Viaggio d’arte in Asia Orientale – Prof. Motoaki Ishi

AsiaOrientale

Viaggio d’arte in Asia Orientale

Vittorio Pica, viaggiatore immaginario e critico d’arte

 

Prof. Motoaki Ishi (Ordinario di Storia dell‘Arte dell‘Università delle Belle Arti di Osaka, Giappone)

 

Ci sono alcuni italiani celebri che conobbero il Giappone senza mai andarci.

Ricordiamo innanzitutto Marco Polo che diede nel suo “Milione” la prima notizia sul mio paese raccogliendo informazione nell’impero di Cubilay-khan. Da lui ebbe origine al nome del paese in tutte le lingue europee. Mi spiego: il mio paese si chiama Nippon-koku o Nihon-koku nella lingua giapponese con tre caratteri cinesi. Gli stessi caratteri si pronunciano in cinese “rìbenguo” dalla quale il veneziano prese la pronuncia “Zipangu”. Questo “Zipangu”, come sapete tutti, fu l’origine per “Giappone” in italiano, “Japan” in inglese, “Japon” in francese e così via.

Un altro esempio potrebbe essere Giacomo Puccini che compose “Madama Butterfly” basandosi sul famoso racconto sulla Kichi che visse a Shimoda. Il compositore livornese adoperò brani di folklore giapponese e riuscì a realizzare un dramma fantastico. Questi due “viaggiatori in sogno” sono gli esemplari ben riusciti.

Anche Vittorio Pica, famoso critico d’arte di origine napoletana, che molto fece alle Biennali di Venezia nell’ultimo periodo della sua vita, scrisse i primi lavori sull’arte giapponese in Italia pur non conoscendo direttamente nulla del paese.

Per capire meglio la situazione in cui Pica intraprese questa attività, ci conviene cominciare con il panorama in Europa. In paesi come la Francia, l’Inghilterra e l’Austria, l’interesse per l’arte giapponese fu uno degli stimoli fondamentali nel mondo artistico dell’epoca, dando origine al movimento conosciuto con il nome francese di japonisme. Ernst Chesneaux e Paul Gasnault avevano già scritto sulla “Gazette des Beaux-arts” sulla sezione dell’arte giapponese all’Esposizione universale di Parigi del 1878. Un anno più tardi, sempre sulla stessa rivista, Théodore Duret scrisse l’articolo L’art japonais: les livres illustrés. Les albums imprimés. Hokousaï. Un altro letterato francese, Edmond de Goncourt parlò della propria collezione di alcuni oggetti d’arte giapponese nella sua La maison d’un artiste, uscita nel 1881. Mentre nel 1882 un medico inglese, William Anderson che si era recato in Giappone, pubblicò a Londra Japanese Wood Engravings, la prima opera completa sull’arte giapponese (diapp. 1-5).

Il 1883 fu l’anno più proficuo per il japonisme: Christopher Dresser, portabandiera inglese del movimento Arts and Crafts, pubblicò a Londra Japan, its Architecture, Art and Art Manu­factures, mentre a Parigi uscì la grande opera in due volumi di Louis Gonse, L’art japonais, con numerose tavole (diapp.6-8 della versione del 1886) . L’autore si era avvalso della collaborazione di due giapponesi attivi a Parigi: Wakai Kenzaburō e Hayashi Tadamasa. In seguito furono pubblicati The Pictorial Arts of Japan di Anderson (diapp.9-12) e Ornamental Arts of Japan di George Audsley.

Nel campo dei periodici, Siegfried Bing pubblicò simultaneamente in Francia, Germania e Inghilterra, tra il 1888 e il ‘91, una lussuosa rivista intitolata in francese “Le Japon artistique” (diap. 13). L’intenzione di Bing era di presentare [une reproduction fidèle des originaux]1 resa possibile grazie alla sofisticata tecnica fotografica di Charles Gillot. Nella capitale francese il japonisme era giunto a maturità sulla base di numerosi oggetti di bassa qualità fabbricati appositamente per l’esportazione in Europa. Era dunque nato il bisogno di informare il pubblico sulla vera natura dell’arte nipponica.

All’inizio degli anni Novanta fu reso noto un pittore della ‘scuola volgare’, famoso per la rappresentazione della bellezza muliebre, Kitagawa Utamaro. Edmond de Goncourt, autore de La maison d’un artiste, pubblicò Outamaro, le peintre des maisons vertes nel 1891 (diapp.14-17). Anche Bing scrisse Estampes d’Outamaro et de Hiroshigé nel 1893.

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Nell’Italia degli anni Ottanta un caso analogo fu la [giapponeseria] di Gabriele D’Annunzio, che si ispirò a La Maison d’un artiste di Goncourt.

L’arte giapponese sembra esser stata abbastanza conosciuta tra gli artisti italiani di quel periodo grazie agli scritti di Gonse e Anderson, tant’è vero che, senza fornire informazioni di tipo storico, ne riferisce Domenico Fadiga, segretario dell’Accademia di Belle Arti di Venezia nel suo discorso di fine anno accademico 1883-84. In tale discorso il segretario veneziano, pur apprezzando l’alta qualità delle industrie artistiche in Giappone, notava “la mancanza di grandi arti”.

Il punto di vista di Fadiga rispecchia probabilmente la visione dell’arte giapponese diffusa in Europa, dove si andavano accumulando opere d’arte nipponica, soprattutto stampe ed kōgeihin e cioè oggetti d’arte applicata. Va sottolineato come la visione generale dell’arte giapponese in Europa si fondasse proprio su queste opere e come, conseguentemente, fosse molto diversa da quella corrente in Giappone, dove le stampe erano considerate una forma d’arte minore e di poca importanza.

Negli anni Novanta, anche in Italia fu infine pubblicato un libro sulla storia dell’arte giapponese: L’arte dell’Estremo Oriente di Vittorio Pica pubblicato nel 1894. Il ruolo di Pica come divulgatore dell’arte giapponese finora non è stato studiato a sufficienza; Maria Mimita Lamberti vi accenna in due dei suoi articoli, e Giovanni Peternolli riferisce dell’amicizia tra Pica e Edmond de Goncourt. Gli studi sul japonisme sono stati eseguiti quasi sempre con riferimento al versante francese, e mi pare quindi importante illustrare la formazione di Pica come critico italiano dell’arte giapponese dato che in seguito divenne una figura predominante in questo campo.

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Vittorio Pica (1866-1930), formatosi nell’ambiente culturale, si avvicinò ad Edmond de Goncourt, delle cui opere scrisse alcune recensioni già nel 1882, mentre studiava ancora presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Napoli. Nel 1881 aveva iniziato con Goncourt una regolare corrispondenza, da cui traspare la sua fervida ammirazione per il letterato francese. Il suo interesse per l’arte giapponese ha origine da questa sua ammirazione. Lo stesso Pica riferisce di un incontro con Goncourt nel 1891 nei seguenti termini:

 

“Una di queste immaginarie gite nell’Estremo Oriente l’ho fatta tre anni fa, e non così presto nella mia mente se ne cancellerà il delizioso ricordo. Era un tiepido meriggio di giugno, e Edmondo de Goncourt, che già più volte mi aveva amichevolmente accolto nell’indimenticabile suo villino-museo di Auteuil, volle quel giorno mostrarmi la ricca sua collezione di albi giapponesi. […] Sullo scrittoio gli albi di Hokusai, di Utamaro, di Toyokuni, di Hiroshighé si accumulavano, si schieravano, si aprivano dinanzi a me, rivelandomi un prodigioso mondo,

pieno di luce e di letizia2.”

 

L’indicazione [un tiepido meriggio di giugno] si trova in un passo del diario goncourtiano. Qui Pica era comparso per la prima volta sabato 16 maggio con l’immagine abbastanza negativa del selvaggio così profumato da far venire la nausea, insopportabile per il raffinato japonisant.

 

Le Napolitain Pica, un sauvage des Abruzzes, parfumé à faire mal au cœur, qui se sert à même au plat rapporté sur la table, n’attendant pas qu’on le serve et dont les remuements de sanglier et la gesticulation balourde manquent de casser, après déjeuner, la statuette de Falconet qui est sur la cheminée de mon cabinet de travail3. ”

 

Questa impressione peggiora ancora nella seconda visita di giovedì 4 giugno.

 

A ce Pica, il manque absolument la lèvre supérieure, et la montre de ses grandes dents blanches dans un sourire napolitain lui donne un caractère cannibalesque4. ”

 

Goncourt non sopportava il profumo che Pica si metteva, e sabato 13 giugno lo invitò a lavarsi le mani. [Après quoi, sentant moin bon, il est un invité très agréable5].

Al contrario, Pica elogia il letterato francese:

 

”Fu così che io viaggiai per la prima volta nel Giappone, già da lunghi anni adorato ed intravvisto attraverso le pagine dei libri ed i miraggi dei sogni: ed oggi, che tento di rievocare quelle ore di intenso diletto estetico, io non posso fare a meno di mandare un affettuoso ed ossequente saluto a colui che nell’immaginario viaggio mi fu guida dotta e preziosa e che seppe accrescermene l’intellettuale godimento con la sua parola affascinante e coloratrice, a Edmondo de Goncourt, all’artista altero, novatore, geniale, che così gloriosamente onora le lettere francesi6. ”

 

Da questi passi si capisce come Pica abbia conosciuto l’arte giapponese, in particolare quella produzione xilografica che costituiva il maggiore interesse del francese, attraverso la mediazione di Goncourt nel 1891.

Anche per Goncourt quell’anno ebbe una grande importanza. Negli anni Ottanta era arrivata a Parigi la seconda ondata di importazioni di stampe giapponesi, la cui qualità e quantità era superiore alla prima degli anni Sessanta. Molti japonisants come Siegfried Bing, Philippe Burty e Louis Gonse furono presi da un folle entusiasmo per acquistarle. L’interesse di Goncourt si indirizzò verso Utamaro, maestro della xilografia della seconda metà del Settecento e pittore dell’eleganza e della bellezza femminile. Nel marzo 1886 il pittore appare per la prima volta nel diario di Goncourt, la cui ammirazione, nel 1888, era diventata ancor più fervida. Nakajima Kenzō nel suo studio sulla corrispondenza fra il mercante d’arte giapponese Hayashi Tadamasa e Goncourt afferma come segue. Vi dico nella mia traduzione dal testo in giapponese.

 

”Il 13 maggio 1888 Hayashi e Goncourt stavano tête à tête a guardare Seirō jūni toki (Le dodici ore delle case verdi). Goncourt chiamava Utamaro ‘il mio pittore preferito’; in una lettera a Hayashi dell’aprile 1890 egli si considera ‘un francese giapponesizzato’ e chiede a Hayashi di tradurre i materiali per la biografia di Utamaro, soprattutto una parte del testo di Seirō nenchū gyōji (Diario delle case verdi). Sempre nella stessa lettera chiede a Hayashi di collaborare a pubblicare il catalogo della sua collezione di opere d’arte giapponese. I suoi libri Utamaro e Hokusai si possono considerare la realizzazione dei suoi sogni7. ”

 Hokusai

L’amore di Goncourt per Utamaro si rinnovò in occasione della mostra che Bing organizzò presso l’École des Beaux-Arts di Parigi nel 1890. Con l’aiuto di Hayashi, terminò gli studi sull’artista nel giugno 1890, e un anno dopo pubblicò la monografia Outamaro, le peintre des maisons vertes. L’opera doveva far parte di una serie di monografie su cinque artisti giapponesi: Kitagawa Utamaro, Katsushika Hokusai, Ogata Kōrin, Ogawa Ritsuō e Gakutei. Troviamo anche qui una caratteristica tipica della critica europea sull’arte giapponese e cioè la maggior parte degli autori trattati sono pittori dell’ukiyoe e artisti dell’arte applicata.

La monografia ebbe grande risonanza in tutta Europa, e ne apparvero molte recensioni, tra cui quelle di Felice Cameroni e Vittorio Pica in Italia.

L’anno in cui Pica incontrò Goncourt per la prima volta fu appunto quello in cui comparve la monografia. Il Francese stimolò nell’Italiano una fervida passione per Utamaro, come risulta dalla recensione di quest’ultimo del libro goncourtiano apparsa su “La tavola rotonda” del 7 settembre 1891. Possiamo dire che Pica aveva costruito la sua visione critica già nel 1891, e che su tale visione fondò tutta la sua critica successiva. L’accento posto su Utamaro rimarrà anche ne L’Arte dell’Estremo Oriente del 1894 in cui Pica fece alcune aggiunte e correzioni rispetto alla recensione del 1891. Per esempio, scrivendo di Utagawa Kuniyoshi, cita la storia dei 47 Ronin, che Goncourt amava e pubblicò due volte, prima ne La maison d’un artiste e dopo ne “Le Japon artistique”, l’ultima volta intitolato Une écritoire de poche fabriquée par un des 47 ronins. Visto che il libro di Pica tratta l’arte giapponese in generale per la prima volta in Italia, l’autore aggiunse molte notizie prese dall’opera di Gonse per le parti non riguardanti i pittori che scrive il Francese. Del Harakiri, netzuke e fukusa, invece Pica continua a seguire i passi di Goncourt come prima traducendo direttamente e addirittura mantenendo lo stile del Francese. L’arte dell’Estremo Oriente si fonda sulla critica d’arte giapponese in Francia, e in modo particolare sugli scritti di Goncourt. Il libro conferì all’autore il ruolo di primo conoscitore dell’arte giapponese in Italia, e fu fondamentale anche per la sua successiva attività in questo campo.

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Pica tenne due conferenze, a Napoli poco prima della pubblicazione del libro, e a Firenze nel febbraio del 1897, riassumendo il testo del 1894. Il “Marzocco” di Firenze del 14 febbraio annunciava come segue:

 

“Una conferenza di V. Pica Dimani, lunedì il nostro collaboratore Vittorio Pica, uno dei pochissimi critici italiani seriamente competenti in fatto d’arte, parlerà sull’arte giapponese in una delle sale dell’Esposizione.”

 

L’esposizione s’intende quella nazionale del 1897. Lo stesso giornale fiorentino, una settimana dopo (21 febbraio), riassumeva la conferenza, il cui contenuto risulta quasi uguale a quello del libro del 1894, dove la mancanza di tavole illustrate rendeva difficile capire l’arte di un paese così lontano. La recensione, accompagnata da due tavole di Utamaro, serviva ad illustrare meglio i concetti esposti.

Per colmare questa lacuna, Pica nel 1896, pubblicò su “Emporium” l’articolo Attraverso gli albi e le cartelle. Gli albi giapponesi. Questa rivista, esemplata sull’inglese “The Studio”, contribuì alla diffusione delle conoscenze artistiche con molte belle illustrazioni stampate con le tecniche più avanzate.

Pica nel già ricordato articolo sulle stampe giapponesi del 1896, fu il primo a presentare a un pubblico più vasto l’arte giapponese, con oltre trenta illustrazioni in ventitré pagine. Lo scopo e il risultato di questo testo si possono paragonare a quelli di Le Japon artistique, che Pica pensava di emulare. Esso si basa fondamentalmente su L’arte dell’Estremo Oriente, con alcune aggiunte e variazioni poco significative. L’obiettivo della serie di articoli su “Emporium” era prevalentemente quello di presentare le stampe, cosicché la storia dell’arte giapponese prima della scuola di ukiyoe fu sinteticamente illustrata in dodici righe. Pica considera moderna l’arte giapponese, cosa che sottolinea in particolare parlando delle stampe dal XVII secolo in poi.

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Di questo articolo alcune tavole sembrano essere state prese da “Le Japon artistique”: per esempio, la stampa «Mercante di fiori» di Torii Kiyonaga era già stata riprodotta rovesciata dalla rivista francese (diap.18), come si nota dalla firma dell’artista – un errore, questo, ripetuto dal Pica. «Donne sopra un ponte» di Utamaro presenta un riquadro con il titolo della rivista francese che nella riproduzione di Pica è riportato vuoto. Anche «Ronino» di Kuniyoshi, ne “Le Japon artistique”, ha ancora il titolo in un riquadro (diap.19), tagliato nella versione italiana. Una stampa di Kuniyoshi, «Suicidio di due amanti» (diap. 20) corrisponde nel testo segunte:

 

I due amanti legati insieme si sono di già buttati giù dal ponte, ma non ancora hanno raggiunto l’acqua: essi non formano più che una massa sola, di cui descernonsi appena i piedi frementi nel vuoto, le braccia, che a vicenda stringonsi in un supremo abbraccio ed il capelluto didietro delle teste, poichè le due facce sono premute l’una sull’altra in un supremo, frenetico bacio.”

 

Tutto questo indica che Pica, oltre a leggere con passione “Le Japon artistique”, utilizzò addirittura nella sua pubblicazione le copertine dei volumi della rivista francese. Tant’è vero che le tre tavole sopracitate non portano il monogramma visibile sulle altre tavole, monogramma utilizzato dal Pica non solo nell’articolo del 1896 ma anche nelle altre sue pubblicazioni sull’arte europea.

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Una buona occasione per la maggiore conoscenza di Pica dell’arte contemporanea giapponese fu la seconda Biennale di Venezia del 1897. Essa, invitando le opere degli artisti della Società artistica giapponese, Nihon bijutsu kyokai, presentò per la prima volta in Italia l’arte giapponese di cui alcuni critici lasciarono i propri pareri. Venne istituito il premio della critica ed esso attirò molti studiosi, sia italiani che stranieri.

Alcuni critici partecipanti al concorso critica, tra cui Primo Levi, Cesare Castelli e Antonio della Rovere, non fecero cenno all’arte giapponese. Lo storico d’arte Corrado Ricci, e i critici d’arte Ugo Ojetti e Enrico Thovez lasciarono descrizioni dettagliate, mentre Ginevra Speraz e Gio. Antonio Munaro sembrano non aver conosciuto il movimento japoniste prima di entrare nella sala giapponese.

L’ultimo, Munaro, all’inizio si chiedeva se “queste cose giapponesi, le quali in fondo non sono che arte decorativa, possono venir qui in mezzo all’arte pura?” ma concluse che “meritavano davvero un posto d’onore all’Internazionale8.”

Corrado Ricci, membro della Giuria del Premio critica della Biennale, accennò alla questione, pur evitando di giungere ad una conclusione. Le sue parole sono interessanti perché l’argomento è tuttora dibattuto, per cui oso di citarle:

 

“Ma come finire quest’articolo senza neppure accennare al conflitto recentemente sorto tra gli artisti giapponesi, conflitto nel quale anche gl’Italiani hanno qualche parte ?

Dunque diremo che i buoni seguaci di Sinto e di Budda vivevano lietamente e serenamente paghi delle forme tradizionali, quando il démone della novità si è cacciato fra di loro cominciando dal lanciare un curioso dubbio: l’arte giapponese è un’arte maggiore, o, pur limitandosi alla decorazione, un’arte minore ?

Purtroppo, i dubbi stanno all’anima, come i microbi del colera al corpo; si moltiplicano rapidamente, si diffondono e distruggono. Così successe per l’arte nel Giappone: su quella domanda pericolosa sorsero le polemiche, e il quieto, patriarcale e secolare vivere fu turbato9.”

 

Ugo Ojetti, partendo da un punto di vista simile a quello di Ricci, sottolineò la mancanza di un confine tra l’arte pura e quella applicata nell’arte giapponese, paragonandola con l’arte rinascimentale italiana. La sua fonte di informazione, a differenza di quella di Pica, mi pare di essere le opere di William Anderson. Alcune frasi sono le traduzioni letterarie. Mentre Pica, basandosi sempre sul proprio volume del 1894, riassume la storia dell’arte giapponese in cui mette le spiegazioni delle opere esposte.

Il 28 dicembre 1897, due mesi dopo la chiusura della seconda Biennale, Pica ricevette il secondo premio al concorso per la critica. La relazione della Giuria rilevò la sua conoscenza dell’arte giapponese, ma egli, convinto di meritare il primo premio e scontento del risultato, scrisse per lamentarsi ad Antonio Fradeletto, segretario del comitato organizzatore della biennale. Il critico svolgeva la sua attività anche sul giornale fiorentino “Marzocco” al cui direttore, Angiolo Orvieto, in procinto di partire per il Giappone, scrisse:

 

“Sono lieto, caro Orvieto, che il mio articoletto non vi sia dispiaciuto. Come v’invidio pel vostro prossimo viaggio e come volentieri vi accompagnerei! Quando sarete in Giappone pensate come sarebbe felice il vostro lontano amico di essere accanto a voi ! Salutatemi tutti i Marzocchini e vogliatemi bene10.”

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Il fatto che Ojetti avesse cominciato ad interessarsi alla storia dell’arte giapponese, attingendo al filone inglese e non francese, fu sicuramente di stimolo a Pica. Nel 1904 questi pubblicò su “Emporium” un articolo sulle incisioni giapponesi intitolato: Attraverso gli albi e le cartelle, recensendo l’incisore e successore di Hokusai, Kawanabe Kyōsai, già studiato da Anderson. Per Pica, Kyōsai era uno dei geni della pittura in Giappone al pari di Kiyonaga, Utamaro, Toyokuni, Hiroshighe, Kuniyoshi e Hokusai.

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L’ultimo stimolo per Pica nello sviluppare la sua visione fu l’apertura del Museo Chiossone a Genova avvenuta nel 1905. Il critico napoletano ammirò l’alta qualità della collezione genovese che conteneva numerose xilografie e lodò il lavoro di Alfredo Luxoro, autore del catalogo del museo, nell’articolo “Il Museo Chiossone a Genova” su “Emporium” nel 1905, seguito da altri tre articoli nel 1906, in cui presentò rispettivamente Le pitture e le stampe, Le sculture e i ceselli e Lacche, avori, ceramiche e ricami.

I testi erano fondamentalmente basati sulla sua opera del 1894, L’arte dell’Estremo Oriente. Si possono notare però alcuni notevoli cambiamenti nella struttura e nel contenuto. Pica, avendo visto le opere d’arte contemporanea giapponese alla Biennale e avendo conosciuto il lavoro di altri critici, come Ojetti e Luxoro, si rese conto dell’importanza delle opere di Gonse e Anderson. Al primo si rifece spesso anche con citazioni mentre aggiunse il secondo alla sua bibliografia. Sparirono quasi tutti i richiami al Goncourt anche per l’assenza degli autori da lui più studiati: Hokusai e Utamaro.

Dell’origine della pittura giapponese, Pica ne L’arte dell’Estremo Oriente aveva scritto solo che [era avvolta nella più fitta nebbia], mentre nell’articolo del 1906, parla della differenza tra lo shintoismo che proibisce l’ammirazione di idoli e il Buddismo promotore dell’arte. Tale spiegazione deve essere frutto dello studio dell’opera di Gonse, il cui primo volume del 1883 tratta diffusamente l’argomento per quasi ottanta pagine. Anche la storia della scuola Tosa diventò più dettagliata sulla base di quest’opera.

Un’ulteriore testimonianza della sua rivalutazione di Gonse si trova nell’apprezzamento del critico francese come conoscitore delle else di spada. Infine nella biblioteca del critico napoletano si conservava la seconda edizione dell’opera di Gonse.

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A mio parere, la concezione della storia dell’arte giapponese di Pica, formatasi tramite la lettura del libro su Utamaro di Goncourt del 1891, subì successive evoluzioni legate all’arricchimento delle sue conoscenze grazie alla presenza dell’arte giapponese, sia antica che contemporanea, alla Biennale e dai contatti con gli altri critici. Pure le sue descrizioni delle opere d’arte presero più vivacità dopo l’apertura della Biennale e del Museo Chiossone.

La critica sull’arte giapponese di Vittorio Pica si perfezionò nei suoi articoli sulla collezione Chiossone: se Attraverso gli albi e le cartelle del 1904 rimane il culmine della sua opera per quanto riguarda le xilografie, quello sull’arte giapponese in generale è costituito dagli articoli del 1906. Egli pubblicò altri due rapporti sull’arte nipponica all’Esposizione universale di Parigi del 1900, all’Esposizione internazionale d’arte decorativa di Torino del 1902 e alla Doppia esposizione universale di Roma e di Torino del 1911, senza cambiamenti importanti rispetto alle opinioni espresse nel 1906.

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Possiamo dire che lo studio sull’arte giapponese in Italia prima della seconda Biennale di Venezia del 1897 aveva come unico esperto Vittorio Pica, grazie alla sua recensione al libro di Goncourt e al più volte richiamato L’arte dell’Estremo Oriente. Questi scritti costituiscono solo una piccola parte della vasta attività critica relativa non solo all’arte ma anche alla letteratura di Pica.

La ragione del ritardo italiano nel campo dell’arte giapponese è dovuta principalmente alla mancata presenza in Italia di un esperto giapponese come Hayashi Tadamasa, che a Parigi aveva aiutato Gonse e Goncourt nelle loro ricerche sull’arte dell’Estremo Oriente. Pica e gli altri critici italiani furono dunque costretti a rivolgersi alle fonti europee, non ad originali giapponesi. In secondo luogo, si può anche ricordare che l’arte italiana in generale non era più all’avanguardia nel panorama europeo. In questa situazione non si poteva sperare in un particolare sviluppo della critica sull’arte giapponese.

Anche in questo contesto arretrato, la critica di Pica non è convincente, mancandogli una conoscenza più approfondita dell’arte giapponese. Ciò lo si nota ad esempio nella descrizione che egli dà delle stampe dell’ukiyoe. Pica, appassionato di stampe in generale, probabilmente conosceva solo questo genere di arte grafica giapponese. Negli altri campi, le sue descrizioni sono superficiali e danno informazioni poco convincenti, forse perché non era un collezionista d’arte appassionato come Gonse, Goncourt e Anderson, che, al contrario, scrissero da pionieri sull’arte giapponese. In Attraverso gli albi e le cartelle, Pica dichiara di possedere stampe ukiyoe, ma la collezione non è più rintracciabile anche se c’è il catalogo della vendita della sua collezione all’Archivio storico delle arti contemporanee di Venezia. Se le sue spiegazioni sull’ukiyoe sono abbastanza convincenti, quelle sulle altre scuole, come quelle di Tosa e di Kano, sulle sculture e sull’architettura non sono accompagnate da vera partecipazione. Si può pensare che possedesse solo alcune xilografie, e non invece anche pitture, presenti ad esempio nella collezione del Chiossone.

Concludo con una frase che si trova nella parte finale del “L’Arte dell’Estremo Oriente”, che secondo me, mostra il limite del critico italiano, a cui mancava il coraggio di affrontare la realtà.

 

“Ogni volta che io mi attardo dinanzi a qualcuna di queste meraviglie dell’arte dell’Estremo Oriente, albo, bronzo o ricamo, o che soltanto la rievoco con la mente, sento dentro di me acuto il pungolo del dolce mal nostalgico, di cui pure a niun costo vorrei guarire.[…]

Lontano, troppo lontano, ahimè! è l’incantevole arcipelago, ed io, come tanti altri, sono condannato a non contemplare quell’adorata plaga che con gli occhi della fantasia.

Ma forse è meglio. Chissà se il tanto desiato viaggio nel Giappone non mi procurerebbe una dolorosa delusione? Non sappiamo noi forse che la prodigiosa arte giapponese da circa cinquant’anni si è trasformata in una speculativa produzione di oggetti di esportazione adatti ai bisogni prosaici degli europei, e di assai discutibile buon gusto e di nessuna originalità? E Bonnetain e Loti non ci hanno forse descritta la recente balorda smania dei Giapponesi, uomini e donne, di abbandonare i loro splendidi vestiti multicolori per i nostri tristi abiti europei, che li rendono grotteschi?

No, no, meglio sognare sempre il paese fatato del Sol Levante e non andarci mai, così come il poeta e romanzatore marsigliese Giulio Méry, che si esaltò, durante tutta la sua vita, al pensiero della lussureggiante flora e della colossale e ieratica architettura dell’India, senza mai poterla vedere.

E poi desiderare ardentemente una qualche cosa, sperare sempre di ottenerla e non ottenerla mai, non è questo forse il più invidiabile destino di un uomo? É soltanto così che si può evitare l’intensa tristezza che ritrovasi fatalmente in fondo ad ogni sogno realizzato!”

 

Grazie.

 

1 Programme, ne “Le Japon artistique”, 1 vol., mai 1888, p.4.

2 V. PICA, L’arte dell’Estremo Oriente, Torino, Roux, 1894, pp.10-11.

3 E. et J. d. GONCOURT, Journal, vol.III, Paris, Bouquins, 1956, p.583.

4 Ibid., p.591.

5 Ibid., p.595.

6 V. PICA, L’arte dell’Estremo…, cit., pp.11-12.

7 [Traduzione] Ukiyoe ni kansuru Hayashi Tadamasaate Gonkūru no shokan (Lettere di Goncourt a Hayashi Tadamasa su ukiyoe), NAKAJIMA Kenzō hen, Tōkyō, Hakusuisha, 1930, p.93.

8 G. A. MUNARO, La seconda Esposizione Internazionale d’Arte Venezia 1897”, ne ”La Gazzetta di Venezia”, 29 agosto 1897; raccolto ne La seconda Esposizione Internazionale d’Arte Venezia 1897, Venezia, Ferrari, 1897, pp.131-136.

9 C. RICCI, L’arte giapponese all’Esposizione di Venezia, ne “L’Illustrazione Italiana”, vol. XXVIII,11 luglio 1897, pp.29-32.

10 Archivio Vieusseux, fondo Orvieto, Pica Vittorio a Angiolo Orvieto, lett. esc. c.13 dal 7 aprile 1896 al 29 giugno 1898, n.14.

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