiché, se è vero che la vera felicità si trova solo nel cielo, è pur vero che l’unica felicità che si può avere su questa terra è quella che viene dalla retta coscienza, come dice la sacra scrittura: pax multa diligentibus Deum.

Quanti peccati salgono al cielo! Ricordo sempre il detto di una santa vecchietta, che udivo quando ero ancora ragazzetto: “su peccati, giù flagelli”.

E tuttavia, in queste pubbliche calamità non dobbiamo tanto vedere un castigo per i poveretti che ne sono vittime, quanto una voce di misericordia del Signore che ci richiama sulla retta via della virtù e del bene, perché ricordiamo soprattutto che non siamo fatti per la terra ma per il cielo.

Purtroppo sono molto pochi coloro che proclamano questa verità che la prova viene dal Signore per il nostro bene e che ricordano quanto ci sia bisogno di preghiera e di sofferenza riparatrice.

Facciamo perciò anche noi un serio esame, e se ci accorgessimo che abbiamo deviato dal retto sentiero, ritorniamo sulla strada della virtù, verso la perfezione del nostro stato.

Tanti nostri fratelli sono in errore per ignoranza, o per altre cause che solo Iddio può giudicare: l’ho visto tante volte trovandomi a contatto con fratelli nostri che disgraziatamente combattono la nostra santa religione; il più delle volte ho costatato che li ha condotti a ciò l’ambiente in cui sono stati educati, la tradizione di famiglia, un torto o un cattivo esempio ricevuto, e di loro potrebbe dire il Signore: nesciunt quid faciunt.

Questi nostri fratelli disgraziati possono dunque portare delle scuse: ma noi, noi non abbiamo scuse. Facciamo dunque un serio esame e passiamo subito alla pratica di una vita veramente cristiana, secondo il santo vangelo sine glossa, senza mutilazioni e accomodamenti.

Solo così potremo concorrere ad abbreviare i giorni della prova e a sollevare tanti innocenti e sofferenti.

Diciamo al Signore con convinzione e con ardore di carità: Hic ure, hic seca, hic non parcas, modo in aeternum parcas. O Signore, fa sentire quaggiù i rigori della tua giustizia, purché non li riservi nell’eternità!

Ma dobbiamo essere soprattutto noi stessi a mortificarci, prevenendo la mortificazione dall’alto.

Guerra, guerra al peccato!

Guerra in modo particolare al peccato, diciamo così di sistema, al peccato che entra nella pacifica abitudine, al peccato che si tollera, che si scusa e che si ama nel proprio cuore.

Il mondo ha gran bisogno di luce per redimersi: voi lo sapete bene: la fede è poca, e anche dove c’è la fede, parrebbe che fosse conosciuto solo il Credo, senza il Decalogo e i precetti; e, come se ciò non bastasse, non solo fra i senza Dio, ma persino tra di noi c’è chi attenta, con diabolica malizia, volutamente, alla stessa innocenza dei bimbi: cose che fanno inorridire e fremere di santa indignazione. E allora si capisce perché le calamità si abbattono sul nostro capo.

Chi è cristiano sa bene che il peccato fa infelici i popoli e le nazioni, che chi ha con sé la virtù ha con sé il premio, mentre il peccato porta seco necessariamente il castigo.

Per questo povero mondo, in frenetica ricerca del godimento e che è sempre senza pace e senza gioia, dobbiamo essere noi i portatori di luce, di serenità, della vera pace. In che modo? Ve lo ripeto ancora una volta: col fuoco di un amore veramente operante verso Dio e verso il prossimo; con la luce dell’esempio per chi guarda a noi credenti, aspettando da noi la prova della validità della nostra fede; soprattutto con la carità esercitata con cuore aperto e generoso e sempre illuminata dai motivi soprannaturali della nostra santa religione.

La sciagura che si è abbattuta ora su tanti nostri fratelli è un’occasione propizia per tutte queste cose insieme.

Cari fratelli, che nella meditazione dei nostri doveri personali e nell’esercizio della virtù della carità abbiamo la grazia di accostarci maggiormente a Gesù e alla nostra cara Madre celeste, esempio di ogni virtù e canale di ogni grazia. Gesù e Maria ci aiutino a santificarci e a santificare la povera umanità. Sia questa la prima preoccupazione di tutta la nostra attività e di tutta la nostra vita.

In questi giorni di dolore per tutti, vi sono vicino più che mai. Stiamo tanto uniti nella preghiera. Io ne ho tanto tanto bisogno.

Più che con la mano, vi benedico col cuore straziato dal dolore, ma tanto pieno d’amore per voi e per tutti i fratelli nostri.

Vostro, in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6264 Dicembre 1951

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore

La grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre nei nostri cuori. Voglio dire a voi, in questi tempi così difficili e pieni di rancori, alcuni concetti sulla carità fraterna, che in varie occasioni ho già detto ai miei carissimi figlioli, i quali lavorano con me nel campo tutto speciale affidatoci dal Signore.

La carità! Oh la carità è divina, è Dio stesso, come chiaramente dice San Giovanni Evangelista: Deus charitas est.

La carità è una virtù che direi essenziale per il vero cristiano, tanto che dovrebbe essere il suo distintivo, come lo era per i primi cristiani, di cui si diceva con meraviglia: guarda come si amano!

La carità non è solamente necessaria perché il Signore ce l’ha comandata sopra tutte le altre virtù, ma è anche l’arma migliore per arrivare a conquistare il cuore dei nostri fratelli e persino per conquistarne le menti.

La carità è certamente l’argomento più persuasivo: la predica più efficace e che più si ricorda è quella di un atto di carità compiuto nel silenzio e nel nascondimento a favore di chi soffre.

Lo sapete bene voi, cari ammalati, se avete avuto la fortuna di essere assistiti da uno di quegli angeli di carità che sono certe suore infermiere: umili, semplici, forse di poca o niuna cultura; eppure quante volte esse riescono a vincere il cuore e la mente anche dei peccatori più induriti o dei più superbi pensatori!

In realtà, non sono precisamente loro che vincono: è Gesù che vince per mezzo di esse; perché, quando un’anima ha una profonda carità, è strettamente unita a Dio e permette al Signore di agire in essa e per essa, quasi che Gesù e quell’anima fossero un’unica cosa, come, del resto diceva S. Paolo: Non son più io, ma è Cristo che vive in me!

Senza la carità, invece, anche se facessimo miracoli, non saremmo creduti, mentre tutti disarmano dinanzi alla vera carità di Cristo.

La carità, dunque, ci unisce strettamente a Cristo e, nello stesso tempo, ci unisce tra di noi. La carità è il cemento che unisce gli animi e forma di tutti una cosa sola: cor unum et anima una.

E’ questa l’unità che nostro Signore Gesù Cristo chiedeva ai suoi apostoli: che fossero una cosa sola tra di loro come Egli lo era col Padre: ut unum sint! – che siano una cosa sola, perfetti nella unione.

Perciò, ad evitare ogni invidia e dissapore, non facciamo mai nulla per spirito di parte o di vanagloria; ma ciascuno con umiltà stimi gli altri superiori a sé, avendo ognuno a cuore più l’interesse degli altri che il proprio; aiutiamoci scambievolmente, compatiamoci a vicenda.

Se poi nascesse qualche screzio, se venisse qualche nube ad oscurarne il limpido orizzonte della carità, subito si rinsaldi la concordia e la pace. Non tramonti mai il sole sopra le possibili dissensioni.

Siamo generosi: imitiamo il Signore che è tanto paziente con noi. Guai se Egli ci condannasse subito secondo le nostre opere! Usiamo anche noi grande longanimità, e così riusciremo a eliminare prontamente ogni pericolo di rottura.

Nolite iudicare. Non vogliate giudicare gli altri. Evitiamo perciò lo spirito di critica sui fatti e sui detti altrui. Non facciamo nella nostra mente un tribunale sempre aperto per giudicare i fratelli. Abbiamo il dovere di pensare bene: questa è carità.

Ma anche la giustizia vuole che, prima di censurare un fratello, si adducano delle prove. Ora, per far questo, occorre essere investiti dell’autorità di sentenziare: ma “chi sei tu, dice lo Spirito Santo, che osi biasimare?”. Il Signore, lo sappiamo bene, riserva a sé il diritto di sentenziare, e lo concede solamente a chi ne ha l’ufficio, perché costituito in autorità.

Noi, come noi. non siamo che dei ciechi; chi può presumere di conoscere le intenzioni del fratello? “L’uomo guarda dall’apparenza, il Signore guarda dal cuore”.

Dunque, prima che al prossimo, dobbiamo pensare a noi; così ci sarà più facile vivere e trattare con quella cordialità tutta semplice che è il frutto della vera fraternità e il premio della carità.

Carità anche con gli avversari!

Nelle lotte inevitabili per il trionfo della verità e della giustizia, per la diffusione del regno di Cristo, usiamo pure fermezza, tutta la fermezza, nel combattere l’errore, ma usiamo carità grande con tutti gli erranti. “Soffocate l’errore, dice S. Agostino, ma amate con tutto il cuore quelli che errano”.

Oh, se invece di prendere di fronte gli avversari (non mi sento di chiamarli nemici, perché anch’essi sono nostri fratelli): se, invece di inveire contro di loro, si cercasse di illuminarli, direttamente o indirettamente, con la carità e pregando per essi!

Oh sì, uniamo la nostra preghiera, alla preghiera di Gesù sulla croce: “Padre, perdona loro, perché non sanno quel che si fanno”. Possa la nostra preghiera affrettare la conversione di tanti fratelli e l’ora del trionfo di Dio sulla terra, che sarà anche l’ora della pace per la povera umanità.

Che il Signore ci conceda questa grazia, mei cari fratelli e sorelle nel Signore. In questa speranza stiamo uniti tutti in santa carità, pregando vicendevolmente, perché tutti abbiamo bisogno della misericordia di Dio. Uniti in uno stretto vincolo di carità qui in terra, ci ritroveremo uniti in un giorno che non avrà mai tramonto lassù nel Paradiso. Che tutti ci possiamo ritrovare là, insieme, a lodare e benedire il Signore per sempre.

Vi saluto e vi benedico, cari fratelli. Ricordatemi sempre al Signore e alla dolce Mamma del Cielo, specialmente nel I° Venerdì del mese. Io vi ricordo sempre, ma in modo particolare in quel giorno, il 24, in cui celebro la S. Messa per coloro che pregano per me.

Vostro, in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6265 Febbraio 1952

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore

La grazia e la pace di Gesù Benedetto siano sempre con noi. – Altre volte vi ho parlato dei fratelli carcerati, sofferenti spesso come noi e anche più di noi, siano essi colpevoli o innocenti; e io mi sono rallegrato nel vedere che voi avete condiviso quel senso di profonda pietà che io sento per questi più sventurati fratelli in Cristo, e ne avete anche dato una prova tangibile, quando avete inviato generose offerte per l’acquisto di un harmonium per un gruppo di detenuti malati.

Oggi sono lieto di dirvi che il Santo Padre, in occasione delle feste natalizie, ha voluto indirizzare ai detenuti tutti, dell’Italia e del mondo, un suo paterno messaggio, che è una meravigliosa espressione e prova del tenero affetto che il cuore del Padre comune sente per tutti i suoi figli, nessuno escluso, e tanto più, anzi, per quelli più disgraziati, anche se colpevoli.

Meravigliose quelle parole, pervase da una profonda commozione e dense di tanti insegnamenti; meravigliose e preziose; non solo per i poveri carcerati, ma pure per tutti i sofferenti e in modo particolare per i malati, prigionieri di un corpo che li tiene legati alla sofferenza.

In alcune di quelle frasi è racchiusa tutta la sapienza della rivelazione cristiana, ed io ve le voglio riportare per varie ragioni: prima di tutto perché abbiate sempre un grande amore e rispetto per la parola del Padre Comune, il Sommo Pontefice; poi, perché sentiate la comunione del dolore con tutti i sofferenti, senza disprezzare nessuno; e finalmente perché sono parole che meritano di essere meditate e possono essere fonte di grande consolazione e di più preziosi meriti.

… E’ a voi assegnata una vocazione straordinaria e vorremmo dire di privilegio: espiare per il mondo veramente colpevole; espiazione che va salutarmente congiunta con le ineffabili beatitudini annunziate dal Salvatore nel discorso della montagna: “Beati gli afflitti… Beati gli affamati e assetati di giustizia… Beati i perseguitati a causa della giustizia… Beati quando vi perseguiteranno per causa mia” (cfr. Mt. 5).

Oh se vi fosse dato, diletti figli e figlie, sparsi su tutta la faccia della terra, divedere quanto torna gradita la vostra immolazione agli occhi di Dio! di quanta efficacia ridonda per la comune salvezza! e quale assegnamento osa fare il Vicario di Cristo sulle vostre sofferenze, per ottenere da Dio la pace sincera e la vera salute del mondo in questi tristissimi tempi!

Se dalle pene che vi stringono saprete librarvi sulle ali della fede, non solo gusterete queste gioie arcane, ma le possederete così che nessuno mai varrà a rapirvele.

Non sono più dunque perduti i lunghi giorni trascorsi in codesti luoghi di pena, ov’è con voi, quasi in volontaria catena, il Nostro cuore, poiché nulla è vano agli occhi di Dio, quando il vostro volere si conformi al volere di Colui, che ha sempre disegni di misericordia e di vita.

Diletti figli e figlie!

In contraccambio dei preziosi doni che il Bambino Gesù viene a recarvi nel luogo del vostro dolore, offrite coraggiosamente e generosamente a Lui, che si è fatto espiatore fin dalla culla per i peccati del mondo, le vostre pene e la vostra tristezza con quell’ardore di fede, che trasforma le lacrime in perle, il dolore in gaudio. Lungi dallo spezzare il vostro dono, Egli ne farà titoli preziosi di misericordia, di salvezza e di grazia, per voi stessi e per le vostre famiglie, per il mondo intero e per la sua Chiesa. Non meno che dai sacri templi dedicati al suo culto, anche dalle prigioni, dai campi di concentramento, dagli ospedali, da ogni luogo dove si soffre, si piange e s’implora, si levi al cielo il profumo dell’incenso, che placa e che salva.

Non sembrano scritte proprio per noi queste sante parole?

Meditiamole e facciamone tesoro per questa vita e per l’eternità.

Vi saluto con tanto, tanto affetto. Più che mai mi raccomando alle vostre preghiere, perché ne ho estremo bisogno. Io tutti vi porto nel mio cuore, e più col cuore che con la mano vi benedico.

Vostro in C. J. aff.mo Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6266 Marzo 1952

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore

La grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi. – Poiché la nostra Associazione ha lo scopo di diffondere il regno di Gesù nel mondo, voglio che ognuno di voi abbia la possibilità di leggere e di meditare con calma il discorso che il rappresentante di Gesù, il dolce Cristo in terra, il papa, ha rivolto non solamente ai romani, ma a tutto quanto il mondo nella vigilia della festa dell’apparizione dell’Immacolata a Lourdes.

Vi prego e vi assicuro che tutti possiamo far tesoro dell’invito che Gesù ci fa – per mezzo del suo vicario in terra: il sommo pontefice – di ritornare alla vita veramente cristiana del santo vangelo, in questa ora decisiva per la salvezza della Patria e del mondo tutto.

Potrebbe essere l’ultimo richiamo; quale responsabilità per noi! vi è di mezzo l’eternità felice o infelice.

Pregate per me.

In C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6267 Maggio 1952

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore

La pace di Gesù risorto e il sorriso di Maria allietino sempre i nostri cuori. – Ai nostri cari fratelli carcerati (per i quali vi prego di aver sempre un ricordo speciale nelle vostre preghiere e sofferenze), ho cominciato ad illustrare, sul loro foglio mensile, il magnifico discorso che il Santo Padre rivolse loro in occasione del Santo Natale.

Già vi dissi che gli insegnamenti così profondi racchiusi in quel mirabile discorso, sembrano rivolti anche a voi ammalati, prigionieri le tante volte di un letto tiranno, che diventa sempre più duro; prigionieri sempre della sofferenza, che ha sposato le vostre carni e il vostro spirito.

Perché, dunque, non commentare anche per voi la parola del Padre buono, che, in nome del Padre che sta nei cieli, dice la parola di consolazione a chi soffre?

Cerchiamo perciò oggi di esaminare, sviluppare e, se riusciremo, a rendere più facile per tutti quegli altissimi concetti.

Libertà Interiore

“Non meno che per gli altri uomini – tutti quaggiù in qualche modo rei o prigionieri – per voi Gesù è venuto a recare una più nobile ed intima liberazione, quella che dal giogo e dalle catene delle passioni e del peccato redime alla pace dello spirito annunziata nella notte santa; che opera la interiore luce ristoratrice di una epifania di redenzione”.

Tutti, quaggiù, sono in qualche modo, rei e prigionieri.

Questa affermazione mi fa venire in mente un bellissimo episodio della vita di un altro grande papa, che ha onorato la Chiesa e il mondo in questo nostro secolo, Pio XI. Un’altra volta ve l’ho raccontato, ma il fatto è così bello e grazioso, che mi dovete permettere di ripeterlo per il bene delle vostre anime.

Raccontano, dunque, che un giorno, mentre passava davanti a lui una lunga schiera di pellegrini e ognuno gli baciava lestamente la mano, ecco che un giovane si arresta, impacciato e incerto. Il Santo Padre ha un istintivo moto di vivacità per sollecitare quel giovane inspiegabilmente fermo; ma intanto un prelato del seguito gli sussurra all’orecchio: santità, è cieco questo poverino.

Il volto di Pio XI s’illuminò allora della luce della più profonda carità e sollecitudine per quel figlio infelice; e la carità gli fece trovare una bellissima parola di consolazione; si chinò verso quel giovane dagli occhi aperti ma spenti, e abbracciandolo amorosamente, gli disse come in una carezza: “Figliolo, coraggio, non sei solo,

Siamo tutti un po’ ciechi”.

Sì, è vero, siamo tutti un po’ ciechi, e perciò siamo tutti un poco prigionieri, prigionieri delle nostre passioni, che ci tengono legati o almeno impacciati nel fuggire il male e nel compiere il bene; prigionieri delle false idee del mondo, che c’impediscono di guardare le realtà divine, là più in alto del sole e delle stelle, là dove c’è un padre che ci ama e che ci aiuta, che ci aspetta alla casa sua, che dovrebbe essere anche la casa nostra.

Se tenessimo gli occhi fissi al Signore, come ci sentiremmo liberi nell’usare le cose di questo mondo, quelle cose che Dio ci ha dato come mezzi per arrivare a conoscere, amare e servire lui.

Ma se noi guardiamo solo alle cose del mondo, se vediamo in esse il solo fine della nostra povera vita, ecco che noi ci facciamo noi stessi schiavi di queste cose, e mentre crediamo di sfruttarle e di goderle, sono esse che ci tengono legati alla catena, senza darci mai la soddisfazione di poter dire: ecco, io sono contento, sono sazio di felicità, non ho più voglia né bisogno di nulla.

Miei cari, una sola cosa ci può liberare dalla false idee del mondo e darci la vera luce, la visione esatta delle cose: la fede; una sola cosa ci può dare la vera libertà, la pace del cuore, l’armonia del nostro essere, la vera gioia della vita:

La grazia del Signore!

La fede è un dono di Dio, e noi l’abbiamo avuto questo dono nel santo Battesimo: forse questa luce divina in qualcuno di noi è rimasta nascosta sotto la sporca cenere di tanti peccati, ma essa certamente c’è, e Gesù non si rifiuta di farla risorgere bella e splendente in quei cuori che la ricercano con sincerità e con ardore.

E la grazia? Essa è il titolo che ci fa amici di Dio, è l’abito di gala che ci permette di entrare nel celeste banchetto, è il passaporto per il beato paradiso.

Aver la grazia nel cuore vuol dunque dire essere uniti a Dio con un santo vincolo di amore, e poiché Dio è un amico, anzi un padre che non tradisce, avere la grazia vuol dire essere tranquilli e sereni, nella dolce certezza che quel Padre onnipotente e buono vede con occhio misericordioso ogni nostra necessità e miseria, e nel suo paterno amore ci sa perdonare e ci vuole aiutare.

Ecco il grande dono che Dio ha portato agli uomini, facendosi simile a loro nella persona di Gesù.

Fortunati, mille volte fortunati noi, anche se apparentemente i più disgraziati del mondo, quando nella nostra sofferenza siamo confortati da questa divina luce della grazia!

Oh la grande medicina che è la grazia per le malattie degli uomini!

Se il mondo non fosse così cieco, se il mondo conoscesse ed apprezzasse questo dono, se facesse tesoro di questa incomparabile ricchezza, quanti mali di meno vi sarebbero per questa povera umanità!

Perché il dolore è più un privilegio che un danno, ed è quasi sempre un segno di predilezione divina; ci rimarrebbero sì dei dolori, ma sarebbero dolori dolci e soavi alle anime, e l’umanità, conoscendone il valore, invece di fuggirli, li cercherebbe a gara.

E’ quello che cercherò di spiegare nella prossima lettera, giacché vedo che un solo pensiero del discorso del Santo Padre ci ha già tenuti occupati a lungo.

Un pensiero alla Mamma

Ma non vi posso salutare senza mandar prima un pensiero alla Mamma celeste, in questo bel mese di maggio, che certamente vi trova tutti zelanti e lieti – pur in mezzo alle vostre sofferenze – nel rendere omaggio alla regina del cielo.

Fu Gesù a restituirci la grazia, e ce la restituì a costo di quel sacrificio che nelle recenti celebrazioni pasquali abbiamo commemorato e rivissuto per mezzo della santa liturgia; ma fu Maria a darci Gesù, quando all’annunzio dell’angelo, accettò di divenirne la Madre.

A Lei dunque, che già lo diede al mondo, chiediamo che ci dia Gesù e la sua grazia: a Lei, che è anche Mamma nostra e non può certamente negarci un bene che ci è così necessario.

Con questo pensiero di Gesù e di Maria, nei quali sono racchiusi la nostra gioia e la nostra speranza, vi saluto, miei cari fratelli e sorelle nel Signore, raccomandandomi alle vostre preghiere e ricordandovi specialmente i nostri appuntamenti ai piedi di Gesù e Maria, il primo venerdì del mese e il giorno 24.

Vostro, in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6268 Giugno 1952

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi. – Eccoci di nuovo idealmente riuniti attorno al Padre comune, per ascoltare ancora una volta le belle parole del discorso natalizio e a cercare di comprenderle e di trarne frutto. Io mi sforzerò di aiutarvi, con l’aiuto del Signore e della cara Madre celeste.

Sulle ali della fede

Dopo aver parlato della pace dello spirito che Gesù è venuto a recare al mondo, per mezzo della liberazione dal giogo e dalle catene delle passioni e del peccato, il Santo Padre, parlando ai carcerati, proseguiva dicendo:

“Se dalle pene che vi stringono saprete liberarvi sulle ali della fede, non solo gusterete queste gioie arcane (cioè la pace dello spirito), ma le possederete così che nessuno mai verrà a rapirvele; né le avversità degli eventi; né le asprezze del carcere, né i possibili errori della giustizia terrena, né la incomprensione degli uomini, né lo stesso rimorso, dalla grazia elevata a salutare e consolante pentimento”.

Abbiamo già visto l’altra volta che non basta essere fuori da un carcere per potersi dire uomini liberi; così non basta essere sani e ricchi per dirsi felici, mentre ci si può sentir ripieni di un’inesprimibile gioia in mezzo ai più dolorosi tormenti fisici e persino morali.

Chi di voi non ha provato almeno una volta in vita sua questo contrasto, che esiste tra la vita puramente umana e la vita soprannaturale dello spirito?

Quante volte una confessione fatta bene, un incontro ardente con Cristo nella santa comunione, oppure un soave avvicinamento del cuore alla Madonna, è bastato a far dimenticare non solo i propri dolori ma persino i propri peccati! Perché? Perché la sfera superiore dell’anima, investita dalla luce della grazia e folgorata dal fuoco dell’amore di Dio, ha assorbito tanta luce e calore, che i dolori terreni, fisici e morali, sono rimasti nell’ombra e sono divenuti cose indifferenti; anzi cose buone, perché si considerano utili per vita eterna e per la gloria di Dio.

Quello che conta, infatti, non è se la cosa piace o non piace a noi, ma se piaccia o non piaccia al Signore.

Un esempio lampante

Vi sono delle suore, in certi ordini religiosi, che hanno regole strettissime: non possono mai chiacchierare, non possono uscire di casa, hanno un vitto povero, non hanno nessun modo di temperare il freddo o il caldo, fanno altre dure penitenze: allo stesso modo ci sono anche ordini maschili, a cui sono imposte regole severissime per esempio i trappisti, che devono duramente lavorare e non si permettono mai di parlare, se non per straordinarie necessità; eppure è proprio in mezzo a queste persone consacrate alla penitenza, che si trovano le anime traboccanti della più autentica letizia.

Questa letizia l’hanno avuta e l’hanno tuttora i martiri della fede: una letizia serena e dolce, che fa uno strano contrasto con la rabbia impotente e mai sazia di vendetta e di sangue che si riscontra negli strapotenti persecutori.

Dunque non è la salute e il rigoglio fisico che danno la vera letizia, non la ricchezza, non la potenza, non i passeggeri piaceri del bel vivere; la gioia vera non viene dalla terra, ma dal cielo.

Una conclusione pratica

Allora ci deve essere la possibilità di trasformare gli ospedali e tutti i luoghi di sofferenza in altrettanti luoghi di pace e persino di gioia. Sicuro che è possibile! Basta che quella che è una croce postaci sulle spalle diventi una penitenza volentieri accettata dalle mani del Signore e sopportata con rassegnazione, in espiazione delle colpe proprie ed altrui. Quanto alle colpe degli altri, non ci dispiaccia di imitare l’Agnello immacolato, che si sacrificò innocente per tutti, anche per noi.

Quanto alle colpe nostre, non ci dispiaccia di espiarle quaggiù: meglio quaggiù che all’inferno o in purgatorio.

E il rimorso?

Ma, dirà qualcuno, non si può essere sereni e felici, quando il rimorso rode nel più profondo del cuore.

No, ci dice il Santo Padre: quando il rimorso diventa mediante la grazia, un salutare pentimento, si trasforma in una sensazione dolce e consolante. La grazia ci fa sentire la grandezza della misericordia divina, ci immerge in quell’oceano di bontà, ci lava nel sangue dell’Agnello Immacolato Gesù.

Lo stesso peccato diventa così l’occasione di una più ardente gratitudine verso il Signore e di più infuocato amore. Ecco come Iddio sa trarre il bene anche dal male.

Miei cari fratelli e sorelle, stringiamoci attorno a Gesù o Maria. Solo da essi ci può venire l’insegnamento vero di come si può e si deve soffrire per la gloria di Dio e per il bene nostro.

Questo è certo, che tutti dobbiamo soffrire e che non c’è maniera, in questa vita, di sfuggire il morso del dolore. Giacché questa è la nostra legge e noi non possiamo evitarla, cerchiamo almeno di trarne il maggior bene, come c’insegna il Signore. Ne guadagneremo anche in questa vita, ma soprattutto nell’altra.

Vi saluto, buoni figlioli. Pregate per me il Signore, come io sempre prego per voi, e ricordatemi specialmente il I° venerdì del mese, quando io celebro la S. Messa per tutti voi: e non solo me ricordate, ma tutti i sofferenti che con voi soffrono e sperano. Amiamoci gli uni gli altri con santa carità. Vi benedico con tutto il cuore.

Vostro in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6269 Luglio 1952

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi. – Ascoltiamo ancora, e insieme meditiamo, o cari fratelli e sorelle, la parola del Santo Padre. Agli innocenti che soffrono Egli dice paternamente:

“… E’ a voi assegnata una vocazione straordinaria, e vorremmo dire di privilegio: espiare per il mondo veramente colpevole; espiazione che va salutarmente congiunta con le ineffabili beatitudini annunziate dal Salvatore nel discorso della montagna: “Beati gli afflitti, …”".

“Oh, se vi fosse dato, diletti figli e figlie, di vedere quanto torna gradita la vostra immolazione agli occhi di Dio! di quanta efficacia ridonda per la comune salvezza!”

Vocazione… Privilegio…

Parole chiare, parole profonde di significato, parole consolanti, che dobbiamo bene imprimere nella mente e nel cuore, per risentirle e farne tesoro specialmente in quei momenti in cui lo sconforto tenta di deprimerci ed opprimerci.

E queste parole, notiamolo bene, non ce le dice un semplice uomo, un filosofo di questo mondo, ma ce le dice il vicario di Cristo, e ce le dice nel nome stesso di Cristo, anzi ci ripete testualmente le parole del divino Maestro: beati coloro che soffrono… beati coloro che piangono…

Solo per questo noi le crediamo queste oscure parole.

Chi crederebbe, infatti, ad affermazioni così strane ed assurde, se non ce le dicesse Uno che tutto sapeva e che, pur potendo evitare ogni dolore, abbracciò invece la povertà, la fatica, la sofferenza, la morte?

Se Cristo, che era Dio, volle soffrire e per questo venne in questo mondo, ciò sta a significare che la sofferenza è una cosa grande, degna di essere desiderata e affrontata; una cosa tanto grande sublime che c’è piuttosto da chiedersi se siamo noi degni di essa.

Vocazione significa

Chiamata – Invito

E’ Cristo stesso che ci chiama e ci invita alla sofferenza, e poiché ci chiama e ci invita a seguire Lui più da vicino, a seguitare e compiere la sua opera, bisogna veramente riconoscere che si tratta di un vero privilegio.

Tutti i cristiani sono chiamati a salvare almeno la propria anima; ma chi soffre con Cristo e in Cristo, come ci siamo proposto di soffrire noi dell’Apostolato Infermi; chi soffre così, diventa come un’ostia che viene immolata a Dio ed elevata tra la terra e il cielo per impetrare misericordia a favore della povera umanità: proprio come la vittima del Calvario.

Non è forse questo un gran privilegio?

Bel privilegio! – dirà qualcuno – soffrire innocentemente per gli altri!

Questa, infatti, è una delle cose che il mondo non può e non vuol capire.

Il mondo cerca di godere, il mondo cerca di sfruttare, il mondo rifugge dal dolore, dall’abnegazione, dal sacrificio.

Ma chi vuole imitare Cristo, chi vuol vivere con Cristo, anzi rivivere Cristo in se stesso, pensa e sente le cose in modo tutto diverso dal mondo.

Riusciamo a far nostro, il modo di pensare di Cristo, maestro di verità?

Ci sforziamo almeno di comprendere che l’invito di Cristo a sacrificarci per gli altri è una chiamata, all’Apostolato, un privilegio straordinario, che può arricchire di grazie tanti nostri fratelli?

Se comprendiamo questo e cerchiamo nella nostra povertà, di metterlo in pratica, possiamo stare tranquilli: il Signore ci è vicino con la sua croce, sì, ma anche con la sua grazia e con la sua promessa che non verrà mai meno: beati coloro che piangono!

Miei cari fratelli e sorelle, vi sono sempre tanto vicino con la mia povera preghiera e con la sofferenza. Siatemi tanto vicini anche voi, con la vostra santa carità. Stiamo uniti nel Signore, specialmente in quei giorni, in quelle ore, in cui i nostri appuntamenti ci richiamano nel cuore di questa grande famiglia, privilegiata e beata nel dolore.

Augurandovi ogni bene nel Signore, vi benedico più col cuore che con la mano.

Vostro in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6270 Settembre 1952

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi.

Eccoci di nuovo insieme, dopo una breve sosta, durante la quale però vi ho sempre tenuti vicino al mio cuore nel cuore di Gesù e di Maria, nostra madre.

Quante dispersioni, specialmente in questi ultimi anni, nei mesi afosi d’estate! Chi fugge ai monti, chi si rifugia sulle rive del mare o dei laghi, chi viaggia per il mondo in cerca di bellezze naturali od artistiche: tutti cercano di distrarsi dalla loro vita abituale, per dimenticare possibilmente i propri dolori, le fatiche e le pene da cui si rifugge, perché il dolore fa paura.

Ebbene, proprio in questi periodi, in cui il mondo folleggia più del solito, il mio pensiero e il mio affetto sono più che mai per coloro che soffrono, che languono negli ospedali e presso le famiglie, che sono dimenticati dal mondo che gode, oppure sono sì presenti al pensiero di chi è in cerca di piaceri, ma come un ricordo amaro, doloroso, che richiama a una realtà che non si vorrebbe riconoscere: la realtà che il dolore esiste e che nessuno se ne può sottrarre, quando scocchi l’ora segnata dal Signore.

Ma vi è un’altra realtà che il mondo non conosce, a cui il mondo non pensa, perché non è in grado di pensarci e di capirla. Che se la comprendesse, non sarebbe più quel mondo condannato da Cristo, ma farebbe parte della famiglia eletta del regno di Dio. E la realtà è questa: che il mondo con tutti i suoi peccati e le sue miserie, la sua superbia e il suo nulla, cesserebbe di esistere, distrutto dai fulmini della giustizia divina, se non ci fosse il parafulmine della sofferenza, che agli occhi di Dio controbilancia le iniquità degli uomini.

Devo però aggiungere una cosa. E’ abbastanza naturale che il mondo gaudente non conosca il fine e la preziosità del dolore; ma è sommamente doloroso che tanti ammalati, tanti sofferenti la ignorino; e ancor più doloroso è che non tutti coloro che soffrono e che conoscono la funzione provvidenziale del dolore, si rassegnano a questo pensiero che dovrebbe essere un pensiero di grande consolazione, che la loro sofferenza può diventare un dono prezioso da offrire a Dio per i propri fratelli, per la Chiesa tutta,per il papa.

Per il papa! Il papa, il vicario e il rappresentante di Cristo, è il primo sofferente della Chiesa, perché, se tutti i cristiani che soffrono sono chiamati dal Signore a compiere, nelle proprie membra e nel proprio cuore, quello che manca alle sofferenze di Cristo, il primo chiamato a questa sublime ma dolorosa vocazione è lui, il primo di tutti i cristiani.

E difatti, se anche non avesse altri dolori intimi e personali, egli deve sentire sulle sue spalle l’immensa responsabilità di tutta la grande famiglia cristiana e vivere in continua trepidazione per la sorte dei suoi innumeri figli, nel continuo e angoscioso timore di nuove guerre e di altre calamità. Il Santo Pio X ebbe la sorte di morire vittima – spontaneamente offertasi – per i suoi figli in pericolo; ma forse, in momenti così difficili come quelli che viviamo, è ancora maggiore sacrificio quello di sopravvivere alle umane sventure e di dover continuamente lottare in mezzo a continue preoccupazioni, sotto il peso di un lavoro così grande che solo Iddio può dar la forza per sostenerlo.

Il papa, alter Christus, soffre, come soffrì Cristo, per tutta la Chiesa, dunque anche per voi. Non vorremmo noi soffrire un poco con lui e per lui?

Quale conto fa il papa del tesoro della sofferenza! Lo ha detto anche nel discorso natalizio ai carcerati, che pur noi abbiamo meditato. “Quale assegnamento, egli ha detto, osa fare il vicario di Cristo sulle vostre sofferenze, per ottenere da Dio la pace sincera e la vera salute del mondo in questi tristissimi tempi!”. E nel discorso dell’11 febbraio al popolo di Roma, incoraggiò i buoni al lavoro coraggioso e zelante con queste parole: “Vi sostengano i dolori accettati ed offerti dei sofferenti”.

In alto i cuori!

O fratelli; non dobbiamo sentirci dei poveri spettatori impotenti nel grande gioco delle forze che lottano nel mondo per il trionfo del bene; ma dobbiamo sentirci i soldati di prima linea, quelli che oggi hanno il dovere di combattere più valorosamente e che domani, nel santo paradiso, potranno mostrare gloriosamente i segni della propria sofferenza.

Mi permetto però di ricordarvi una cosa. Noi non possiamo combattere efficacemente per Cristo se non portiamo la sua divisa. Qual è questa divisa?

Voi lo sapete: è la sua santa grazia. Quante sofferenze perdute, quante energie sprecate, per la mancanza dell’unica forza efficace: quella di Cristo, che opera in noi per mezzo della sua grazia!

Miei cari fratelli e sorelle nel Signore, non contentiamoci di soffrire, ma cerchiamo di soffrire degnamente. Solo così daremo consolazione a Gesù e alla Vergine Santa nostra Madre, solo così saremo il presidio avanzato della Chiesa, l’aiuto e il conforto del santo padre; e ci prepareremo, proprio con le sofferenze, un posto glorioso nel cielo, dove tutti, proprio tutti dobbiamo un giorno ritrovarci, a cantare le divine misericordie.

Mi raccomando alle vostre preghiere, specialmente il primo venerdì del mese e il 24. Per il giorno 25 raccomando al vostro caritatevole ricordo i poveri carcerati, perché il Signore benedica anche le loro sofferenze.

Salutandovi con affetto fraterno, più col cuore che con la mano vi benedico.

Vostro in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6271 Novembre 1952

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia di Gesù benedetto sia sempre nei nostri cuori, e la sua pace allieti la nostra povera vita di pellegrinaggio verso la patria beata.

Qui, ai piedi del mio crocefisso, vado meditando sulle condizioni dell’ora attuale, e voglio far parte anche a voi delle mie ansie, perché, come tante volte vi ho detto, i sofferenti hanno una parte importantissima nella vita della Chiesa, nella salvezza dei loro fratelli.

La Redenzione

Anzitutto penso al grande beneficio della divina misericordia verso la umanità: la redenzione compiuta dal Figliolo di Dio fatto uomo.

Gesù ha redento tutti gli uomini: tutti sono sua conquista, per tutti egli ha versato il suo preziosissimo sangue.

In potenza, dunque, tutti sono già salvati; ma purtroppo molti ancora non hanno ricevuto nemmeno la cognizione di questo divino beneficio. Come avverrà la loro salvezza? Per loro ci sarà – passatemi la parola – una amministrazione a parte, che non spetta a noi di indagare. A noi spetta pensare ai casi nostri, di noi cristiani, che abbiamo a nostra disposizione tutto il tesoro infinito della redenzione.

Dopo venti secoli

Ora osserviamo: dopo 20 secoli di vangelo, come viviamo noi cristiani?

E’ doloroso constatarlo, ma dobbiamo pure guardare in faccia la realtà, e non nasconderci nulla, per non creare illusioni: oggi l’umanità redenta, quella illuminata dal vangelo, santificata dalla grazia, vive in gran parte come se non fosse nemmeno venuto il Redentore, e non avesse parlato, insegnato, dato una dottrina che è l’unica valevole a guidare il nostro cammino quaggiù.

L’ora attuale è un’ora terribilissima: non mi stancherò di ripeterlo, cari fratelli; non esagero, sapete! è un’ora che raramente si è riscontrata nella storia della umanità. Le cose vanno male, molto male: lo vedete anche voi; il domani si presenta sempre più minaccioso.

E perché siamo ridotti a questa situazione così tragica? La risposta è unica: perché gli uomini, i cristiani non vivono secondo il vangelo.

Gli uomini si sono inorgogliti dei loro progressi e hanno voluto far senza di Dio, hanno superbamente escluso Iddio dalla vita privata e pubblica, hanno messo in disparte la sua divina legge, sostituendola col proprio arbitrio; hanno dimenticato volutamente il fine supremo della vita, e si sono attaccati alla terra, cercando qui il loro ideale di vita!

Fatti di spirito e di carne, gli uomini hanno rivolto tutte le loro cure alla carne, e trascurato lo spirito; hanno cercato il piacere del senso, le soddisfazioni della carne, sacrificando ogni esigenza dello spirito; e per giusto castigo di Dio hanno reso pesante, tormentosa, talvolta insopportabile la vita stessa materiale. Quante miserie affliggono l’umanità moderna! Donde mai se non dal peccato?

Peccato

Oh, il peccato! La gran brutta cosa che è il peccato, causa di ogni male su questa terra!

Gli uomini ne hanno perduto il concetto, non ne hanno timore; lo commettono a occhi aperti, con una sfacciataggine che riporta l’umanità ai peggiori tempi del paganesimo, quando il demonio della impurità dominava indisturbato nel mondo! Ma i pagani meritavano qualche attenuante, perché non avevano mai avuto tante grazie, tanti lumi; noi no: noi abbiamo la dottrina di Cristo, abbiamo i comandamenti del Signore; noi abbiamo la fede, che ci addita il paradiso nell’altra vita e la benedizione di Dio in questa se serviamo fedelmente il Signore, e ci minaccia l’inferno se manchiamo alla fedeltà.

Eppure, si pecca! si pecca in privato, e si pecca in pubblico, senza timore, senza rossore, senza ritegno di sorta!

Oh, quanto è urgente che noi cristiani consideriamo questo dolorosissimo stato di cose, e intraprendiamo una guerra a fondo contro il peccato: e prima di tutto in noi stessi, abborrendo il peccato come l’unico vero male; poi negli altri, lavorando con l’esempio e con la parola per illuminare i fratelli a conoscere l’abiezione in cui cade il peccatore, e il pericolo della dannazione eterna che porta il peccato.

La famiglia

E qui si para dinanzi il triste stato in cui si trova la famiglia cristiana. Credo che tutto o quasi tutto dipenda dai disordini morali che il diavolo ha introdotto nelle famiglie.

La famiglia, infatti, è il nucleo della società umana, la cellula vivente che dà i membri del consorzio umano. Viziata la famiglia, è viziato tutto il corpo; sanata la famiglia, è sanato il corpo intero: di questo sono convinto. La famiglia, nel linguaggio cristiano, vien chiamata il santuario domestico. Vi sembra proprio che tutte le famiglie di oggi meritino questo nome? O non siano piuttosto dei ruderi quali abbiamo visto durante i bombardamenti delle nostre contrade? Una volta era un onore e un vanto per genitori cristiani l’aver prole, averne una corona numerosa: i figli erano ritenuti una benedizione, e giustamente. Oggi, oh quanti cristiani (dico cristiani, e lo dico con le lacrime agli occhi!) osano limitare il dono di Dio, si oppongono alla Provvidenza di Dio, rifiutano vilmente le nuove creature, riserbandosi il piacere inerente alla vita matrimoniale senza assumerne il nobile compito. Uno, sì; due tutt’al più, ma basta! Ecco che cosa dicono tanti genitori cristiani! E non sono parole soltanto, ma sono orrendi delitti contro le leggi più sacre e inviolabili della natura; sono veri assassini di vite in germe, crudeli stragi di innocenti, a confronto delle quali è nulla quella di Erode.

E si crede che sia un niente, una cosa leggera, scusata dal bisogno, dalle difficoltà economiche, dalla scarsità di locali… e andate dicendo; puri pretesti, che non dovrebbero nemmeno venire in mente a un cristiano, a un uomo ragionevole. Godere, godere, senza alcun dovere: ecco la smania di tanti genitori moderni. E si illudono di essere cristiani! magari vanno in chiesa, perfino frequentano i sacramenti! Hanno perduto la sensazione del peccato, e di quale peccato! Di quello proibito da Dio con le parole; non occìdes! non ammazzare!

E non crediate che si tratti di casi isolati. Si può dire che le guerre, per quanto riguarda i morti, sono un niente a paragone di questi delittuosi controlli. Altro che bombe atomiche! Questo peccato è una bomba atomica permanente, che fa vuoti spaventosi nella famiglia cristiana, e provoca i castighi più tremendi. Sì; castighi: perché se è vero che il peccato ha la sanzione con sé anche in questa vita, immaginiamo come l’ha tremenda questo peccato tra i più enormi. Un figlio solo o due al più; ed ecco quell’unico figlio che diventa il tormento dei disgraziati genitori, e costa materialmente e moralmente più che non sarebbero costati dieci figlioli accettati dalle mani di Dio Padre. La malattia, la morte lo toglie anzitempo a quei genitori sciagurati; la guerra lo strappa al loro fianco per immolarlo sui campi di battaglia, quasi sempre senza vantaggio dei popoli, sempre con indicibile strazio dei genitori! Giusto castigo di Dio! chi non ha voluto quelli che Iddio offeriva, restano privi di ciò che tanto amavano. Dio non voglia che molti debbano constatarlo a proprie spese.

Vita Cristiana

Se poi guardiamo come si vive in famiglia, oh, quale doloroso spettacolo! chi direbbe che sono famiglie cristiane queste, nelle quali non si prega, non si frequenta regolarmente la chiesa, ma solo saltuariamente a dir tanto; non si santifica la festa, ma piuttosto la si profana continuamente con peccati, bagordi, dissipazioni…? Che cosa imparano i figli, che non vedono mai i genitori inginocchiati a pregare? Mentre dovrebbero essere i primi, questi genitori cristiani, ad insegnare l’arte di pregare, chiamando i figli attorno a sé, e congiungendo le mani dinanzi all’Altissimo. Che cosa imparano i figli, da genitori che nei discorsi e nella pratica non apprezzano che i soldi, il piacere, il divertimento…? Che non frequentano la chiesa, oppure – peggio – pretendono conciliare una esteriorità di religione con una vita spensierata, materiale, se non addirittura contraria al cristianesimo?

Come possono crescere i figlioli, se l’ambiente di famiglia è saturo solo di vanità, di divertimenti, di smania per il piacere? Quanti, che in pieno cristianesimo, fanno consistere la vita nel divertirsi? I divertimenti ci vogliono, sì; ma in misura opportuna, con moderazione. C’è qualcosa d’altro che preme: majora premunt, dicevano gli antichi. I divertimenti devono essere un sollievo per chi è stanco, non un peso, una fatica; devono essere una parentesi di serenità in mezzo ai quotidiani doveri, non prendere il posto di questi, magari a scapito dell’anima, come purtroppo avviene in tutte le domeniche e feste (fosse soltanto in queste! Ché ormai tutti i giorni della settimana vogliono essere segnati dal divertimento).

Qual meraviglia se le cose vanno male?

Istruzione religiosa

Punto cruciale, per conto mio, è questo: difetta tra i cristiani la istruzione religiosa.

Senza istruzione, non si valutano le cose secondo il merito, ma secondo criteri errati. Il peccato diventa una cosa da nulla, la messa festiva non è che un peso, come una tassa da pagare, puntualmente sì, ma svogliatamente; i figli sono… una seccatura, che impongono fatiche, preoccupazioni; la preghiera è una cosa da vecchierelle… e via di questo passo.

Entriamo nelle nostre chiese, nel pomeriggio di festa, ora di catechismo; che spettacolo desolante! C’è un vuoto impressionante: pochi ragazzi, spesso irrequieti (sanno di essere lontani dall’occhio dei genitori, perché essi… non vengono al catechismo!); alcune donne, qualche raro uomo… tutto lì. Dove sono i cristiani nell’ora di catechismo? Un’ora sola, non la trovano per istruirsi. Ne trovano poi tante per divertirsi, spendendo soldi, sacrificando tempo, adattandosi a lunghe attese, sottoponendosi a ore di sole cocente, o di pioggia, a vento e intemperie, d’estate e d’inverno… E sì, il catechismo non toglie loro il tempo di un onesto divertimento!

Quale meraviglia se poi vediamo i cristiani vivere così male? quale meraviglia se alla messa del mattino (quando ci vanno!) assistono come gente che non capisce nulla del grande mistero? Stanno in piedi, distratti, assenti con lo spirito, senza mai una preghiera sul labbro, impazienti che giunga la fine per uscire frettolosi, magari prima il sacerdote lasci l’altare! Effetto di ignoranza. Non conoscono quello che il Signore compie nella santa Messa; non sanno che ripete il sacrificio del Calvario per la loro salute e santificazione; essi non veggono che un sacerdote rivestito di speciali paramenti, che mormora latino, si muove sull’altare, predica delle cose che per loro non hanno interesse… e non vedono l’ora che sia finito.

Non deve un cristiano contentarsi di una messa festiva, per la santificazione del “giorno del Signore”; non basta, non è sufficiente: bisogna fare dell’altro; e si farebbe dell’altro, se ci fosse amore a Dio: l’amore non dice mai basta. Manca l’amore; e manca tutto con esso. Bisogna istruirsi, bisogna approfondire le verità della fede; e, dato che non si può farlo altrimenti, bisogna andare al catechismo festivo.

E’ un punto di capitale importanza, per la rinascita di un mondo migliore. E’ un punto che a noi sacerdoti e religiosi deve stare a cuore sopra qualsiasi altra cosa: è il problema dei problemi da risolvere quanto prima, senza indugi.

I “Grandi” del mondo politico fanno convegni, riunioni, studi e discussioni per dare assetto al mondo: e fanno bene; ma tutto andrà invano, se non si risolve il problema religioso, il ritorno dei cristiani al cristianesimo vissuto. Né si potrà ritornarlo tale se non si dà mano alla istruzione religiosa, in tutte le forme, specialmente col favorire la frequenza al catechismo festivo.

Vita pubblica

L’abbandono di Dio da parte dei cristiani nella loro condotta personale, e nella famiglia, ha portato come conseguenza il distacco della società da Dio.

Nelle relazioni pubbliche: tra classe e classe, tra popolo e popolo, tra sudditi e autorità non si vuole che abbia influenza la religione, il vangelo. Eppure Iddio è padrone supremo della società, come lo è dei singoli uomini; è giusto quindi che Egli regni sovrano nella vita pubblica come in quella privata.

Ora noi siamo spettatori e testimoni di quello che succede quando si esclude Iddio dalla società: le guerre mondiali, con tutto il corteggio di sciagure, e lagrime, e sangue; la infedeltà ai patti, le inimicizie fatali, le incomprensioni, il permanente pericolo di complicazioni internazionali… tutto effetto di questo laicismo che ha avvelenato la vita pubblica moderna.

E nei singoli stati? Nella nostra Italia, nazione favorita dalla Provvidenza, centro della religione di Cristo e sede del papa: come si vive la vita cristiana? chi direbbe, girando nelle nostre città, che siamo tra i cristiani? I viaggiatori stranieri, quale concetto si faranno del nostro grado di religione?

Una moda procace si esibisce ad ogni passo, non solo nelle città, ma perfino nelle campagne; spettacoli che farebbero arrossire i pagani stessi; stampa murale contraria ad ogni senso di pudore; giornali apertamente nemici della religione, che spargono calunnie e dispregio su tutto ciò che vi è di più santo; gioventù con i segni di avanzata corruzione… Aggiungete l’assenza di ogni senso di religioso nelle varie attività di lavoro e di studio. La religione in una parola è riguardata come una cosa secondaria affatto, anzi una cosa di cui si debba vergognarsi… E questo fra cristiani, fra gente che è stata redenta da Cristo, strappata alla schiavitù del demonio, salvata dall’inferno e destinata al paradiso! E’ davvero una mostruosa ingratitudine!

Bisogna rimediare e presto! altrimenti si andrà di male in peggio. Iddio deve ritornare da sovrano nella vita pubblica; il mondo deve vedere nelle nazioni cristiane il faro di luce che guida tutte le genti.

Bestemmia

E un altro peccato disonora e avvelena la vita delle nostre contrade; la bestemmia sfacciata e continua che risuona nelle nostre contrade, nelle officine, nelle case… come una sfida alla religione, alla civiltà, alla cortesia… Come si può spiegare che i cristiani offendano il Signore con linguaggio da demoni? Satana odia Iddio; ma, non ha lingua per offenderlo: si serve allora della lingua umana, dono grande del Signore. La bestemmia è uno dei più gravi scandali che imperversano nelle nostre contrade e nelle nostre case. Dobbiamo lavorare per togliere affatto questo orribile delitto, onta e vergogna delle nazioni cristiane.

Di chi la colpa?

Di tutto questo, e di altro ancora che non accenno, e voi indovinate, di chi la colpa?

Non dubito, o miei cari fratelli, di dirvi che la colpa è tutta nostra, di noi cristiani.

Si ha un bel dire della nequizia dei tempi, della guerra alla religione, delle persecuzioni: ecc. Ma alla fine dei conti, il male sta in noi; non viviamo da cristiani; se vivessimo bene, secondo il vangelo, la religione guadagnerebbe terreno ogni giorno più, e si affretterebbe il trionfo di Cristo su tutto il mondo.

Le persecuzioni dei primi secoli, infatti, fecero un gran male, sì; ma non impedirono al regno di Cristo di dilatarsi; anzi, diedero spettacolo di gloriosi martiri e fecero scrivere le pagine più splendide della storia umana.

E anche le persecuzioni moderne, tanto ingiuste e deplorevoli, non riusciranno che di vantaggio se noi viviamo la nostra fede: il sangue dei martiri di oggi sarebbe – come ieri – seme di nuovi cristiani.

I mali nella Chiesa, o miei cari, sono sempre venuti dal di dentro, dai cristiani stessi; donde mai le eresie e gli scismi? Non certo dai pagani! Eresie e scismi hanno rotto, nel corso dei secoli, quella unità che Gesù Cristo ha tanto raccomandato; hanno affievolito quella carità che Egli ha dato come contrassegno dei suoi diletti.

Oggi più che mai è sentito il bisogno di ritornare alla unità dei cristiani. Ma come si può ritornarvi? Solamente rifacendo la strada: l’unità è stata rotta perché si è raffreddata la carità; amore di Dio, amore dei fratelli. Il cammino inverso vuole che si ravvivi la carità nei cuori degli uomini; la carità prepara l’unità.

Bisogna dunque riaccendere l’amore di Dio nei cristiani; bisogna riaccendere nei cristiani l’amore del prossimo.

Compito arduo, che il Signore affida a noi cristiani, specialmente sacerdoti religiosi di questi tempi.

Mano all’opera

Si dirà che il compito è superiore alle nostre forze; l’impresa è impossibile; i mali troppo gravi e radicati… Tutto vero; ma proprio per questo non bisogna perdersi d’animo, e anzi darsi le mani d’attorno per apprestare subito i rimedi. L’opera di risanamento dipende da due fattori: Iddio, e gli uomini.

Iddio potrebbe fare tutto Lui; ma nei disegni di sua Provvidenza si serve degli uomini. E’ un gesto di sovrana degnazione, che nobilita l’uomo al grado di cooperatore di Dio!

Ora, nella ripresa – come sempre – ciascuno deve fare la propria parte, se si vuole riuscire; l’unione fa la forza.

A noi uomini – a noi cristiani, e soprattutto sacerdoti e religiosi – quale parte spetta? Facciamo questa parte, compiamo il nostro lavoro: e Iddio farà il suo. Noi faremo un niente; ma Iddio colmerà questo niente con la sua grazia e benedizione: e l’impresa riuscirà certamente. Non sappiamo quando: ma sicuramente Iddio trionferà, se noi diamo mano subito all’opera. “Siamo servi inutili”; ma se compiamo il nostro “servizio”, per quanto piccolo e inadeguato all’impresa Iddio farà da pari suo.

Nostro “servizio” assegnatoci dal supremo Padrone, è di vivere praticamente il vangelo, osservare la legge di Dio, amare Iddio, amare il prossimo. In questo servizio troviamo la nostra felicità anche qui in terra; ma non è niente in tutto a confronto del gaudio che ci sta preparando il cielo per tutta una eternità.

Compiendo questo nostro servizio, noi procuriamo la prosperità privata e pubblica degli individui e delle nazioni; perché, se è vero che “il peccato rende misere le genti”, è vero che “la giustizia le rende felici”.

Le difficoltà immani dell’impresa, lungi dallo scoraggiarci, devono stimolare i nostri sforzi. Non vediamo come la scienza è progredita, proprio per non essersi scoraggiata mai? L’uomo, per esempio, davanti alle malattie e alla morte, ha studiato, ha scrutato con una pazienza e perseveranza mirabili; ed oggi, quante malattie vengono guarite facilmente, che ieri erano mortali? Così dite negli altri campi della scienza; l’uomo ha forato le montagne, ha corso i mari, i cieli, ha creato macchine svariatissime… non si è fermato a constatare e deplorare le difficoltà, ma ha dato mano all’opera: ecco il segreto di tanto progresso.

Facciamo altrettanto nel campo spirituale; e, non solo troveremo vie nuove per apprestare i rimedi, ma siamo sicuri di avere dalla nostra parte Iddio: e, con Lui tutto riesce.

Il cristiano è stato definito “homo mixtus Deo” un uomo composto di Dio, parte uomo, parte Iddio. E’ la grande realtà operata da Cristo con la sua redenzione. Come può dubitarsi dell’esito felice, se Iddio è con noi, e noi siamo con Dio?

Tre armi spirituali

Ho pregato e riflettuto lungamente su queste verità; mi sento di dirvi il mio pensiero sulle armi da usare nella lotta spirituale che si sta combattendo.

E anzitutto, mi sembra che noi non sempre conosciamo i nostri avversari, o almeno non li conosciamo bene.

Sono nostri fratelli, figli anche loro del medesimo Padre che sta nei cieli, redenti dal medesimo Gesù Cristo, e chiamati alla santa Chiesa. Essi non seguono i dettami della religione, negano Iddio, il Redentore, la Chiesa, la eternità: tutto insomma quel patrimonio che la bontà del Signore ci ha voluto affidare perché sia guida al nostro cammino su questa terra verso la beata patria del cielo.

Ma, perché negano queste sacrosante verità?

Poveretti! Chi sa quante attenuanti meritano davanti al Signore! Spesso non hanno avuto una istruzione adeguata, o forse nessuna istruzione; non hanno sentito parlare di religione, se non in senso cattivo, da persone male intenzionate, veri ministri del demonio nemico di Dio. Forse sono cresciuti in ambiente viziato, dove la miseria materiale andava di pari passo con quella morale; o forse in mezzo alle ricchezze idolatrate, che fanno perdere ogni senso di coscienza e di religione.

Non di rado, nelle scuole hanno avuto maestri increduli, sprezzatori della Fede, denigratori della morale umana e cristiana.

Più spesso, poi, la corruzione del mondo li ha presi talmente da renderli materiali, smaniosi soltanto di piaceri bassi e sensuali, che attutiscono lo spirito rendendolo incapace di comprendere ciò che riguarda Iddio e l’anima.

Forse – ed è con sommo dolore che dobbiamo fare questa constatazione – forse sono lontani da Dio per colpa nostra personale: in noi non hanno visto la fede messa in pratica; anzi, troppo spesso hanno visto nella vita dei cristiani la più aperta negazione della fede stessa. A che serve la nostra fede se non si traduce nella pratica? E’ fede morta, che non opera nulla, anzi peggio ammorba, scandalizza…

Quanta colpa da parte nostra! Ci pensiamo noi?

Gli avversari, nostri fratelli, sono spesso l’opera delle nostre mani; eppure, sotto la scorza ruvida e spinosa, pungente e bruciante che hanno contro di noi, si celano tesori di bene che non pensiamo neppure; c’è spesso tanto buon cuore, c’è un vivo amore per il prossimo dolorante e bisognoso; c’è una dedizione generosa alla causa abbracciata, al programma prefisso, che noi non arriviamo ad avere per il santo vangelo! Davvero sono anche per noi le parole di Gesù: “Imparate dai figli delle tenebre…”

Tutto questo substrato di bontà, che si trova sotto la ruvida scorza, (faccio eccezione soltanto per pochissimi intelligenti, veri strumenti di Satana) è un elemento che deve infondere in noi un grande amore per loro, ed è terreno dove la Provvidenza prepara il loro ravvedimento, la loro riunione cordiale con noi, nell’ora di Dio. Molti di essi sono tesori nascosti ai nostri sguardi; e noi con troppa semplicità li crediamo cattivi…

Noi non li conosciamo bene, perché troppo superficialmente li giudichiamo dalle apparenze.

Dobbiamo cercare di conoscerli meglio, per amarli di più, amarli fino ad assorbire il loro odio per noi e cambiarlo in amore fraterno.

Con l’errore non dobbiamo mai venire a compromessi, certamente! ma con gli erranti dobbiamo usare tutte le delicatezze dell’amore, dell’affetto cordiale, passando sopra a molte cose personali, per mirare allo scopo supremo, che è di salvarli per il Signore; non importa se noi dovessimo subire umiliazioni, sacrifici, ingiurie… Tutto è bene speso, quando si tratta di salvare le anime! Gesù Cristo non ha risparmiato una goccia del suo sangue per esse!

Le tre armi

Nella lotta per il finale trionfo della Chiesa e la conquista dei nostri cari fratelli, ritengo che dobbiamo usare queste tre armi:

Prima: pregare per i nostri avversari.

Sono nostri fratelli, erranti lungi dalla casa paterna. Noi con le nostre vedute, con le nostre forze, discussioni ecc. non concludiamo nulla se non interviene la grazia del Signore. L’esercito nemico è compatto, numeroso: umanamente formidabile e invincibile; non dobbiamo nasconderci la tremenda realtà. Il Signore è onnipotente; può darci la vittoria, e ce la darà; ma dobbiamo meritarcela, con la preghiera specialmente: dobbiamo fare un santo bombardamento spirituale sul campo nemico, invocando dal Cielo dardi di amore, di luce, di carità.

Quando venne la giusta condanna del Santo Ufficio contro gli aderenti al comunismo ateo, molti cristiani dicevano: ben lor sta! La ci voleva!… Quanti hanno sentito compassione per gli ingannati? eppure l’amore genera di per se stesso la compassione; la compassione muove lo zelo verso i fratelli. Perciò dobbiamo pregare per questi fratelli, mortificarci per loro, organizzare preghiere anche pubbliche per la loro conversione: è una grande disgrazia che si trovino in quelle condizioni!

Crediamo davvero nella preghiera: ricorriamovi con fiducia; è un’arma potente.

Seconda: Stimare il bene che c’è negli avversari. Ce n’è tanto, più di quel che si crede. Non tutto in essi è cattivo; ci sono tante idee buone, che meritano stima. Sono residui di quello che il Signore depone in ogni uomo che viene al mondo. Attacchiamoci a questo bene: sarà un appiglio per conciliare la fiducia degli avversari, avvicinarli a noi. In tal modo daremo ad essi l’esempio della vita totalmente cristiana e il bene che è in loro troverà il suo giusto completamento in noi e si nobiliterà assurgendo all’ordine soprannaturale, conforme alla santa Legge di Dio e le esigenze della natura.

Terza: Lavorare con tutte le forze perché ritornino al Signore.

Spesso c’è nel campo nostro una smania di distruzione; si vorrebbe che il Signore annientasse con prodigi spettacolari il campo avversario. Siamo anche noi un po’ come i due apostoli che volevano invocare il fuoco dal cielo sui samaritani che respingevano il Maestro. Invece, il vero spirito di Cristo, che ci anima alla lotta, vuole che salviamo i fratelli, che li riconduciamo sani e salvi alla casa paterna. Come Davide, in guerra difensiva contro Assalonne ribelle, raccomandava ai suoi soldati: Combattete, sì, ma salvatemi il figliolo! così mi sembra ci dica il celeste Padre: Combattete, sì, da forti, contro l’esercito del male che avanza formidabile; ma salvate ognuno di quegli avversari, che è mio figliolo adottivo e diletto, redento dal sangue del mio Unigenito.

Noi abbiamo la grazia di possedere la verità: è un dono del Signore, e dobbiamo farne parte a tutti i fratelli. I nostri avversari sono nell’errore, eppure credono – molti di loro – di essere nella verità. La verità è una sola: quella che il Signore ha dato alla Santa Chiesa. Un solo Dio, una sola vera religione, una sola verità. Ma questa verità non è un privilegio di pochi, bensì un patrimonio di tutti.

Carità grande, dunque, e sforzo di salvare i fratelli, per poterli abbracciare generosamente, e fare festa con essi nella Casa del Padre.

Conclusione

Ecco tre armi, che mi pare ci vengano offerte dal Signore degli eserciti per combattere, per vincere la santa battaglia del bene contro il male.

La nostra santa Religione consta di due elementi: l’elemento divino, che mai e poi mai verrà meno; l’elemento umano, che partecipa di tutte le miserie delle cose terrene, e quindi ha bisogno di revisioni, di riforme generose, di aggiornamenti nella luce di Dio, sulla base insostituibile delle verità eterne, e sotto la guida dei legittimi pastori.

Occorre mettere mano all’opera! correggere, riformare, aggiornare coraggiosamente, questo elemento umano; soprattutto occorre che viviamo francamente la nostra fede, per essere davvero spettacolo agli uomini che ci combattono, eppure devono esser presi dal fulgore della luce divina che irradia dalla nostra vita cristiana.

Due mezzi – fu scritto – possono annientare il comunismo ateo: la guerra, e questo non è per noi cristiani, non varrebbe che a rovinare tutto; la vita integralmente cristiana della maggioranza dei cristiani: e questo è proprio per noi l’unico mezzo possibile, suggerito dalla ragione e dalla religione.

Pensiamoci seriamente e provvediamo.

Miei cari fratelli, spero che le mie parole trovino eco e consenso nei vostri cuori e, per mezzo vostro, nel cuore di tanti altri fratelli. Comunicate queste idee ai vostri amici, a tutti quelli ai quali prudentemente potete dire una buona parola, ma soprattutto vivetela in voi stessi con la preghiera ardente e il sacrificio accettato. Vi saluto e vi benedico, augurandovi ogni bene nel Signore e raccomandandomi alle vostre preghiere.

Vostro in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6272 Gennaio 1953

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la pace e la gioia di Gesù benedetto siano sempre con noi. – Risuonano ancora al mio orecchio e si ripercuotono dolorosamente nel mio cuore le parole commosse e accorate del messaggio natalizio del Santo Padre a tutto il popolo cristiano e poi nell’enciclica sulle persecuzioni presenti, specialmente contro le chiese dell’oriente.

Per risolvere i tanti e così gravi problemi che travagliano l’umanità, sarebbe necessario che tutti gli uomini si unissero e cooperassero con la Chiesa o per lo meno la lasciassero libera di svolgere la sua opera di difesa e di restaurazione dell’ordine morale voluto da Dio, unico mezzo di salvare questo povero mondo avviato sulla china del precipizio; invece, quanto è lontana la realtà da questa unione di cuori e di volontà!

Non solo la Chiesa deve soffrire delle passate persecuzioni, che le strapparono tanti figli e che hanno lacerato la sua unità, ma nuove persecuzioni e difficoltà rendono dura la vita anche a tante anime di buona volontà. Un po’ dappertutto, ma specialmente in tanti paesi dell’oriente, dalla vicina Jugoslavia, alla lontana Cina, l’opera della Chiesa viene continuamente misconosciuta, travisata, osteggiata e impedita in tutte le maniere, anche le più violente e dolorose. Vescovi e persino cardinali, imprigionati, vilipesi, torturati, mandati a morte; sacerdoti a centinaia e migliaia chiusi in campi di concentramento, nelle carceri, fatti sparire dalla circolazione; pochi lasciati sulla breccia continuamente sospettati, vigilati, angariati in ogni maniera, sì che non possano svolgere il loro santo ministero; i fedeli perseguitati anch’essi, solo che dimostrino un po’ di attaccamento alla loro fede, un po’ di amore al papa, fedeltà a Cristo e alla Chiesa. Persecuzioni, prigionie e morte dovunque, per la Chiesa che vorrebbe dovunque portare la vita.

Ed è Cristo che soffre nel papa, Cristo che soffre nei vescovi, nei sacerdoti, nell’ultimo dei fedeli.

Quale tremendo mistero di iniquità! E’ Satana scatenato, che rugge e percuote ed azzanna nell’ovile di Cristo.

Ma quali disegni di misericordia però da parte di Dio! Anche Satana è soggetto a Lui, e le sue opere malvagie dovranno un giorno riuscire a un più meraviglioso trionfo di Cristo.

Osserviamo bene: nell’atto stesso che Satana colpisce, le sofferenze che ne scaturiscono, formano un tesoro di meriti che il Signore raccoglie ed accumula per il giorno della riscossa, quando il sangue dei martiri – seme di cristiani – avrà dato vita a nuovi virgulti vigorosi nella grande vigna della Chiesa di Cristo.

Vediamo ancora che le persecuzioni fanno conoscere a tutti che esiste un problema religioso, che vi è una Chiesa cattolica intransigente nel difendere i diritti di Dio e degli uomini liberi, che vi sono dei cristiani disposti piuttosto a morire che a tradire la loro fede. Gente che non aveva mai sentito parlare di cristianesimo, cristiani che non avevano mai pensato alla Chiesa cattolica se non con odio e disprezzo, ora cominciano a mirarla con interesse e simpatia.

Non sappiamo quanto tempo occorrerà per raccogliere i frutti di tante sofferenze, ma quel momento verrà.

Tocca a noi, a noi cattolici specialmente, a noi che avemmo una chiamata speciale con la stessa sofferenza, tocca a noi affrettare quel giorno in cui tutti i nostri fratelli, ma specialmente quelli cristiani che hanno avuto la ventura di conoscere Cristo insieme con la sventura di rimanere fuori dalla Chiesa cattolica, tutti entreranno nell’ovile di Pietro, dove c’è intera la luce e sicura la salvezza.

Leviamo, o fratelli, il nostro pensiero a tutte queste anime in attesa di luce; leviamolo specialmente a quelli che soffrono persecuzioni nella Chiesa, e uniamo con loro il nostro cuore.

Essi soffrono per la difesa della loro anima e della Chiesa che li ha nutriti: non possiamo forse anche noi assegnare queste intenzioni alle nostre sofferenze?

Specialmente in questo mese, nell’ottava di preghiere per l’unione delle chiese cristiane separate da Roma, per la conversione dei pagani e degli ebrei, uniamoci in modo tutto speciale nell’offrire a questo santo scopo le nostre preghiere e sofferenze; confondiamo le nostre lacrime e le nostre ferite con quelle dei perseguitati; diciamo a Gesù e alla Madonna che le accolgano come espressione della nostra fede e come segno del nostro desiderio di cooperare, quali martiri lieti anche se non volontari, all’avvento del regno di Dio nel mondo.

Fortunati noi se con generoso entusiasmo ci uniamo ai nostri fratelli perseguitati in questa offerta e in questa preghiera; fortunati anch’essi, i nostri fratelli perseguitati, per essere fatti degni di soffrire per il nome del Signore! Sfortunati son soltanto coloro che hanno la disgrazia di non conoscere Dio, o peggio, si lasciano invadere dal demonio e gli prestano il loro cuore per odiare e combattere Dio e i suoi figli.

Che Iddio abbia misericordia di loro, che sono, essi pure, nostri fratelli.

Miei cari, in questa gara di sacrificio e di preghiera coi fratelli perseguitati per il trionfo della santa Chiesa di Cristo, io vi sarò più che mai vicino.

Pregate anche per me, che ne ho tanto bisogno.

Ringrazio quelli che nelle passate feste natalizie mi hanno ricordato con la preghiera e persino scrivendomi il loro augurio buono e gentile.

Tutti vi benedico più col cuore che con la mano. Vostro, in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6273 Marzo 1953

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia e la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi. – Dal nostro ultimo incontro grandi avvenimenti sono accaduti, coi quali il Signore ha voluto parlare al nostro cuore e al cuore di tutti gli uomini.

Un’altra volta Iddio onnipotente ha inviato all’umanità un monito nel quale noi dobbiamo saper vedere piuttosto la premura misericordiosa del Padre che non la giustizia del giudice.

Sono trascorsi ormai due mesi, ma voi non avete certamente dimenticato l’immenso cataclisma abbattutosi sulle coste dell’Europa settentrionale. Ed è bene non dimenticare quant’è avvenuto, chè il ricordo di quelle sciagure, mentre deve riempirci il cuore di fraterna tenerezza per coloro che ne furono colpiti e che tuttora soffrono le conseguenze, deve pure mantenerci in un salutare timore di nuovi e più gravi richiami e castighi da parte dell’Altissimo.

In quei giorni di dolore e spavento, voi avete certamente seguito con trepida ansia lo sviluppo del pericolo e il succedersi dei disastri provocati dalla furia degli elementi, contro cui vanamente, per varie settimane, lottarono gli uomini con sforzi disperati e con meravigliosi atti di coraggio e di cristiana solidarietà.

Ricordate? I tecnici, quelli che se ne intendono dell’andamento della stagione, facevano i loro calcoli, cercavano di prevedere il futuro e spiegavano le cause della catastrofe già avvenuta e di cui non si ricordava l’uguale da parecchi secoli. Sembrava che la scienza volesse scusarsi di non essere riuscita a prevedere in tempo utile il disastro per prevenirlo e subito dopo i tecnici si sono messi a lavorare di gran lena per impedire che catastrofi simili abbiano a succedere ancora. Fanno bene a fare così e noi auguriamo loro che riescano nel lodevole intento: ma ditemi un poco: credete voi che, per quante precauzioni si prendano, il Signore non abbia più la maniera di castigare l’umanità?

Basterebbe che il Signore lasciasse scatenare l’odio che cova nel cuore di tanti uomini, e una bomba atomica da sola provocherebbe un numero di vittime immensamente superiore a quello del recente disastro.

Quello che gli uomini non vogliono capire è proprio questo: che anche questi avvenimenti, e soprattutto questi avvenimenti che escono quasi dall’ordinario delle leggi della natura, sono manifestazioni di Dio per il nostro ammaestramento. E’ dunque nostro dovere chiederci: perché il Signore ha permesso questa immane sciagura?

Perché?

Non abbiamo certo la pretesa di penetrare gli occulti segreti di Dio, ma intendiamo umilmente adorare quello che per noi è un mistero, ma un mistero d’amore, poiché anche in questi dolorosissimi avvenimenti dobbiamo vedere la luce della paternità di Dio.

Dio è Padre sempre, anche quando ci visita con la tribolazione; Egli non castiga mai solo per castigare; i suoi castighi non sono altro che richiami e inviti della sua infinita misericordia; ci corregge per salvarci, ci manda delle pene perché ci liberiamo dalle colpe, dal peccato, che è l’unico vero male, l’unica vera disgrazia. Mentre infatti da una parte i peccati dell’umanità provocano la giusta collera di Dio, dall’altra parte il grido di tanti dolori e sofferenze senza nome e senza numero oh come implora e ci rende propizia la divina Misericordia!

Ma oltre a ciò, con la voce impressionante di questi avvenimenti Dio vuole potentemente richiamare sul retto sentiero la povera umanità, che è come scardinata dai sani principi dell’onestà e della giustizia, della religione e della morale evangelica.

Ma noi sappiamo che non vi può essere speranza di salvezza fuori di Cristo e del suo vangelo: Ritornare a Cristo, praticare il vangelo con assoluta coerenza, ecco per noi e per tutti il pressante ed urgente richiamo per parte di Dio.

Lezioni di carità

Un altro motivo degli sconvolgimenti che tanto ci hanno rattristato può essere stato anche quello di dare un’occasione ai popoli di aiutarsi nel dolore e nel pericolo, come infatti è avvenuto con una gara meravigliosa e commovente, in uno slancio di fraternità e solidarietà umana e cristiana. I popoli così imparano ad amarsi e questo, in mezzo a tanto male, è un grandissimo bene.

Se viviamo lo spirito del nostro Apostolato degli Infermi, noi siamo in grado di comprendere e sentire molto bene questi motivi che possono aver spinto il Signore nel far sentire all’umanità la sua mano.

Noi offriamo ogni giorno le nostre sofferenze a Dio appunto per impetrare misericordia sul mondo; come malati, molti anche immobilizzati dal male, noi siamo alla mercé degli altri e abbiamo continuamente bisogno della carità dei nostri fratelli e perciò più di tutti sentiamo la necessità che tutti si riconoscano fratelli e si amino e si aiutino vicendevolmente. Io però vorrei oggi che meditassimo insieme a che cosa specialmente il Signore ha voluto richiamarci con le sciagure del nord Europa.

Un problema angoscioso

I primi tepori primaverili mi fanno pensare a un triste problema che affligge da tanti anni il mondo cristiano. Tra poco sarà caldo e allora si vedranno di nuovo, purtroppo, gli scandali vergognosi di tanti cristiani e cristiane che si dimenticano di essere figli di Dio e con una moda invereconda offendono la propria dignità e quella dei loro fratelli, disprezzando la legge del Signore e gli ammonimenti della santa Madre Chiesa. E’ il trionfo della carne, l’orgoglio dell’io che non vuol riconoscere la propria fragilità, la pazzia della vanità che si culla di illusioni.

Io son ben certo che voi come voi non avete bisogno di richiami in questo senso. Chi ha le carni attanagliate dal male non sente più, generalmente, la superbia della carne e anche se non è grave, i suoi pensieri lo portano facilmente lontano dalle vanità di questo mondo, per concentrarsi nelle speranze migliori e consolanti della vita eterna.

Ma io parlo a voi di questo argomento triste e angoscioso, perché voglio chiedere una specialissima opera di apostolato per il ritorno dei popoli cristiani a un costume cristiano.

Sono tanti anni che il papa, i vescovi, i parroci lavorano, si affannano, soffrono nella ricerca di un rimedio a così grande male, ma i risultati voi li conoscete meglio di me: si va di male in peggio, continuamente. Che non ci sia proprio possibilità di rimedio?

Santa Crociata

Miei cari fratelli e sorelle nel Signore, io penso che se i malati uniranno le loro preghiere e le loro sofferenze, per impetrare dal Signore che ci metta Lui la mano dove gli uomini non sono riusciti, io penso che il Signore accetterà i loro voti e la loro riparazione, fatta di sacrificio e di dedizione, e userà misericordia a questo povero popolo, facendogli prima di tutto ricordare la sua dignità e facendogli intendere che la sua più grande gioia è quella di essere figli di Dio e di vivere uniti a Lui nella sua santa grazia.

Oh che grande merito sarà il nostro se coopereremo efficacemente a migliorare i costumi del nostro popolo! Che grande e bell’apostolato possiamo esercitare anche senza prediche e cose straordinarie!

Mettiamoci quindi all’opera con tutto l’impegno possibile, in unione col Signore che dà la forza per soffrire e dà l’ala alla nostra preghiera, perché essa possa volare fino al trono di Dio.

Come sarà lieta la nostra Madre celeste, Madre di purezza e di candore immacolato, nel vederci suoi stretti alleati nella battaglia contro l’inferno! E come ci aiuterà, ispirandoci i sacrifici più cari al Signore – quelli che riguardano la nostra santificazione – e aiutandoci ad affrontarli e superarli!

Santificarsi

Santificarsi: ecco la preghiera, il sacrificio che piace di più a Dio.

Santifichiamoci dunque, e in questi ultimi giorni del mese dedicato a San Giuseppe, facciamoci forti anche del suo potente patrocinio. Egli ci assista nel passaggio all’eternità.

Miei cari fratelli e sorelle, ancora una volta mi raccomando tanto tanto alla carità delle vostre orazioni. Quanto ne ho bisogno per fare fino in fondo la santa volontà di Dio, costi quel che costi! Nella mia povertà sempre vi ricordo e prego e in questo momento più col cuore che con la mano vi benedico, augurandovi ogni bene per la prossima santa Pasqua.

In C. J. Sac. J. Calabria

Vi raccomando d’esser fedeli, se vi è possibile, ai nostri appuntamenti.

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6274 Maggio 1953

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

La grazia, la pace di Gesù benedetto siano sempre con noi. – Voglio mettervi a parte di una gioia tutta particolare provata lo scorso mese, ascoltando una lezione del rev. don Isidoro Marcionetti, trasmessa dalla stazione radio di Monteceneri, in occasione della giornata dell’ammalato.

Ho trovato nei concetti da lui espressi tanta corrispondenza con i miei stessi pensieri che durante la trasmissione ho voluto fare degli appunti, e sono proprio questi che ora affido allo scritto. Mi pare che possano fare tanto bene anche a voi, così come io ho sentito in cuore nell’ascoltarli, provando un’onda di gioia e di santa letizia. Miei cari fratelli e sorelle, quanto è buono il Signore, che ci è sempre vicino e nelle occasioni più impensate ci fa giungere la sua confortatrice parola, in questa ora sopra tutto tanto oscura, nella quale vorrei quasi dire si respira il bisogno di aiuto e conforto, per capire il dono grande della sofferenza fino a poter dire con l’Apostolo: “Sovrabbondo di gioia in ogni mia tribolazione”.

Vocazione alla sofferenza

Il Signore Gesù, dopo aver avuto, sulla spiaggia del mare di Tiberiade, la triplice attestazione di amore da Pietro, alla quale Egli faceva seguire il potere di “pascere tutto il suo gregge”, rivolgendosi all’Apostolo soggiungeva: “In verità, in verità di dico: quand’eri più giovane ti cingevi da solo e andavi dove volevi, ma quando sarai invecchiato, dovrai distendere le mani, e un altro ti condurrà dove tu non vuoi”. Disse questo, – nota l’evangelista Giovanni – per indicargli con quale morte avrebbe egli glorificato il Signore. Ciò detto gli ingiungeva: “Seguimi”.

Il Signore chiama i suoi per mezzo della sofferenza: “Chi vuol venire dietro a me – disse un altro giorno Gesù – rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. E sappiamo che qualunque parola uscita dalla sua bocca non passa, ma resta in eterno.

Il Signore procede in un modo tutto suo particolare, diverso da quello del mondo: prima mostra a Pietro le sofferenze e la morte che dovrà sostenere e poi, in un secondo tempo, lo chiama a seguirlo. Così con Pietro, così con tutti. Colui che vuole amare veramente Gesù non deve farsi illusioni. La vita scelta da Gesù per la redenzione fu quella del dolore e della sofferenza, la via del suo discepolo quindi, non può essere che quella del dolore e della sofferenza. Solo su questa strada infatti, l’unica battuta da Gesù, egli lo potrà sempre avere come guida sicura.

Per cui dobbiamo conchiudere, amati fratelli e sorelle, che la sofferenza è un segno di predilezione: “Poiché eri accetto a Dio, era necessario che la tribolazione ti provasse” (così l’Arcangelo S. Raffaele a Tobia), ed è anche un segno infallibile che il Signore ci vuole salvare; solo ci chiede, come nostra cooperazione, di seguirlo, accettando la sofferenza con serenità, dalle sue mani paterne, fidandoci di Lui.

Fiducia in Dio

Fiducia in Dio quindi. Siamo come dei bambini fra le sue braccia, fanciulli condotti per mano, per la mano del migliore dei padri. Non preoccupiamoci dunque di quello che sarà di noi, gettiamoci in Lui, fidandoci della sua protezione, con la sicurezza e la fiducia di quel bimbo che, pur in mezzo ad una terribile tempesta, continuava tranquillo il suo gioco, tra lo sbigottimento di tutti i passeggeri, poiché diceva: “Chi guida la nave è mio padre: di nulla quindi posso temere”.

Se Dio è Padre, siamo certi e sicuri che tutto Egli fa con somma sapienza e bontà, e che tutto conduce e ordina al nostro maggior bene. Soffriamo dunque con pazienza, in pace. Pensiamo che, essendo noi membri del Corpo Mistico di Cristo, è propriamente Gesù che soffre in noi; quindi le nostre sofferenze sono sublimate, divinizzate, così che noi pure possiamo essere insieme con Lui, artefici della salvezza nostra e di quella di tanti fratelli.

Non lamentiamoci; non diciamo che sono inutili le nostre sofferenze. Il Signore non le giudica così. La sua vita terrena è una prova evidente dell’alto concetto che Egli aveva del dolore, come missione purificatrice e redentrice. Se Gesù ha scelto il patire come mezzo per acquistarci il paradiso, che noi avevamo perduto con il peccato, perché ora noi ci rifiuteremo di soffrire o ci lamenteremo se il Signore ci dà questo mezzo per riparare i nostri peccati? A tutti incombe il dovere della riparazione; anche se non avessimo commesso colpa alcuna, dovremmo ringraziare il Signore, ma nemmeno in questo caso lamentiamoci delle sofferenze. Esse ci associano alla passione di Gesù, l’Innocente, Agnello ucciso per i peccati del mondo, e mentre sono per noi una ricca sorgente di meriti e di grazie, ci costituiscono veramente apostoli e salvatori di anime.

Diciamo allora con l’Apostolo: “Lungi da me di gloriarmi d’altro che della croce del Signore Gesù”; non cerchiamo altrove le felicità e la pace; “la gioia vera, diceva il santo Curato d’Ars, è quella di soffrire amando. Domandiamo dunque, conclude l’amabile Santo, l’amore delle croci”.

Fiducia nei Sacerdoti

Oltre che in Dio abbiamo fiducia nei sacerdoti, angeli tutelati visibili che il Signore ci ha messo accanto per dispensarci la parola della fede, della speranza, e dell’amore che produce la vera felicità.

Cari fratelli e sorelle, ascoltiamo i nostri sacerdoti e cerchiamo di far tesoro della loro parole. Anche quando le giornate passano monotone e grigie a causa della monotonia d’un male di cui non è possibile prevedere come e quando si risolverà, stiamo con l’anima in pace, tranquilli, fiduciosi, sereni, anche perché la pace e la tranquillità dello spirito molto conferiscono al benessere del corpo.

Fiducia nel Medico

Fiducia anche in colui che ci cura; docilità e obbedienza a quanto ci dice e prescrive.

Subito dopo la cura dello spirito viene la cura del corpo. E come il sacerdozio è una vocazione sublime, che costituisce un uomo ministro di Dio e lo rende un altro Cristo, così l’ufficio del medico non è e non deve essere un mestiere, una professione qualunque come potrebbe essere quella del professore, dell’ingegnere, dell’avvocato, ecc. ma è una vocazione speciale, una nobile missione, alla quale Dio annette lumi e grazie particolari, perché: “Divinum est lenire dolorem”. E’ cosa divina, partecipa cioè di una azione di Dio, lenire il dolore, come diceva il filosofo Seneca, che pure era pagano.

Voglia il Signore far comprendere a tutti i medici la sublime e delicata loro missione e renderli degni di essa. Ma insieme quanta stima e rispetto si deve ad essi come a ministri di Dio! Senza dubbio essi pure a loro volta devono avere la massima cura e il massimo rispetto verso il corpo dell’ammalato, perché fattura di Dio, tempio dello Spirito Santo, nel quale abita la Trinità Divina. Guai a chi esercitasse l’ufficio di medico come un mestiere a scopo di lucro, e Dio non voglia, per altri fini non retti! Costui sarebbe un fallito e grave conto dovrebbe rendere un giorno al Giudice divino.

Il medico cattolico deve essere l’uomo della fede, che curando il corpo sente il dovere di aver cura dell’anima, almeno fin dove gli è consentito dalla sua nobile professione. Con le necessarie prescrizioni dia all’ammalato anche quella tanto attesa parola di conforto detta col cuore, quel sorriso che insieme rivela la segreta partecipazione alla sofferenza altrui; allora l’ammalato sentirà come diviso tra lui e il medico quel dolore che prima pensava dovesse essere tutto suo e soltanto suo. Sarà questa anzi la perfezione di quella carità verso il prossimo, da Gesù proclamata come fondamento della Legge nuova, e che ci rende familiare non solo “il godere con chi gode”, ma anche “il piangere con chi piange”.

Così, in questa luce soprannaturale, le medicine e i rimedi prescritti secondo il suggerimento della scienza per questa o quella malattia, oltre alla loro efficacia naturale potranno averne un’altra tutta particolare, quella che loro suole attribuire il Signore per premiare in tal modo la fede del medico curante e la comune partecipazione della sofferenza tra il medico e l’ammalato. “Dove sono due o tre radunati in mio nome – ha detto Gesù, il divino medico di tutti – io sono in mezzo ad essi”. Dio certamente sarà fra il medico e il malato, uniti in comunione di sentimenti e metterà a disposizione la sua infinita potenza e bontà.

Fiducia negli infermieri

Fiducia anche in chi assiste e ci somministra le medicine. Cerchiamo di esser buoni con loro e di stimarli come persone che ci amano e si prodigano per noi, e non come dei mestieranti. Durante la malattia cerchiamo di essere pazienti, non siamo degli egoisti, non pretendiamo che tutti siano sempre a nostra disposizione. Pensiamo che vi sono altri, bisognosi della medesime cure e delle medesime attenzioni che desideriamo per noi.

Ve lo ripeto, amati fratelli e sorelle: siamo buoni, pazienti, generosi. Pensiamo che gli Infermieri non sono estranei al nostro dolore, essi soffrono con noi, accanto a noi, giorno e notte, così come soffrono i nostri familiari, le persone più care al nostro cuore. Si elevi dunque sempre la nostra preghiera al Signore, quale espressione di gratitudine e di riconoscenza verso di loro; di loro e delle loro prestazioni conserviamo un perenne, grato ricordo. Per quanto dessimo, non potremo mai abbastanza ripagare la loro assistenza nei momenti più critici delle nostre sofferenze: nemmeno dobbiamo dimenticare la loro parola di fede, suadente, comprensiva, il loro sereno sorriso, che scendeva nel più intimo del nostro cuore a darci quella felicità inesplicabile, di Paradiso, che solo nel dolore sopportato con Gesù e per suo amore è dato di trovare.

Oh se anche coloro che assistono l’ammalato valutassero la nobiltà della loro missione, della speciale loro vocazione, analoga a quella del medico, a quella del sacerdote! Quanto conforto sentirebbero, specie nei momenti più difficili che essi pure possono attraversare! Purtroppo è facile lasciarsi vincere dall’abitudine e distrarre da infinite altre preoccupazioni, ma beati loro se cercheranno di non perdere di vista Gesù sofferente in ogni fratello che devono assistere; saranno certi e sicuri di partecipare alle grandi promesse di Lui, quando disse: “Ero infermo e siete venuti a visitarmi… Qualunque cosa avrete fatta al minimo dei miei fratelli l’avete fatta a me stesso”.

Valorizzare le sofferenze

Miei cari ed amati fratelli e sorelle nel Signore, valorizziamo, dunque, tutte le nostre sofferenze, a bene e santificazione nostra, a vantaggio dei nostri fratelli e del mondo tutto. Abbiamo in mano una moneta di un valore inestimabile; spendiamola bene, per carità; impieghiamola per comperare celesti tesori per noi e per tanti fratelli, affinché, essendoci trovati a soffrire insieme qui in terra, ci possiamo ritrovare uniti a goderne il frutto nella gloria del cielo.

Ancora una riflessione

Prima di finire, cari fratelli e sorelle, mi sento di invitarvi ad elevare un inno di riconoscenza al Signore per i meravigliosi doni della sua Provvidenza, messi a nostra disposizione, grazie al moderno progresso delle scienze, tra cui le innumerevoli applicazioni radio, per mezzo delle quali si annullano gli spazi che ci dividono e si creano le premesse perché si uniscano in una sola famiglia tutti i popoli. Che di questi doni così belli, così vantaggiosi gli uomini non abusino mai per il male, per le guerre e distruzioni materiali che sarebbero spaventose; tanto meno abusino in danno dello spirito convertendo contro Dio i suoi stessi doni!

La radio, particolarmente oggi alla portata di tutti, sia veicolo di bene, di bontà, di sana cultura, rinsaldando i vincoli di solidarietà umana e cristiana, affinché tutti ci sentiamo fratelli e figli del medesimo Padre celeste.

Ma tuttavia non è fuori di luogo raccomandare una santa prudenza, perché non possiamo mai sapere dove si nasconda l’insidia per la nostra anima. Dalle trasmissioni radiofoniche cerchiamo sempre di scegliere quello che è buono, utile, e rigettiamo con severa autodisciplina ciò che è di guasto e di corrotto, per non restarne imbrattati, feriti.

Oh se tutti coloro che ebbero la fortuna di comprendere il sacrificio come una missione e la santità personale come un apostolato, sapessero rigettare tutto quello che piace, che lusinga la natura, facendo trionfare sempre i movimenti e le ispirazioni della grazia, quante preziose energie soprannaturali farebbero scorrere nel Corpo Mistico per la propria santificazione e a vantaggio di tante anime!

Da parte mia faccio voti e prego, anzi invito anche voi a pregare, miei cari ed amati fratelli e sorelle, perché la radio sia sempre e soltanto strumento di bene, per voi e per tutti.

Quanto so e posso vi raccomando di pregare per me, ne ho estremo bisogno per fare fino alla fine la santa volontà del Signore a qualunque costo. Con il cuore più che con la mano benedico tutti in generale e ciascuno in particolare, augurandovi ogni vero bene nel Signore. Vi raccomando i nostri appuntamenti. Vostro aff.mo

in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6275 Luglio 1953

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia, la pace e la gioia di Gesù benedetto siano sempre con noi. – Perdonate se è trascorso un po’ troppo tempo dall’ultimo colloquio. Le nostre condizioni di lavoro non sono sempre facili e voi dovete scusarci con tanta carità e poi aiutarci con la vostra preghiera, perché sia possibile, d’ora in poi, avere più frequenti e più fruttuosi contatti.

Ringraziamo insieme il Signore e la Vergine Santa per l’esito bello della nostra Giornata degli Infermi presso il Santuario della Madonna della Pace; di questa potete leggere la relazione stampata a parte. Spero che essa si ripeta sempre più bella e sentita negli anni avvenire e spero che essa divenga presto una bella abitudine di tante parrocchie, con immenso beneficio dei malati e anche dei sani.

A proposito del nostro Apostolato, sono lieto di dirvi che il numero degli iscritti aumenta ogni mese, benché non abbiamo mai fatto una vera e propria propaganda. E’ il Signore che, attraverso i malati o qualche anima buona, di cui alle volte noi non sappiamo neppure il nome, fa conoscere e amare il nostro apostolato e soprattutto ne faccia capire lo spirito; come si comprende bene dalle molte lettere che riceviamo e che ci dicono quanto sia atteso e letto questo modestissimo bollettino, che non potrebbe essere più piccolo e povero.

Com’è ammirabile la provvidente bontà del Signore! Per parlare alle anime ed agire sui cuori si serve quasi sempre di poveri strumenti. In questo modo è più chiaro che chi fa il bene non è già lo strumento, ma Lui, il Signore, con l’abbondanza della sua grazia, con l’ispirazione di buoni sentimenti, che dispongono a leggere volentieri e con frutto le nostre povere parole.

L’Eucarestia

Questa volta vorrei dirvi due parole su di un avvenimento che tra poche settimane attirerà l’interessamento di tutti gli italiani e di tutti i cattolici sparsi nel mondo: voglio dire il Congresso Eucaristico Nazionale di Torino.

Lo so che molti di noi, per le nostre condizioni di malati, non potremo partecipare personalmente a questo grande avvenimento; ma coloro che lo stanno organizzando confidano molto nella nostra partecipazione spirituale, cioè nell’offerta della nostra preghiera e della nostra sofferenza allo scopo che il congresso di Torino riesca a sollevare tanto entusiasmo di amore verso Gesù Eucarestia.

Oh se gli uomini, se almeno i cristiani riuscissero a capire che l’Eucarestia è il sole dell’umanità e che da questo sole dipende la nostra vita e la nostra vera gioia quaggiù in terra e lassù nel cielo!

Prima di tutti noi dell’Apostolato Infermi dobbiamo, durante quest’attesa del congresso di Torino, coltivare nel nostro cuore la devozione eucaristica. Poveri noi se ci mancasse il conforto della divina presenza nei nostri tabernacoli del Medico che, passando per le strade della Palestina, curava e risanava tutti.

Maria

Se noi abbiamo una fede viva e profonda, è così ancor oggi. Non per nulla le grazie e i miracoli più strepitosi il Signore li compie, a Lourdes e altrove, durante il suo passaggio sotto i veli eucaristici. Non basta essere nella casa della Madonna: la Madonna vuol farci sentire che è Lui, Gesù suo figliolo e nostro fratello, che ci vuol bene e ci usa misericordia.

Lei, la cara Mamma del cielo, ce Lo offre, il suo Gesù, come L’offrì all’umanità in Betlemme, come l’offrì sul Calvario.

Notiamo ancora una cosa oggi che la Madonna ci offre Gesù per mezzo del sacerdote.

Gerarchia

E’ il sacerdote che Lo chiama sull’altare, è il sacerdote che Lo prega a nome dei fedeli, è il sacerdote che Lo porta alle anime affamate, è il sacerdote che Lo conduce benedicente in mezzo all’umanità sofferente, perché, come allora, curi e risani i corpi ammalati e le anime languenti.

Ecco i tre oggetti del nostro amore, i principi della nostra salvezza, il programma della nostra devozione: Gesù, la Madonna, il papa e la Chiesa, cioè il sacerdozio.

Ricordate queste tre parole: Eucarestia, Maria, Gerarchia. Con questo motto cammineremo sicuri nella via del Signore, sino all’ultima meta, il santo paradiso, dove tutti un giorno dovremo ritrovarci.

Miei cari fratelli e sorelle, stiamo tanto uniti nella preghiera e nella sofferenza. Vi scongiuro di pregare tanto per me, che ne ho estremo bisogno per fare sino alla fine, che sento non lontana, la divina volontà.

Ricordiamoci dei nostri appuntamenti e aiutiamoci vicendevolmente nel Signore.

Vostro in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6276 Ottobre 1953

Giornata Missionaria

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la pace di Gesù e la sua santa grazia siano sempre nei nostri cuori. – Perdonate se tanto tempo ho tardato a farvi giungere la mia parola, e permettete poi che questo povero sacerdote, già sulla soglia dell’eternità, vi rivolga una parola quale gli nasce spontanea dal cuore in questi tempi così difficili, eppure così importanti per l’avvenire dell’Italia e del mondo.

Sento in me una forte spinta a scrivere queste mie povere parole: mi pare sia proprio il Signore che lo vuole. Fatene quel conto che vorrete, o miei cari fratelli in Cristo, ma vi prego, meditatele seriamente.

Sono 20 secoli che Gesù Cristo ha fondato la sua Chiesa, costituendola continuatrice della sua divina missione nel mondo attraverso i secoli, facendola inoltre depositaria della sua dottrina e dei suoi esempi, dispensatrice della vita soprannaturale e divina per mezzo dei sacramenti, segni misteriosi ed efficaci della grazia.

Questa Chiesa, animata dal soffio dello Spirito Santo, ha portato immensi benefici all’umanità, non soltanto per la santificazione delle anime, ma anche per la rinascita, lo sviluppo e la prosperità della vita politica, sociale ed economica.

Ogni cosa buona che allieta la nostra vita quaggiù viene sempre da questa fonte che è Gesù stesso, vivente nella sua Chiesa, in mezzo ai suoi fedeli. Per tutto questo cumulo di bene, il Signore si è servito degli uomini: imbevuti della sua celeste dottrina, infiammati dalla sua divina carità, essi si sono prestati quali strumenti docili nelle mani dell’Eterno Artefice per operare tutte queste meraviglie a beneficio di tutti gli uomini.

Ora viene fatto di domandarci: quanti siamo cristiani? Figli devoti della Chiesa, veri seguaci di Cristo, in pieno secolo ventesimo?

Negli stati si fa con una certa frequenza di censimento dei cittadini: esso serve benissimo non solo per saperne il numero, ma anche quale forza costituiscono per lo stato nelle diverse categorie, quale ricchezza è disponibile in uomini e mezzi, quale l’andamento della vita pubblica, ecc. Ne risultano statistiche di somma importanza per la vita pratica.

Qui lasciatemi passare la parola: mi sembra proprio che Dio stesso voglia fare una specie di censimento fra noi, per vedere quali e quanti sono veramente cristiani nel pieno significato della parola, particolarmente qui nella diletta nostra patria, l’Italia, che ha ricevuto dal Signore speciali grazie di vera predilezione sopra tutte le altre nazioni. Qui infatti Egli ha stabilito la sede del Suo vicario, il Sommo Pontefice, chiamato dai santi il “dolce Cristo in terra”; qui ha stabilito il centro della cristianità; qui soprattutto ha suscitato elette schiere di santi e di campioni che hanno illustrato il nome d’Italia, oltre che la Chiesa, con le loro ammirabili opere di bene in pro di tutta l’umanità, ma specialmente dell’umanità sofferente.

Ora, quanti sono i veri cattolici in Italia? Se stiamo alle cifre ufficiali, tutti lo sono: 47 milioni quindi. Numero imponente, un vero esercito che potrebbe contare sulla certa conquista del mondo intero alla santa religione.

Ma… è proprio vero che questi 47 milioni sono cristiani anche nella realtà della loro vita?

Cristiani di nome si è dal momento che si riceve il santo Battesimo; allora il nostro nome viene registrato nei libri parrocchiali. Ma evidentemente questo non può bastare. Per essere veri cristiani occorre vivere la religione cristiana; viverla in tutte le manifestazioni della vita privata e pubblica, spirituale e materiale; soltanto così si è veri cristiani.

Non basta la divisa militare per essere vero e degno soldato della patria; è necessario onorare la divisa stessa, amare la propria patria fino all’eroismo, fino al supremo sacrificio se richiesto per la sicurezza e la difesa della patria. Soltanto così diremo che uno è vero soldato; altrimenti sarebbe una… caricatura, una maschera, una derisione di soldato; e povera la nazione, che disponesse soltanto di tali difensori.

Ora, quanti sono fra i 400 milioni di cattolici nel mondo, i veri cattolici in tutto il senso della parola?

Grande domanda che ognuno deve farsi specialmente in quest’ora grave della storia umana, mentre vanno maturandosi decisivi orientamenti per i secoli l’avvenire del mondo.

Si sente dire spesso che il cristianesimo soffre di senilità, che non è attuale, che è sorpassato. No, miei cari fratelli in Cristo, il cristianesimo non invecchia perché è divino, e possiede una perenne giovinezza. La sua luce risolve i più assillanti problemi, rischiara i più oscuri e profondi misteri; la sua forza è rinnovatrice di tutte le cose, nella piena aderenza ai bisogni, alle aspirazioni, alle mutate circostanze dei tempi. Il cristianesimo però domanda d’essere vissuto integralmente, con franchezza e coerenza, in privato ed in pubblico.

Io non ho alcun timore dei nemici di Dio e della Chiesa: inconsapevolmente essi sono strumenti nelle mani sempre vigilanti della divina Provvidenza; ma temo assai dei cattivi cristiani, di coloro cioè che si lasciano vincere dal rispetto umano, che non prestano obbedienza ai legittimi pastori, che, tradendo la loro coscienza agiscono mossi da passione, dall’odio, dall’interesse.

Come dicevo, Iddio stesso vuole fare il censimento fra i suoi figli, redenti dal sangue preziosissimo di Gesù; Dio stesso vuole, per esprimermi con linguaggio umano, fare il computo dei suoi, per procedere a una selezione. Vuol sapere quanti sono i buoni.

Mi par di vedere tuttavia anche Satana procedere al censimento dei suoi; e quanti purtroppo ve ne sono che si adoperano per lui, per rovinare le anime, per combattere il Signore! Quanti ne ha che si sacrificano, si affaticano per la causa del male, per ostacolare il bene!

Ora mi domando di nuovo: quanti ne trova Iddio, non dirò nel mondo, ma tra noi, così vicini al centro della cristianità, che vivono la vita veramente cristiana, che irradiano la pura luce del vangelo?

Il buon cristiano dà il primo posto all’interesse dello spirito, cerca prima di tutto la propria santificazione, subordinando tutti gli interessi terreni all’osservanza della santa legge del Signore, pronto a sacrificarli piuttosto che venire meno e peccare.

Il buon cristiano ha fisso nella mente che noi siamo qui sulla terra di passaggio e siamo destinati alla vita eterna; quindi tutta la sua attività è orientata a questo scopo supremo, senza compromessi, senza mezze misure.

Il buon cristiano, per ciò stesso che si mantiene fedele al Signore, diventa il migliore uomo, il leale cittadino, l’onesto operaio, il provvido padre di famiglia, il perfetto galantuomo di cui tutti si fidano e che tutti ammirano ed amano. Ed egli, col suo contegno esemplare, attira gli altri alla bontà, rende simpatica la religione ed amabile la preghiera; con la sua carità tutta amore di Dio e dei fratelli, il buon cristiano è una apologia irresistibile del cristianesimo: oggi la gente vuol vedere i fatti, poiché di belle parole ne ha sentito e ne sente fin troppe.

Se oggi i progressi della santa religione non sono quali dovrebbero essere; se talvolta, anzi, sembra che si vada indietro; se la schiera dei cattivi va ingrossando tremendamente e si profila un grave pericolo per la perdita di certe posizioni, la ragione è proprio la scarsezza dei buoni cristiani.

Chi direbbe infatti che la nostra Italia, ad esempio, è il centro della religione, guardando a come noi viviamo? Chi lo direbbe vedendo che fra noi moltissimi mancano al sacro dovere del riposo festivo, che masse enormi di uomini profanano il lavoro con bestemmie, con oscenità e turpitudini senza nome?

Chi non direbbe invece che ci troviamo in territorio pagano, vedendo appunto come non si cerca altro che il piacere anche proibito, il divertimento smodato, come facevano i pagani che non vedevano nulla più della vita presente? Chi non direbbe che siamo tra i pagani, constatando come è radicato l’odio contro i fratelli, come sono calpestati i più sacri diritti umani?

E non parliamo del resto dell’Europa cristiana e del mondo civile.

Urge mettere mano ai rimedi

E tocca proprio a noi, Italiani, così privilegiati dalla divina Provvidenza; tocca a noi cristiani, a noi cattolici prima di tutto.

Non facciamo illusioni: la lotta odierna è soprattutto lotta spirituale: è un urto formidabile del male contro il bene, di Satana contro Dio.

Gli interessi umani ed economici: salario, lavoro per tutti, case decenti, ripartizioni di beni, libertà, ecc.; belle e sante cose, bisogni urgenti, problemi da risolvere presto e bene, finché si vuole, ma non sono che amminicoli, e spesso pretesti per nascondere la grande realtà: si vuole la lotta contro il bene, contro il Signore.

Noi cristiani sappiamo che queste cose, necessarie per la vita presente, verranno in aggiunta, se cerchiamo prima di tutto il Regno di Dio, cioè la nostra santificazione, l’esercizio delle virtù e specialmente della carità verso Dio e verso i fratelli.

Iddio è padrone assoluto e datore splendido di ogni bene; ed ha impegnato con giuramento la sua parola a darci quello che ci occorre; tocca a noi fare la nostra parte: allora il Signore farà la sua.

Il Signore ci chiama a raccolta.

Che cosa scriveremo sotto il nostro nome?

Simulare sarebbe inutile dinanzi a Dio che scruta i cuori.

Vi ho aperto il mio animo con confidenza fraterna; spero che queste mie povere parole le avrete lette con un forte desiderio di trarne frutti di bene, e che le farete leggere anche ad altri, a coloro che non sono malati come voi e che forse pensano meno di voi alla vita eterna che ci aspetta.

A quest’opera di bene aggiungete anche la vostra preghiera, arma preziosissima e potente per combattere la santa battaglia di Dio e della Chiesa.

E l’offerta del vostro sacrificio di malati sia il coronamento del vostro zelo per la gloria di Dio e la salvezza dell’anima di tanti poveri fratelli, vicini e lontani.

Se tutti i buoni unissero con fede le loro preghiere e i loro sacrifici, oh come si affretterebbe l’adempimento della Divina promessa: si farà un solo ovile e un solo pastore!

Pregate anche per me, che possa io per primo mettermi con impegno a valorizzare la vita, per meritare la misericordia del Signore nella grande e solenne chiamata ormai tanto vicina.

Colgo l’occasione per ringraziare anche di qui tutti coloro che hanno pregato per me in modo particolare nell’occasione del mio 80′ compleanno. Nella mia povertà, per tutti prego, tutti benedico, con l’augurio di ritrovarci tutti nel santo Paradiso. Vostro in C. J. Sac. J. Calabria

APOSTOLATO INFERMI (LETTERE) * 6277 Dicembre 1953

Festa dell’Immacolata

Miei cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

la grazia di Gesù benedetto e la protezione della cara Madonna siano sempre con noi! – In questo giorno santo, sacro all’Immacolata, il mio cuore esulta con voi nel celebrare il grande privilegio della Concezione Immacolata concesso dal Signore alla nostra Mamma celeste.

Sono cent’anni che la Chiesa ha definito come dogma questa verità, sempre creduta e festeggiata nel corso dei secoli. La festa dell’Immacolata c’introduce appunto nel grande ANNO MARIANO, voluto dal Santo Padre per celebrare solennemente un così caro centenario.

Come deve gioire il nostro cuore e con quale fervore di spirito dobbiamo celebrare questo anno benedetto!

Il nostro ANNO MARIANO

Se tutti i cristiani, dietro l’esortazione paterna del vicario di Cristo, devono celebrarlo col massimo fervore, i sofferenti devono sentirsi in prima fila, perché il Santo Padre fa un gran conto della preghiera e della sofferenza di chi si trova più vicino alla croce di Gesù, e perché nella devozione alla Madonna noi troviamo non solo un aiuto e un conforto, ma anche e soprattutto una guida a patire con amore e con merito.

Voi avete letto certamente l’enciclica del Santo Padre a questo proposito; rileggetela spesso, per innamorarvi sempre più della celeste Madre e infervorarvi a procurare la sua gloria in questo grande anno.

Vi saranno tante iniziative nei vostri paesi e nelle vostre parrocchie: cercate di assecondarle, di partecipare almeno in spirito alle funzioni mariane che si celebreranno: non siate secondi a nessuno nell’entusiasmo per la Madonna.

Fare sul serio

Ma, ricordiamo, o miei cari, che il primo e grande onore da procurare è quello della santità di nostra vita. Le funzioni solenni, i canti, i discorsi, le accademie, ecc. sono belle e gradite cose alla Madonna solo se vengono dal cuore, se hanno per fondamento la nostra buona volontà di vivere secondo la legge del Signore, corrispondendo alle grazie che Gesù ci ha fatto per mezzo della nostra Mamma, Maria SS.; altrimenti le belle funzioni e il resto sarebbero un vano suono di tromba, un certo conforme allo scopo della celebrazione quale è designato dal Sommo Pontefice.

Ascoltiamo la sua parola: “Occorre che questa celebrazione non solo riaccenda negli animi la devozione ardente verso la santa Vergine, ma sia di stimolo per conformare i più possibile i costumi sull’esempio della Vergine Madre. Come tutte le madri provano soavissimi sentimenti quando scorgono che il volto dei propri figli riproduce per qualche particolare somiglianza le loro fattezze, così Maria, Madre nostra dolcissima, non può avere maggiore desiderio né più grande gioia del vedere riprodotti nei pensieri, nelle parole, nelle azioni di coloro che Ella accolse come figli, i lineamenti e le virtù della sua anima”.

E una prima grazia da chiedere, un primo sforzo da fare, è di acquistare “quell’innocenza di costumi, che rifugge ed aborre anche la minima macchia di peccato, poiché commemoriamo il mistero della SS. Vergine la cui Concezione fu immacolata”.

Poi, l’acquisto delle virtù proprie del nostro stato. “La Beatissima Vergine, che nell’intero corso della vita, sia nel gaudio come nella tribolazione e negli atroci dolori, mai si allontanò dai precetti e dagli esempi del divino Figliolo, sembra ripetere a tutti noi, come durante le nozze di Cana: “Fate tutto quello che Egli vi dirà”.

Questo c’insegna e a queste cose ci esorta la beata Vergine Maria, Madre nostra dolcissima, la quale ci ama di vero amore, certamente più di tutte le madri terrene.

Preghiamo!

E infine la preghiera, per noi e per i fratelli del mondo intero. La Madonna in questo suo Anno, vorrà certamente dispensare a più larga mano le sue grazie e i suoi doni. Sta a noi dunque implorare umilmente e fiduciosamente la materna e misericordiosa protezione. Anche qui, il Santo Padre addita alcune particolari grazie da chiedere; e io mi permetto far mie le sue auguste parole, e esortarvi a pregare tanto, ma tanto, per il rifiorimento della vita cristiana, la purezza della gioventù, per la santità e fede franca degli uomini, per la famiglia cristiana e la felicità del nido domestico.

Preghiamo per tutti i bisognosi, per gli affamati, per gli oppressi dall’ingiustizia, per il ritorno dei profughi alla patria diletta, per i senza tetto, per gli esiliati e perseguitati.

Preghiamo per i tanti ciechi nello spirito, e perché regni in tutti la carità, la concordia.

Preghiamo per la Chiesa santa, che possa godere la pace necessaria a svolgere la sua benefica azione a vantaggio di tutta la povera umanità, ora brancolante nelle tenebre dell’errore e in pericolo di cadere nell’abisso e nella rovina. La Chiesa sia sempre in cima ai nostri ideali; tutto quello che facciamo, che soffriamo, che desideriamo, sia rivolto all’avvento del santo regno di Dio, e alla glorificazione della Chiesa, vera arca di salvezza in mezzo al mare tempestoso della vita.

Noi all’Apostolato Infermi preghiamo in particolare per l’unione delle chiese cristiane dissidenti, lontane da Roma, perché questa è una delle intenzioni più care alla nostra associazione. Specialmente nel mese venturo, nell’ottava di preghiere che dal 18 al 25 si fa in tutto il mondo cristiano, le nostre preghiere e sofferenze siano rivolte a questo santo scopo, con santo entusiasmo, con grande amore per la Chiesa nostra e per tutte le anime dei nostri fratelli.

Oh, se noi faremo così, se entreremo con questi sentimenti nell’Anno Mariano e cercheremo di crescere nello sforzo di santificarci, potremo contribuire efficacemente al compimento dei divini disegni che il Signore ha sopra la sua Chiesa in generale e sopra ciascuno di noi in particolare.

Devozione vera

Miei cari fratelli e sorelle, fate tesoro di queste mie povere parole. Cercate che in ogni luogo dove voi vi trovate fiorisca sempre più una vera e tenera devozione a Maria. La nostra devozione non sia base di uno sterile sentimentalismo, ma abbia la sua profonda radice nel dogma. Si cerchi quindi di meglio conoscere le ineffabili relazioni di questa “umile ed alta” Creatura con la SS. Trinità, i suoi privilegi, la indivisibile partecipazione col suo divin Figliolo alla grande opera della Redenzione.

Di qui scaturisca la nostra ammirazione e venerazione, il nostro filiale attaccamento a Colei, che essendo la Madre di Gesù, è insieme la Madre nostra. Non ci stanchiamo di moltiplicare i nostri umili ossequi, per dimostrarLe nostra devozione, il nostro amore, come buoni figlioli verso l’ottima fra tutte le madri.

Per cui non mi stancherò di raccomandarvi, specialmente in questo Anno Mariano, alcuni ossequi speciali verso Maria: la recita quotidiana del Rosario, magari intero; distinguere con qualche fioretto particolare il sabato, dedicato alla Madonna; celebrare con particolare impegno le feste di Maria; parlare della Madonna ogni qualvolta ne capiti l’occasione e con ciò si possa far del bene a qualche anima; e così via, secondo che il cuore vi detterà.

Se qualche socio mi darà notizia di qualche bella iniziativa presa in onore della Madonna, sarà per me un motivo di conforto in mezzo alle mie sofferenze, per le quali vi domando la carità delle vostre preghiere, mentre io le offrirò anche per voi e per l’Associazione, affinché essa sia sempre come Gesù la vuole e spiri sempre in essa la vera devozione a Gesù e a Maria.

Più col cuore che con la mano, per l’intercessione della cara nostra Mamma celeste, l’Immacolata Concezione, vi benedice il vostro

in C. J. Sac. J. Calabria

* 6278 Aprile 1954

Questa lettera, che il nostro venerato Padre don Calabria ha indirizzato a un amico, pensiamo che possa essere utile, almeno in parte, anche a tutti i fratelli dell’Apostolato Infermi e perciò la pubblichiamo al posto della solita lettera ai fratelli dell’Apostolato, sicuri di far cosa gradita ai nostri soci, ai quali raccomandiamo ancora una volta di stare uniti a noi nella preghiera per l’amato Padre.

[La stessa lettera è stata pubblicata anche sul CORRIERE DEL MATTINO il 14 aprile 1954].

MIO CARO AMICO,

La grazia, la pace di Gesù Benedetto siano sempre con noi. Sento il bisogno, nell’intimo del mio cuore, di scriverti queste righe, per dirti qualche cosa che pare ti possa fare del bene, con la divina grazia.

Anzitutto devo ringraziarti degli auguri e delle preghiere che hai fatto per la mia salute, Ringraziando il Signore, mi sento alquanto meglio, tuttavia sono ancora sofferente, e tu prega, soprattutto perché possa davvero capire il dono della sofferenza, e farne tesoro per la mia povera anima e per quest’umile Opera del Signore, accettando tutte le prove della mano paterna di Dio che ci manda e moltiplica, si può dire, le occasioni di patire, perché possiamo acquistarci molti meriti ed insieme compiere i divini disegni.

Buona moneta la sofferenza

La sofferenza infatti, se accettata con spirito di fede, è una preziosa moneta, con la quale comperiamo grazie per noi stessi e per gli altri. Il cristiano che soffre con serenità, rassegnato alle disposizioni della Provvidenza, è un parafulmine che tiene lontani flagelli e castighi, conseguenza funesta dei peccati che purtroppo si commettono nel mondo con un crescendo impressionante. In tal modo egli è una calamita di grazie per tutti e un tesoro di celesti ricchezze: è un angelo che canta la gloria, la misericordia di Dio.

Ma soprattutto la sofferenza ci rende somiglianti a Gesù Crocifisso.

Oh il Crocifisso! Quale esempio di sovrumana pazienza! Ed è per mezzo dalla croce che Gesù ha redento l’umanità intera salvandoci tutti da morte e dal peccato, riaprendoci il santo Paradiso.

Ed accanto a Gesù, ecco che troviamo pure la nostra celeste Madre che ai piedi della Croce è divenuta la nostra corredentrice, unendo i suoi grandi dolori ai dolori e al martirio del suo divin Figliolo crocifisso.

E sull’esempio di Gesù e di Maria anche i santi, questi autentici campioni dell’umanità, hanno stimato nel vero e giusto valore le sofferenze, accettandole con generosità e spesso ricercandole come preziosi tesori.

Oh potessimo anche noi, illuminati dalla medesima luce della fede, capire non solo in teoria, ma in pratica, la preziosità e il merito della sofferenza! Potessimo comprendere quanto grandi benefattori sono tutti coloro che soffrono in Cristo!

A chi tocca?

Dopo questo, ascolta un’altra mia povera parola che ti rivolgo proprio col cuore, e che spero ti farà bene. L’umanità , come vedi, sta attraversando una gravissima ora; essa è giunta ad una svolta veramente decisiva. Tutti vediamo i grandi mali che pervadono questa povera terra, a causa dei peccati degli uomini, specialmente per aver voluto fare a meno del Signore, cercando quaggiù la felicità, a costo di calpestare i divini comandamenti e consigli.

Urge por mano ai rimedi: Nell’ordine materiale civile quanto si lavora, specialmente dagli uomini che sono preposti al Governo! lavoro arduo questo e al tempo stesso altrettanto doveroso, meritorio e degno delle più ampie lodi.

Ma c’è bisogno soprattutto di medicare i malanni morali e spirituali, se vogliamo che riescano efficaci i rimedi materiali.

A chi spetta porre mano a questi rimedi? A tutti, certamente, perché tutti siamo membri dell’umana famiglia, tutti quindi corresponsabili dei nostri fratelli.

Ma ci sono categorie di persone che più degli altri possono e devono lavorare alla salute e al bene del prossimo e sono: i Sacerdoti in primo luogo, poi non dubito di mettere i medici e i maestri.

Medico: missione sublime

Il medico: più ci penso e più capisco la nobiltà di questa missione che io amo chiamare una vera “missione”. Non mi meraviglio che nell’antichità il medico fosse un tutt’uno col sacerdote, e la medicina fosse retaggio dei sacerdoti.

Il primo medico che l’umanità ricordi è stato messo fra le divinità; superstizione si, ma anche segno della venerazione e della stima che la gente ha del medico.

Noi lo sappiamo del resto, anche per esperienza personale, quanto bene fa il medico quando siamo malati? Come si scruta nel suo volto l’entità dei nostri malanni! come sono balsamo le sue parole d’incoraggiamento! Le sue visite sono sempre gradite, sono aspettate con trepidazione: se egli tarda a venire quando è chiamato, si è impazienti che arrivi, si manda a vedere… oh, sì: il malato apprezza, nel medico, non solo uno che sa guarire, ma un amico del cuore, strettamente interessato al nostro bene.

Immagino allora quanto bene può fare il medico col grande ascendente che gode, sia presso i malati – che domani saranno sani – sia presso le famiglie dove entra portatore di speranza. La sua è parola di un amico che addolcisce le pene, quasi di un sacerdote che infonde soave conforto ed eleva chi è abbattuto dalla prova.

Medico e sacerdote si completano mirabilmente a vicenda; il sacerdote, con i tesori della grazia e con la parola di Dio, rafforza lo spirito e così, indirettamente concorre a rendere efficaci le medicine corporali; il medico alleviando i dolori fisici e infondendo fiducia nella guarigione, spiana magnificamente la via all’opera della grazia.

Ben vengano tanti bravi medici, animati da spirito soprannaturale, consci della loro nobilissima missione; essi sono un dono grande del Signore per il rinnovamento della società.

Sacerdote: luce e sale della terra

E vengano tanti buoni e santi sacerdoti; depositari delle divine promesse, araldi del vangelo, “altoparlanti” di Gesù mediante la predicazione della sua divina parola, distributori della divina grazia; essi sono l’unico “sale” che valga a risanare la terra, l’unica “luce” che valga ad illuminare il mondo. E’ una grande cosa, dunque, pregare il Signore che mandi “operai nella sua vigna” mistica santi sacerdoti nella sua Chiesa che siano dei vangeli viventi con l’esempio della loro vita intemerata, tutta protesa a far conoscere ed amare Gesù.

I maestri nella scuola

E poi i Maestri: altra missione non meno nobile: formare gli animi alla virtù mediante la scienza, dono di Dio. Chi saprà valutare l’influenza che esercita sugli animi giovanili un maestro di scuola? Tutti noi, certo abbiamo fissi nella mente il ricordo di quel maestro, di quella maestra, che ci hanno guidati nei sentieri talvolta aspri della vita e dell’insegnamento con mano dolce e forte; e, senza che ce ne avvedessimo, ci hanno educati alla virtù vera, tenendo in luogo per tante ore del giorno dei nostri genitori.

E noi cosa diremo dei maestri che formano le giovinezze ormai avanzate, coloro che saranno nel domani nelle scuole superiori e nelle università? Quale nobile compito, e quale santa responsabilità essi hanno! anche loro godono di una benefica potenza sui loro alunni e sulle famiglie intere. Beati loro, se, tenendo fisso lo sguardo all’Unico Maestro, Gesù, ne trasmettono gli insegnamenti, orientando le menti verso di Lui. Oh, quanto dipende dai maestri l’avvenire della società!

I maestri nella vita

Non sono soltanto i maestri di professione cui alludo. Il campo si allarga ad abbracciare tutti coloro che per la scienza, per l’ascendente, per il posto che occupano, sono più o meno maestri anche loro, ascoltati dalla gente con tanta stima e deferenza. Sono i dirigenti di lavoro, gli imprenditori, gli studiosi, i capi associazione, gli scrittori, i ministri della nazione…

Su tutti costoro pesa una grande, dolce responsabilità per il bene dei fratelli.

Ma sono sopra tutti i genitori, i maestri naturali dei figlioli che la Provvidenza loro affida per un tratto di sovrana benevolenza. Oh, quanto urgente è il problema di avere dei genitori degni della loro missione, veri generatori di nuove vite nel pieno senso della parola: vita fisica, vita morale: tutto intero l’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio.

E’ qui il punto più cruciale ed urgente, del problema di risanamento che urge alla società umana. Preparare buoni e saggi genitori, mantenere in efficenza i genitori già assunti a questa missione; avere così famiglie bene formate dove regna l’ordine, la pace, la serenità.

Sacerdoti, medici, maestri, dirigenti, autorità e quanti altri hanno responsabilità pubbliche: tutti devono mirare a questo ideale: sanare la famiglia nella sua radice, renderla degna delle divine promesse di benedizioni e grazie.

Senza di Gesù non si può far niente.

Per tutto questo lavoro, urgente, nobile e inderogabile, è necessario ricorrere al divino aiuto; “senza di me, non potete far niente”, dice Gesù. Dobbiamo riportare Gesù nella società, nella vita privata e in quella pubblica, nelle coscienze e nelle famiglie, nelle scuole e nelle officine, negli uffici e nei Parlamenti. Gesù deve permeare tutta la vita umana, se vogliamo che il mondo cammini ancora sulle vie del vero progresso.

Tu vedi caro amico, quanto puoi e devi fare tu stesso nella missione che la Provvidenza ti ha assegnato. Oh, se ciascuno di noi, se ogni cristiano facesse la sua parte, per quanto modesta possa essere, il mondo sarebbe di tratto cambiato in vera oasi di pace, un piccolo Paradiso terrestre.

Cerchiamo dunque di fare subito e bene la nostra parte; e adoperiamoci perché quanti ci avvicinano possano sentire le soavi attrattive del bene, i dolci stimoli al lavoro di perfezionamento per un avvenire migliore della società e del mondo.

La vicina Pasqua che ci ricorda il sacrificio del Martire Divino e la gloria della resurrezione porti a tutti, con rinnovamento interiore di ciascuno, la pace e la gioia dello spirito.

Mi raccomando tanto alla carità delle preghiere, mentre più con il cuore che con la mano benedico,

in C.J. Sac. J. Calabria

LETTERE DI DON CALABRIA

AGLI AMMALATI

AMMALATE IGNOTE * 1077/A 21-7-1948

Buone ammalate,

La grazia, la benedizione e la pace del Signore siano sempre nei nostri cuori.

Ben volentieri le benedico e le raccomando al Medico divino Gesù ed alla cara Madonna, Salute degli infermi, e le farò raccomandare anche dai miei della Casa.

Procurino di stare sempre di buon animo e di mettersi come bambine tra le braccia di Dio Padre nostro. Offrano le loro sofferenze anche per il mondo tanto lontano da Dio e per tanti che non vogliono saperne dei suoi comandi e del suo amore.

Pregate. Le vostre preghiere hanno una efficacia grande perché avvalorate dalla sofferenza.

Confido pregherete anche per me, perché possa fare la divina volontà proprio fino in fondo.

Gesù è con voi. Coraggio e fiducia, e confidiamo si compia il vostro ardente desiderio.

Benedico voi, i vostri cari e tutti i sofferenti. In C. J.

Sac. J. Calabria.

AMMALATI OSPEDALE MILITARE DI VR * 1077 14-8-1951

Carissimi Ammalati.

La grazia di Gesù benedetto sia sempre con voi tutti e vi conceda divino conforto nelle pene e prove della vita. La vostra cara lettera mi ha recato tanta consolazione, perché mi dice quanta fede avete nella preghiera e nell’aiuto del Signore. Immaginate con quanto cuore io mi sforzo di assecondare il vostro desiderio, e di pregare secondo le vostre intenzioni, perché il celeste Medico Gesù applichi qualche suo medicamento, prima all’anima per rafforzarla nelle virtù e generosità, poi anche nel povero corpo afflitto e provato in tanti modi.

Ravvivate la fede, miei carissimi ammalati, guardate in alto, al Cielo, dove viene segnato a caratteri d’oro tutto quello che si fa per amore di Dio. E se tutto viene così segnato, quanto più le sofferenze accettate in spirito di cristiana rassegnazione alla divina volontà?

Coraggio, miei cari, e avanti con serena fiducia nel Signore e nella Madonna benedetta. Tenetevi uniti a Dio con la santa pazienza; usate i mezzi umani della scienza medica; pregate Iddio che li benedica e renda efficaci. Dite sempre con animo generoso, degno della vostra vigoria giovanile: Fiat voluntas tua! Oh, questa parola quanto è preziosa davanti a Dio, e quante grazie attira su voi e sulle vostre famiglie! Io vi sono vicino con la mente e con il cuore; nella Santa Messa vi ricordo al Signore con tutte le vostre necessità e intenzioni. Del resto, come potrei dimenticare voi che mi ricordate il caro Ospedale dove più di 50 anni fa ho fatto tre anni di servizio militare, e dove ho visto tanti baldi giovani santificare le loro pene con pazienza che talvolta raggiungeva l’eroismo?

E voi ricordatevi di me; abbiate un pensiero di preghiera per me, che ne ho tanto bisogno. Ringrazio della vostra caritatevole offerta, e prego il Signore a ricompensarla con tutte le grazie di pace, salute e amore di Dio. Più con il cuore che con la mano invio a voi tutti la paterna benedizione.

P.S. A Lei, ven. Suora1, che tanta parte ha nel suscitare gli ottimi sentimenti di codesti ammalati, la mia particolare benedizione, con l’augurio di poter moltiplicare ogni giorno più il bene, e prepararsi una sempre più ricca corona di meriti per il Paradiso. Benedico i cari malati del mio Ospedale militare, che ancor oggi, dopo tanti anni, ricordo e per il quale prego.

Sac. J. Calabria

1 Suor Gustava, Suore della Misericordia. Ospedale Militare di Verona.

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