LETTERA APERTA ALLA PSICOLOGA MARIA ELENA BOERO – Angelo Nocent

Boero Maria Elena psicologa

Carissina Dott.sa Maria Elena Boero,

nell’inserto della rivista “Fatebenefratelli” ho letto con interesse l’esperienza maturatasi negl’anni nell’Istituto di cura che lei frequenta come psicologo.

Se mi permetto di sottoporle la riflessione del Padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia che riporto di seguito, è perché vorrei che provasse, per un momento, a considerare il camice bianco che probabilmente indossa nella funzione di psicoterapeuta, come la casula che veste il sacerdote per celebrare.

Comunque, provi per un attimo ad immedesimarsi nel ruolo ”sacerdotale” in campo psico-terapeutico. Stante l’attuale struttura, in quel di San Maurizio Canavese (FATEBENEFRATELLI allegato : n.3  - http://www.fatebenefratelli.it/pdf/2009/rivista_2009-03.pdf ) lei ed i suoi colleghi, siete i “mediatori” tra Dio e i pazienti.

Secondo me, qui viene descritto il tassello che manca alla psicologia ed alla psichiatria, scienze di per sè limitate per definizione. Il perché lo dice l’autore:Al centro di ogni essere umano c’è un punto di unità e di verità che chiamiamo cuore, coscienza, io profondo, centro della personalità o con altri nomi ancora. È più facile conoscere ed entrare in contatto con il mondo intero fuori di noi che non giungere a questo centro di noi stessi, come è più facile, per gli scienziati, inviare sonde su Marte ed esplorare gli spazi interplanetari che esplorare cosa c’è, a poche migliaia di chilometri da noi, al centro della terra, dove nessuno infatti è mai arrivato“.

La rivoluzione iniziata dal Prof. Basaglia è stato un momento importante perché ha permesso di sgomberare il campo dalle macerie di tante contraddizioni che si erano accumulate nel tempo. Più difficile si è dimostrata la fase “construens“.

Le nostre comunità cristiane - sostiene P. Raniero - devono diventare autentiche scuole di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti…”

Merini Alda poetessaA tal proposito, come non ricordare il Magnificat

della poetessa  ALDA MERINI

(alda merini poetessa)

recentemente scomparsa:

 

Se Tu sei la mia mano,
il mio dito,
la mia voce,
se Tu sei il vento
che mi scompiglia i capelli,
se Tu sei la mia adolescenza
io ho il diritto di servirti
e il dovere,
perché l’adolescenza
non ha mai chiesto nulla
alle sue stagioni.


Tu mi hai presa
perché io non ero una donna
ma solo una bambina.
E le bambine si accolgono
e si avvolgono di mistero.
Tu mi hai resa donna, Signore,
e la donna è soltanto
un pugno di dolore.

Ma questo pugno
io non lo batterò
verso il mio petto,
lo allargherò verso di Te
come una mano
che chiede misericordia.
Tu sei la mia mano, Signore,
Tu sei la vita,
e quando una donna partorisce un figlio
la disgrazia e l’amore
abitano in lei
come il dubbio della sua esistenza.

Tu mi hai redenta
nella mia carne
e sarò eternamente giovane
e sarò eternamente madre.
E poiché mi hai redenta
posi vicino a Te
la pietra della Tua resurrezione.

E poiché mi hai redenta
fammi carne di spirito
e spirito di carne.
E poiché mi hai redenta
Dammi un figlio
atrocemente mio.

Qualche psicanalista ha già intrapreso questa strada da tempo, ottenendo risultati inimmaginabili.  Dal momento che si pretende di camminare sulle orme del pioniere San Giovanni di Dio, è un discorso che meriterebbe di essere approfondito e che andrebbe avviato senza esitazione, propro perché “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza“. (Rm 8, 26-27). Tra la scienza e la fede non c’è un muro. L’enciclica “Spe salvi” di Benedetto XVI è un grande aiuto che viene offerto agli operatori socio-sanitari. Giovanni di Dio non avrebbe esitato un attimo a prenderla in seria considerazione.

Così Sergio Centofanti su Radio Vaticana:

“La redenzione, la salvezza, secondo la fede cristiana – spiega il Papa nell’introduzione – non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino”. (1)

Perciò “elemento distintivo dei cristiani” è “il fatto che essi hanno un futuro: … sanno … che la loro vita non finisce nel vuoto”. Il Papa sottolinea che il messaggio cristiano non è solo “informativo”, ma “performativo”. Questo significa che “il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova”. Sulla scia di San Paolo, il Papa esorta i cristiani a non affliggersi “come gli altri che non hanno speranza” e con San Pietro ci invita a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi. (2)

“Giungere a conoscere Dio – il vero Dio, questo significa ricevere speranza”. Questo lo comprendevano bene i primi cristiani, come gli Efesini, che prima di incontrare Cristo avevano molti dèi ma vivevano “senza speranza e senza Dio”. Il problema per i cristiani di antica data – sottolinea – è l’abitudine al Vangelo: la speranza “che proviene dall’incontro reale con … Dio, quasi non è più percepibile”. Qui il Papa cita un primo testimone della speranza cristiana: Santa Giuseppina Bakhita. Nata nel 1869 nel Darfur, in Sudan, viene rapita a nove anni e venduta come schiava: dopo prove terribili giunge in Italia dove conosce “la grande speranza” e può dire: “io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io sono attesa da questo Amore”. (3)

Il Papa ricorda che Gesù non ha portato “un messaggio sociale-rivoluzionario” come Spartaco, e “non era un combattente per una liberazione politica, come Barabba o Bar-Kochba”. Ha portato “qualcosa di totalmente diverso: … l’incontro con il Dio vivente … l’incontro con una speranza che era più forte delle sofferenze della schiavitù e che per questo trasformava dal di dentro la vita e il mondo”, “anche se le strutture esterne rimanevano le stesse”. (4)

Cristo ci rende veramente liberi: “Non siamo schiavi dell’universo” e delle “leggi della materia e dell’evoluzione”. San Gregorio Nazianzeno vede nei Magi guidati dalla stella “la fine dell’astrologia”, una concezione – afferma il Papa – “nuovamente in auge anche oggi”: “non sono gli elementi del cosmo … che in definitiva governano il mondo e l’uomo, ma un Dio personale governa le stelle, cioè l’universo”. Siamo liberi perché “il cielo non è vuoto”, perché il Signore dell’universo è Dio che “in Gesù si è rivelato come Amore”. (5)

Cristo è il “vero filosofo” che “ci dice chi in realtà è l’uomo e che cosa egli deve fare per essere veramente uomo”. “Egli indica anche la via oltre la morte; solo chi è in grado di fare questo, è un vero maestro di vita”. (6) E ci offre una speranza che è insieme attesa e presenza: perché “il fatto che questo futuro esista, cambia il presente”. Infatti “per la fede … sono già presenti in noi”, ad uno stato iniziale, “le cose che si sperano: il tutto, la vita vera”. Il futuro è attirato “dentro il presente” e noi lo possiamo già percepire e “questa presenza di ciò che verrà crea anche certezza”, “costituisce per noi una ‘prova’ delle cose che ancora non si vedono”. (7)

Questa speranza non è qualcosa ma Qualcuno: non è fondata su cose che passano e ci possono essere tolte, ma su Dio che si dona per sempre: per questo è una speranza che libera e permette a tanti cristiani di abbandonare tutto “per amore di Cristo” come ha fatto San Francesco e di affrontare le persecuzioni e il martirio opponendosi “allo strapotere dell’ideologia e dei suoi organi d’informazione” rendendoli così capaci di rinnovare il mondo. (8)

Il Papa rileva che “forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra , per questo scopo, piuttosto un ostacolo”. (10)

“L’attuale crisi della fede – prosegue – è soprattutto una crisi della speranza cristiana”. “La restaurazione del paradiso perduto, non si attende più dalla fede” ma dal progresso tecnico-scientifico, da cui – si ritiene – potrà emergere “il regno dell’uomo”.

La speranza diventa così “fede nel progresso” fondata su due colonne: la ragione e la libertà che “sembrano garantire da sé, in virtù della loro intrinseca bontà, una nuova comunità umana perfetta”. “Il regno della ragione … è atteso come la nuova condizione dell’umanità diventata totalmente libera”. (17-18)

“Due tappe essenziali della concretizzazione politica di questa speranza” sono state la Rivoluzione francese (19) e quella marxista. Di fronte agli sviluppi della Rivoluzione francese, “l’Europa dell’Illuminismo … ha dovuto riflettere in modo nuovo su ragione e libertà”. La rivoluzione proletaria d’altra parte ha lasciato “dietro di sé una distruzione desolante”.

“L’errore fondamentale di Marx” è stato questo: “ha dimenticato l’uomo e ha dimenticato la sua libertà… Credeva che una volta messa a posto l’economia tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo”. (20-21) “Diciamolo ora in modo molto semplice – scrive il Papa : l’uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza”. (23)

“L’uomo non può mai essere redento semplicemente” da una struttura esterna. “Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre fa una promessa falsa”. Così sbagliano quanti credono che l’uomo possa essere redento mediante la scienza. “La scienza … può anche distruggere l’uomo e il mondo”. “Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore”. Un amore incondizionato, assoluto : “La vera grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora sino alla fine”. (24-26)

Il Papa indica quattro luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza. Il primo è la preghiera: “Se non mi ascolta più nessuno, Dio mi ascolta ancora … se non c’è più nessuno che possa aiutarmi … Egli può aiutarmi”. Il Papa ricorda l’esperienza del cardinale vietnamita Van Thuan, per 13 anni in carcere, di cui 9 in isolamento: “in una situazione di disperazione apparentemente totale, l’ascolto di Dio, il poter parlargli, divenne per lui una crescente forza di speranza”. (32-34)

Accanto alla preghiera c’è poi l’agire. “La speranza in senso cristiano è sempre anche speranza per gli altri. Ed è speranza attiva, nella quale lottiamo” affinché “il mondo diventi un po’ più luminoso e umano. E solo se so che “la mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell’amore” io “posso sempre ancora sperare anche se … non ho più niente da sperare”. E “nonostante tutti i fallimenti” questa speranza mi dà “ancora il coraggio di operare e di proseguire”. (35)

Anche il soffrire è un luogo di apprendimento della speranza. “Certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza”: tuttavia “non è la fuga davanti al dolore che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore”. Qui il Papa cita un altro testimone della speranza, il martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin, morto nel 1857. Fondamentale è poi saper soffrire con l’altro e per gli altri. “Una società che non riesce ad accettare i sofferenti …è una società crudele e disumana”. (36-39)

Infine, altro luogo di apprendimento della speranza è il Giudizio di Dio. “La fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza”: “esiste la risurrezione della carne. Esiste una giustizia. Esiste la ‘revoca’ della sofferenza passata, la riparazione che ristabilisce il diritto”.

Il Papa si dice “convinto che la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna”. E’ impossibile infatti “che l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola”. “Dio è giustizia e crea giustizia. E’ questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia”.

“La grazia non esclude la giustizia…I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato”. Il Papa ribadisce la dottrina sull’esistenza del purgatorio e dell’inferno. Tuttavia se il Giudizio di Dio “fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura”. Invece è anche grazia e questo “consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro ‘avvocato’”. (41-47)

Nei capitoli sul Giudizio finale Benedetto XVI inserisce una riflessione sull’ateismo del XIX e del XX secolo: si tratta di “una protesta contro le ingiustizie del mondo” – nota – che diventa “protesta contro Dio”. “Se di fronte alla sofferenza di questo mondo la protesta contro Dio è comprensibile, la pretesa che l’umanità possa e debba fare ciò che nessun Dio fa né è in grado di fare, è presuntuosa ed intrinsecamente non vera. Che da tale premessa siano conseguite le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia non è un caso – aggiunge – ma è fondato nella falsità intrinseca di questa pretesa”. (42)

Benedetto XVI poi ribadisce: “La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me. Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati …? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale. (48)

Nell’ultimo capitolo rivolge la sua preghiera a “Maria, stella della speranza”:“Madre di Dio, Madre nostra, insegnaci a credere, sperare ed amare con te. Indicaci la via verso il suo regno! Stella del mare, brilla su di noi e guidaci nel nostro cammino!” (49-50).

Il 12 Novembre 2009 ho ricevuto un messaggino  dal Messico, dove si trova Fra Marco Fabello per il Capitolo Generale dei Fatebenefratelli: Ospitalità e Carisma sono due parole che echeggiano spesso nell’aula Capitolare qui in Messico: speriamo che vivano nella nostra vita quotidiana“. La nostra preghiera solidale può influenzare i Padri Capitolari nelle loro scelte, affinché i due termini non divengano luoghi comuni. Il motivo è spiegato nelle righe successive. A tale scopo faccia pregare la sua comunità terapeutica. Dio ascolta “il gemito dei prigionieri“.

Salmo 101(102)

Aspirazioni e preghiere di un esule

orante

Signore, ascolta la mia preghiera,

a te giunga il mio grido.

Non nascondermi il tuo volto;

nel giorno della mia angoscia

piega verso di me l’orecchio.

Quando ti invoco: presto, rispondimi.

Si dissolvono in fumo i miei giorni

e come brace ardono le mie ossa.

Il mio cuore abbattuto come erba inaridisce,

dimentico di mangiare il mio pane.

Per il lungo mio gemere

aderisce la mia pelle alle mie ossa.

Sono simile al pellicano del deserto,

sono come un gufo tra le rovine.

Veglio e gemo

come uccello solitario sul tetto.

Tutto il giorno mi insultano i miei nemici,

furenti imprecano contro il mio nome.

 

Di cenere mi nutro come di pane,

alla mia bevanda mescolo il pianto,

davanti alla tua collera e al tuo sdegno,

perché mi sollevi e mi scagli lontano.

I miei giorni sono come ombra che declina,

e io come erba inaridisco.

Ma tu, Signore, rimani in eterno,

il tuo ricordo per ogni generazione.

Tu sorgerai, avrai pietà di Sion,

perché è tempo di usarle misericordia:

l’ora è giunta.

Poiché ai tuoi servi sono care le sue pietre

e li muove a pietà la sua rovina.

I popoli temeranno il nome del Signore

e tutti i re della terra la tua gloria,

quando il Signore avrà ricostruito Sion

e sarà apparso in tutto il suo splendore.

Egli si volge alla preghiera del misero

e non disprezza la sua supplica.

Questo si scriva per la generazione futura

e un popolo nuovo darà lode al Signore.

Il Signore si è affacciato dall’alto del suo santuario,

dal cielo ha guardato la terra,

per ascoltare il gemito del prigioniero,

per liberare i condannati a morte;

perché sia annunziato in Sion il nome del Signore

e la sua lode in Gerusalemme,

quando si aduneranno insieme i popoli

e i regni per servire il Signore.

Ha fiaccato per via la mia forza,

ha abbreviato i miei giorni.

Io dico: Mio Dio,

non rapirmi a metà dei miei giorni;

i tuoi anni durano per ogni generazione.

In principio tu hai fondato la terra,

i cieli sono opera delle tue mani.

Essi periranno, ma tu rimani,

tutti si logorano come veste,

come un abito tu li muterai

ed essi passeranno.

Ma tu resti lo stesso

e i tuoi anni non hanno fine.

I figli dei tuoi servi avranno una dimora,

resterà salda davanti a te la loro discendenza.

Non so se i suoi ragazzi usano INTERNET. Con loro  sarebbe bello poter comunicare nella fede. Convinto come sono della SALMOTERAPIA, comincerei col suggerire loro di utilizzare senza timore le tante PREGHIEREA DI LAMENTAZIONE, Salmi che Dio ha ispirato perché osassimo lamentarci confidenzialmente con Lui, l’Abbà, il Babbo:

http://compagniadeiglobulirossi.splinder.com/tag/06a+salmoterapia

Angelo Nocent

 

Raniero CantalamessaConvegno internazionale dei sacerdoti

Malta 2004-10-20-

“Per la pedagogia della santità –ha scritto Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte- c’è bisogno di un cristianesimo che si distingua innanzitutto nell’arte della preghiera…

Le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche scuole di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti…

Alla preghiera sono in particolare chiamati quei fedeli che hanno avuto il dono della vocazione ad una vita di speciale consacrazione: questa li rende, per sua natura, più disponibili all’esperienza contemplativa, ed è importante che essi la coltivino con generoso impegno…Occorre allora che l’educazione alla preghiera diventi in qualche modo un punto qualificante di ogni programmazione pastorale”[1] .

La preghiera è il mezzo universale e indispensabile per avanzare su tutti i fronti nel cammino di santità. “Se vuoi cominciare a possedere la luce di Dio, dice la B. Angela da Foligno, prega; se sei già impegnato nella salita della perfezione e vuoi che questa luce in te aumenti, prega; se vuoi la fede, prega; se vuoi la speranza, prega; se vuoi la carità, prega; se vuoi la povertà, prega; se vuoi l’obbedienza, la castità, l’umiltà, la mansuetudine, la fortezza, prega.

Qualunque virtù tu desideri, prega…Quanto più sei tentato, tanto più persevera nella preghiera… La preghiera infatti ti dà luce, ti libera dalle tentazioni, ti fa puro, ti unisce a Dio” [2] . Agostino dice: “Ama e fa ciò che vuoi” [3] ; con altrettanta verità possiamo dire: “Prega e fa ciò che vuoi”. Attenendomi al tema assegnatomi “Santità pneumatico-paolina del sacerdote”, in questa meditazione vorrei esporre l’insegnamento dell’Apostolo sulla preghiera, facendo, al termine, qualche applicazione più specifica alla vita del sacerdote. Noi infatti, ci ricorda lo stesso S. Agostino, “per”gli altri siamo sacerdoti e vescovi, ma “con” gli altri siamo dei cristiani [4] .

1. Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza

Nel capitolo ottavo della Lettera ai Romani l’Apostolo mette in luce le operazioni più importanti dello Spirito Santo nella vita del cristiano e tra esse, in primissimo piano, figura la preghiera. Lo Spirito Santo, principio di vita nuova, è anche, di conseguenza, principio di preghiera nuova. Partiamo dai due versetti più attinenti al nostro tema: Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio” (Rm 8, 26-27).

San Paolo afferma che lo Spirito intercede per “con gemiti inesprimibili”. Se potessimo scoprire per che cosa e come prega lo Spirito nel cuore del credente, avremmo scoperto il segreto stesso della preghiera. Ora, a me sembra che questo sia possibile. Lo Spirito infatti che prega in noi segretamente e senza strepito di parole è lo stesso identico Spirito che ha pregato a chiare lettere nella Scrittura. Egli che ha “ispirato” le pagine della Scrittura, ha anche ispirato le preghiere che leggiamo nella Scrittura. Se è vero che lo Spirito Santo continua a parlare oggi nella Chiesa e nelle anime, dicendo, in modo sempre nuovo, le stesse cose che ha detto “per mezzo dei profeti” nelle sacre Scritture, è vero anche che egli prega oggi, nella Chiesa e nelle anime, come ha insegnato a pregare nella Scrittura.

Lo Spirito Santo non ha due preghiere diverse. Noi dobbiamo, dunque, andare a scuola di preghiera dalla Bibbia, per imparare ad “accordarci” con lo Spirito e pregare come prega lui. Quali sono i sentimenti dell’orante biblico? Cerchiamo di scoprirlo attraverso la preghiera dei grandi amici di Dio: Abramo, Mosè, Geremia, i salmisti. La prima cosa che colpisce in questi oranti “ispirati” è la grande libertà e l’incredibile ardimento con cui dialogano con Dio. Niente di quel servilismo che gli uomini sono soliti associare alla parola “preghiera”.

Conosciamo bene la preghiera di Abramo a favore di Sodoma e Gomorra (cf Gn 18, 22 ss). Abramo comincia dicendo: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio?”, come per dire: non posso credere che tu vorrai fare una cosa del genere! A ogni successiva richiesta di perdono, Abramo ripete: “Vedi come ardisco parlare al mio Signore!”. La sua supplica è “ardita” e lui stesso se ne rende conto. Ma è che Abramo è l’“amico di Dio” (Is 41, 8) e tra amici si sa fin dove ci si può spingere.

Mosè va ancora più lontano nel suo ardimento. Dopo che il popolo si è costruito il vitello d’oro, Dio dice a Mosè che è sul monte a pregare: “Scendi in fretta di qui perché il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dall’Egitto, si è traviato”. Mosè risponde dicendo: “Al contrario, essi sono il tuo popolo, la tua eredità, che tu hai fatto uscire dall’Egitto” (Dt 9, 12.29; cf Es 32, 7.11).

La tradizione rabbinica ha colto bene il sottinteso che c’è nelle parole di Mosè: “Quando questo popolo ti è fedele, allora esso è il “tuo” popolo che “tu” hai fatto uscire dal paese d’Egitto; quando ti è infedele, allora esso diventa il “mio” popolo che “io” ho fatto uscire dall’Egitto?”. A questo punto Dio ricorre all’arma della seduzione; fa balenare davanti al suo servo l’idea che, una volta distrutto il popolo ribelle, farà di lui “una grande nazione” (Es 32, 10).

Mosè risponde facendo ricorso a un piccolo ricatto; dice a Dio: Attento, perché, se distruggi questo popolo, si dirà in giro che l’hai fatto perché non eri in grado di introdurlo nella terra che avevi loro promesso! “E Dio abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo” (cf Es 32, 12; Dt 9, 28). Geremia arriva alla protesta esplicita e grida a Dio: “Mi hai sedotto”, e: “Non penserò più a lui non parlerò più in suo nome!” (Ger 20, 7.9).

Se poi guardiamo ai salmi, si direbbe che Dio non fa che mettere sulle labbra dell’uomo le parole più efficaci per lamentarsi con lui. Il Salterio è di fatto un intreccio unico tra la lode più sublime e il lamento più accorato. Dio è chiamato spesso apertamente in causa: “Dèstati, perché dormi Signore?”, “Dove sono le tue promesse di un tempo?”, “Perché te ne stai lontano e ti nascondi nel tempo della sventura?”, “Tu ci tratti come pecore da macello!”, “Non essere sordo, Signore!”, “Fino a quando starai a guardare?”.

Come si spiega tutto questo? Dio spinge forse l’uomo all’irriverenza verso di lui, dal momento che, in ultima analisi, è lui che ispira e approva questo tipo di preghiera? La risposta è: tutto questo è possibile perché nell’uomo biblico è al sicuro il rapporto creaturale con Dio. L’orante biblico è così intimamente pervaso dal senso della maestà e santità di Dio, così totalmente sottomesso a lui, Dio è così “Dio” per lui, che, sulla base di questo dato pacifico, tutto riposa al sicuro.

La sua preghiera preferita, nel tempo della prova, è sempre la stessa: “Tu sei giusto in tutto ciò che hai fatto, tutte le tue opere sono vere, rette le tue vie e giusti i tuoi giudizi [...] poiché noi abbiamo peccato” (Dn 3, 28 ss; cf Dt 32, 4 ss). “Tu sei giusto, Signore!”: dopo queste tre o quattro parole – dice Dio – l’uomo può dirmi ciò che vuole: io sono disarmato! La spiegazione, insomma, è nel cuore con cui questi uomini pregano.

Nel bel mezzo delle sue preghiere tempestose, Geremia rivela il segreto che rimette tutto a posto: “Ma tu, Signore mi conosci, mi vedi; tu provi che il mio cuore è con te!” (Ger 12, 3). Anche i salmisti intercalano, ai loro lamenti, espressioni analoghe di fedeltà assoluta: “Ma la roccia del mio cuore è Dio!” (Sal 73, 26).

La qualità della preghiera biblica emerge anche dal contrasto con quella degli ipocriti. Questi, dicono i profeti (cf. Ger 12,2; Is 29,13), hanno la bocca tutta per Dio, ma il cuore lontano da lui; i veri amici hanno, al contrario, il cuore tutto per Dio e la bocca, a tratti, contro Dio nel senso che non nascondono lo sconcerto di fronte al mistero del suo agire e, come Giobbe, si lasciano sfuggire parole di duro lamento.

2. La preghiera di Gesù

Ma se è importante conoscere come lo Spirito ha pregato in Abramo, in Mosè, in Geremia e nei salmi, è immensamente più importante conoscere come ha pregato in Gesù, perché è lo Spirito di Gesù che ora prega in noi con gemiti inesprimibili. In Cristo è portata alla perfezione quell’interiore adesione del cuore e di tutto l’essere a Dio che costituisce, come si è visto, il segreto biblico della preghiera.

Il Padre lo esaudiva sempre, perché egli faceva sempre le cose che gli erano gradite (cf Gv 4, 34; 11, 42); lo esaudiva “per la sua pietà”, cioè per la sua obbedienza e filiale sottomissione (cf Eb 5,7). La parola di Dio, culminante nella vita di Gesù, ci insegna, dunque, che la cosa più importante della preghiera non è ciò che si dice, ma ciò che si è; non ciò che si ha sulle labbra, ma ciò che si ha nel cuore. Non è tanto nell’oggetto quanto nel soggetto. Anche per Agostino, il problema fondamentale non è sapere “cosa dici nella preghiera”, quid ores, ma “come sei nel pregare”, qualis ores [5] .

La preghiera, come l’agire, “segue l’essere”. La novità recata dallo Spirito Santo, nella vita di preghiera, consiste nel fatto che egli riforma, appunto, l’“essere” dell’orante; suscita l’uomo nuovo, l’uomo amico di Dio; toglie da lui il cuore pieno di paure e interessato dello schiavo e gli da un cuore di figlio.

Venendo in noi, lo Spirito non si limita a insegnarci come bisogna pregare, ma prega in noi, come – a proposito della legge – egli non si limita a dirci cosa dobbiamo fare, ma lo fa con noi. Lo Spirito non dà una legge di preghiera, ma una grazia di preghiera. La preghiera biblica non viene dunque a noi, primariamente, per apprendimento esteriore e analitico, cioè in quanto cerchiamo di imitare gli atteggiamenti che abbiamo riscontrati in Abramo, in Mosè, in Giobbe e nello stesso Gesù (anche se tutto ciò sarà, esso pure, necessario e richiesto in un secondo momento), ma viene a noi per infusione, come dono.

Questa è l’incredibile “buona notizia” a proposito della preghiera cristiana! Viene a noi il principio stesso di tale preghiera nuova e tale principio consiste nel fatto che “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6).

  • Questo vuol dire pregare “nello Spirito”, o “mediante lo Spirito” (cf Ef 6, 18; Gd 20).

  • Anche nella preghiera, come in tutto il resto, lo Spirito “non parla da sé”, non dice cose nuove e diverse; semplicemente, egli risuscita e attualizza, nel cuore dei credenti, la preghiera di Gesù. “Egli prenderà del mio e ve lo annunzierà”, dice Gesù del Paraclito (Gv 16, 14): prenderà la mia preghiera e la darà a voi.

  • In forza di ciò, noi possiamo esclamare con tutta verità: “Non sono più io che prego, ma Cristo prega in me!”. “Il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, scrive Agostino, è colui che prega per noi, che prega in noi e che è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo dunque in lui la nostra voce, e in noi la sua voce” [6] .

  • Il grido stesso Abbà! dimostra che chi prega in noi, attraverso lo Spirito, è Gesù, il Figlio unico di Dio. Per se stesso, infatti, lo Spirito Santo non potrebbe rivolgersi a Dio, chiamandolo Padre, perché egli non è “generato”, ma soltanto “procede” dal Padre. Quando ci insegna a gridare Abbà! lo Spirito Santo – diceva un autore antico – “si comporta come una madre che insegna al proprio bambino a dire “papà” e ripete tale nome con lui, finché lo porta all’abitudine di chiamare il padre anche nel sonno” [7] .

  • La madre non potrebbe rivolgersi al suo sposo chiamandolo “papà” perché è sua moglie non sua figlia; se lo fa è perché parla a nome del suo bambino e si identifica con lui.

  • Qualcuno si è chiesto come mai nel “Padre nostro” non viene nominato lo Spirito Santo; nell’antichità ci fu perfino chi cercò di colmare questa lacuna, aggiungendo in alcuni codici, dopo l’invocazione per il pane quotidiano, le parole: “lo Spirito Santo venga su di noi e ci purifichi”. Ma è più semplice pensare che lo Spirito Santo non è tra le cose chieste perché è colui che le chiede. “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6). È lo Spirito Santo che intona ogni volta in noi il “Padre nostro”; senza di lui grida a vuoto “Abbà!” chiunque lo grida.

3. Il respiro trinitario della preghiera cristiana È lo Spirito Santo che infonde, dunque, nel cuore il sentimento della figliolanza divina, che ci fa sentire (non soltanto sapere!) figli di Dio: “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8, 16). A volte questa operazione fondamentale dello Spirito si realizza nella vita di una persona in modo repentino e intenso e allora se ne può contemplare tutto lo splendore.

L’anima è inondata di una luce nuova, nella quale Dio le si rivela, in un modo nuovo, come Padre. Si fa esperienza di cosa vuol dire veramente la paternità di Dio; il cuore si intenerisce e la persona ha la sensazione di rinascere da questa esperienza. Dentro di lei appare una grande confidenza e un senso mai provato della condiscendenza di Dio che, a tratti, si alterna con il sentimento altrettanto vivo della sua infinita grandezza, trascendenza e santità. Dio appare davvero “il mistero tremendo e affascinante” che ispira, nello stesso tempo, somma fiducia e riverente timore.

La preghiera del cristiano si risolve tutta, in questi momenti, in “commossa gratitudine”. Quando san Paolo parla del momento in cui lo Spirito irrompe nel cuore del credente e gli fa gridare: “Abbà Padre!”, allude a questo modo di gridarlo, a questa ripercussione di tutto l’essere, nel grado più alto. Così avveniva in Gesù quando, “in un impeto di esultanza nello Spirito Santo”, esclamava : “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra” (Lc 10, 21). Non bisogna però illudersi.

Questo modo vivido di conoscere il Padre di solito non dura a lungo; ritorna presto il tempo in cui il credente dice “Abbà!”, senza “sentire” nulla, e continua a ripeterlo solo sulla parola di Gesù. È il momento, allora, di ricordare che quanto meno quel grido rende felice chi lo pronuncia, tanto più rende felice il Padre che lo ascolta, perché fatto di pura fede e di abbandono.

Noi siamo, allora, come Beethoven. Divenuto sordo, egli continuava a comporre splendide sinfonie, senza poter gustare il suono di alcuna nota. Quando fu eseguita per la prima volta la sua Nona sinfonia, terminato l’inno finale alla gioia, il pubblico esplose in un uragano di applausi e qualcuno dell’orchestra dovette tirare il maestro per il lembo della giacca perché si voltasse a ringraziare. Lui non aveva gustato nulla della sua musica, ma il pubblico era in delirio.

La sordità, anziché spegnere la sua musica, la rese più pura e così fa anche l’aridità con la nostra preghiera. E proprio in questo tempo di “assenza” di Dio e di aridità spirituale che si scopre tutta l’importanza dello Spirito Santo per la nostra vita di preghiera. Egli, da noi non visto e non sentito, riempie le nostre parole e i nostri gemiti, di desiderio di Dio, di umiltà, di amore, “e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito”. Noi non lo sappiamo, ma lui sì!

Lo Spirito diviene, allora, la forza della nostra preghiera “debole”, la luce della nostra preghiera spenta; in una parola, l’anima della nostra preghiera. Davvero, egli “irriga ciò che è arido” (rigat quod est aridum), come diciamo nella sequenza in suo onore. Tutto questo avviene per fede. Basta che io dica o pensi: “Padre, tu mi hai donato lo Spirito di Gesù; formando, perciò, un solo Spirito con Gesù, io recito questo salmo, celebro questa santa Messa, o sto semplicemente in silenzio alla tua presenza. Voglio darti quella gloria e quella gioia che ti darebbe Gesù, se fosse lui a pregarti ancora di persona dalla terra”.

Da tutto ciò emerge la caratteristica unica della preghiera cristiana che la distingue da ogni altra forma di preghiera. Ispirandoci a un’espressione della B. Angela da Foligno, potremmo dire che pregare significa “raccogliersi in unità e inabissare la propria anima nell’infinito che è Dio” [8] .

Nella preghiera si attuano così i due movimenti più propri dello spirito umano che sono rientrare in se stesso e uscire da se stesso.

Al centro di ogni essere umano c’è un punto di unità e di verità che chiamiamo cuore, coscienza, io profondo, centro della personalità o con altri nomi ancora. È più facile conoscere ed entrare in contatto con il mondo intero fuori di noi che non giungere a questo centro di noi stessi, come è più facile, per gli scienziati, inviare sonde su Marte ed esplorare gli spazi interplanetari che esplorare cosa c’è, a poche migliaia di chilometri da noi, al centro della terra, dove nessuno infatti è mai arrivato.

La preghiera, quando è autentica, permette anche ai più semplici, di attingere questo traguardo: ci raccoglie in unità, ci mette in contatto con il nostro io più profondo. La persona non è mai se stessa come quando prega. Appena però l’essere umano si raccoglie in sé, si accorge che non basta a se stesso, sperimenta il limite e il bisogno di superarlo, di evadere verso spazi meno angusti.

A volte prendere coscienza di quello che siamo in verità, ci può incutere perfino spavento…La preghiera è l’unica a offrire alla creatura umana la possibilità di superare il suo limite. Essa le permette di “inabissare la propria anima nell’infinito che è Dio”. La persona che ha anche un attimo solo di vera preghiera sente di poter far sue le parole di Leopardi nell’Infinito: “Il naufragar m’è dolce in questo mare”.

In ciò si rivela la differenza della preghiera cristiana rispetto a forme di preghiera e di meditazione di altra provenienza: yoga, meditazione trascendentale, enneagramma… Queste tecniche di concentrazione possono essere di aiuto per realizzare il primo dei due movimenti della preghiera – quello verso il centro di sé -, ma sono impotenti a realizzare il secondo movimento, quello dall’io a Dio.

Per questo contatto con un Dio personale, “totalmente Altro” dal mondo, noi cristiani crediamo che non c’è altra via che lo Spirito di colui che ha detto: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. 4. “Dammi ciò che mi comandi!” C’è in noi, a causa di tutto ciò, come una vena segreta di preghiera. Parlando di essa, il martire sant’Ignazio d’Antiochia, scriveva: “Sento in me un’acqua viva che mormora e dice: Vieni al Padre!” [9] .

Cosa non si fa, in alcuni paesi afflitti da siccità, quando, da certi indizi, si scopre che c’è, nel terreno sottostante, una vena d’acqua: non si smette di scavare, finché quella vena non è stata raggiunta e portata alla superficie. Io stesso mi trovavo una volta in Africa, in un villaggio dove l’acqua da sempre era qualcosa di prezioso che le donne andavano a cercare lontano e portavano a casa con poveri recipienti appoggiati sulla testa. Un missionario che aveva il dono di “sentire” la presenza dell’acqua aveva detto che ci doveva essere una vena d’acqua che passava sotto il villaggio e si stava scavando un pozzo. La sera del mio arrivo si stava rimuovendo l’ultimo strato di terra, dopo di che si sarebbe visto se c’era o no acqua. C’era!

Agli abitanti del villaggio sembrò un miracolo e fecero festa danzando tutta la notte al suono di tamburi. L’acqua scorreva sotto le loro case e non lo si sapeva! Per me era un’immagine di ciò che capita a noi a proposito della preghiera. Vi sono cristiani che si recano fino all’estremo oriente per imparare a pregare; non hanno ancora scoperto di avere in se, per il battesimo, la sorgente stessa della preghiera.

Questa vena interiore di preghiera, costituita dalla presenza dello Spirito di Cristo in noi, non vivifica soltanto la preghiera di petizione, ma rende viva e vera ogni altra forma di preghiera: quella di lode, quella spontanea, quella liturgica. Soprattutto, direi, quella liturgica. Infatti, quando noi preghiamo spontaneamente, con parole nostre, è lo Spirito che fa sua la nostra preghiera, ma quando preghiamo con le parole della Bibbia o della liturgia, siamo noi che facciamo nostra la preghiera dello Spirito, ed è cosa più sicura.

Anche la preghiera silenziosa di contemplazione e di adorazione trova un incalcolabile giovamento a essere fatta “nello Spirito”. Questo è ciò che Gesù chiamava “adorare il Padre in Spirito e verità” (Gv 4, 23). La capacità di pregare “nello Spirito” è la nostra grande risorsa. Molti cristiani, anche veramente impegnati, sperimentano la loro impotenza di fronte alle tentazioni e l’impossibilità di adeguarsi alle esigenze altissime della morale evangelica e concludono, talvolta, che è impossibile vivere integralmente la vita cristiana. In un certo senso, hanno ragione. È impossibile, infatti, da soli, evitare il peccato; ci occorre la grazia; ma anche la grazia – ci viene insegnato – è gratuita e non la si può meritare.

Che fare allora: disperarsi, arrendersi? Risponde il concilio di Trento: “Dio, dandoti la grazia, ti comanda di fare ciò che puoi e di chiedere ciò che non puoi” [10] . Quando uno ha fatto tutto quanto sta in lui e non è riuscito, gli resta pur sempre una possibilità: pregare e, se ha già pregato, pregare ancora! La differenza tra l’antica e la nuova alleanza consiste proprio in questo: nella legge, Dio comanda, dicendo all’uomo: “Fa’ quello che ti comando!”; nella grazia, l’uomo domanda, dicendo a Dio: “Dammi quello che mi comandi!”.

Una volta scoperto questo segreto, sant’Agostino, che fino allora aveva combattuto inutilmente per riuscire a essere casto, cambiò metodo e anziché lottare con il suo corpo, cominciò a lottare con Dio; disse: “O Dio, tu mi comandi di essere casto; ebbene, dammi ciò che mi comandi e poi comandami ciò che vuoi!” [11] .E ottenne la castità! 5. Il sacerdote maestro di preghiera Nella Novo millennio ineunte il papa dice che la santità è un “dono” che si traduce in “compito” [12] .

Lo stesso si deve dire della preghiera: essa è un dono di grazia che crea però in chi lo riceve il dovere di corrispondervi, di coltivarlo. Di questo vorrei occuparmi nella seconda parte di questa meditazione: la preghiera come compito primario del sacerdote. Se le comunità cristiane devono essere ”scuole di preghiera”, i sacerdoti che le guidano devono, di conseguenza, essere “maestri di preghiera”. Non posso, a questo proposito, trattenere un lamento. Un giorno gli apostoli dissero a Gesù: “Insegnaci a pregare”.

Oggi tanti cristiani fanno silenziosamente al sacerdote e alla Chiesa la stessa richiesta: “Insegnaci a pregare!” Purtroppo in tante parrocchie si fa di tutto; ci sono iniziative di ogni genere, per i giovani, gli anziani, gruppi per lo sport, le gite, il tempo libero…, ma niente che invogli e aiuti la gente a pregare. Spesso chi avverte questo bisogno di spiritualità è indotto a cercare al di fuori di Cristo, in forme di spiritualità esoteriche e orientaleggianti, di cui ho messo in rilievo sopra il limite intrinseco per un cristiano. “Non è forse un ‘segno dei tempi’ –prosegue il papa nella sua lettera apostolica – che si registri oggi, nel mondo, nonostante gli ampi processi di secolarizzazione, una diffusa esigenza di spiritualità, che in gran parte si esprime proprio in un rinnovato bisogno di preghiera?

Anche le altre religioni, ormai ampiamente presenti nei Paesi di antica cristianizzazione, offrono le proprie risposte a questo bisogno, e lo fanno talvolta con modalità accattivanti. Noi che abbiamo la grazia di credere in Cristo, rivelatore del Padre e Salvatore del mondo, abbiamo il dovere di mostrare a quali profondità possa portare il rapporto con lui” [13] . Nessuno può insegnare ad altri a pregare se non è lui stesso un uomo di preghiera e qui tocchiamo il punto nevralgico. Ricordiamo ciò che dice Pietro in occasione della prima ripartizione dei ministeri fatta in seno alla comunità cristiana: “Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense…Noi ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola” (At 6, 2-4).

Se ne deduce che il pastore può delegare ad altri tutto, o quasi tutto, nella conduzione della comunità, eccetto la preghiera. Può essere di grande sostegno a un pastore, in questo campo, avere intorno a sé quello che santa Caterina da Siena chiamava “un muro di preghiera”, formato da anime desiderose del bene della Chiesa [14] . Ne abbiamo un esempio negli Atti degli apostoli. Pietro e Giovanni sono rilasciati dal Sinedrio con l’ingiunzione di non parlare più nel nome di Cristo. Se ignorano il comando espongono tutta la comunità a rappresaglie, se obbediscono tradiscono il mandato di Cristo. Non sanno che fare.

È la preghiera della comunità che permette di superare la grave crisi. La comunità si mette in preghiera; uno legge un salmo, un altro ha il dono di applicarlo alla situazione presente; si determina un clima di intensa fede; avviene come una replica della Pentecoste e gli apostoli, pieni di Spirito Santo, riprendono ad annunciare “con parresia” il messaggio di salvezza (cf Atti 4, 23-31).

Noi conosciamo di solito due forme fondamentali di preghiera: la preghiera liturgica e la preghiera privata o personale. La preghiera liturgica è comunitaria, ma non spontanea, nel senso che in essa ci si deve attenere a parole e formule stabilite e uguali per tutti. La preghiera personale è spontanea, ma non comunitaria. Esiste un terzo tipo di preghiera che è spontanea e comunitaria insieme: è la preghiera di gruppo, o il gruppo di preghiera.

I “gruppi di preghiera”, di varia ispirazione, sono un segno dei tempi da accogliere con gratitudine, pur vigilando a che operino in modo sano e in umiltà all’interno della comunità. Questo è il tipo di preghiera a cui si riferisce Paolo quando scrive ai Corinzi: “Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle. Ma tutto si faccia per l’edificazione” (1 Cor 14,26); è quello che suppone anche il passo della Lettera agli Efesini: “Siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo “ (Ef 5,19-20).

6. Preghiera e azione pastorale

Una cosa soprattutto è necessario rinnovare nella vita del sacerdote ed è il rapporto tra preghiera e azione. Si deve passare da un rapporto di giustapposizione a un rapporto di subordinazione. Giustapposizione è quando prima si prega e poi si passa all’attività pastorale; subordinazione è quando prima si prega e poi si fa quello che il Signore ha mostrato in preghiera!

Gli apostoli e i santi non pregavano semplicemente prima di fare qualcosa; pregavamo per conoscere cosa fare!

Per Gesú pregare e agire non erano due cose separate, o giustapposte; di notte egli pregava e poi di giorno eseguiva quello che aveva capito essere la volontà del Padre: “In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli” (Lc 6,12-13).

Se crediamo veramente che Dio governa la Chiesa con il suo Spirito e risponde alle preghiere, dovremmo prendere molto sul serio la preghiera che precede un incontro pastorale, una decisione importante; non accontentarci di recitare, in tutta fretta, una Ave Maria e fare un segno di croce per poi passare all’ordine del giorno, come se questo fosse la vera cosa seria. A volte può sembrare che tutto continui come prima e che nessuna risposta sia emersa dalla preghiera, ma non è così. Pregando si è “presentata la questione a Dio” cf Es 18, 19); ci si è spogliati di ogni interesse personale e della pretesa di decidere da soli, si è dato a Dio la possibilità di intervenire, di far capire qual è la sua volontà.

Qualunque sia la decisione che si prenderà in seguito sarà quella giusta davanti a Dio. Spesso facciamo l’esperienza che più è il tempo che dedichiamo alla preghiera su un problema, tanto meno è il tempo che occorre poi per risolverlo. Molti sacerdoti possono testimoniare che la loro vita e il loro ministero sono cambiati a partire dal momento in cui hanno preso la decisione di mettere un’ora di preghiera personale al giorno nel loro orario, recintando, come con filo spinato, questo tempo sulla loro agenda per difenderlo da tutti e da tutto.

Un posto particolare deve occupare, nella vita del sacerdote, la preghiera di intercessione. Gesù ce ne da l’esempio con la sua “preghiera sacerdotale”. “Prego per loro, per coloro che mi hai dato. [...] Custodiscili nel tuo nome. Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Consacrali nella verità. [...] Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me…” (cf Gv 17, 9 ss). Gesù dedica relativamente poco spazio a pregare per sé (“Padre, glorifica il figlio tuo!”) e molto di più a pregare per gli altri, cioè a intercedere. Dio è come un padre pietoso che ha il dovere di punire, ma che cerca tutte le possibili attenuanti per non doverlo fare ed è felice, in cuor suo, quando i fratelli del colpevole lo trattengono dal farlo.

Se mancano queste braccia fraterne levate verso di lui, egli se ne lamenta nella Scrittura: “Egli ha visto che non c’era alcuno, si è meravigliato perché nessuno intercedeva” (Is 59, 16). Ezechiele ci trasmette questo lamento di Dio: “Io ho cercato fra loro un uomo che costruisse un muro e si ergesse sulla breccia di fronte a me, per difendere il paese perché io non lo devastassi, ma non l’ho trovato” (Ez 22, 30). Quando, nella preghiera, noi sacerdoti sentiamo che Dio è in lite con il popolo che ci è stato affidato, non dobbiamo schierarci con Dio, ma con il popolo! Così fece Mosè, fino a protestare di voler essere radiato lui stesso, con loro, dal libro della vita (cf Es 32, 32), e la Bibbia fa capire che questo era proprio ciò che Dio desiderava, perché egli “abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo”.

Quando saremo davanti al popolo, allora dovremo, con tutta la forza, difendere i diritti di Dio. Solo chi ha difeso il popolo davanti a Dio e ha portato il peso del suo peccato, ha il diritto – e avrà il coraggio –, dopo, di gridare contro di esso, in difesa di Dio. Quando, scendendo dal monte, Mosè si trovò di fronte al popolo che aveva difeso sul monte, allora si accese la sua ira: frantumò il vitello d’oro, ne disperse la polvere nell’acqua e fece trangugiare l’acqua alla gente, gridando: “Così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente?” (cf. Es 32, 19 ss.; Dt 32, 6).

Ho ricordato alcuni “doveri” del sacerdote riguardo alla preghiera, ma non vorrei che l’idea di dovere rimanesse, al termine di questa riflessione, la nota dominante, facendoci dimenticare che essa è prima di tutto dono. Se ci sentiamo tanto al di sotto di questo modello del sacerdote “uomo di preghiera”, non dimentichiamo mai quello che ci ha assicurato S. Paolo all’inizio: “Lo Spirito Santo viene in aiuto della nostra debolezza”.

Forti di tale parola, noi possiamo iniziare ogni mattina la nostra giornata di preghiera dicendo: “Spirito Santo vieni in aiuto della mia debolezza. Fammi pregare. Prega tu in me, con gemiti inesprimibili. Io dico Amen, sì a tutto ciò che tu chiedi per me al Padre nel nome di Gesú”.

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[1] Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 32-34.

[2] Il libro della B. Angela da Foligno, Quaracchi, Grottaferrata, 1985, p. 454 s.

[3] S. Agostino, Commento alla prima lettera di Giovanni, 7,8 (PL 35. 2023).

[4] S. Agostino, Sermoni, 340,1 (PL 38, 1483): “Vobis sum episcopus, vobiscum sum christianus”.

[5] Cf. S. Agostino, Lettere, 130, 4, 9 (CSEL 44, p.50).

[6] Agostino, Enarrationes in Psalmos 85, 1: CCL 39, p. 1176.

[7] Diadoco di Fotica, Capitoli sulla perfezione 61 (SCh 5 bis, p. 121).

[8] Il libro della B. Angela da Foligno, ed. Quaracchi, Grottaferrata 1985, p. 474 (“recolligere nos in Deo, scilicet totam animam in ista infinitate divina”).

[9] S. Ignazio d’Antiochia, Ai Romani 7, 2.

[10] Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, n. 1536.

[11] Agostino, Confessioni, X, 29.

[12] NMI, 30. [13] NMI, 33. [14] S. Caterina da Siena, Preghiere,

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