FATEBENEFRATELLI: Carta d’identità dell’Ordine Ospedaliero

L’ASSISTENZA AI MALATI ED AI BISOGNOSI SECONDO LO STILE DI SAN GIOVANNI DI DIO

 

Roma, 8 marzo 2000

 

PRESENTAZIONE

Ho l’onore e il piacere di presentarvi il documento “La Carta d’Identità dell’Ordine”. Abbiamo voluto che fosse un documento capace di affrontare tutti i punti necessari per illuminare l’ospitalità che siamo chiamati a realizzare oggi come Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio in prospettiva del Terzo Millennio per continuare ad incarnare il profetismo di San Giovanni di Dio.

Il documento era previsto dal Piano del Governo Generale per il Sessennio. Per la sua elaborazione sono stati nominati tre diversi gruppi di lavoro che si sono riuniti in due occasioni a Roma e che a loro volta hanno nominato al loro interno una commissione ristretta che ha elaborato in diversi passaggi con i suggerimenti e le proposte dei tre gruppi il testo che ora tenete nelle vostre mani.

Il Piano del Governo Generale per il Sessennio prevedeva una serie di attività di accompagnamento alla “Carta d’Identità” che tuttavia non si sono potute realizzare perché non è stato possibile elaborare il testo nei tempi previsti.

Il Consiglio Generale ha ritenuto opportuno che, invece di realizzare un nuovo documento apposito per il Capitolo Generale, le Comunità e gruppi scelti di collaboratori studiassero nel corso 1999-2000, sulla base degli orientamenti dati dalla Commissione Preparatoria del Capitolo, la Carta d’Identità. Le conclusioni di questo studio dovrebbero servire per preparare il programma da discutere ed approvare nel LXV Capitolo Generale per il prossimo sessennio.

Questa idea è stata condivisa sia dai membri della Commissione che ha elaborato il testo, sia dai Superiori Maggiori dell’Ordine nella riunione svoltasi a Roma dal 30 novembre al 4 dicembre 1998.

Il documento affronta diversi capitoli importanti per la nostra missione:

- il tema dell’ospitalità che viene sviluppato in un quadro filosofico e teologico-biblico per illuminare i tratti fondamentali di San Giovanni di Dio e della tradizione dell’Ordine giungendo a delineare i principi con i quali desideriamo realizzare la nostra ospitalità oggi;

- la dimensione etica dell’essere umano e dell’assistenza. A questo proposito vengono descritti i principi generali su cui si fonda la nostra etica e le situazioni concrete a cui, trasformandoci in ospitalità vissuta, siamo chiamati a rispondere nello stile di San Giovanni di Dio;

- il tema della cultura dell’ospitalità che ci richiama con forza all’importanza della formazione e della ricerca per rispondere alle sfide del terzo Millennio;

- la necessità di realizzare nelle nostre strutture una gestione carismatica. Dobbiamo applicare le regole del moderno management, ma dobbiamo farlo in maniera carismatica, vale a dire con i valori qualificanti che il seguimento di Cristo e di Giovanni di Dio apportano alla gestione, ancorati alla dottrina sociale della Chiesa.

Procedendo in questa maniera pensiamo di uscire dal Capitolo Generale con un programma pratico che ci aiuterà a vivere nel prossimo sessennio rispondendo alle esigenze del nostro carisma nel XXI secolo.

Diamo a conoscere questo documento ufficialmente nel giorno di San Giovanni di Dio, nell’Anno Giubilare, nel giorno della riconciliazione per sottolineare la sua importanza per vivere oggi l’ospitalità.

Che San Giovanni di Dio ci aiuti a riconciliare il nostro essere affinché siamo capaci di trasmettere la riconciliazione con il nostro essere ospitalità.

Fra Pascual Piles

Priore Generale

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1. PRINCIPI, CARISMA E MISSIONE

DELL’ORDINE OSPEDALIERO DI SAN GIOVANNI DI DIO

1.1. Progettando il futuro sulla base dei nostri principi

L’umanità si affaccia al XXI secolo piena di timori e di speranze. Abbiamo raggiunto progressi impressionanti nella comprensione e nel controllo del nostro mondo che oggi appare ai nostri occhi come un grande villaggio – il “villaggio globale”. Nello stesso tempo persistono o si intensificano sofferenze individuali e collettive provocate dalle guerre, dall’egoismo di classe o di gruppo e dalla limitazione della natura umana che ci rimanda alla presenza permanente del dolore, dell’infermità e della morte.

L’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio fa parte di questo “villaggio globale”. Siamo 1.500 Confratelli, 40.000 collaboratori, tra impiegati e volontari, e circa 300.000 benefattori-sostenitori. Siamo presenti nei cinque continenti in 46 nazioni, con 21 Provincie religiose, 1 Viceprovincia, 6 Delegazioni Generali e 5 Delegazioni Provinciali, e realizziamo il nostro apostolato a favore degli infermi, dei poveri e di coloro che soffrono in 293 opere. Pur essendo membri dello stesso corpo – l’Ordine – viviamo realtà molto diverse. C’è chi vive in centri e società altamente tecnicizzate e chi in centri e società in via di sviluppo; c’è chi vive in nazioni immerse in un clima di pace e chi invece in paesi lacerati dalla guerra e dalla violenza o che vengono da un passato caratterizzato dalla violenza; c’è chi si può esprimere in piena libertà nella società in cui vive, e chi vede invece la sua libertà e i suoi diritti fondamentali pesantemente limitati; c’è chi si dedica all’apostolato propriamente ospedaliero e chi invece si trova impegnato in temi sociali e settori dell’emarginazione; c’è chi ha come missione quella di aiutare a vivere la persona e chi invece quella di garantire alla persona di morire con dignità; a prescindere dal fatto che il lavoro di noi tutti si ispira al progetto di un’assistenza integrale, ci sono sfumature che ci orientano di volta in volta verso la salute fisica, la salute mentale, il miglioramento delle condizioni di vita ecc.; infine c’è chi di noi vive nel Nord e chi nel Sud, chi nell’Ovest e chi nell’Est. (1)

Alle soglie del terzo millennio, uomini e donne di tutte le latitudini si interrogano sul futuro della nostra società, delle nostre istituzioni, di noi stessi. Analogamente tutti noi che rendiamo possibile l’opera dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio nel mondo, ci interroghiamo sul futuro che l’Ordine sarà capace di costruire nel prossimo millennio al servizio dell’uomo che soffre, dell’uomo che si trova in una condizione di bisogno e che chiede il nostro aiuto per ricostruire il suo progetto personale.

In alcuni casi, nel momento in cui si progetta il futuro si può commettere l’errore di mettere da parte il passato, non per cattiva volontà, semplicemente per dimenticanza, per scarsa considerazione, per il desiderio di incarnare nuove realtà. In altri casi, la necessità di profondo rinnovamento e di affrontare situazioni di rottura, esige di mettere da parte impostazioni del passato poiché i tempi nuovi esigono risposte nuove e si ritiene giusto liberarsi del passato come di una zavorra per avere più libertà di costruire il futuro.

Bisogna progettare il futuro fin da adesso tenendo conto di tutto il positivo del passato: pensiamo sia questa la situazione in cui si trova l’Ordine Ospedaliero che vuole progettare il suo futuro da una riflessione attualizzata dei suoi principi e valori.

Probabilmente vi saranno luoghi e forme di attuazione da parte dell’Ordine che esigono un cambiamento e può essere che in alcune realtà questo mutamento debba essere radicale se vogliamo essere presenti nel terzo millennio offrendo un servizio alla popolazione e trasmettendo un messaggio che sia attuale. Per cui non vi é dubbio alcuno che tutto l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio dovrà fondarsi su quei valori che hanno caratterizzato la nostra istituzione.

Questi valori dovranno essere inculturati, attualizzati nel loro linguaggio, realizzati in armonia con la diversità delle parti del mondo, poiché solo in questo modo potranno essere conosciuti e accettati dalle persone che entrano in contatto con le nostre opere.

Di seguito riportiamo il numero 43 degli Statuti Generali dell’Ordine nel quale sono specificati i seguenti principi:

I principi fondamentali che come conseguenza della loro identità confessionale cattolica orientano e caratterizzano l’assistenza nelle nostre opere, sono:

· avere come centro di interesse di quanti viviamo e lavoriamo nell’ospedale o in qualsiasi altra opera assistenziale, la persona assistita;

· promuovere e difendere i diritti del malato e del bisognoso, tenendo conto della loro dignità personale;

· impegnarsi decisamente nella difesa e nella promozione della vita umana;

· riconoscere il diritto della persona assistita a essere convenientemente informata del suo stato di salute;

· osservare le esigenze del segreto professionale, facendo in modo che siano rispettate anche da quanti avvicinano gli ammalati e bisognosi;

· difendere il diritto di morire con dignità nel rispetto e nell’attenzione ai desideri giusti e alle necessità spirituali di coloro che sono in punto di morte, coscienti che la vita umana ha un termine temporale ed è chiamata alla sua pienezza in Cristo;

· rispettare la libertà di coscienza delle persone che assistiamo e dei nostri collaboratori, fermi nell’esigere che si accetti e si rispetti l’identità dei nostri centri ospedalieri;

· valorizzare e promuovere le qualità e la professionalità dei nostri collaboratori, stimolandoli a partecipare attivamente alla missione assistenziale e apostolica dell’Ordine; renderli partecipi del processo decisionale nelle nostre opere in funzione delle loro capacità ed ambiti di responsabilità;

· rifiutare la ricerca di lucro, osservando ed esigendo che non si ledano le norme economiche giuste. (2)

Riteniamo che noi confratelli e collaboratori siamo il “capitale” più importante dell’Ordine per la realizzazione della sua missione. Per questo, nelle nostre relazioni, ci impegniamo a rispettare e a promuovere i principi della giustizia sociale. Noi confratelli desideriamo condividere il nostro carisma con quanti si sentono ispirati dallo spirito di San Giovanni di Dio.

Sempre che siano rispettati i nostri principi, siamo aperti e promuoviamo la collaborazione con organismi sia della Chiesa sia della società nel campo della nostra missione con un’attenzione preferenziale per i settori sociali più abbandonati. (3)

Questi principi sono radicati nel nostro Fondatore e si sono strutturati nel corso degli anni con la riflessione e il bene fatto dai suoi successori. Nello stesso modo anche noi, tenendo conto della tradizione, dobbiamo riflettere sulla definizione della missione dell’Ordine Ospedaliero.

Il principio chiave che guida l’opera di Giovanni di Dio è il suo desiderio di “fare il bene, facendolo bene; vale a dire non limitarsi alla semplice assistenza, dimenticando la qualità, ma coniugare la giustizia con la carità cristiana per offrire ai malati e ai bisognosi un servizio efficiente e qualificato, sia a livello scientifico che tecnico”. (4)

1.2. Il carisma dell’Ordine

Giovanni di Dio era un uomo carismatico: il suo modo di agire attirò l’attenzione di quanti lo conobbero e la sua influenza si espanse da Granada ai villaggi e alle città dell’Andalusia e della Castiglia. Questo suo “carisma” trascendeva la sua persona: non si trattava solo di atteggiamenti e gesti umani che, esprimendosi in amore verso i malati e i bisognosi, suscitavano ammirazione e spingevano a collaborare con la sua opera.

In senso teologico, carisma è ogni forma di presenza dello Spirito che arricchisce il credente e lo rende capace di un servizio a favore degli altri. Il religioso si consacra a vivere un carisma particolare, come dono ricevuto dallo Spirito, mediante la coltivazione della grazia, l’incontro vitale con Dio e l’apertura e il servizio all’umanità.

Il carisma dell’ospitalità, con il quale Giovanni di Dio fu arricchito dallo Spirito Santo, s’incarnò in lui come germe che ha continuato a vivere in uomini e donne che nell’arco della storia hanno prolungato la presenza misericordiosa di Gesù di Nazaret, servendo coloro che soffrono, secondo il suo stile.

Le Costituzioni del nostro Ordine definiscono il Carisma così:

“In virtù di questo dono, siamo consacrati dall’azione dello Spirito Santo, che ci rende partecipi, in modo singolare, dell’amore misericordioso del Padre. Questa esperienza ci comunica atteggiamenti di benevolenza e di donazione, ci rende capaci di compiere la missione di annunciare e di realizzare il Regno tra i poveri e gli ammalati; essa trasforma la nostra esistenza e fa sì che attraverso la nostra vita si renda manifesto l’amore speciale del Padre verso i più deboli, che noi cerchiamo di salvare secondo lo stile di Gesù”. (5)

Il Fatebenefratello si consacra e vive in comunione con altri la chiamata ad esprimere lo stesso carisma. Ma l’amore verso l’interno (comunione) deve esprimersi verso l’esterno nell’esigenza di una missione che si intende come aiuto liberatorio a favore dei restanti membri della Chiesa e, in generale, di tutte le persone bisognose.

Partecipano direttamente al carisma di Giovanni di Dio, i Fatebenefratelli, consacrati nell’ospitalità; e a modo di “irradiazione” dello stesso, sono partecipi del carisma anche i collaboratori: “Coloro che conoscono Giovanni di Dio (…) sperimentano che nella loro vita prende corpo una specie di luce che fa nascere in loro il desiderio di vivere l’ospitalità, imitando l’esempio di Giovanni o dei suoi Confratelli (…) I fedeli laici che si sentono chiamati a vivere l’ospitalità, partecipano del carisma di Giovanni di Dio aprendosi alla spiritualità e alla missione dei suoi confratelli e integrandola nella propria vocazione personale.

I livelli di questa partecipazione sono ovviamente vari: così ci sono persone che si sentono particolarmente legati all’Ordine attraverso la sua spiritualità; altri invece vivono la partecipazione tramite il disimpegno della stessa missione. Ma quel che conta è che il dono dell’ospitalità ricevuto da Giovanni di Dio instauri tra confratelli e collaboratori un legame di comunicazione che sia per ambedue impulso e stimolo a sviluppare la loro vocazione e a essere per il povero e il bisognoso segno visibile dell’amore misericordioso di Dio verso gli uomini”. (6)

1.3. La missione dell’Ordine

Nel testo delle Costituzioni dell’Ordine Ospedaliero, la missione viene definita così:

“Incoraggiati dal dono ricevuto ci consacriamo a Dio e ci dedichiamo al servizio della Chiesa nell’assistenza agli ammalati e ai bisognosi, con preferenza per i più poveri”. (7)

Questa impostazione generale, valida per tutto l’Ordine, deve poi concretizzarsi in ogni sua opera. Partendo dalla considerazione che ogni opera é specifica e cerca di dare risposta ai bisogni di alcune persone, in un luogo e in un tempo concreto e se vogliamo che la nostra missione sia EVANGELIZZARE IL MONDO DEL DOLORE E DELLA SOFFERENZA ATTRAVERSO LA PROMOZIONE DELLE OPERE E DEGLI ORGANISMI SANITARI E/O SOCIALI CHE PRESTANO UN’ASSISTENZA INTEGRALE ALLA PERSONA, ne consegue che in ogni concreta realtà si dia risposta ai seguenti interrogativi:

· Perché questo Centro?

· A chi va diretto il nostro servizio?

· Chi siamo quelli che lo realizziamo?

· Quali sono le strutture più idonee?

Questo sarà il cammino per poter concretizzare i principi che vogliamo promuovere e la missione che vogliamo realizzare nella società.

Soltanto quando incarniamo questi principi, cioè quando il nostro servizio all’uomo malato e bisognoso in ogni regione di questo mondo verrà illuminato da questi valori che stiamo indicando, soltanto allora avremo realizzato un’opera dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio.

Per questo un altro passo molto importante sarà quello di descrivere in ogni Centro chi dovrà usufruirne, l’uomo malato e bisognoso che stiamo curando. Oltre a dedicare la nostra attenzione all’utente interno, dovremo includere nelle nostre riflessioni anche l’utente esterno: non solo il malato, ma anche i suoi parenti e familiari.

Altrettanto si dovrà fare nei confronti della società e dell’ambiente in cui ci troviamo, delle persone e delle strutture che intrattengono rapporti col Centro.

I servizi che il Centro presta devono costituire una realtà dinamica e in evoluzione, poiché così é la nostra società e in continuo mutamento é l’uomo di cui abbiamo cura.

Per la riflessione:

Nei Centri e nelle Comunità:

1) Descrivi segni che evidenzino come si sta vivendo il carisma, la missione e i principi fondamentali dell’Ordine.

2) Descrivi ciò che sta rendendo difficile od offuscando la messa in pratica del carisma, della missione e dei principi fondamentali dell’Ordine.

3) Indica le linee d’azione che possano garantire la messa in pratica del carisma, della missione e dei principi fondamentali dell’Ordine.

4) Segnala i segni che evidenzino i legami di comunione nell’ospitalità tra confratelli e collaboratori.

5) Che cosa è necessario fare per promuovere la crescita di questi legami di comunione nell’ospitalità?

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NOTE DEL PRIMO CAPITOLO

(1) Cfr. PILES FERRANDO, Pascual, Superiore Generale dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, Lettera Circolare per il Sessennio 1994-2000, Roma, 1994, N. 1.

(2) ORDINE OSPEDALIERO DI SAN GIOVANNI DI DIO, Statuti Generali, Roma, 1997, N° 43.

(3) Cfr. LXIII CAPITOLO GENERALE, La Nuova Evangelizzazione e la Nuova Ospitalità alle soglie del terzo millennio, Bogotá, 1994, # 5.6.3.

(4) ORDINE OSPEDALIERO – CURIA GENERALIZIA, Fatebenefratelli e Collaboratori insieme per servire e promuovere la vita, Roma, 1992, # 13

(5) Costituzioni, Roma, 1984, 2b.

(6) Fatebenefratelli e Collaboratori insieme…, Op. Cit., Nn. 115-116

(7) Costituzioni, Roma, 1984, 3

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2.

FONDAMENTI BIBLICO-TEOLOGICI DELL’OSPITALITA’

2.1. L’approccio filosofico e religioso alla sofferenza

2.1.1. L’uomo di fronte al dolore

“Cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte che malgrado ogni progresso continuano a sussistere? (…) Cosa ci sarà dopo questa vita?” (1)

La realtà della sofferenza umana ha costituito un interrogativo fondamentale a cui i vari sistemi filosofici e le fedi religiose hanno cercato di rispondere con varie modalità senza però riuscire mai a sollevare del tutto il velo di mistero che la avvolge.

Complessivamente possiamo sintetizzare in cinque prospettive le risposte fondamentali a tale inquietante domanda.

Una prima é quella, per così dire magica o misterica che fa riferimento alla radicale ineluttabilità e incomprensibilità del dolore. Spesso questo viene fatto risalire a un mito di carattere “punitivo” da parte della divinità o al sopravvento di divinità malefiche su altre benefiche. In ogni caso tutto viene proiettato in una dimensione soprannaturale per cui altrettanto soprannaturali possono essere i rimedi in grado di liberare l’uomo dalla sofferenza (stregoni, sciamani, riti esorcistici, ecc.). Tale concezione ancora persistente in alcune cosiddette “popolazioni primitive” rimane tuttavia come substrato ancestrale in molte altre concezioni religiose.

Una seconda risposta, che dall’antica filosofia epicurea ha attraversato la storia fino ad arrivare all’edonismo individualista di questo secolo, potremmo chiamarla di negazione. Tutte le realtà dolorose della vita costituiscono un limite alla conquista del piacere e pertanto é bene non preoccuparsene, cercando di godere il tempo presente finché questo é possibile. Si tratta di una vera e propria “rimozione” del dolore e dell’angoscia che la sua presenza crea. In tale substrato culturale, peraltro, affondano le loro radici tante forme di “disperazione” contemporanea che, negando la realtà dolorosa arrivano poi a negare la stessa vita quando non si riesce a sostenerne il peso esistenziale.

Un altro atteggiamento, opposto a questo é quello che riscontriamo nella eroica accettazione del dolore. E’ stato sistematizzato filosoficamente dallo stoicismo tanto che l’aggettivo “stoico” é diventato sinonimo di chi accetta, senza lamentarsi, sofferenze di notevole entità. Tale coraggiosa accettazione subì una particolare attrattiva per il cristianesimo, nella cui elaborazione teologica introdusse elementi di derivazione stoica che ben sembravano integrarsi con l’accettazione della Croce da parte di Gesù e con l’atteggiamento dei martiri. In realtà tale contaminazione non fu del tutto positiva divenendo una delle matrici di quella esaltazione pseudo-cristiana della sofferenza a cui é stato dato il nome di “dolorismo” e da cui ancora stentiamo a liberarci.

Una quarta modalità di approccio al dolore consiste nel suo annullamento mediante un cammino interiore che porta progressivamente all’abbandono di ogni passione e di ogni sofferenza sia fisica che psichica. Portato alla sua massima espressione dal Buddismo, esso si riscontra in altre filosofie e religioni orientali che oggi esercitano il loro fascino anche sul mondo occidentale. L’attenzione ai sofferenti é particolarmente accentuata nella religione buddista che fa della “compassione” uno dei sentimenti universali che avvicinano l’uomo alla divinità anche se l’aiuto che al sofferente viene dato consiste nel superare i desideri che ne sono all’origine più che nella “soluzione” dei problemi, anche materiali, che possono esserne causa.

L’ultima modalità, di cui parliamo più estesamente al paragrafo successivo, é quella che riscontriamo nella sua più alta espressione nel Cristianesimo e che possiamo definire della valorizzazione. Senza svelarne del tutto il mistero e senza volerlo trasformare in una realtà di per sé positiva, il Cristianesimo offre delle “ragioni” al dolore trasformandone l’assurdità in possibile strumento di bene per sé e per gli altri. Una tale processo é possibile riscontrarlo anche come semplice sublimazione psicologica dell’individuo qualora questi trovi una razionalizzazione all’esperienza dolorosa o, addirittura, alcune compensazioni comportamentali.

In ogni caso e al di là di queste interpretazioni non possiamo trascurare una dimensione assolutamente personale della sofferenza il cui significato sfugge a ogni generalizzazione avendo senso solo nell’universo esistenziale di ogni singolo individuo. In questa prospettiva la sofferenza diventa un elemento biografico il cui più profondo mistero non potrà essere mai svelato né ricondotto a una desiderata razionalità.

2.1.2. La sofferenza e i sofferenti nel Cristianesimo

Nella visione ebraico-cristiana il dolore, così come il male di cui é espressione, non appartiene al progetto originario della Creazione, cioè in altri termini non proviene da Dio. Quindi, a differenza di altre religioni, non vi è una divinità del male alla sua origine. Il dolore, e il male di cui questo é espressione, appartiene alla condizione umana ma al tempo stesso esprime il mistero di una realtà che Dio non vuole, di cui non gode e che attende solo di essere redenta. Realtà negativa, “assenza” più che presenza, come già intuiva S. Agostino.

Per far questo la Sacra Scrittura ricorre all’immagine mitica di una condizione umana esente da ogni sofferenza e in cui il dolore entra perché l’uomo trasgredisce un comando di Dio, cioè in realtà ci si allontana dal suo amore. L’immagine del serpente si fa simbolo dell’idolatria cioè del non “fidarsi di Dio” per preferirgli una realtà creata facendone la propria divinità.

Per molti secoli questa connessione “ontologica” tra colpa e sofferenza come sua punizione venne intesa da Israele in senso “personale”, vedendo in ogni singolo dolore la punizione per un peccato (mentalità spesso persistente ancor oggi). Non solo ma, evidenziando il paradosso della “felicità dell’empio” e della “sofferenza del giusto” i sapienti di Israele ritennero che l’empio sarebbe stato punito nella sua discendenza e il giusto stesse espiando colpe dei suoi padri.

Il primo drammatico grido contro questa visione del problema é contenuto nel libro di Giobbe. Con una sensibilità che ancor oggi sorprende per la sua modernità, Giobbe si ribella contro una tale concezione del dolore e chiede conto a Dio del perché un “giusto” come lui debba soffrire in modo sproporzionato alle sue possibili colpe. La risposta di Dio, tuttavia, non é esplicita ma si realizza fondamentalmente nell’invito ad accogliere il mistero senza pretendere di volerlo spiegare e senza rinunziare alla fede in un Dio che vuole solo il bene dei suoi figli.

Questa grande tipologia del “giusto sofferente” si ripresenta solennemente nella figura del “servo sofferente di Jhwh”, un personaggio in cui la successiva tradizione ha identificato l’immagine di Cristo che si “addossa” le sofferenze del popolo liberandolo così dalle stesse. Tale “espiazione vicaria” densamente identificata da Paolo in Rm 3, 25 più che come “punizione” di un uomo solo al posto di tutto il popolo, va intesa nel senso degli antichi sacrifici di espiazione mediante cui l’olocausto della vittima diventava strumento del perdono di Dio. Il sacrificio di Cristo e, in virtù del suo corpo mistico, il dolore dei credenti (ma secondo la prospettiva di Rm 8, 19 ed Ef 1, 7-10, anche del mondo intero) diventa così strumento del perdono di Dio.

2.1.3 Il messaggio di liberazione evangelico

La dimensione soggettiva di liberazione, per cui Gesù Cristo nella sua carne libera l’uomo dal peccato e, quindi, da ogni sua conseguenza, acquista anche un risvolto pratico nelle opere da lui praticate. Le guarigioni dei malati, l’accoglienza all’emarginato, la difesa del povero costituiscono parte essenziale della sua missione. Anzi la sua azione in favore dei poveri e degli ultimi é persino segno specifico della sua messianicità (cfr. Mt 11, 3-5). Viene così pienamente recuperata la forza dell’integrale liberazione dell’uomo da parte di Dio di cui l’Esodo era già stata esperienza storica e testimonianza simbolica.

L’atteggiamento di Gesù nei confronti del malato é non solo significativo ma per noi anche esemplare. Egli partecipa profondamente alla vicenda esistenziale sua o dei suoi familiari ( Cf. Mt 14,14; 15, 32; Lc 7, 13; Gv 11, 36); non contesta né critica né biasima la sua volontà di guarire; spesso prende per primo l’iniziativa (Cf. Mc 10, 49; Lc 8, 49; Gv 5,6); nega qualunque connessione tra peccato individuale e malattia attuale (Cf. Gv 9, 1-3); sana tutto l’uomo malato (Cf. Mt 9, 1-7). La sua opera cioè non si limita a un semplice gesto taumaturgico ma ha di mira il bene integrale dell’uomo, la sua salus e non solo la sanitas.

La cura del bisognoso si carica così di molteplici significati divenendo innanzitutto un nuovo segno dell’alleanza tra l’uomo e Dio. Il patto tra il Creatore e il Creato viene ad essere riproposto dall’amore di Dio “ri-sanante” il povero, il malato, l’escluso che investito da tale amore torna a vivere. Nell’affidare ai christifideles la continuità di tale cura troviamo così il fondamento “carismatico” dell’ospitalità sulle cui radici biblico-teologiche é opportuna una più organica riflessione.

2.2. L’ospitalità nell’Antico Testamento

2.2.1. Il Dio Ospitalità

Oggi, parlando di ospitalità, siamo soliti riferirci all’accoglienza che offriamo a un’altra persona nella nostra casa. Ma volendo risalire al più profondo senso teologico di tale atteggiamento umano si deve innanzitutto cogliere la dimensione ontologica dell’ospitalità.

Non dovrebbe ritenersi ardito vedere nella stessa realtà trinitaria la più profonda radice di una vita divina che si fa ospitalità. Ospitalità del Padre che “fa spazio” nella sua essenza, fin dall’eternità, per generare il Figlio ma anche ospitalità del Figlio che in sé accoglie il dono generazionale del Padre. Infine ospitalità dello Spirito che si fa reciprocità del dono paterno-filiale e quindi identità personale di un amore accogliente.

Tale dimensione trinitaria dell’ospitalità non riguarda solo l’essenza divina ma anche la sua inabitazione nell’uomo che diventa soggetto ospitante la divinità (cfr. Gv 13, 20). La stessa partecipazione eucaristica, nell’antico canone latino, veniva assimilata all’ospitare Gesù sotto il proprio tetto mentre l’esser “ospite dell’anima” diventa addirittura appellativo dello Spirito. (2)

Sul piano immanente, poi, la stessa Creazione si rivela quale frutto di questa primordiale Ospitalità divina che nella sua essenza genera e al tempo stesso accoglie un progetto che realizza al di fuori di sé. E’ Ospitalità che, nel suo porsi, intrappola l’eternità calandola nella dimensione storica e quindi fa del tempo, ancor prima che dell’uomo, il suo ospite. Tuttavia é nella creazione dell’uomo che Dio manifesta più compiutamente il suo essere Ospitalità facendo largo nella sua creazione alla presenza e al dominio dell’uomo, anzi prima ancora che nella sua creazione ospitandolo nella sua mente creatrice di cui reca l’impronta.

E alla Creazione fa seguito l’Alleanza, nelle sue molteplici espressioni variamente simbolizzate dal racconto biblico. Proprio in quanto incontro tra Dio e l’uomo l’alleanza di cui la Sacra Scrittura ci parla diventa incontro tra Dio e il suo ospite ma anche tra l’uomo e il suo ospite divino. Se pur espressa da realtà ontologicamente diverse, nell’alleanza l’ospitalità si fa reciprocità, dono vicendevole. E tutte le volte che nella storia individuale o collettiva tale alleanza viene infranta, il perdono divino e la conseguente riconciliazione con l’uomo testimonia l’inesauribile risorsa di una accoglienza sempre nuova.

2.2.2. Il concetto di ospitalità

Il contesto culturale sottostante all’Antico Testamento é quello del mondo semitico segnato da una tensione tra l’accoglienza dell’ospite e, al tempo stesso, un certo sospetto nei suoi confronti come elemento di “minaccia” per l’identità del popolo. Ciò che, in ogni caso, unifica l’atteggiamento di Israele nei confronti dell’altro é il considerarlo come straniero. A tal riguardo vi sono almeno tre termini che sottintendono distinti atteggiamenti. Il primo é zar e indica colui che appartiene a un’altra stirpe o tribù, chi é estraneo al proprio paese, a volte anche il nemico (Dt 25, 5; Gb 15,19; Is 61,5; 25, 2.5). Il secondo ger che indica lo straniero residente nel paese (gli Israeliti in Egitto o i Cananei in Israele); il terzo é tosab che designa lo straniero momentaneamente residente in un altro paese (Gn 23,4; Dt 14, 21). Tale molteplicità terminologica testimonia la diversità di atteggiamento nei confronti dello straniero in rapporto alla specifica condizione in cui questi veniva a trovarsi. In sintesi possiamo dire che Israele distingueva tra popoli stranieri, stranieri insediati nel paese e stranieri singoli di passaggio. Proprio nei confronti di questi ultimi veniva esercitata l’ospitalità nella sua più alta forma. Basti pensare all’episodio narrato in Gn 19, 1-8 in cui Lot é disposto ad offrire le sue figlie agli uomini della città, purché questi non tocchino gli ospiti. In realtà all’origine di questa disparità di comportamento vi era forse una stessa finalità: quella di superare la minaccia che lo straniero costitutiva per la propria comunità e la propria identità, sia osteggiandolo e considerandolo nemico, sia circondandolo di attenzione. D’altra parte troviamo una traccia di tale ambivalenza nelle tardive riletture latine di tale concetto, con la comune radice del termine hospes (ospite) ed hostis (nemico).

Naturalmente se questa era la più specifica e pertinente visione dell’ospitalità in seno ad Israele non dobbiamo dimenticare quanto lo stesso Israele viveva e praticava nei confronti dei suoi stessi concittadini. A rigor di termini quel “prossimo” (il cui concetto verrà stravolto da Gesù) era proprio il connazionale, il correligionario. Praticare l’ospitalità nei suoi confronti era un dovere fondamentale proprio in quanto membro di quel popolo la cui identità era non solo etnica ma anche e soprattutto religiosa. Nella comune elezione Israele scopriva le esigenze di ospitalità nei confronti di tutte quelle categorie di persone (basti pensare agli orfani e alle vedove) che ne avevano bisogno.

2.2.3. Le motivazioni dell’ospitalità

L’ospitalità nel contesto vetero-testamentario, così come in tutte le culture antiche, non va intesa nei moderni termini di una semplice accoglienza all’ospite, cioè nel fornirgli vitto e alloggio quanto piuttosto in una radicale “inclusione” dell’ospite nell’ambito della propria cerchia di interessi, nella sua tutela contro i nemici, nella sua protezione, nel suo profondo rispetto esistenziale, nell’accudire alla sua persona per tutte le possibili necessità.

Le ragioni di una tale attenzione (in aggiunta a quelle per i connazionali sopra evidenziate) sono varie. Innanzitutto ve n’è una di ordine culturale che Israele condivide con i popoli vicini. Si tratta dell’idea che sotto le vesti dello straniero in cerca di ospitalità possa nascondersi una divinità. Nella rielaborazione monoteistica le divinità si trasformano in angeli. Ne é chiaro indizio Eb 13, 2: “non dimenticate l’ospitalità; alcuni nel praticarla hanno accolto gli angeli senza saperlo”.

Una seconda motivazione é più specifica e fa chiaro riferimento alla storia di Israele. L’ “arameo errante” che fu Abramo, padre del popolo eletto visse da straniero e da straniero visse Israele in terra d’Egitto. Dello straniero quindi Israele comprende benissimo la condizione e sa quanto questi necessiti di ospitalità. Anzi qualora fosse tentato di disprezzarlo, l’ammonimento della Sacra Scrittura é chiarissimo: “Il forestiero dimorante tra di voi lo tratterete come colui che é nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto” (Lv 19, 34; cfr. pure Es 22,20; 23, 9).

Infine vi é una motivazione religiosa (che verrà poi sviluppata nel Nuovo Testamento) cioè l’esemplarità divina. E’ Dio Ospitalità, in primo luogo, ad accogliere lo straniero a chiedere di essere ospitali con lui (cfr. Dt 10, 18), a volere che gli siano dati parte dei beni a lui consacrati (cfr. Dt 26, 12).Il fatto che anche Israele si comporti così non é che l’attuazione di una volontà di Dio, una delle vie di fedeltà alla Legge (cfr. Lv 16, 29; 18, 26; 19, 10. 33).

2.2.4. I principali riferimenti

Tra gli episodi più significativi ricordiamo la visita dei tre uomini ad Abramo presso le querce di Mamre. E’ da notare come Abramo riconosca nell’ospite il suo “Signore”. Ancor prima di conoscere i motivi di tale visita e pur nella molteplicità degli interlocutori egli coglie la “visita” di Dio. Tutti i suoi gesti sono conseguenti e possono essere letti senz’altro in una chiave apertamente teologica: si prostra a terra (culto), prepara personalmente il vitello e il latte (offerta), crede alle parole dei tre uomini (fede), li supplica di non distruggere Sodoma (orazione). Detto in altri termini: l’ospitalità diventa occasione di incontro con Dio.

Esemplare e pedagogico, negli intenti dell’autore sacro, é l’episodio della vedova di Zarepta che non viene meno ai suoi doveri di ospitalità nei confronti di Elia condividendo con lui l’ultimo boccone che rimaneva per sé e per il figlio. Non solo ma proprio in virtù di tale ospitalità questi viene guarito dal profeta (cfr. 1 Re 17, 20).Una situazione per certi versi analoga possiamo riscontrare nel racconto relativo alla prostituta Raab che nasconde gli esploratori inviati da Giosuè a Gerico ricevendone in cambio l’incolumità per sé e per la sua famiglia (cfr. Gs 2, 1-12).Un rapporto tra vita della persona ospitante e vita delle persone ospitate é possibile vedere anche nel libro di Tobia che riferisce di aver dato la decima dei suoi averi agli orfani, alle vedove e agli stranieri (cfr. Tb 1, 8): l’ospitalità, che é gesto di accoglienza per la vita dell’altro, viene ricompensata col dono stesso della vita.

All’ospitalità nei confronti di tutte le categorie di bisognosi invita poeticamente il libro del Siracide: “Sii come un padre per gli orfani e come un marito per la loro madre e sarai come un figlio dell’Altissimo, ed egli ti amerà più di tua madre” (Sir 4, 10).L’ospitalità a cui la Sacra Scrittura ci chiama ci rende in qualche modo “familiari” della persona ospitata e, al tempo stesso ci fa sperimentare la tenerezza materna di Dio. Non dimentichiamo la forte carica di femminilità insita nel concetto di misericordia. Il termine ebraico rachamîn, infatti, si ricollega etimologicamente alle viscere materne che si dilatano per accogliere la nuova vita. Ospitalità e misericordia si trovano così unite in un binomio che diventa icona del Dio misericordioso, “amante della vita” (cfr. Sap 11, 26).

Proprio in tale prospettiva si colloca l’ospitalità del malato cioè l’atteggiamento e i concreti gesti di accoglienza nei suoi confronti. E’ esemplare a tal riguardo la figura dell’arcangelo Raffaele che proprio in quanto “medicina di Dio” é presenza accogliente oltre che sanante. La sua figura diventa così metafora non solo della “risoluzione medica” del problema, se così possiamo definirla, ma anche dell’accompagnare il malato, l’emarginato, il moribondo, il povero la cui unica medicina, a volte, é solo quella di una presenza amica.

Destinatario di tale attitudine ospitale é persino il morto, come evidenzia il libro di Tobia ponendola in stretta connessione con l’ospitalità tradizionalmente intesa (Tb 2, 1-4). Tobi, infatti, invia il figlio a cercare un povero da invitare a pranzo. Ma questi trova solo un connazionale morto, abbandonato sulla piazza. Allora non ha esitazioni: lascia il suo pasto e va a seppellirlo. In un certo senso questa diventa la sua condivisione conviviale col povero.

Infine non va sottovalutato un racconto che include la dimensione dell’ospitalità addirittura nell’ascendenza storica del Messia. E’ la storia di Ruth, donna straniera che accompagna la suocera Noemi nella sua terra d’origine finendo con lo sposare Booz, nel cui campo di grano andrà a spigolare. Da questa unione nascerà il nonno di David. Ad essere “premiati”, divenendo antenati di Gesù, saranno entrambi i coniugi perché reciproca é stata la loro ospitalità: accoglienza di Booz alla donna straniera ma anche accoglienza di Ruth al paese straniero per il quale lascia il proprio: l’ospitalità, quale dono di reciproca accoglienza abbandona le proprie certezze per trovare nella novità dell’incontro una nuova sicurezza.

2.2.5. L’ospitalità istituzionale

Una realtà di particolare interesse é costituita dalla scelta di sei città “che serviranno di rifugio agli Israeliti, al forestiero e all’ospite che soggiornerà in mezzo a voi, perché vi si rifugi chiunque abbia ucciso qualcuno involontariamente” (Nm 35, 15). L’istituzione di tali città-rifugio costituisce il momento in cui l’ospitalità da individuale e/o comunitaria si fa strutturale. Non é più la persona chiamata ad essere ospitalità né il popolo con gesti individuali ma l’intera comunità che si fa “istituzione ospitante”. La città diventa quasi un’icona di ogni futuro organismo dedito interamente ad accogliere l’altro in condizione di bisogno e dargli tutto ciò di cui necessita, non solo un’ospitalità momentanea ma una “città”, cioè un intero sistema di coordinate biografiche in cui possa tornare a vivere.

2.3. L’ospitalità nel Nuovo Testamento

2.3.1. La prospettiva evangelica

Prima di esaminare i concreti gesti di ospitalità da parte di Gesù si dovrebbe riflettere sull’evento “ospitale” che sta alla base della stessa fede cristiana cioè l’Incarnazione. Maria diventa la grande “ospite di Dio” accogliendolo nel suo grembo mentre l’Emmanuele in quanto “Dio-fra-noi” diventa il grande Ospite dell’intera umanità. Non a caso dall’accoglienza di Maria, poeticamente espressa nell’Annunciazione, scaturirà immediatamente un gesto squisitamente ospitale come la visita a Elisabetta e la conseguente accoglienza alla madre di Gesù.

Ai contenuti e alle motivazioni dell’ospitalità riscontrati nell’Antico Testamento il Nuovo Testamento aggiunge l’innovativo apporto del messaggio e delle opere di Gesù. L’accoglienza all’altro, soprattutto se bisognoso, acquista alla luce del Vangelo una triplice prospettiva .

La prima le deriva dall’identificazione di Cristo stesso col povero (cfr. Mt 25, 31-45). Nell’accogliere il povero si accoglie Cristo, per amare Cristo si deve amare il povero, ciò che viene fatto (o non fatto) al povero viene fatto (o non fatto) a Cristo. E’ una vera e propria trasfigurazione del povero in Cristo, non meno emblematica di quella che ci ricorda il celebre episodio della vita di S. Giovanni di Dio. (3)

La seconda prospettiva é quella del giudizio escatologico. Esclusivamente basato sulla carità (e non sulla formale osservanza dei comandamenti) questo trova nella ospitalità propriamente intesa uno dei parametri di valutazione. Non solo ma, in una più ampia accezione del termine, possiamo dire che l’ospitalità cioè l’accoglienza all’altro, il farne oggetto delle proprie cure, sia l’anima di tutto il messaggio escatologico.

Infine il Dio Ospitalità dell’Antico Testamento che difendeva il forestiero, l’orfano e la vedova, si fa visibile in Cristo la cui vita viene interamente spesa a servizio degli altri. Le sue parole così non sono semplice esortazione ma prendono corpo nella sua stessa attività, che diviene riferimento esemplare per tutti i cristiani. Sarebbe impossibile voler sintetizzare i gesti di ospitalità, cioè di accoglienza all’altro da parte di Cristo. Ci limitiamo a ricordare innanzitutto l’atteggiamento di benevolenza con cui incontra ogni malato, non limitandosi a guarirne l’infermità ma abbracciandone l’intero universo esistenziale. Tocca il lebbroso infrangendo il muro di segregazione che lo emarginava, ridà la vista al cieco aprendo gli occhi a tutti sull’erronea credenza circa un rapporto tra colpa individuale e malattia, resuscita il figlio della vedova di Naim toccato dalla situazione di questa donna. E poi ancora accoglie le prostitute e con esse le critiche dei benpensanti, si fa ospite dei pubblicani condividendone la mensa, accetta l’ostilità del suo popolo, il gesto dei suoi carnefici che non esita a scusare, il tradimento o la pavidità dei suoi amici, l’abiezione della Croce.

Cristo, in sostanza, é il “grande ospitante della storia” e con lui sono chiamati a confrontarsi tutti coloro che vogliono incamminarsi sulle vie dell’ospitalità.

2.3.2 La philoxenìa

La variabilità terminologica dell’Antico Testamento, anche se tradotta con appropriati e diversificati vocaboli nel Nuovo, viene in qualche modo “superata” da un termine specifico che designa in modo proprio l’ospitalità: philoxenìa, cioè amore per l’estraneo. Questo decisivo legame tra ospitalità e carità (philoxenìa e agàpe) é la specifica caratteristica che contraddistingue l’ospitalità neotestamentaria.

Possiamo dire, pertanto, che la philoxenìa costituisca quasi un termine “tecnico” entrato nel vocabolario cristiano per indicare una particolare attitudine di accoglienza nei confronti dei fratelli in genere e di quelli più bisognosi in particolare. Non a caso essa viene inclusa nelle “esemplificazioni” matteane della carità per ciò che riguarda il già citato giudizio escatologico (Mt 25, 35); Paolo la pone tra le esortazioni conseguenti all’esercizio della carità (Rm 12, 13); Pietro fa lo stesso sottolineando il dovere della reciprocità (1Pt 4, 9); la lettera agli Ebrei la ritiene inseparabile dalla philadelphìa, cioè dall’amore per i fratelli. Tutti sono tenuti a praticarla ma al tempo stesso é particolare prerogativa del vescovo (1Tm 3,2; 5,10; Tt 1,8).

In sostanza la Sacra Scrittura lascia trasparire come quella che é una generica esigenza della carità possa diventare specifica espressione carismatica da parte di alcune persone a questo chiamate.

2.3.3. Ospitalità ed evangelizzazione

A parte questa dimensione che correla strettamente ospitalità e carità vi é un’altra peculiare motivazione neotestamentaria per valorizzare questa virtù, cioè le esigenze dell’evangelizzazione. Nel messaggio evangelico queste non sono mai scisse dal comando di curare: “curate i malati che vi si trovano e dite loro: si é avvicinato a voi il regno di Dio” (Lc 10,9; cfr. Mt 10, 7-8). Un po’ come nelle moderne “missioni popolari” le case dei cristiani diventavano dei veri e propri “centri di ascolto”. Tale dovere di accoglienza é specificamente indicato in 3Gv 7-8: “poiché sono partiti nel nome di Cristo, senza accettare nulla dai pagani noi abbiamo il dovere di accogliere tali persone per cooperare alla diffusione della verità”. Su tale prassi abbiamo varie testimonianze neotestamentarie (Rm 16,4.23; Fil 22) e in virtù di questa strategia di evangelizzazione si convertivano spesso intere famiglie (cfr. At 16). L’ospitalità così si fa strumento di evangelizzazione, sia nella prospettiva della testimonianza che della parola e le strutture di ospitalità diventano per la comunità segno e luogo dell’annunzio di integrale liberazione evangelica.

2.3.4. Il Buon Samaritano

Grande parabola dell’ospitalità é quella del “Buon Samaritano” in cui la successiva tradizione ecclesiale ha identificato Cristo stesso e l’ideale del cristiano(4). E’ significativo innanzitutto il motivo da cui scaturisce tale racconto, cioè una richiesta fatta a Gesù su cosa debba intendersi per prossimo. Nella concezione ebraica del tempo, infatti era ritenuto “prossimo” e quindi meritevole dell’amore di Israele, solo il connazionale o la persona legata da particolari vincoli (di sangue, di amicizia, ecc.). Gesù con un paradosso inaudito per indicare chi sia “prossimo”, cioè il più vicino, sceglie “il più lontano”, l’odiato nemico samaritano.

La parabola é interessante anche perché offre spunti per una sorta di metodologia dell’ospitalità che può essere per noi di esemplare attualità. Il samaritano innanzitutto antepone l’accoglienza nei confronti del ferito al di sopra dei suoi personali interessi (si trovava in viaggio, si ferma, ritarda i suoi impegni) e lo fa non conformandosi al comportamento degli altri (non solo il sacerdote e il levita ma anche gli stessi samaritani). Cioè compie quello che ritiene il suo dovere senza rifiutarsi di farlo perché “tutti fanno così”.

Poi cerca di utilizzare al meglio le risorse di cui dispone. Fascia le ferite con bende improvvisate, le deterge e le medica con gli unici rimedi che ha con sé, carica il ferito sul suo cavallo e cerca per lui una più adeguata sistemazione.

Infine predispone una struttura assistenziale e, nel far questo, coinvolge la comunità. L’albergatore diventa così prototipo di ogni realtà sociale che, opportunamente sollecitata da chi ha ricevuto il carisma dell’ospitalità si fa istituzione accogliente. Così il samaritano con sano pragmatismo si preoccupa anche di reperire i fondi per l’assistenza all’infermo, che sono poi i suoi soldi, cioè si fa tramite di una vera e propria solidarietà sociale. La conclusione della parabola é il perenne invito che si é fatto storia nella vita di S. Giovanni di Dio e di tutti coloro che hanno ricevuto in dono il carisma dell’ospitalità: va’ e anche tu fa lo stesso.

Per la riflessione:

1) Illustra con esempi gli approcci più comuni che vediamo tra noi (confratelli, collaboratori ed assistiti) di fronte al dolore umano (cfr. 2.1.1).

2) Segnala l’evoluzione progressiva dell’ospitalità tra Antico e Nuovo Testamento (differenze, affinità, superamento di concetti ecc.).

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NOTE DEL SECONDO CAPITOLO

(1) CONCILIO VATICANO II Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, n. 10, 1964.

(2) Cfr. Veni Sancte Spiritus.

(3) Tradizione che si riferisce all’episodio in cui Giovanni di Dio lavò i piedi a un povero e questi si trasfigurò nella persona di Gesù.

(4) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Salvifici Doloris, 1984, Capitolo VII

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3.

IL CARISMA DELL’OSPITALITÀ

IN S. GIOVANNI DI DIO E NELL’ORDINE OSPEDALIERO

3.1. Il carisma dell’ospitalità in San Giovanni di Dio

Carisma dell’ospitalità viene inteso qui nel senso di un dono dato dallo Spirito in ordine a una missione ecclesiale in favore dei poveri, malati e bisognosi.Questo carisma e la relativa missione sono stati vissuti dal nostro fondatore con uno stile proprio e così caratteristico che ha iniziato una “cultura” ospedaliera originale e di grande vitalità. La “cultura” ospedaliera juandediana costituisce un originale valore profetico di rinnovamento nella Chiesa e nella società(1).

Per la famiglia Ospedaliera deve continuare ad essere un lievito rivitalizzante dei servizi dell’Ordine in tutto il mondo. Ne diamo le principali caratteristiche.

3.1.1. Ospitalità misericordiosa

L’ospitalità juandediana é scaturita dall’esperienza cristiana della misericordia di Dio verso il nostro fondatore che gli ha rivelato la sua condizione di peccatore e la grande misericordia e amore di Dio che perdona gratuitamente e fa comunione di vita con tutti i suoi figli. Questa esperienza costituisce la caratteristica fondamentale e la sorgente da cui scaturì la ricchezza dell’ospitalità di San Giovanni di Dio: “Se considerassimo quanto é grande la misericordia di Dio non cesseremmo di fare il bene mentre possiamo farlo”. (2)

Siamo tentati di considerare San Giovanni di Dio fondamentalmente misericordioso, compassionevole, capace di comprendere, perdonare e aiutare e abbiamo ragione. Però questa é una conseguenza della sua consapevolezza e del suo permanente vissuto riguardo alla misericordia e al perdono di Dio e di Cristo verso di lui. Egli vedeva la vita e le cose della vita come doni divini gratuiti della misericordia divina:”Gesù Cristo usa con noi tanta misericordia dandoci da mangiare, da bere, da vestire e tutte le altre cose senza che le meritiamo”. (3)

Il bene più desiderato e chiesto dal nostro Fondatore durante la sua conversione é stato il perdono e la misericordia divina come possiamo leggere nei capitoli VII, VIII e IX del Castro. Ha sospirato e chiesto misericordia al Signore e ricevutala se ne é fatto intermediario verso tutti i bisognosi.

L’ospitalità misericordiosa di San Giovanni di Dio é senza dubbio ciò che colpisce di più il lettore, attento alle sue straordinarie azioni in favore di tutte le categorie di bisognosi e sofferenti.

Possiamo affermare in modo assoluto che l’esperienza profonda dell’ospitalità misericordiosa di Dio verso di lui lo ha trasformato in ospedaliero misericordioso verso tutti senza eccezione e quasi, possiamo dire, senza limiti. Nelle sue azioni non conosciamo limite di bisognosi né di sofferenti che non abbia soccorso. La lista dei bisognosi di Granada e dei dintorni soccorsi da San Giovanni di Dio che Castro riporta nel capitolo XII e quella data dallo stesso Santo nella seconda lettera a Gutierre Lasso coincidono e coprono quasi tutte le categorie esistenti nella Granada del suo tempo.

3.1.2. Ospitalità solidale

Questa esperienza e rivelazione della misericordia di Dio verso di lui ha provocato due risposte: una di kénosis (annichilimento) (4) o umiliazione penitenziale ben visibile nelle fonti, e successivamente una risposta di ospitalità misericordiosa verso tutti i bisognosi, sofferenti e peccatori (5). F. de Castro ci racconta come Giovanni di Dio nel giorno della sua conversione, da povero libraio si sia distaccato da tutto ciò che aveva per farsi seguace di Gesù Cristo. Dice inoltre:

Andava sempre scalzo, sia in città che in tutti i suoi viaggi, col scoperto e la barba e capelli tagliati col rasoio, senza camicia, né altro vestito che un cappotto di ruvido panno cenerino e calzoni di tela di lana. Camminava sempre a piedi, senza mai servirsi di alcuna cavalcatura, anche nei viaggi, per quanto stanco fosse e malconci avesse i piedi. Né, per quanto imperversassero intemperie di pioggia o neve, si coprì la lesta dal giorno in cui cominciò a servire nostre Signore fino a quando lo chiamò a sé. Eppure sentiva compassione delle più lievi sofferenze dei suoi simili, e procurava di aiutarli, come se egli vivesse in molta agiatezza (6).

La sua prima casa ha avuto inizi molto poveri per accogliere altri poveri come lui. Castro lo racconta in poche parole:

Deciso di procurare realmente il conforto e il rimedio ai poveri, Giovanni di Dio parlò con alcune pie persone che durante i suoi travagli l’avevano confortato e, con il loro aiuto e il suo fervore, prese in affitto una casa alla pescheria della città, perché era nei pressi di piazza Bibarrambla, da dove e da altre parti raccoglieva i poveri abbandonati, infermi e storpi, che trovava; e comprò alcune stuoie di giunco ed alcune coperte vecchie in cui potessero dormire, non avendo ancora né danaro per far di più, né altra cura de prestar loro (7).

Possiamo affermare che San Giovanni di Dio si è incarnato nei poveri e negli infermi accogliendoli e curando i loro bisogni come uno di loro. Li ha guariti pur nei suoi limiti con la ricchezze del carisma d’ospitalità datogli da Dio. Mai ricusava di aiutare un bisognoso con tutto ciò di cui poteva disporre nelle sua povertà.

3.1.3.. Ospitalità di comunione

Intermediario tra ricchi e poveri, tra categorie di benestanti e bisognosi, tra potenti e disprezzati, San Giovanni di Dio ha praticato l’ospitalità di comunione.

Con San Giovanni di Dio la questua delle elemosine é diventata un patrimonio e una ricchezza spirituale dell’Ordine di cui non si può fare a meno nonostante si debbano adattare i suoi metodi ad ogni epoca e cultura. Bisogna considerarla come circolazione di beni per la costruzione solidale e spirituale della società.

Quando gridava di notte per le vie: “fate bene fratelli a voi stessi per amore di Dio” voleva inquietare e provocare le coscienze a non dormire sopra le miserie dei propri fratelli, chiedeva e dava in una dinamica di reciprocità.

Quando scriveva lettere ringraziando per i doni ricevuti e raccontando il suo dolore per le sofferenze dei miserabili che non poteva assistere da solo e quando ricorreva a prestiti continui che faceva fatica a pagare, voleva costruire una comunità di comunione in cui tutti si sentissero fratelli, amati, aiutati e perdonati da Dio come lui stesso si sentiva. Sapeva che se tutti avessero vissuto un’esperienza profonda della misericordia di Dio, come lui la viveva, la Chiesa e la società sarebbero diventate veramente la famiglia dei figli di Dio abitati dalla vita e dalla comunione divina superando le necessità dei bisognosi.

3.1.4. Ospitalità creativa

In una città con quasi una decina di ospedali e case di poveri, diventa incredibile come la sensibilità di Giovanni di Dio abbia scoperto tanti bisognosi e malati abbandonati. E diventa anche sorprendente come sia riuscito ad aprirsi uno spazio nuovo nel modo di praticare l’ospitalità. Egli ha anticipato quanti avevano la responsabilità di camminare davanti a lui per risolvere i problemi dei malati, dei poveri e dei bisognosi.

La sua ospitalità era risposta a quelli che non la trovavano (abbandonati) e ai bisogni nuovi a cui altri non erano ancora sensibilizzati (sofferenti a causa di colpe, odio o vendette). San Giovanni di Dio vedeva ogni sofferenza, sia del corpo che dello spirito(8).

3.1.5. Ospitalità integrale (olistica)

Possiamo affermare che uno dei valori più caratteristici dell’ospitalità juandediana sia l’integralità di cura diretta a tutta la persona sofferente, Per lui il malato e il bisognoso non era solo un corpo ed un’anima, peccatore o peccatrice, un vendicativo, un bugiardo o un indegno. Tutti erano persone, suoi fratelli e sorelle, tutti degni di essere aiutati e perdonati da lui e dai suoi collaboratori. E perché? Perché altrettanto fa Dio provvedendo ogni giorno ai bisogni di tutti (9), perdonando e salvando (10). E perché vederli soffrire senza aiuto gli “spezzava il cuore” (11).

L’ospitalità di San Giovanni di Dio, diremmo oggi, era nello stesso tempo preventiva e di emergenza, curativa e riabilitativa, guariva i curabili e accompagnava gli incurabili. Era ancora pedagogica e formativa per gli orfani, per i bambini esposti e per le prostitute che aiutava a liberarsi dalla colpa, a costruire e portare avanti un progetto di formazione e di inserimento sociale. Nel suo ospedale offriva letto e cibo, legna e locali per accogliere i pellegrini; medicine, infermieri, medici, cappellani e aiuti spirituali per i malati. (12).

La pratica ospedaliera di San Giovanni di Dio ci fa vedere che la storia cinese del pesce e della canna é una falsa questione quando si interpreta come dilemma esclusivo (o…o…). L’ospitalità per soccorrere i sofferenti e i bisognosi deve essere sempre e….e….secondo le circostanze di luogo, di tempo e di persona.

3.1.6. Ospitalità riconciliante

San Giovanni di Dio era comprensivo e trattava tutti, peccatori, oppressori e oppressi, come Dio trattava lui: perdonava e aiutava, assisteva e guariva le ferite fisiche e morali. Tante volte quelle morali e spirituali prima e come condizione per ottenere l’armonia e la guarigione delle malattie del corpo.

In un mondo così diviso e lacerato da tante ideologie, fondamentalismi, discriminazioni etniche che generano odio, risentimento e desiderio di vendetta, la capacità di San Giovanni di Dio di perdonare, riconciliare e costruire ponti di fraternità merita di essere studiata e vissuta da tutti noi nella Famiglia Ospedaliera. Tra tutti, tra i suoi assistiti e i suoi collaboratori, egli era un profondo guaritore di ferite, tensioni e conflitti.

Come Cristo, anch’egli guariva con le sue piaghe. I suoi biografi fanno notare come fosse stato ferito dalla separazione dai suoi genitori, dalla solitudine, dalle frustrazioni della vita militare ma principalmente dalle sue colpe, dalle ingiurie subite, e dalla sofferenza per i tanti debiti fatti per aiutare i poveri e i malati, suoi fratelli. Queste esperienze di ferite esistenziali ne facevano anche un ospedaliero specializzato nel sanare e riconciliare i nemici tra loro e farli suoi collaboratori come avvenne con Antón Martín e tanti altri.

Alla sua benefattrice, Duchessa di Sessa, diceva come si curasse con le ferite di Cristo crocifisso e la consigliava a fare altrettanto:

“Quando mi trovo afflitto non trovo rimedio o consolazione migliore che guardare Gesù Crocifisso (13).

“Ricorrete alla passione di Gesù Cristo nostro Signore e…sentirete grande consolazione” (14).

Fu così che riuscì a portare Antón Martín a perdonare e riconciliarsi con Pedro Velasco e conquistarli ambedue a divenire collaboratori diretti della sua ospitalità, come primi fratelli.

Ed era con la passione di Cristo, i venerdì, che guariva le ferite della prostituzione a tante donne distrutte da quel genere di vita. Per il suo carisma di ospitalità misericordiosa perdonò alla donna strappata da lui alla prostituzione che lo ingiuriava: “Prima o poi ti devo perdonarti, perciò ti perdono subito (15). Così la convertì una seconda volta come lei stessa testimonia ai funerali del santo.

Quando lo accusano all’arcivescovo di accogliere persone indegne nella sua “Casa di Dio”, si dichiara l’unico indegno e che “come Dio tollera i cattivi e i buoni ed ogni giorno fa sorgere sopra di tutti il suo sole, non é ragionevole scacciare gli abbandonati e gli afflitti dalla propria casa” (16).

3.1.7. Ospitalità generatrice di volontariato e collaboratori

L’amore misericordioso senza frontiere di San Giovanni di Dio aveva una vitalità così forte che generava amore, carità cristiana e collaborazione; era ospitalità irradiante, carisma sempre più partecipato.

Questa forza carismatica ricevuta da Dio a cui San Giovanni di Dio é stato radicalmente fedele ha fatto del Santo un fuoco di irradiazione ospedaliera a vari livelli di solidarietà e collaborazione con lui nell’aiuto ai poveri e ai malati.

Possiamo distinguere vari livelli di collaboratori: da quelli che aiutavano con azioni o elemosine saltuarie a quelli diventati collaboratori permanenti come Angulo e tanti altri citati nelle sue lettere, da Castro e dal documento del Processo contro i Gerolimini. Alcuni hanno abbracciato il volontariato juandediano fino all’appartenenza piena nell’identificazione con il suo carisma.

Tra i più diretti collaboratori si contano i primi compagni o fratelli di abito, i benefattori più identificati con il suo carisma che hanno sentito l’opera di San Giovanni di Dio come propria. E questo sentimento di appartenenza all’ospedale e all’opera juandediana generava a sua volta una forte dinamica di solidarietà. Questa identificazione nel carisma, portava tanti dei suoi collaboratori a promuoverlo e a difendere la sua originalità con beni e persone. (17). Questa identità di appartenenza alla Famiglia di San Giovanni di Dio resta un modello valido per il presente e il futuro.

3.1.8. Ospitalità profetica

Una delle note più originali dell’Ospitalità di San Giovanni di Dio é stata la profezia. Senza mezzi, straniero immigrante con fama di pazzo, dandosi totalmente a Gesù Cristo e ai sofferenti ha aperto cammini nuovi nella Chiesa e nella Società.

I suoi atteggiamenti ospedalieri furono sorprendenti, sconcertanti, ma funzionarono come fari per indicare nuove vie di assistenza e umanità verso i poveri e i malati. Ha creato da niente un modello alternativo per essere cittadino, cristiano, ospedaliero a favore dei più abbandonati. Questa ospitalità profetica é stata un lievito di rinnovamento nell’assistenza e nella Chiesa. Il modello juandediano ha funzionato anche come coscienza critica e guida sensibilizzatrice per nuovi atteggiamenti e pratiche di aiuto verso i poveri e gli emarginati.

3.2. L’ospitalità nell’arco della storia

3.2.1. L’ospitalità juandediana nei primi compagni e attraverso i secoli

I primi fratelli (18), compagni di San Giovanni di Dio, parteciparono del suo carisma ospedaliero, lo praticarono e lo diffusero. L’atto di fondazione dell’ospedale di Antón Martín di Madrid parla dello stato di bisogno di “malati con piaghe contagiose”. Lo stesso, nel suo testamento afferma che Giovanni di Dio lo lasciò alla guida del suo ospedale, al posto suo, come se stesso. (19)

I suoi compagni sono ricordati dai testimoni come ospedalieri molto vicini nel servizio ai poveri e ai malati che assistono. La sua persona, umile, povera, e abbassata in un annichilimento (kénosis) volontario in cui si distacca da ogni grandezza per portarsi a livello dei poveri e servirli continua ad essere l’esempio dei suoi compagni e collaboratori.

Testimoni di questa prima tappa dell’Ordine sono unanimi nel dichiarare che “i fratelli ricevevano con molta carità e liberalità tutti i poveri senza eccezione, qualunque persona sia straniera o nativa, curabili e incurabili, pazzi o sani di mente, bambini piccoli ed orfani. E questo lo facevano ad imitazione di Giovanni di Dio, il loro fondatore. Ricevevano tutti, tanto moriscos come vecchi cristiani. (20)

Dopo questa prima tappa dell’Ordine Ospedaliero si sono succeduti attraverso quasi cinque secoli di storia fino ai giorni nostri, confratelli e collaboratori juandediani, alcuni di grande fama, altri rimasti nell’anonimato, che hanno dato una preziosa testimonianza di fedeltà al carisma dell’ospitalità. (21)

D’altra parte, dai primi albori dell’Ordine, l’assistenza nei campi di battaglia, nelle armate e tra i militari anche in tempo di pace, diventarono una costante dei servizi ospedalieri dell’Ordine nella Spagna, l’Italia, il Portogallo e la Francia.

L’azione dell’Ordine si é articolata con altre due espressioni: il servizio di emergenza nelle epidemie e gli ospedali in territori di missione alcuni dei quali sono diventati i cosiddetti “ospedali-dottrina”.(22)

Un’altra espressione che si é sviluppata in parecchi paesi sono state le scuole di medicina e chirurgia e i corsi per infermieri per preparare i membri e i collaboratori dell’Ordine.

Nei secoli XIX e XX, con la psichiatria diventata sempre più un ramo specializzato della medicina, l’Ordine si é sensibilizzato nel fondare e gestire centri specifici per malati di mente. In Francia questo sviluppo é stato notevole per iniziativa di Paul de Magallon nel secolo XIX, con la restaurazione dell’Ordine dopo la sua estinzione dalla Rivoluzione del 1789. Così pure in Spagna, Portogallo e Sudamerica per opera di Benedetto Menni.

Altre Provincie, dalle diverse restaurazioni europee del sec. XIX (tedesca, polacca, austriaca e italiana) hanno fondato opere esclusive per malati di mente e handicappati mentali, bambini, giovani e adulti. Le Provincie d’Irlanda, Inghilterra e Australasia si specializzarono nell’organizzazione di servizi per disabili psichici dando un importante contributo a questo settore nel distinguerli dalle persone diagnosticate come malati mentali e cambiando la terminologia utilizzata per gli stessi al fine di mettere in risalto la loro dignità e i loro diritti come persone.

L’assistenza ai bambini e ai giovani handicappati fisici fu una risposta di Benedetto Menni in Spagna, tanto urgente fino a pochi anni fa e che oggi trova espressioni in alcuni ospedali generali pediatrici anche di avanguardia e centri di ortopedia e riabilitazione.

Una espressione del carisma di San Giovanni di Dio sviluppatasi molto negli ultimi decenni sono stati i ricoveri notturni per i senzatetto e le case per anziani nonché i centri per persone con difficoltà di apprendimento ossia disabili psichici.

Una delle dimensioni che l’Ordine ha sempre più sviluppato è stata quella missionaria. Si può dire che l’espansione missionaria dell’Ordine risalga alla sua stessa nascita. La fondazione in Cartagena (Colombia) in 1596, è stata la prima di una lunga serie che sono state create in America, in Africa e Asia fino al secolo scorso.

Dopo un periodo di estinzione, le fondazioni missionarie furono riprese in America, Africa, Asia e Oceania. L’Ordine vuole continuare oggi l’evangelizzazione del mondo della salute proprio come San Giovanni di Dio ha fatto e Gesù Cristo ci ha comandato

3.2.2. Presenza attuale

Le esigenze della Nuova Evangelizzazione poste dalla Chiesa all’inizio del terzo millennio, hanno portato l’Ordine a rispondere con il progetto di una Nuova Ospitalità. La “nuova ospitalità” si deve esprimere in due sensi: in opere innovatrici nella comunità; e in nuove risposte alle lacune esistenti.

Dal Capitolo generale del 1976 e più ancora da quello straordinario del 1979, l’Ordine ha fatto uno sforzo considerevole per aggiornare l’assistenza. Sono state parecchie le aree che hanno preso sviluppo. Vale la pena di ricordare le principali.

L’umanizzazione e la pastorale hanno conosciuto in questi ultimi venti anni una rivitalizzazione tanto necessaria per complementare i grandi sviluppi tecnici degli ospedali e adeguarsi alle sofferenze concrete dei malati e dei loro familiari. L’assistenza juandediana é stata sempre integrale, olistica, per cui non può esser priva della cura pastorale e spirituale aggiornata.

La dimensione umanizzante e pastorale unitamente alla necessaria formazione permanente dei confratelli e dei collaboratori, se portata avanti, può rinnovare la presenza dell’Ordine nei centri tradizionali. Se ben attuate sono mezzi per una rinnovata presenza assistenziale dell’Ordine, per una nuova ospitalità e una nuova evangelizzazione.

Negli ultimi anni si ha completato l’umanizzazione con la formazione in bioetica e in etica della salute e la sua applicazione al servizio dei malati.

L’adeguamento delle strutture a nuovi bisogni e ad esigenze tecniche ed umane, insieme a nuovi criteri di gestione con l’attribuzione prioritaria delle risorse secondo programmi ben definiti hanno contribuito a rinnovare molti dei nostri ospedali e centri.

L’evoluzione che hanno subìto i nostri centri tradizionali ha investito tutte le loro aree. Le innovazioni tecnologiche nell’ambito delle scienze della salute si è riflessa nei continui cambiamenti che hanno avuto i nostri centri. La loro struttura materiale ha subìto un notevole mutamento per l’incorporazione delle équipes tecniche, per il cambio delle tecniche assistenziali, per i nuovi metodi di lavoro con una particolare menzione per l’introduzione del lavoro in équipes multidisciplinari. Il tutto sempre orientato a una migliore e più completa attenzione al malato come persona.

Il mutamento più significativo si è avuto nell’integrazione dei collaboratori. Fino a non molti anni fa la comunità dei frati, con l’appoggio di alcuni laici, rendeva possibile il servizio ai malati. Oggi sono i collaboratori gli attori principali nelle opere e non vi sono aree precluse a tale presenza, dato che anche la direzione e la gestione sono state assunte dai collaboratori.

Accanto ai collaboratori dipendenti anche un numero crescente di volontari si va integrando nei nostri centri assumendo compiti di umanizzazione e di servizio pastorale.

Questa presenza rinnovata e aggiornata nei centri tradizionali sta dando ottimi risultati grazie anche all’opera di formazione a livello locale, provinciale e internazionale.

In questa maniera, il futuro delle opere passa, in parte, attraverso il mantenere sempre attuali gli strumenti tecnici, i metodi di lavoro e i processi direttivi e gestionali, con particolare riferimento ai mezzi tecnici correlati alla comunicazione e ai processi informatici. Si va pure sviluppando l’area della ricerca scientifica con programmi che alle volte vengono svolti in collaborazione con i competenti dipartimenti universitari.

I confratelli devono essere guida etico-morale, coscienza critica, anticipazione creatrice e innovativa e segno profetico di buone nuove ai poveri, ai malati e ai bisognosi di oggi, di ogni cultura e religione.

3.2.3. Nuove forme di presenza

Da parecchi anni le espressioni innovatrici nell’Ordine derivano dalla sensibilizzazione alle nuove necessità della società e dalle nuove risposte che ci sforziamo di dare a partire dal nostro carisma alle necessità esistenti. In alcuni casi vengono riprese espressioni già presenti nella pratica di San Giovanni di Dio. Ci riferiamo ad una maggiore apertura alla comunità sociale, alle famiglie e ai loro bisogni.

La nostra ospitalità sta uscendo sempre più dagli ospedali e dai Centri assistenziali estendendosi alla prevenzione ed educazione alla salute, alla riabilitazione e al reinserimento sociale e alla salute comunitaria. San Giovanni di Dio si occupava con premura degli orfani, della loro educazione e formazione, del reinserimento delle prostitute, ecc.

Così oggi l’Ordine sta estendendo il suo campo d’azione ai day-hospital, all’assistenza domiciliare, ai poliambulatori. Promuove anche la creazione di risposte assistenziali di aiuto ai nuovi sofferenti delle moderne patologie: tossicodipendenti, malati di AIDS, malati cronici terminali, ecc.

Le sofferenze della solitudine, dell’abbandono della disperazione e del vuoto esistenziale stanno trovando risposte con i telefoni della speranza, con la pubblicazione di bollettini e depliant di messaggi umani e cristiani, con riviste su temi di riflessione, di formazione etica ed ospedaliera.

Uno degli indirizzi in cui l’Ordine cerca di rispondere ai nuovi bisogni della società é l’integrazione di confratelli e collaboratori in opere, progetti e iniziative della Chiesa e di altri organismi nazionali e internazionali in campo sanitario, di ricerca e di assistenza. Queste realizzazioni si stanno attuando tra gruppi di una o parecchie provincie, le loro fondazioni o associazioni in collaborazione con organismi non governativi, con governi di altri paesi, soprattutto in via di sviluppo.

Il carisma di San Giovanni di Dio é così ricco e ha tanta vitalità che quando l’Ordine, i confratelli e i collaboratori si lasciano condurre dallo Spirito di Dio e si sensibilizzano ai bisogni emergenti della società, i frutti dell’ospitalità juandediana si moltiplicano anche se le risorse appaiono insufficienti.

Per la riflessione:

Come sta ricreando l’Ordine (confratelli e collaboratori) le caratteristiche principali dell’ospitalità?

 

PUNTI FORTI PUNTI DEBOLI SUGGERIMENTI

1) Ospitalità misericordiosa

2) Ospitalità solidale

3) Ospitalità di comunione

4) Ospitalità creativa

5) Ospitalità integrale

6) Ospitalità riconciliante

7) Ospitalità generatrice

di volontariato e collaboratori

8) Ospitalità profetica

____________________________________________

NOTE DEL TERZO CAPITOLO

(1) L’Ordine Ospedaliero dispone oggi di una ricca documentazione per studiare e approfondire le linee di forza e di vitalità del carisma ospedaliero. Le fonti documentarie diventano così mezzi per arrivare alla sorgente del carisma ospedaliero di San Giovanni di Dio e alle sue caratteristiche.

Cronologicamente e in ordine di importanza disponiamo di sei Lettere di San Giovanni di Dio, più tre di San Giovanni di Avila a lui. Queste lettere sono disponibili in edizioni critiche e ci danno un ritratto di prima grandezza di San Giovanni di Dio. Ci fanno vedere e innamorare di un personaggio, un membro vivo seguace del primo Ospedaliero della storia, Gesù Cristo. Ci fanno intravedere la sua passione per l’uomo bisognoso e sofferente, per la Chiesa sua madre e per tutti i suoi figli.

La seconda fonte in ordine di importanza é senza dubbio la Biografia del Santo scritta da Francesco de Castro e pubblicata nel 1585. Con grande fondatezza storica, costituisce un rendiconto profondo del percorso umano-spirituale del Santo in cui é messa in rilievo l’ospitalità divina verso di lui come sorgente della sua ospitalità senza frontiere verso tutti i poveri e i malati.

Dal 1995 la Famiglia Ospedaliera dispone di una nuova e preziosa fonte della vita e ospitalità di San Giovanni di Dio. E’ la Documentazione proveniente dall’Archivio della Deputazione Provinciale di Granada che formò parte della causa tra i Fratelli dell’Ospedale di Giovanni di Dio e i Fratelli del Monastero di San Girolamo”. Questa documentazione data del 12.03.1570 (il processo iniziò però soltanto nel 1572) e consiste di 171 fogli manoscritti che furono trascritti da José SÁNCHEZ MARTINEZ nel suo libro: Kénosis y Diakonía en el itinerario espiritual de San Juan de Dios, Madrid 1995. Dei 17 testimoni che risposero alle 26 domande, 10 avevano conosciuto San Giovanni di Dio. Questa documentazione ed altri documenti che Sánchez ha utilizzato in un altro lavoro sullo stesso processo, costituiscono la terza fonte in ordine di importanza per studiare l’ospitalità di San Giovanni di Dio.

In più disponiamo delle prime Costituzioni dell’Ospedale di Granada e di tre Bolle fondamentali:

1. Licet ex debito di Pio V (1 gennaio 1572)

2. Etsi pro debito di Sisto V (1 ottobre 1586)

3. Piorum Virorum, Breve di Paolo V (12 aprile 1608)

Questi documenti hanno un valore decisivo perché ci avvicinano a San Giovanni di Dio e ai principi teologici e giuridici della nostra ospitalità. Inoltre bisogna aggiungere le petizioni dei Superiori Generali di grazie ed approvazioni che diedero luogo alle succitate bolle. Entrambi vanno considerate fonti della nostra ospitalità.

Delle prime Costituzioni ricordiamo:

Regla y Costituciones para el Hospital de Ioan de Dios, desta ciudad de Granada…1585;

Constituciones hechas en el primer Capitulo General hecho en Roma año de 1587;

Costitutioni et ordini da osservarsi dagli Frati dell’Ordine di Giovanni di Dio… 1589;

Costitutioni del devoto Giovanni di Dio – d’Italia, 1596

Regla del Bienaventurado Padre San Agustín y Constituciones de la Orden de Iuan de Dios, Madrid 1612

La documentazione moderna è abbondante, ma, per non esagerare, vogliamo ricordare solamente alcuni titoli, i più significativi che sono stati pubblicati a partire dal Capitolo Generale del 1976, citati in ordine cronologico.

· P. Marchesi, Le basi del rinnovamento (1978).

· P. Marchesi, L’Umanizzazione (1981).

· La Dimensione Apostolica dell’Ordine di San Giovanni di Dio (1982).

· Costituzioni dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio (1984).

· P. Marchesi, L’Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000 (1986).

· Dichiarazioni del LXII Capitolo Generale (1988).

· B. O’Donnell, Servo e Profeta (1990).

· Giovanni di Dio continua a vivere nel tempo (1991)

· Fatebenefratelli e Collaboratori insieme per servire e promuovere la vita, (1992).

· La nuova Evangelizzazione e la nuova Ospitalità alle soglie del terzo millennio (1994).

· P. Piles, La forza della carità (1995)

· P. Piles, Giovanni di Dio: chiamata alla nuova ospitalità (1996)

· P. Piles, Lasciatevi guidare dallo Spirito (1996)

· La Dimensione Missionaria dell’Ordine Ospedaliero. Profeti nel mondo della salute (1997)

Gli studi e ricerche critiche compiuti nel corso dei secoli e di recente, sulla vita, spiritualità e ospitalità di San Giovanni di Dio sono ulteriori inestimabili contributi per approfondire il tema trattato in questa “Carta di identità”. Per non appesantirla rimandiamo alla bibliografia finale per alcuni dei titoli più significativi.

(2) 1a Lettera di San Giovanni di Dio alla Duchessa di Sessa (1DS), 13. Vedi anche GAMEIRO, A. Koinonía, filoxenía y martyrion em S. João de Deus e na sua Orden nascente, tesi di dottorato, Roma 1996, in corso di pubblicazione.

(3) 2a Lettera di San Giovanni di Dio alla Duchessa di Sessa (2DS), 18.

(4) Cfr. SÁNCHEZ MARTINEZ, José. Kénosis y Diakonía en el itinerario espiritual de San Juan de Dios, Madrid 1995.

(5) Cfr. 2a Lettera di San Giovanni di Dio a Gutierre Lasso (2 GL), 5. Questo elenco non è completo. Castro, nel capitolo XVI, aggiunge altri bisognosi. Il Santo ha assistito persone colpite da mali morali molto acuti. Conosciamo la sua sollecitudine e misericordia verso le prostitute, i carcerati, gli emarginati, i mori e probabilmente anche verso i “cristiani nuovi” di provenienza ebraica, gli schiavi ed altri esclusi sociali come i malati incurabili.

(6) CASTRO, Op. Cit., Capitolo XVII.

(7) Ibid., Capitolo XII.

(8) Cfr. 2 GL, 8.

(9) 1a Lettera di San Giovanni di Dio a Gutierre Lasso (1 GL), 2.

(10) Lettera di San Giovanni di Dio a Luis Bautista (LB), 19.

(11) 1 DS, 15.

(12) A partire dal Capitolo XII al XX del suo libro, Castro illustra bene queste distinte dimensioni dell’ospitalità juandediana.

(13) 2 DS, 9.

(14) 1 DS, 9.

(15) CASTRO, Ibid., Capitolo XV

(16) Ibidem., Capitolo XX.

(17) Questa solidarietà identificativa appare chiaramente nelle lettere a Gutierre Lasso e alla Duchessa di Sessa, nella biografia di Castro e nelle testimonianze del processo e si riferisce a decine di collaboratori.

(18) Nel Processo contro i Girolamini (Cf. SANCHEZ, Op. Cit.), anteriore alla biografia di Castro, si parla abbondantemente degli atteggiamenti ospedalieri dei fratelli d’abito di San Giovanni di Dio. Giovanni d’Avila (Angulo) cita i loro nomi: Antón Martín, Pedro Pecador, Alonso Retigano e Domingo Benedicto.

(19) ORTEGA LÁZARO, L., o.h., Antón Martín…. pp. 17-18 e 31

(20) Dichiarazioni tratte dalla causa tra i fratelli dell’“ospitale di Giovanni di Dio” e “i frati del monastero di san Girolamo”, 1572-73. En: SANCHEZ MARTINEZ, José Op. Cit., pp. 181-188 e 285 ss.

(21) Consideriamo importante per delineare l’identità e originalità dell’Ordine, conoscere, seppure solo molto parzialmente, alcune figure di confratelli particolarmente degni di considerazione per come abbiano vissuto i valori dell’ospitalità. I santi, beati e venerabili meritano di essere ricordati per primi: San Giovanni Grande, San Riccardo Pampuri, Beato Benedetto Menni e i numerosi Beati Martiri. Tra i venerabili e quelli di cui si sta introducendo la causa de Beatificazione abbiamo Francesco Camacho, Antón Martín, José Olallo Valdès, Eustachio Kugler e un altro gruppo di martiri, senza dimenticare anche tanti altri che nella storia dell’Ordine hanno sofferto il martirio o la persecuzione per Cristo e per l’ospitalità in Brasile, Colombia, Cile, Polonia, Filippine, Francia, Spagna e, di recente, anche in altri paesi.

Tanti confratelli “fondatori” e “rifondatori” di comunità e opere dell’Ordine meriterebbero di essere più conosciuti come espressioni vive della vitalità e dei valori del nostro carisma. Così i fratelli Giovanni Bonelli (Francia); Gabriele Ferrara e Giovanni Battista Cassinetti (Italia e Germania), Francisco Hernandez (America). In tempi più recenti è giusto ricordare Padre Giovani Maria Alfieri (Italia), Paul de Magallon (Francia), Eberhard Hacke e Magnobon Markmiller (Germania), il Beato Benedetto Menni (Spagna, Portogallo e Messico).

Nel campo della ricerca storica dell’Ordine acquistano speciale rilievo alcuni confratelli, che con amore per l’Ordine e spirito scientifico ci permettono oggi di conoscere il percorso del nostro carisma.

Un’altra schiera di confratelli illustri si sono distinti come medici, chirurghi, farmacisti, botanici, dentisti, che sarebbe lungo nominare. Ne menzioneremo alcuni nel sesto capitolo, nota 11, di questo documento dedicato al tema della formazione e della ricerca nell’Ordine.

Dopo questi nomi di confratelli chi sono stati profeti di Ospitalità, bisognerebbe forse aggiungere, alcuni nomi di collaboratori che per il loro amore all’Ordine e ai suoi valori meritano di essere ricordati.

(22) ANTIA, Juan Grande, in Labor Hospitalario-Misionera de la Orden de San Juan de Dios en el mundo, fuera de Europa, AA.VV., Madrid, 1929.

“I religiosi ospedalieri furono, da Filippo II a Ferdinando VII, gli incaricati della Sanità militare, specialmente nelle spedizioni nelle Indie e in tempo di guerra e di epidemie.

Oltre ai quasi cento Ospedali-Dottrina che avevano in America, nei quali curavano spagnoli, militari e indigeni e gestivano una numerosa e ben frequentata scuola di fede per gli indios, avevano anche farmacie e cliniche ossia dispensari di soccorso e rimedio per tutti. Nei loro Ospedali-Dottrina gli indios perciò non trovavano solo la salute per il corpo, ma anche per l’anima; è così che i fervidi Figli di San Giovanni di Dio rimasero sempre fedeli all’assioma ereditato dal loro Padre e dai loro Superiori: Dal corpo all’anima, assioma sempre valido per ogni buon ospedaliero”.

* – - – *

4.

PRINCIPI CHE ILLUMINANO LA NOSTRA OSPITALITA’

Accettando la chiamata della Chiesa ad essere sempre più coscienti della missione evangelizzatrice di ogni gruppo ed opera ecclesiale, l’Ordine, nel progettare la Nuova Ospitalità, si sente impegnato a sviluppare chiaramente la sua identità alla luce di ciò che chiamiamo la “cultura dell’Ordine”. Radicati in questa cultura ospedaliera siamo chiamati tutti, religiosi e collaboratori, ad incarnare nel nostro agire i principi che illuminano la nostra ospitalità. In seguito vogliamo illustrare uno ad uno questi principi.

4.1. Dignità della persona umana

4.1.1. Il rispetto della dignità della persona umana come caratteristica essenziale di un atteggiamento autenticamente cristiano. La creazione dell’uomo e della donna a immagine di Dio (Gen 1, 27) conferisce loro una dignità indiscutibile. Tra tutti gli esseri viventi l’essere umano é l’unico a somiglianza di Dio, chiamato alla comunicazione con Dio, in grado di ascoltare e rispondere a Dio. La dignità di ogni essere umano dinanzi a Dio é il fondamento della sua dignità dinanzi agli uomini e a se stesso. E’ la ragione ultima della fondamentale uguaglianza e fraternità tra gli uomini, indipendentemente dalla razza, dal popolo, dal sesso, dalle origini, dalla cultura e dalla classe sociale. E’ il motivo per cui un essere umano non può usare di un altro essere umano come di una cosa. Al contrario deve trattarlo come essere autonomo e responsabile di se stesso mostrandogli rispetto.

Dalla dignità dell’essere umano dinanzi a Dio consegue pure il diritto e il dovere dell’autostima e dell’amore verso se stessi. Di conseguenza dobbiamo considerarci un valore per noi stessi e assumere responsabilmente la cura della nostra salute. Dalla dignità di ogni essere umano dinanzi a Dio consegue pure che dobbiamo amare il prossimo come noi stessi e che la vita dell’essere umano é sacra e inviolabile, principalmente perché nel volto di ogni essere umano vi é un raggio della gloria di Dio (Gen 9, 6).

4.1.2. Il rispetto deve essere universale. Il rispetto della dignità della persona umana, creata a immagine di Dio esige che ciascuno, senza alcuna eccezione, deve considerare il prossimo come “altro sé” curandosi in primo luogo della sua vita e dei mezzi necessari per poterla vivere degnamente. (1) Bisogna affermare che la dignità di ogni essere umano é tale quali che siano le anomalie da cui può essere affetto, le limitazioni che può presentare o l’emarginazione sociale a cui può vedersi ridotto.

Il rispetto della dignità della persona umana creata a immagine di Dio é latente nella filosofia e nelle crescente coscienza internazionale sull’ampia gamma dei diritti umani.

Il carattere universale del rispetto della dignità umana si esplicita nell’affermazione di Kant per cui le persone sono assolutamente preziose, fini in sé, dotate di dignità e non commutabili con un prezzo. Il corollario etico sarà che in quanto persone, tutti gli uomini sono uguali e meritano uguale considerazione e rispetto. La dignità é inerente all’essere umano per essere soggetto di diritti e di doveri(2).

4.1.3. Atteggiamento interiore ed efficace modalità di accoglienza ai malati e ai bisognosi. Dato che il valore e la dignità umana nel dolore, nella disabilità e nella morte sono più frequentemente oggetto di interrogativi e rischiano di essere eclissati, l’Ordine Ospedaliero nel prendersi cura del malato e dei bisognosi annunzia a tutti gli uomini la meravigliosa eredità di fede e di speranza che ha ricevuto dal Vangelo.

L’atteggiamento di Gesù in favore dei più deboli e degli emarginati sociali, è per l’Ordine Ospedaliero, secondo l’esempio di S. Giovanni di Dio, una chiamata a impegnarsi nella difesa e promozione dei diritti fondamentali, fondato sul rispetto della dignità umana.

Tenendo conto delle varie forme attraverso le quali l’Ordine oggi esprime il carisma, ci sembra che esistano alcuni campi in cui, nella prospettiva della Nuova Ospitalità, sono segni evangelici particolarmente significativi:

· i senzatetto: come espressione della dimensione di gratuità, che nella nostra società dell’efficienza e della produttività è quasi negata;

· i malati terminali: per segnalare il valore della vita nel momento del morire;

· i malati di AIDS: per contrastare paure e pregiudizi irrazionali;

· i tossicodipendenti: amare l’uomo che non si sa amare;

· gli immigrati: accogliere Gesù straniero come genuina espressione di ospitalità;

· gli anziani; per affermare il valore della vita nella sua globalità;

· le persone in condizioni di infermità e limitazioni croniche: come espressione del valore e dignità della persona umana.

Ogni luogo in cui vi sia povertà, malattia, sofferenza, è un luogo privilegiato in cui noi, religiosi di S. Giovanni di Dio, esercitiamo e viviamo il Vangelo della misericordia(3).

4.2. Rispetto della vita umana

4.2.1. La vita come bene fondamentale della persona e condizione previa per godere degli altri beni. La vita, bene fondamentale della persona e condizione previa per godere degli altri beni, non solo non può vedersi subordinata a nessun altro bene ma rispetto ad essa ogni persona deve essere riconosciuta come avente pari diritto nei confronti di ogni altro uomo.

Il dovere di realizzarsi, proprio di ogni uomo -percepiamo l’esistenza come dono ma anche come impegno da attuare- presuppone di conservare il bene fondamentale della vita come condizione “sine qua non” per poter compiere il dovere di custodire la missione ricevuta con la stessa esistenza. Comunque venga formulato sussiste il principio etico: conseguire il fine per cui fummo creati, tendere alla propria perfezione o alla realizzazione di se stessi inseriti nella società[i].

La vita umana che per il credente é dono di Dio, deve essere rispettata dal suo inizio sino alla fine naturale. Essendo il diritto alla vita inviolabile e costituisce il fondamento più forte del diritto alla salute come degli altri diritti della persona, nessuna considerazione giustifica il ricorso all’aborto o all’eutanasia attiva.

4.2.2. Protezione speciale dei pazienti con minorazioni fisiche, mentali e psicologiche. In ogni individuo minorato fisicamente o psichicamente dobbiamo vedere un membro della comunità umana, un essere che soffre e che, più di qualsiasi altro, necessita del nostro appoggio e dei nostri segni di rispetto che lo aiutino a credere nel suo valore di persona. Questo é molto importante ai nostri giorni per il fatto che la nostra società si mostra sempre più intollerante nei confronti dei portatori di handicap, dei disabili, dei minorati. (4)

L’Ordine Ospedaliero deve distinguersi per la disponibilità e il servizio ad attuare, nella misura del possibile, la realizzazione pratica ed effettiva dei principi di integrazione, normalizzazione e personalizzazione. Il principio di integrazione si oppone alla tendenza a isolare, segregare o trascurare i disabili. Il principio di normalizzazione comporta l’impegno per la riabilitazione delle persone impedite creando un ambiente il più normale possibile. Il principio di personalizzazione sottolinea che nell’attenzione ai disabili occupano il primo posto la dignità, il benessere e lo sviluppo della persona dovendosi proteggere e promuovere le sue facoltà fisiche, psichiche, spirituali e morali.

4.2.3. Promuovere la vita, creando o collaborando alla creazione di realtà che aiutino a superare la miseria, la fame e l’infermità. Nella nuova evangelizzazione l’Ordine Ospedaliero deve render visibile il Vangelo della vita potenziando tutti i possibili sforzi che vengono fatti per eliminare le strutture ingiuste, disumanizzanti e creando possibilità di vita degna, lì dove esiste povertà, infermità, emarginazione e abbandono.

In virtù della sequela di Cristo secondo il carisma di S. Giovanni di Dio, il sostegno e la promozione della vita umana devono realizzarsi mediante il servizio della carità che si manifesta nella testimonianza personale e istituzionale nelle diverse forme di volontariato, nell’animazione sociale e nell’impegno politico[ii].

Il servizio alla vita deve estendersi dalla protezione della vita nascente fino all’accompagnamento fraterno di chiunque soffra per una malattia, una condizione di emarginazione o di bisogno, rispettando, difendendo e promuovendo la sua dignità di persona. Una speciale attenzione merita la persona nella fase finale della sua esistenza.

Il servizio di promozione alla vita deve espletarsi nella promozione delle attività in ambito di prevenzione, nel trattamento degli invalidi e della riabilitazione delle persone che sono impedite. In questo senso non sarà mai sufficiente quello che si fa per aiutare i disabili a partecipare pienamente alla vita e allo sviluppo della società cui appartengono, creare l’ambiente sociale che li accetti pienamente come membri della comunità con speciali necessità che devono essere soddisfatte.

4.2.4. Obblighi e limiti nel conservare la propria vita. La vita é un bene fondamentale della persona e condizione previa per l’uso di altri beni ma non é un bene assoluto. Questa può essere sacrificata in favore di altre persone o dei nobili ideali che danno senso alla vita stessa. La vita, la salute, ogni attività temporale si trova subordinata ai fini spirituali.

Neghiamo il dominio assoluto e radicale dell’uomo sulla vita quindi non possiamo realizzare atti che presuppongono un dominio totale e indipendente come sarebbe quello di distruggerla. Parallelamente possiamo affermare il dominio “utile” sulla propria vita, non il conservarla a qualsiasi prezzo. La vita é sacra certamente, ma é altrettanto importante la qualità di questa vita, cioè la possibilità di viverla umanamente e dandole un senso. Non esiste il dovere di conservare la vita in condizioni particolarmente penose.

Non tutti i trattamenti che prolungano la vita biologica risultano umanamente benefici per il paziente come persona. Gli individui non hanno il dovere di accettare mezzi sproporzionati per conservare la vita. In ogni caso, si potrà valutare se i mezzi sono proporzionati o sproporzionati tenendo conto delle condizioni fisiche e psichiche del malato e comparando: il tipo di terapia; il grado di difficoltà e di rischio che comporta; una ragionevole fiducia nell’esito; il livello di qualità di vita che ne deriva (vista dalla prospettiva del paziente); la durata della sopravvivenza; i disagi (propri e dei familiari) che il trattamento e le conseguenti spese porteranno con sé.

4.2.5. Il dovere di non attentare alla vita altrui. La vita umana é sacra, perché dal suo inizio é frutto dell’azione creatrice di Dio e rimane sempre in una speciale relazione col Creatore, suo unico fine. Solo Dio é Signore della vita dal suo inizio alla sua fine. Nessuno, in nessuna circostanza può attribuirsi il diritto di uccidere in modo diretto un essere umano (5). Dato che nel carisma ospedaliero devono trovare accoglienza tutte le persone, l’Ordine è contro la pena di morte in ogni situazione.

L’eutanasia in senso vero e proprio, cioè un’azione o una omissione che per sua natura provoca intenzionalmente la morte con il fine di eliminare qualunque dolore, é una grave violazione della Legge di Dio. “La tentazione dell’eutanasia appare come uno dei sintomi più allarmanti della “cultura di morte” che avanza soprattutto nelle società del benessere”. (6)

4.2.6. Doveri in ordine alle risorse della biosfera. La protezione dell’integrità della creazione é sottesa al crescente interesse per l’ambiente. L’equilibrio ecologico e un uso sostenibile ed equo delle risorse mondiali sono elementi importanti di giustizia con tutte le comunità del nostro “villaggio globale”; e sono pure oggetto di giustizia condiviso con le future generazioni che erediteranno ciò che daremo loro. Lo sfruttamento irresponsabile delle risorse naturali e dell’ambiente degrada la qualità della vita, distrugge le culture e riduce i poveri in miseria(7). Dobbiamo promuovere atteggiamenti strategici che creino relazioni responsabili con l’ambiente vitale che condividiamo e del quale non siamo altro che amministratori.

Essendo le nostre strutture luoghi di consumo dei materiali più vari, possiamo dare segni concreti e significativi di attenzione all’ambiente istituendo comitati a tal fine, privilegiando l’uso di materiali biodegradabili e riciclabili e sensibilizzandoci tutti, confratelli e collaboratori, attraverso corsi e seminari. (8)

4.3. Promozione della salute e lotta contro il dolore e la sofferenza

4.3.1. Il dovere di vigilare per la promozione della salute della popolazione. Tra le attività che promuovono la salute della popolazione bisogna evidenziare l’informazione al pubblico e i programmi di educazione che promuovono stili di vita sani e diminuiscono i rischi per la salute che possono essere evitati, compreso l’uso del tabacco, dell’alcol e di altre droghe; l’attività sessuale che aumenta il rischio di contrarre l’AIDS e le altre malattie sessualmente trasmesse; la cattiva alimentazione; l’inattività fisica e i livelli di inadeguata immunizzazione in età infantile.

In molti paesi l’educazione sanitaria costituisce uno dei mezzi per diminuire la morbilità e mortalità infantili, per mezzo dell’alimentazione al seno e l’informazione ai genitori sulla nutrizione adeguata e i rischi dell’acqua contaminata (9).

4.3.2. Il dovere etico di vigilare per il maggior interesse del paziente. Quanti lavoriamo in ambito sanitario abbiamo il dovere etico di adoperarci per il maggior bene del paziente in ogni momento, e integrare detta responsabilità con un maggior impegno a promuovere ed assicurare la salute della popolazione (10).

4.3.3. Mettersi a fianco dei poveri, degli emarginati e dei sofferenti come imperativo evangelico di giustizia. In un mondo di sofferenza e povertà (la maggior parte della popolazione mondiale) la missione di render presente San Giovanni di Dio si rivela particolarmente importante per il fatto che la povertà opprimente -a causa di strutture sociali ingiuste che escludono i poveri- genera una violenza sistematica contro la dignità degli uomini, delle donne, dei bambini e di chi ancora non é nato, che non può essere tollerato nel Regno voluto da Dio”.

“Il nostro Ordine esiste per evangelizzare i poveri, accompagnarli ed assisterli nelle loro sofferenze secondo lo stile di San Giovanni di Dio (…) Si sono visti alcuni sforzi per adeguare la nostra vita e le nostre strutture al servizio dell’emarginato: day-hospitals, alberghi notturni, assistenza a malati di AIDS e malati terminali, promozione di zone emarginate partendo da centri-base già esistenti… Questi sforzi richiedono tuttavia un’azione più coerente nel senso che l’Ordine si deve mettere più marcatamente nell’ottica del povero identificandosi, nel suo stile di vita, chiaramente con questa opzione, affinché, attraverso la sua forma di vita, il suo servizio, la sua missione di annuncio/denuncia, eserciti un’influenza sempre maggiore in questo senso sulla Chiesa e le strutture della società”. (11)

4.3.4. Trattamento corretto del paziente di fronte all’accanimento terapeutico. Per quanto orientati alla promozione della salute i nostri ospedali non possono contemplare la morte come un fenomeno che é loro estraneo, che deve essere emarginato, ma come parte integrante del corso della vita, particolarmente importante per la realizzazione piena e trascendente del malato. Conseguentemente ogni infermo deve essere soddisfatto nel suo desiderio di non essere impedito, anzi di esser facilitato secondo la sua religione e il suo senso della vita nell’assumersi responsabilmente il passo della propria morte. A questo si opporrebbe il nascondergli la verità e l’isolarlo, senza vera e urgente necessità, dalle sue relazioni abituali di amicizia, di famiglia di comunità religiosa e ideologica. (12)

Solo così si realizzerà, in questi momenti definitivi dell’esistenza, l’umanizzazione della Medicina.

4.3.5. Cure palliative. Le istituzioni dell’Ordine Ospedaliero che curano pazienti in grado avanzato di malattia devono poter disporre, per quanto sia possibile, di unità di cure palliative destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e, nello stesso tempo, assicurare al paziente un accompagnamento umano adeguato. (13)

4.4. L’efficacia e la buona gestione

4.4.1. Il dovere di coscientizzare la popolazione a non considerare le spese sanitarie come puro dispendio economico. In tutti i paesi la domanda di servizi sanitari é superiore alla capacità della nazione di offrire detti servizi. E’ un dovere importante quello di collaborare nel richiamare la coscienza della società sul fatto che i costi dell’assistenza medica non possono considerarsi come puro dispendio economico. Rappresentano anche un investimento in risorse umane che permette di ridurre la sofferenza individuale e offrire alla gente l’opportunità di dedicarsi al lavoro produttivo o di vivere nelle proprie case o di usufruire di un costo assistenziale più basso. Pertanto le spese nei servizi di assistenza medica hanno un effetto nella diminuzione di altri costi sociali.

4.4.2. Amministrazione e gestione efficace ed efficiente delle risorse. Le professioni sanitarie devono assumersi la responsabilità di un’amministrazione efficace delle spese assistenziali che include la utilizzazione di metodi diagnostici e terapeutici efficienti che comprendono anche l’implementazione degli indici di qualità e di parametri di esercizio applicabili e realistici.

4.4.3. L’istituzione ospedaliera come impresa deve orientarsi al recupero della persona integralmente considerata. La totalità dell’istituzione ospedaliera come impresa deve orientarsi o ri-orientarsi al recupero della persona integralmente considerata, cioè, delle sue dimensioni somatopsichiche, sociali e spirituali che, in definitiva costituiscono il nucleo dell’umanizzazione dell’assistenza sanitaria. Nell’ospedale-azienda l’investimento nel creare un clima umano e umanizzante aiuta la produttività e l’efficacia del lavoro stesso. (14)

4.4.4. Investire per creare un clima umano ed umanizzante in appoggio al rendimento delle risorse. Come in altre imprese anche nell’ospedale l’impegno a creare un clima umano e umanizzante contribuisce al buon uso delle risorse e al miglioramento delle condizioni lavorative degli operatori sanitari. Essi possono, a loro volta, umanizzando se stessi, aiutare a creare le condizioni più umanizzanti per i pazienti. (15)

Tra i miglioramenti che é necessario apportare necessita particolare attenzione l’aggiornamento delle conoscenze e delle competenze per mezzo della formazione permanente adattata alle circostanze di ogni tempo e luogo.

4.4.5. Diritti e doveri dei lavoratori Il diritto al lavoro é previsto dai contratti secondo le legislazioni vigenti. Spetta allo specialista in diritto del lavoro, trovare la soluzione tecnico-giuridica in grado di conciliare il diritto all’obiezione di coscienza e il diritto al lavoro nella formulazione del contratto di lavoro, nelle successive revisioni dello stesso e nell’entrata in vigore di nuovi contratti collettivi. L’attenzione ai diritti dei lavoratori che i nostri ospedali, residenze assistenziali e centri socio-sanitari devono prestare in modo eccellente in ossequio alla più stretta giustizia sociale, non deve realizzarsi a costo della propria esistenza contro questa stessa giustizia sociale.

4.5. Nuova ospitalità e nuove esigenze: Terzo e Quarto Mondo

Ogni volta é sempre più grande l’abisso che separa i paesi del cosiddetto Nord sviluppato e quelli del Sud in via di sviluppo. All’abbondanza di beni e servizi disponibili in alcune parti del mondo, soprattutto nel Nord sviluppato, corrisponde al Sud un inammissibile regresso ed é proprio in questa zona geopolitica che vive la maggior parte dell’umanità. A guardare la gamma dei diversi settori: produzione e distribuzione degli alimenti, igiene, salute e abitazioni, disponibilità di acqua potabile, condizioni di lavoro soprattutto femminile, durata della vita media e altri indicatori economici e sociali, il quadro generale appare desolante, sia considerandolo in se stesso, sia in relazione ai dati corrispettivi dei paesi più sviluppati del mondo. (16)

Anche nei paesi sviluppati le forze economiche e sociali escludono dai benefici sociali milioni di persone che costituiscono il cosiddetto “quarto mondo”: povertà o miseria di uomini, donne e bambini che “oltre a vivere in condizioni di gravissimo disagio fisico e psicologico hanno perso la legittimazione di “soggetti di diritto” poiché non sono garantite da protezione giuridica e sociale”. Esempi più concreti sono coloro che perdono la propria occupazione, i giovani senza alcuna possibilità lavorativa, i bambini di strada sfruttati e abbandonati alla propria sorte, gli anziani soli e senza alcuna protezione sociale, gli ex-carcerati, le vittime della droga, i malati di AIDS, gli immigranti in generale e i clandestini in particolare (…) tutti coloro che sono condannati a una vita di dura povertà, di emarginazione sociale e di precarietà culturale. (17)

4.5.1. Solidarietà e cooperazione. Il Vangelo di Gesù Cristo é un messaggio di libertà e una forza di liberazione. La liberazione é innanzitutto e principalmente liberazione dalla schiavitù radicale del peccato. Logicamente comporta la liberazione da molteplici schiavitù di ordine culturale, economico, sociale e politico che, in definitiva derivano dal peccato e costituiscono tanti ostacoli che impediscono gli uomini di vivere dignitosamente. (18)

“La solidarietà é una virtù eminentemente cristiana. Essa attua la condivisione dei beni spirituali ancor più che di quelli materiali. Il principio di solidarietà é una diretta esigenza di fraternità umana e cristiana. Lo solidarietà si manifesta in primo luogo nella distribuzione dei beni e nella remunerazione del lavoro. I problemi socio-economici possono esser risolti solo con il concorso di tutte le forme di solidarietà: solidarietà dei ricchi con i poveri ma anche dei poveri tra loro; degli imprenditori con i dipendenti ma anche dei lavoratori tra loro; solidarietà tra le nazioni e i popoli. La solidarietà internazionale é un’esigenza di ordine morale. In buona misura, la pace del mondo dipende da essa. (19)

4.5.2. Cooperazione e cooperatori: diritti e doveri. Il documento del LXIII Capitolo Generale segnala con sufficiente chiarezza le linee di ciò che si esige dai religiosi e dai collaboratori di San Giovanni di Dio. (20) Enucleiamo i seguenti aspetti:

· Umanizzarsi per umanizzare ed essere testimoni della santità secondo il radicalismo delle beatitudini a esempio di San Giovanni di Dio, povero tra i poveri, servo e profeta.

· La promozione delle persone sotto tutti gli aspetti: cura del malato, accoglienza amorevole dei cronici, attenzione speciale ai più deboli e ai più poveri, accompagnamento di coloro che stanno vivendo i loro ultimi momenti, trasformando i gesti di cura in gesti di evangelizzazione.

· Dobbiamo presentare la nostra cultura dell’ospitalità come alternativa alla cultura dell’ostilità che non solo domina sempre più fortemente le relazioni tra i popoli, le nazioni e le etnie ma anche le relazioni interpersonali. Dobbiamo dimostrare una nuova capacità di accoglienza, creare comunità di fede aperta che siano un invito a tutte le persone con cui ci relazioniamo: malati, familiari, collaboratori, amici. Ogni Centro dovrà essere una piccola Chiesa domestica capace di creare la comunione cristiana in cui la gioia dell’uno é quella dell’altro e il dolore dell’uno é il dolore dell’altro. Oggi più che mai, nelle relazioni umane, il religioso di San Giovanni di Dio é chiamato ad essere testimone di Dio “amante della vita” (Sap 11, 26) che si confonde con la sua gente e con la sua presenza rende la terra accogliente e l’uomo veramente uomo.

· Valorizzare e promuovere le qualità degli operatori e volontari che collaborano con l’Ordine e farli partecipi del servizio e della evangelizzazione delle persone presenti nel Centro e di particolari manifestazioni della vita della comunità.

· Preparare professionisti identificati con la filosofia e i valori dell’Ordine, perché assumano funzioni direttive e di animazione nelle nostre opere.

4.5.3. Il volontariato: gratuità e identificazione. “E’ volontario colui che, oltre ai suoi propri doveri professionali e di stato, in modo continuativo e disinteressato, dedica parte del suo tempo ad attività, non in favore di se stesso o degli associati (a differenza dell’associazionismo) ma in favori degli altri o di interessi sociali collettivi, secondo un progetto che non si esaurisce nell’intervento stesso (a differenza della beneficenza) ma che tende a eradicare o modificare le cause del bisogno e dell’emarginazione sociale”.(21)

La nostra filosofia é identica a quella di ogni altro tipo di volontariato. Solo che ciò che é fondamentale per tutti acquista una particolare sfumatura per il fatto di essere un’azione ospedaliera o sociale realizzata nei Centri dell’Ordine, secondo lo spirito di San Giovanni di Dio. Nel nostro volontariato deve esserci:

· Principio di volontarietà: i volontari fanno parte dello stesso organismo, liberamente, perché lo richiedono;

· Principio di gratuità: la loro dedizione é frutto di un’esigenza interiore, di un impegno personale, non vi é nessuna esigenza esterna che li obblighi;

· Principio di solidarietà: nasce dall’esigenza di farsi presenti nella necessità dell’altro, di compatirla;

· Principio di complementarità: ci si prefiggono mete che la nostra società non riesce a raggiungere, arricchendola e promuovendo così la giustizia sociale;

· Principio di integrazione personale: ci si propone quasi sempre di dare, però molte volte vediamo che é più quello che si riceve;

· Principio di preparazione: si esige una formazione adeguata che dia le conoscenze storiche, la dimensione apostolica, i valori dell’Istituzione e la capacità di sapersi trovare in qualsiasi circostanza;

· Principio di associazionismo: si lavora coordinatamente, formando un gruppo senza alcun individualismo;

· Principio evangelico: essendo il nostro volontariato aconfessionale, si fonda sul Vangelo nella forma in cui San Giovanni di Dio ha vissuto la sua dedizione ai poveri, ai malati e ai bisognosi. I luoghi in cui su esercita il volontariato sono centri confessionali: gratuità nel servizio e identificazione con il carisma dell’Ordine riassumono i fondamenti del [nostro] volontariato. (22)

4.6. Evangelizzazione, inculturazione e missione

4.6.1. Visione d’insieme. Evangelizzare costituisce la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per l’evangelizzazione, cioè, per testimoniare, insegnare e predicare la Buona Novella di Gesù Cristo. Come nucleo e centro di tale Buona Novella Gesù annunzia la salvezza, questo grande dono di Dio che é liberazione da tutto ciò che opprime l’uomo, ma che é soprattutto liberazione dal peccato. (23)

La evangelizzazione parte dal mandato missionario di Gesù Cristo: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,18-20; cfr. Mc 16,15-18; Lc 24,46-49; Gv 20,21-23).

Per compiere questo mandato, il Vangelo deve incarnarsi, “tradursi” (senza tradirsi) nelle differenti culture. (24) L’evangelizzazione non é possibile senza inculturazione.

La frattura tra vangelo e cultura e, senza alcun dubbio, il dramma del nostro tempo come lo fu in altre epoche. (25) D’altra parte la secolarizzazione comporta di fatto, come abbiamo segnalato più sopra, lo stabilire una cultura della non credenza in cui si converte in presupposto culturale che il mondo si esaurisca nell’immanenza e in cui le affermazioni relative alla trascendenza si rivelano culturalmente e socialmente irrilevanti. In questa situazione, coloro che vogliono essere cristiani senza rinunziare al loro proprio tempo, senza volersi esiliare dalla cultura in cui vivono devono realizzare lo sforzo di inculturare il cristianesimo nelle culture sorte dalla modernità.

L’inculturazione rende possibile portare la Buona Novella a partire dall’interno di ciascuna cultura apportando così la sua propria ricchezza alla incarnazione storica del Vangelo. Questo significa che il Vangelo, nell’incarnarsi concretamente subisce forti trasformazioni rispetto alle sue precedenti forme di inculturazione. Così l’inculturazione permette di “comprendere e trasformare con la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità che sono in contrasto con la parola di Dio e il disegno di salvezza”. (26)

Inquadrata correttamente, l’inculturazione deve ispirarsi a due principi: la compatibilità col Vangelo delle diverse culture da integrare e la comunione con la Chiesa Universale.(27)

4.6.2 Evangelizzazione, inculturazione e missione dell’Ordine. In un mondo in cui l’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri, crede più nella esperienza che nella dottrina, nella vita e nei fatti che nelle teorie (28) l’Ordine si trova in una situazione privilegiata per la evangelizzazione e la inculturazione della fede per il fatto di essere presente in molte culture, in 46 paesi e in 5 continenti. La cultura della tecnica, probabilmente la più restìa ai valori cristiani é tuttavia sensibile alla viva testimonianza dell’impegno concreto per l’uomo.

Il carisma dell’Ordine ci pone pienamente in questo impegno, dato che la promozione dell’uomo sotto tutti gli aspetti é la nostra missione: la cura dell’uomo malato, l’accoglienza amorevole dei cronici, l’attenzione speciale ai più deboli e ai più poveri o l’accompagnamento a quelli che stanno vivendo i loro ultimi momenti.

Solo la fedeltà al carisma renderà possibile l’evangelizzazione e la inculturazione nel mondo della tecnica in cui deve affrontarsi la cultura dell’ostilità con quella della nuova ospitalità.

La domanda a cui dobbiamo rispondere nel futuro é come trasformare i gesti di cura in autentici gesti di evangelizzazione, come trasformare i luoghi in cui lavoriamo in luoghi significativi di evangelizzazione. Umanizzazione ed evangelizzazione devono far parte per noi di una unità indivisibile perché “dove non c’è carità non c’è Dio, per quanto Dio stia in ogni luogo”. (29)

Per la riflessione:

1) Descrivi segni che evidenzino come si sta vivendo nei Centri e nelle Comunità dell’Ordine i principi dell’ospitalità nei seguenti ambiti:

· Dignità della persona umana

· Rispetto della vita umana

· Promozione della salute e lotta contro il dolore e la sofferenza

· Efficacia e buona gestione

· Nuova Ospitalità

· Evangelizzazione, inculturazione e missione

2) Descrivi ciò che sta rendendo difficile od offuscando la messa in pratica di questi principi:

· Dignità della persona umana

· Rispetto della vita umana

· Promozione della salute e lotta contro il dolore e la sofferenza

· Efficacia e buona gestione

· Nuova Ospitalità

· Evangelizzazione, inculturazione e missione

3) Come si sta promuovendo la diffusione dei principi che illuminano la nostra ospitalità e la relativa formazione tra i confratelli, collaboratori ed assistiti?

4) Che cosa è necessario fare per garantire una migliore diffusione e formazione in relazione ai principi che illuminano la nostra ospitalità?

__________________________________

NOTE DEL QUARTO CAPITOLO

(1) Cfr. CONCILIO VATICANO II, Costituzione Pastorale Gaudium et Spes (GS), N. 27.

(2) Il concetto di dignità umana e i diritti della persona appaiono intimamente connessi nella Dichiarazione Universale dei diritti umani (1948); nella Convenzione Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (1966); nella Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici (1966); nel recente Accordo sui diritti umani in Biomedicina (1977): sebbene da queste Dichiarazioni non risulta chiaro in cosa consista e su cosa si fondi la dignità umana, la riconoscono tutte come inerente l’essere umano e riconoscono pure i diritti uguali e inalienabili di tutti i membri della famiglia umana come fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo.

(3) Cfr. LXIII CAPITOLO GENERALE, Nuova Evangelizzazione e Nuova Ospitalità alle soglie del terzo millennio, Bogotá, 1994, # 5.6.1.

(4) L’OMS definisce come deficit la perdita o la anomalia di una struttura anatomica o di una funzione fisica o psichica. Una disabilità é la diminuzione o incapacità di compiere un’attività nel modo e con i risultati che si considerano normali. Una minorazione é uno svantaggio acquisito da un individuo a causa di un deficit o di una disabilità, che limita o impedisce lo svolgimento di una normale attività per quell’individuo, tenuto conto dell’età, del sesso e dei fattori culturali e sociali (A. Anderson, “Simplemente otro ser humano”, Salud Mundial, 34, gennaio 1981: 6.)

(5) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Evangelium Vitae (EV), 5.

(6) Cfr. Ibid. EV, 64-65.

(7) Cfr. PAOLO VI, Octogesima Adveniens 21; GIOVANNI PAOLO II, EV 27, 42.

(8) Nuova Evangelizzazione e Nuova Ospitalità…, Op. Cit., 5.6.3, Situazioni concrete.

(9) Documento dell’Associazione Medica Mondiale “Progetto di dichiarazione sulla promozione della salute”, 10.75/94, Agosto 1994.

(10) Ibidem.

(11) Nuova Evangelizzazione e Nuova Ospitalità…, Op. Cit., 3.6.3

(12) Cfr. EV, 15.

(13) Cfr. Ibid. EV, 44.

(14) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Centesimus Annus 40; 20; 32.

(15) Cfr. MARCHESI, Pierluigi L’Umanizzazione, 1981.

(16) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo Rei socialis, 14.

(17) Lettera del Card. CARLO MARIA MARTINI. Biennio pastorale 1992-1993.

(18) Cfr. ISTRUZIONE DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Libertà cristiana e liberazione, Roma, 1986

(19) C.C. 1939-1942.

(20) Nuova Evangelizzazione e Nuova Ospitalità…, Op. Cit., 4.4

(21) CARITAS. Cfr. M. del Carmen Furés: El voluntariado en nuestra sociedad, in Labor Hospitalaria, 1985; 198(4):206.

(22) PILES F., Pascual Origine e traiettoria del Volontariato nell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio; Congresso Nazionale dei Volontari di San Giovanni di Dio, 18-20 ottobre 1995.

(23) Cfr. PAOLO VI, Evangelii Nuntiandi (EN) 9, 14.

(24) Cultura significa il modo in cui un gruppo di persone vive, pensa, sente, si organizza, celebra e condivide la vita. In ogni cultura soggiace un sistema di valori, di significati, di visioni del mondo che si esprimono esternamente nel linguaggio, nei gesti, nei simboli, nei riti e negli stili di vita.

(25) Cfr. Ibid., 20; Gaudium et Spes, 43.

(26) EN, 19.

(27) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris Missio, 54.

(28) Ibidem., 42.

(29) SAN GIOVANNI DI DIO, Lettera a Luis Bautista, 15. Cfr. Nuova Evangelizzazione e Nuova Ospitalità…, 4.3.

* – - – *

5.

APPLICAZIONE A SITUAZIONI CONCRETE

5.1. Assistenza integrale e diritti del malato

Il nostro apporto alla società sarà credibile, nella misura in cui sapremo incarnare i progressi della tecnica e l’evoluzione delle scienze. Da qui l’importanza che la nostra risposta assistenziale mantenga un’inquietudine per essere continuamente attualizzata nel suo versante tecnico e professionale.

Partendo da questo dovremo dare un’assistenza che consideri tutte le dimensioni della persona umana: fisica, psichica, sociale e spirituale. Soltanto un’attenzione che consideri tutte queste dimensioni, almeno come criterio di lavoro e come obiettivo da raggiungere, potrà considerarsi come assistenza integrale.

Forse questo é stato il campo in cui le opere dell’Ordine hanno coltivato una maggiore tradizione. Il loro livello assistenziale ha costituito una caratteristica che le ha distinte nel corso degli anni.

Le prime costituzioni già insistevano sul modo di trattare i malati e così si é continuato, privilegiando questo aspetto nel corso della storia.

5.1.1. L’approccio al malato, al bisognoso e ai suoi familiari

L’attenzione ai bisogni della persona (compresi quelli che si riferiscono allo spirito e alla trascendenza) é un elemento chiave in ogni servizio sanitario e sociale.

L’uomo é un essere relazionale; nella misura in cui entriamo in contatto con gli altri ci consolidiamo come persone. Quando facciamo sì che questo contatto si converta in incontro stiamo realizzando la pienezza della nostra dimensione relazionale.

Da qui l’importanza del nostro incontro, dell’ascoltare, dell’accettare, dell’accogliere, del saper canalizzare gli aspetti positivi e negativi che sono presenti in ogni persona che vive e avverte il bisogno degli altri.

La malattia, quale che sia la sua manifestazione esteriore, é un’espressione del limite, della debolezza dell’uomo ed è proprio in questa speciale circostanza che poniamo un’esplicita ed implicita domanda di aiuto reciproco.

Ogni persona, nel limite e nel dolore, cerca qualcuno con cui condividere la sua condizione, su cui scaricare il peso che grava su di lui. Ne consegue la necessità, per tutti coloro che costituiscono l’Ordine Ospedaliero -religiosi, collaboratori, volontari, ecc.- che acquisiscano e crescano nelle seguenti qualità:

5.1.1.1. Apertura: ai nuovi apporti della società, ai nuovi criteri di attuazione, alle nuove esigenze dell’uomo, alle altre culture. E’ aperta la persona che sa accogliere quello che la società e il mondo le vanno offrendo e sa discernere ciò che vi é di positivo in questa offerta per farlo suo. Aperta é anche l’istituzione che sa porsi nello stesso modo. Sebbene in questo caso si esigerà dialogo tra le persone, per saper discernere insieme, ciò che é positivo per tutti.

5.1.1.2. Accoglienza. Ricevere colui che arriva con uno spirito di affetto e di speranza che gli permetta di aver fiducia nelle persone e nelle Istituzione che si fanno carico di lui. Il primo contatto é molto importante, può aprire o chiudere le porte. Nel suo stato di bisogno, per il malato questo primo contatto acquisisce un’importanza fondamentale. In una condizione di difficoltà, sentirsi accettato e accolto é l’elemento essenziale per vivere uno stato di fiducia e di sicurezza nei confronti delle persone che si prendono cura di lui. Bisognerà vigilare in modo particolare perché la burocrazia e il tramite amministrativo non si trasformino in un ostacolo per l’accoglienza al malato.

5.1.1.3. Capacità di ascolto e di dialogo. Lasciare che la persona esprima la sua situazione, le sue esigenze, i suoi timori, le sue paure e che possa sentire in noi un’eco di fiducia e serenità, tanto nei momenti di allegria, quanto nelle situazioni più difficili.

Che il malato comprenda come tutto questo non cada nel vuoto, che é accolto, considerato, tenuto in conto. Sta dicendo la sola cosa che é in grado di dire in quel momento; incluso probabilmente il “dirci” tutto se stesso.

Si daranno anche situazioni in cui il malato chiede o desidera ciò che non é la cosa più conveniente per lui. Dalla nostra riflessione dovremo esser capaci di capirlo e di far capire al malato ciò che intendiamo fare anche in quei casi in cui ciò dovesse portare a una divergenza sui criteri di attuazione.

5.1.1.4. Attitudine al servizio. Sempre a disposizione del malato e dei suoi, sempre disponibili a donare le nostre competenze tecniche, la nostra scienza e la nostra persona al servizio del suo bene integrale.

Non sempre si deve fare ciò che il malato desidera o chiede, ma dall’atteggiamento con cui tratteremo la cosa egli potrà capire se stiamo agendo per il suo bene o per la nostra comodità.

5.1.1.5. Semplicità. Cioè l’umiltà di chi sa che sta dando un aiuto a chi ne ha bisogno e che si propone come obiettivo fondamentale di evitare una situazione di dipendenza.

Semplicità di chi cammina cercando di incontrare la verità, il bene per tutti, incluse le strutture tanto complesse come i nostri ospedali.

5.1.2. Diritti del malato

I diritti del malato s’iscrivono nel più ampio orizzonte dei diritti fondamentali dell’uomo. Dal punto di vista dei diritti umani, il diritto alla salute si colloca tra i cosiddetti diritti umani di seconda generazione, vale a dire tra i diritti di tipo economico e sociale. Con lo sviluppo della coscienza intorno a questo tema, negli anni sessanta si è intensificato l’interesse per i diritti dei malati. Premesso che come persona il malato è soggetto degli stessi diritti universali di tutti gli uomini, va considerato tuttavia che in lui entrano in gioco certe particolarità dovute alla sua situazione che richiedono una maggiore sensibilità e solidarietà. In questo senso sono state poi formulate tutt’una serie di dichiarazioni nazionali, regionali e locali.

L’Ordine fa propri questi diritti riconosciuti e proclamati e, dalla prospettiva di un’assistenza integrale, valorizza in maniera particolare i seguenti:

5.1.2.1. Riservatezza. La riservatezza comprende tre valori intimamente correlati nella relazione assistenziale: l’intimità, il segreto e la fiducia. Il rispetto per le persone esige il rispetto dell’intimità (1) del paziente, cioè di quella particolare sfera in cui ognuno si spiega a se stesso, si riconosce, afferma e lega la propria identità. Il rispetto all’intimità di ognuno rende possibile la convivenza sociale nella molteplicità dei singoli individui. Il velo del segreto tutela il rispetto reciproco e apre il cammino alla fiducia, via di accesso all’intimità dell’altro.

Rispetto reciproco e fiducia aprono la porta al diritto di comunicare i propri segreti con la garanzia che non saranno rivelati. In questo consiste l’obbligo del segreto professionale in cui si dà per supposto e rimane implicito l’impegno di non divulgare ciò che si é conosciuto nell’esercizio della professione.

L’obbligo del segreto, coesiste con l’obbligo di svelarlo quando non vi sia altro modo di evitare il danno ingiusto a un’altra persona e/o alla società, per esempio, per evitare il contagio o un altro male da cui la società non può liberarsi senza conoscere il segreto.

La progressiva specializzazione e tecnicizzazione della Medicina moltiplica i casi in cui questa si esercita in équipe. Si costituisce allora il segreto condiviso che esige speciale cura da parte di tutti perché non ne risulti pregiudicata l’intimità del malato.

Ogni operatore lavorando in ospedali o residenze sociosanitarie deve sensibilizzarsi per percepire i vari modi con cui il diritto alla riservatezza e all’intimità é violato. Basti pensare alle conversazioni sui pazienti in luoghi pubblici o al facile accesso alle storie cliniche da parte di persone non autorizzate. Speciale attenzione meritano tutte quelle liste di pazienti con diagnosi e/o trattamenti, tabulate dai moderni sistemi informatici.

Per facilitare il rispetto all’intimità dei pazienti, i centri dovranno disporre, nella misura del possibile, di una struttura fissa o mobile (come possono essere da un lato le camere individuali o gli ambienti riservati, dall’altro cortine o paraventi) che permettano l’isolamento del malato in rapporto alle sue necessità. Bisogna tener conto anche dell’età e della gravità di coloro che condividono la stessa camera.

Il malato potrà esprimere l’esigenza di restar solo o con la persona che desidera quando viene visitato dal suo medico oppure riceve l’assistenza infermieristica. Così pure potrà parlare col personale amministrativo in privato. Dovrà inoltre considerare che qualsiasi ospedale soprattutto se universitario o sede di insegnamento, é un luogo di formazione e che la sua collaborazione é imprescindibile sotto questo aspetto.

5.1.2.2. Veracità. Il diritto del malato a conoscere la verità va di pari passo con quello già analizzato relativo al segreto. Essi sono complementari e forniscono il più solido appoggio alla necessaria fiducia del medico ma entrambi possono entrare in conflitto in rapporto al motivo fondamentale della relazione medico-paziente: il conseguimento della salute. In qualsiasi ipotesi la decisione concreta deve fare attenzione al bene della persona del malato, considerata nella sua integrità, senza trascurare per questo il processo della salute come bene sociale.

Il diritto di ogni uomo a conoscere la verità sulle cose che lo colpiscono e il corrispondente obbligo di informarlo stanno alla base della convivenza. Non solo la menzogna ma anche la mancanza di sincerità distrugge la fiducia, tanto necessaria nella relazione interpersonale data l’ambiguità (finestra-maschera) della nostra esteriorità corporea. La fiducia é particolarmente importante nella relazione del malato col medico. Da qui l’importanza che acquista la sua veracità, che comporta sempre una certa responsabilità perché non si riferisce a fatti riduttivamente oggettivi ma a realtà cariche di importanza soggettiva, soprattutto quando la prognosi si riferisce al futuro aspetto del malato o alla sua funzionalità (libertà e capacità di movimento) o alla perdita della vita o ad altre possibili verità altrettanto difficili da accettare.

Come primo punto deve considerarsi prioritario il diritto a conoscere la verità sullo stato della propria salute da parte del malato, ma non a scapito di ciò che a lui conviene come persona. Alcune volte vi sono motivi di vero amore per tacere: gli creeremmo un danno inutile. Tuttavia non é onesto tacere solo per fuggire semplicemente dalla propria difficoltà. Se si ha tatto nel modo di dire la verità si può sempre aiutarlo. Il medico non deve attenersi all’obbligo generale di dire la verità senza prestare attenzione al possibile conflitto di interessi nel malato, in modo particolare quello della sua salute, motivo della relazione stabilita tra entrambi

I principi di soluzione non ci permettono di stabilire ricette stereotipate di applicazione universale. Il medico deve dire la verità, ma senza pregiudicare per questo inutilmente la salute o altri valori del malato. Il suo obiettivo ultimo é il bene di questi integralmente considerato.

Sono fattori che influenzano ciò che conviene dire: la fermezza del paziente e la sua forza d’animo, le sue convinzioni personali e il suo equilibrio psichico, così come il tipo di relazione che esiste tra il tale medico e il tal malato. Così pure non é possibile trascurare le circostanze economiche, familiari e sociali che coinvolgeranno il paziente dopo la consulenza medica. Ma acquistano particolare rilievo anche la diagnosi e la prognosi.

Trattandosi di malattie oggettivamente e soggettivamente innocue il fatto che niente gli venga nascosto tranquillizza il paziente. Sempre che la malattia sia curabile si impone una informazione adeguata per suscitare la collaborazione del paziente che é assolutamente indispensabile, quando senza la sua collaborazione il decorso della malattia potrà avere un esito fatale.

Il diritto del malato a conoscere la verità é indispensabile, soprattutto, quando questi deve prendere una decisione responsabile. E’ compito del medico agevolarla; non può sostituirsi ad essa e deve aver cura di non proiettarvi i suoi propri complessi e le sue inibizioni. Dovrà prendersi il tempo necessario per decidere le più opportune modalità di comunicare la verità in modo che il malato possa comprendere gli elementi più significativi per prendere una decisione saggia. A volte anche il paziente necessita di tempo per farsi carico dei vari elementi.

La conoscenza certa di una morte inevitabile e prossima deve essere comunicata al malato perché questi possa realizzarsi nell’ultimo atto della sua vita. Questo dovere presuppone la capacità del soggetto ad assumersi ed esprimere adeguatamente il suo ruolo in questo momento decisivo. Lasciargli qualche speranza (“un pezzo di cielo aperto” come dice qualcuno) può essere d’aiuto ma non può dimenticarsi che, abbandonando falsa speranza possiamo cedere il passo a un altro tipo di speranza che gli permetta di assumere la verità con maggiore respiro e realizzarsi così pienamente come uomo. Questo avviene anche nel caso di persone che non credono nella vita futura ma che hanno saputo dare un senso alla propria vita in relazione agli altri. L’ambigua espressione “diritto del paziente a morire” ha un significato reale: nessun essere umano deve esser privato del diritto a vivere la sua propria morte, coronando così la realizzazione della sua vita attraverso di essa.

Rinunzieremo a comunicare la verità quindi, quando ci consta che l’altro é incapace di sopportarla. Il diritto alla verità cessa qualora dovesse esitare nella disperazione fatalista e nell’annullamento del proprio essere, qualora -cioè- fosse recepita solo come una condanna a morte senza ragione e senza senso.

Il titolare del diritto a conoscere la verità é il malato, sempre che sia adulto e padrone di sé. Quando non é capace di assumersi la propria responsabilità per non aver acquisito la necessaria maturità o per qualsiasi altra causa, l’informazione richiesta deve esser comunicata a chi deve o può prendere decisioni in suo nome, a titolo di fiduciario, come la persona più interessata al bene del paziente. Se questi dovesse essere capace, si deve dire a familiari e congiunti, secondo il nostro criterio ragionevole, solo quello che il malato desidera comunicare loro.

Tanto nel soddisfare il diritto alla verità, come nel rispettare il dovere del segreto si deve tener conto del rispetto dovuto alla libertà della coscienza propria del malato e anche del medico. Ci occupiamo qui solo degli imperativi relativi alla prima.

“La coscienza é il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria” (2) . Non v’è alcun dubbio che anche l’ateo si senta interpellato e questo fatto, comunque lo si voglia capire e spiegare, merita un assoluto rispetto. Come il sacerdote anche il medico nello svolgimento delle sue funzioni può muoversi in prossimità di questo santuario e deve porre particolare attenzione a non violarlo. Né lo Stato, né tantomeno la Chiesa in nome di un preteso bene comune possono attentare contro la libertà della coscienza.

Mai il medico può coartare la coscienza del paziente. Il suo dovere é di procurare con cura la sua salute anche se disapprova la condotta che può averne causato la perdita (malattia venerea, infezione dovuta a un aborto mal praticato, ecc.) né é lecito approfittare della situazione di dipendenza per “moralizzarlo”. Niente impedisce, con questo, che se si deve favorire il processo curativo o l’umanizzazione dell’exitus lo si aiuti a mettersi in pace con la propria coscienza. Però questo deve esser fatto con il più grande rispetto per la sua libertà per quanto consideri erronei i suoi giudizi. Inoltre faciliterà l’approccio al malato da parte dei ministri religiosi o di altre persone che, a suo giudizio, lo possano aiutare a vivere con senso la malattia e anche la propria morte quale che sia la sua confessione religiosa o ideologia.

5.1.2.3. Autonomia. La valorizzazione e il rispetto dell’autonomia, specie in ambito sanitario è una conquista della modernità. Fino a non molti decenni orsono, infatti, era presente ancora un forte paternalismo nel rapporto medico-paziente per cui, in genere, decideva sempre il medico a cui il paziente stesso “si affidava” consapevole di non avere conoscenze né competenze adeguate per poter scegliere nel migliore dei modi. D’altra parte questi era pienamente convinto che il medico avrebbe agito sempre per il suo bene.

Il “paziente post-moderno” come viene chiamato oggi non ragiona più in questi termini. E’ cosciente infatti dei suoi “diritti” tra i quali quello alla vita e alla tutela della salute hanno senza dubbio un ruolo prioritario. Ed è cosciente, inoltre, di essere il solo titolare di tali diritti la cui difesa non può delegare ad altri, almeno fino a quando si trova in condizione di intendere e di volere.

Tale mutamento di prospettiva non è stato indolore e al vecchio paternalismo del passato, oggi non più accettabile, si è sostituito spesso un esasperato contrattualismo per cui il rapporto tra medico e paziente viene visto come un semplice “contratto” di cui entrambi sono tenuti a rispettare le clausole. Ovviamente il superamento di questo polarismo non può che essere quello di una vera e propria alleanza terapeutica in cui il medico cooperi col paziente, a realizzare il suo maggior bene, nel rispetto delle reciproche scelte. Presupposto fondamentale perché tutto questo possa realizzarsi nel migliore dei modi è un’adeguata comprensione di cosa sia l’autonomia del paziente.

Secondo una classica interpretazione una scelta può dirsi autonoma quando rispetta tre presupposti. Il primo è quello dell’intenzionalità. Deve trattarsi cioè di una scelta assolutamente “volontaria” e non semplice “voluta”. In secondo luogo deve esserci la conoscenza di ciò che si decide. Naturalmente tutto questo chiama in causa il problema della verità al malato di cui si è parlato al paragrafo precedente e a cui si rimanda. Infine deve esprimersi nell’assenza di controllo esterno. Questo significa che non deve esserci nessuna forma di coercizione (neanche quella che potrebbe derivare dall’autorevolezza esercitata dal sanitario nei confronti del paziente o dal timore di un possibile abbandono terapeutico da parte sua) né di manipolazione (ad esempio l’alterare o il distorcere la verità anche se fatto nella presunzione di un possibile bene del paziente stesso). Spesso viene pure inclusa tra questi criteri l’assenza di “persuasione”, anche se più prudentemente crediamo che un equilibrato e rispettoso tentativo di persuasione debba ritenersi addirittura doveroso qualora abbia di mira l’effettivo bene del paziente.

Naturalmente sul piano pragmatico questi criteri inerenti l’autonomia del paziente si manifestano pienamente nel consenso all’atto medico sia esso diagnostico o terapeutico, di cui si parlerà più avanti.

5.2.1.4. Libertà di coscienza. Il diritto alla libertà di coscienza, chiaramente formulato nell’art. 18 della Dichiarazione Universale dei diritti umani e inserito nelle Costituzioni della maggior parte di Stati moderni viene esigito dalla dimensione etica dell’essere umano e dall’autocomprensione della sua esistenza come dono e come progetto da realizzare. Da quest’ambito non è esclusa la dimensione religiosa dell’esistenza. A tal riguardo bisogna ricordare come la Dichiarazione Dignitatis Humanae del Concilio Vaticano II inizi proprio affermando che “la persona ha diritto alla libertà religiosa”.

L’esercizio di tale libertà, naturalmente, resta condizionato al principio generale della responsabilità personale e sociale, cioè, al fatto che ogni uomo o gruppo sociale è obbligato a tener conto i diritti degli altri e i doveri nei confronti degli altri e del bene comune. Questi limiti si concretizzano nell’esigenza di un ordinamento giuridico che tuteli concretamente tale libertà religiosa e difenda da un ingiusto proselitismo.

Ogni uomo e tutta la chiesa hanno il diritto di testimoniare la propria fede. Il diritto alla libertà religiosa include il diritto di dare questa testimonianza rispettando sempre la giustizia e la dignità della coscienza altrui. Ma il “proselitismo” è la corruzione di questa testimonianza, poiché è costituito da ogni comportamento abusivo e impertinente nell’esercizio della testimonianza cristiana che attenta alla libertà religiosa del prossimo. I principali atteggiamenti da riprovare, secondo il Consiglio Mondiale delle Chiese e il Segretariato per l’unità dei cristiani sono:

- ogni tipo di pressioni fisiche, morali o sociali che sfociano nell’alienazione o nella privazione del discernimento personale, della libera volontà e della piena autonomia e responsabilità dell’individuo;

- ogni beneficio materiale o temporale, offerto apertamente o in modo indiretto come prezzo per l’accettazione della fede di colui che ne à testimonianza;

- ogni beneficio risultante dallo stato di necessità in cui potrebbe trovarsi colui che riceve la testimonianza o dalla sua condizione di debolezza sociale o mancanza dio istruzione in vista di convertirlo al proprio credo;

- ogni cosa che può suscitare sospetto sulla buona fede dell’altro;

- ogni allusione priva di giustizia o carità verso i credenti di altre comunità cristiane o religioni non cristiane, in vista di fare adepti; gli attacchi offensivi che feriscono i sentimenti di altri cristiani o membri di altre religioni.

5.1.3. Programmi di Umanizzazione e Pastorale

5.1.3.1 Programmi di Umanizzazione. Se é certo che un ospedale che non sta al passo con la scienza e la tecnica può adagiarsi ai piedi delle stesse e pertanto non avere più interlocutori, non é meno certo che la scienza e la tecnica comportino dei rischi.

La costante evoluzione, la continua comparsa di nuove équipes e tecniche di lavoro, recano in sé il pericolo di mettere da parte la persona umana, tanto il professionista quanto il paziente. Poiché in molti dei processi lavorativi, da un ruolo fondamentale questo passa ad averne uno secondario e, a secondo delle tecniche, persino irrilevante. Pensiamo ad esempio a tutti i servizi di diagnosi o di procedure informative, ecc. dove prima la figura del professionista era imprescindibile per un adeguato operato, mentre adesso vi sono casi in cui il suo ruolo é secondario o inesistente.

Tutta questa evoluzione, non é neutrale alla risposta della persona, non sta ai margini della sua sensibilità anche se spesso corre il rischio di rimanervi. La tendenza verso un certo isolamento, verso una segregazione e un dispotismo tecnologico può presentarsi a maggior ragione quando si tratta col malato, soggetto passivo di tutta questa attività professionale: tutto per il malato ma senza il malato.

Per questo é imprescindibile la realizzazione di programmi di umanizzazione nei Centri e nelle opere. Intendiamo riferirci non solo alla attuazione di servizi ma alla pianificazione di effettivi programmi di umanizzazione.

Si deve ottenere che tutti i professionisti che attuano un servizio assistenziale si sentano chiamati ad aver cura del malato, della sua persona e della sua famiglia. In questo consisterà l’umanizzazione delle opere di San Giovanni di Dio, nel far sì che tutti gli operatori sanitari lavorino per il malato e con il malato, impiegando i migliori mezzi tecnici a servizio della persona assistita.

5.1.3.2. Pastorale socio-sanitaria. Il malato o bisognoso ha perso la sua salute, cosa che mette in crisi tutta la persona.

Ma poiché siamo convinti che la fede in Gesù Cristo sia una fonte di salute e di vita, ne consegue che la persona in crisi perché malata, possa esser messa in contatto con la sua dimensione di fede, se questa esiste, affinché l’incontro di entrambe (fede e crisi) possa convertirsi in sorgente di salute integrale.

Uno dei grandi valori della nostra società é il pluralismo che ha acquisito. Ormai sono passati i tempi in cui i regimi politici venivano imposti, come veniva imposta l’autorità e così pure la fede e la religione. La fede é un dono e come tale si può accogliere o rifiutare, mettere da parte o coltivare perché possa crescere e maturare.

Nelle nostre opere abbiamo voluto una presenza pluralistica di professionisti. Pertanto vi sono persone che hanno accolto il dono della fede e lo hanno fatto maturare e altre che non lo hanno fatto. Similmente, nei nostri centri vengono persone che hanno ricevuto il dono della fede e lo hanno fatto maturare ed altre no. Vogliamo servirli ed aiutarli tutti. Con tutti vogliamo percorrere un cammino che permetta loro di ricapitolare la loro storia personale, valorizzando questo momento di crisi che suppone la perdita della salute.

Dalla accettazione del limite e della dipendenza che comporta l’infermità o l’emarginazione, potremo accompagnarle a riscoprire la loro storia, il loro essere e il senso della loro vita. Questo si dovrà fare con sensibilità e rispetto, al ritmo che il malato o il bisognoso sia in grado di sostenere o, per meglio dire, al passo che loro vanno segnando. Con quelle persone che sentono in se stesse il dono della fede potremo celebrare in forma esplicita questo processo ma sempre in funzione del grado di crescita e di maturità che hanno acquisito.

I nostri Centri, sanitari e sociali, sono opere della Chiesa e pertanto la loro missione é di evangelizzare partendo dalla cura e dall’attenzione integrale ai malati e bisognosi, secondo lo stile di San Giovanni di Dio. Parlare di attenzione integrale implica l’occuparsi e il curare la dimensione spirituale della persona come una realtà essenziale, organicamente correlata con altre dimensioni dell’essere umano: biologica, psicologica e sociale.

La dimensione spirituale va molto al di là del riduttivamente “religioso” anche se lo comprende. Molte persone trovano in Dio le risposte alle grandi domande della vita mentre per altre il dato della fede in Dio non é significativo nella propria vita e quindi le cercano in altre realtà. D’altra parte Dio non ha per tutti lo stesso significato, né é per tutti lo stesso, né é uguale per tutti l’esperienza che se ne può fare.

A tutti i malati e gli emarginati, nel rispetto e nella libertà, dobbiamo accostarci e occuparci delle loro necessità spirituali, senza alcun protagonismo e recando loro ciò di cui hanno bisogno nella misura in cui possiamo farlo.

E’ certo che la malattia, l’emarginazione o la povertà sono occasioni per porsi molte domande circa il senso della vita e la presenza salvifica di Dio. Per questo e in modo diversificato dobbiamo accompagnare e rispondere, se é il caso, a queste situazioni. Da qui deriva la nostra preoccupazione per la pastorale della salute e dell’emarginazione.

La pastorale é l’azione evangelizzatrice di accompagnare le persone che soffrono, offrendo con la parola e la testimonianza la Buona Novella della salvezza, così come ha fatto Gesù Cristo sempre nel rispetto delle credenze e dei valori delle persone.

Il Servizio di Pastorale ha come missione prioritaria di occuparsi delle necessità spirituali dei malati e dei bisognosi, delle loro famiglie e degli operatori sanitari. Ciò richiede una struttura adeguata che include personale, mezzi e un piano che garantisca il compimento della sua missione.

L’équipe Pastorale é formata da persone preparate e totalmente dedite al lavoro pastorale del Centro, le quali sono collaborate da altre persone impegnate nel progetto, sia dedite a tempo parziale, sia sotto forma di volontariato. Deve esserci un piano di azione pastorale e un programma concreto in funzione delle necessità del Centro e delle persone che vi vengono curate. Vi saranno delle linee guida di azione pastorale tanto per ciò che riguarda i contenuti filosofici che quelli teologici e pastorali. A partire da queste linee si deve elaborare un piano pastorale cercando sempre di rispondere alle vere necessità spirituali dei malati, dei familiari e degli operatori. Si dovranno evidenziare gli obiettivi, le iniziative con i relativi parametri valutativi, distinguendo le distinte aree o i tipi di utenti del Centro, programmando per ciascuna area la pastorale più concreta ed adeguata.

L’équipe pastorale dovrà curare molto bene la sua formazione, al fine di stare al passo, aggiornarsi professionalmente e spiritualmente per poter servire meglio le persone. Un buon aiuto per l’équipe pastorale può essere il Consiglio pastorale che é composto da un gruppo di professionisti del centro, anche se non esclusivamente, sensibili alla realtà pastorale la cui principale funzione é riflettere e orientare il lavoro dell’équipe.

5.2. Problemi specifici della nostra azione assistenziale

5.2.1. Sessualità e procreazione

5.2.1.1. Procreazione responsabile. La procreazione umana costituisce la via attraverso cui Dio coopera con l’uomo che liberamente si fa strumento del suo atto creativo attraverso la generazione. Da ciò scaturisce l’alto valore del generare umano che, per questo, viene affidato alla procreazione responsabile da parte della coppia(3). Tale responsabilità procreativa rende la coppia attenta al duplice significato, unitivo e procreativo della sessualità coniugale. Nella realizzazione di tale alto compito la coppia si orienterà alla luce della parola Dio e degli insegnamenti della Chiesa responsabilmente recepiti nell’irripetibile singolarità della propria coscienza.

Nei Centri dell’Ordine dovranno essere favorite tutte quelle strutture che, secondo tipologie modalità proprie alla situazioni sanitarie e culturali dei vari Paesi possano favorire una effettiva responsabilità procreativa anche attraverso un adeguato counselling.

Tali criteri ispireranno anche le prestazioni professionali degli operatori sanitari sia nella pratica di tipo ambulatoriale che negli interventi in regime di ricovero.

5.2.1.2. Interruzione della gravidanza. La vita umana é un valore universalmente riconosciuto anche se percepito con diverse sensibilità storiche e culturali. Il suo rispetto e la sua tutela sta a fondamento di tutte le professioni e le organizzazioni sanitarie.

La tutela della vita si estende dal suo inizio fino alla naturale estinzione indipendentemente dalle modalità e circostanze della fecondazione, del suo stato di salute prima e dopo la nascita, dalle sue espressioni relazionali, dalla sua accettazione sociale. Anzi, ogni situazione di precarietà esistenziale, sull’esempio di S. Giovanni di Dio, costituisce motivo di impegno, individuale e comunitario, per la custodia del dono che Dio affida alla cura dell’uomo.

Nel ritenere inviolabile la vita umana viene formulato un principio etico a cui attenersi indipendentemente dalle complesse questioni teologiche relative al momento della “animazione” (sia che questa avvenga al concepimento che in una fase successiva). Secondo le equilibrate e prudenti posizioni della Donum Vitae e dell’Evangelium Vitae l’essere umano va rispettato “come una persona” fin dal suo concepimento(4).

L’inviolabilità della vita umana esclude pertanto che nelle opere dell’Ordine Ospedaliero possa praticarsi non solo l’aborto volontario ma anche altri interventi che di fatto sopprimono la vita nelle sue fasi iniziali o ne impediscono il regolare sviluppo.

Così pure si dovrà porre particolare attenzione affinché le procedure di diagnosi prenatale non vengano esclusivamente finalizzate all’interruzione della gravidanza qualora evidenzino malformazioni fetali. Anzi il positivo impegno per la vita e l’accoglienza del più debole e bisognoso, qual é un soggetto malformato, esigono in fedeltà al carisma di S. Giovanni di Dio, una sua più concreta e fattiva accoglienza. Questo é ancora più necessario in quanto la cultura dominante e le politiche di molti Stati tendono a negare la vita al soggetto in qualche modo “imperfetto”. La possibilità che nelle opere dell’Ordine si effettui tale diagnosi esige che al tempo stesso siano proprio le stesse opere, a istituire qualificati Centri di counselling per la coppia e la famiglia in difficoltà a causa della nascita di un figlio malformato.

Con analogo criterio é necessario che la riprovazione dell’aborto volontario non si traduca in disprezzo per chi lo pratica. Con carità cristiana, anzi, le nostre opere dovrebbero divenire Centri non solo di accoglienza alla vita ma anche di “ricostruzione” di un esistenza spesso profondamente turbata dall’aver praticato un’interruzione della gravidanza. Non solo la condanna dell’errore non deve tradursi in condanna dell’errante ma deve, trasformare mediante l’amore, l’errante in una persona consapevole del suo errore ma al tempo stesso fiducioso nell’immancabile perdono di Dio.

L’illiceità di praticare l’interruzione volontaria della gravidanza non esclude che possano praticarsi interventi farmacologici o chirurgici, volti a salvaguardare la salute della madre e che possano avere anche come effetto la morte del feto, purché questa non sia direttamente voluta, non venga ottenuta attraverso l’intervento stesso, e questo sia indifferibile(5).

5.2.1.3. Riproduzione assistita.. Sono molte le coppie sterili che ricorrono alle tecniche della riproduzione assistita come risorsa efficace per superare un problema che non dipende dalla loro volontà.

Nessun centro dell’Ordine può offrire questo servizio, se non è altamente qualificato e riconosciuto. In tal caso consideriamo eticamente accettabile l’aiuto alle coppie per mezzo delle tecniche di riproduzione assistita che permettono un esito procreativo alla loro intimità sessuale(6) utilizzando gameti della coppia, nel rispetto della vita dell’embrione.

Qualora circostanze di politica sanitaria dovessero esigere altri interventi, bisognerà individuare soluzioni accettabili o ricercare alternative. A tal fine i Comitati di Etica o Bioetica possono essere un eccellente aiuto.

5.2.2. Donazione di organi e trapianti

5.2.2.1. Tipologie del trapianto. Le moderne possibilità offerte dalla trapiantologia costituiscono una delle maggiori sfide etiche del nostro tempo invitandoci ad acquisire una nuova dimensione della solidarietà interpersonale. Donare i propri organi dopo la morte dovrebbe esser ritenuto un vero e proprio dovere da parte di ogni uomo e, a maggior ragione, di ogni cristiano. L’Ordine Ospedaliero, in questo, si unisce agli sforzi dell’intera collettività per incarnare e diffondere una “cultura del dono”. Al di là degli aspetti di ordine legislativo che possono rendere più o meno esplicito il consenso al prelievo di un organo dopo morti, tale dimensione del dono non dovrebbe essere mai persa.

Evidentemente occorre un lavoro di carattere culturale per superare certe remore che ancora possono esservi nei confronti del prelievo di organi dal cadavere, relative a una malintesa “sacralità” del cadavere stesso(7). In tal senso la duplice collocazione dell’Ordine, quale espressione di un organismo ecclesiale da un lato e di una struttura sanitaria dall’altro potrebbe contribuire al loro superamento. Non bisogna infatti trasformare il doveroso culto dei morti di cui é ricca la pietà cristiana, in un culto dei cadaveri.

Un problema diverso si pone per il trapianto tra viventi. Pur essendo un gesto di grandissima e a volte eroica oblatività proprio per le sue caratteristiche di non ordinarietà non può ritenersi eticamente doveroso al pari della donazione post-mortem. Rientra in quegli atti straordinari a cui non si é tenuti in senso stretto ma che sono espressione di grande e ammirevole generosità.

5.2.2.2. La morte cerebrale. Ai fini del prelievo di organi da cadavere si pone il delicato problema dell’accertamento della morte cerebrale. Evidentemente solo da un soggetto effettivamente morto si può prelevare un organo. Proprio per questo oggi esistono rigorosi criteri per il suo accertamento di cui bisogna “fidarsi”. Un individuo é morto quando in base ad alcuni parametri di ordine clinico e/o strumentale non vi é più alcuna attività, irreversibilmente, tanto nella sua corteccia cerebrale che nel tronco encefalico(8). Questi sono criteri sufficienti, riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale e che non devono esser messi in crisi da notizie più o meno sensazionalistiche divulgate dai massmedia. La morte infatti é un processo, non un evento e, pertanto la fine dell’esistenza terrena non costituisce la morte di tutto l’organismo (che in alcune sue componenti continua a vivere anche dopo la cessazione dell’attività cerebrale) ma la morte dell’organismo come un tutto.

5.2.2.3. Utilizzo di tessuti embrio-fetali. In alcune patologie, in modo particolare di tipo ematologico o neurologico viene da tempo utilizzato il trapianto di tessuti fetali (cellule epatiche, cerebrali, ecc.). Poiché in genere i soggetti da cui viene effettuato il prelievo sono feti abortiti volontariamente, questo pone un delicato problema etico circa l’ “uso” di tali soggetti, la possibile “strumentalizzazione” dell’atto abortivo e la validità del consenso sottoscritto dalla madre. Di per sé l’uso di tessuti embrio-fetali, una volta ponderato un giusto bilancio tra rischi e benefici non dovrebbe costituire un problema etico. Tuttavia si dovrà evitare qualsiasi più o meno tacita istigazione all’aborto o la considerazione di tali feti come “vite a perdere” e sui cui quindi sarebbe possibile fare di tutto. La loro dignità di esseri umani dovrà essere comunque rispettata, così come tale gesto pur se in grado di salvare altre vite umane, non dovrà essere legittimante dell’atto abortivo. (9)

5.2.3. Malati cronici e terminali

5.2.3.1. Eutanasia. Il rispetto per la vita che comincia fin dal suo inizio si estende a tutto l’arco della sua esistenza, fino alla sua fine naturale(10).Con la dizione di eutanasia intendiamo la morte che sia procurata o ricercata sia con procedure che deliberatamente e volontariamente possano causarla (eutanasia attiva) sia omettendo o astenendosi da procedure che possano evitarla. Quest’ultima viene impropriamente definita eutanasia passiva, dizione ambigua e impropria: o si tratta di una deliberata soppressione della vita (operata sia commettendo che astenendosi) o si tratta solo dell’evitare un inutile accanimento terapeutico (ma allora non é eutanasia).

Per lo stesso principio del duplice effetto già applicato all’aborto volontario, non costituisce un atto di eutanasia quell’intervento che si proponga di intervenire per migliorare una condizione patologica dell’individuo (ad esempio per eliminare il dolore) ma da cui possa anche conseguire, in modo inevitabile e non voluto una possibile anticipazione della sua morte.

Il dovere di garantire a tutti una morte degna dell’uomo comporta in ogni caso la sua cura fino all’ultimo istante di vita. La profonda differenza che esiste tra terapia (cure) e cura (care) fa sì che non vi siano malati in-curabili, anche se ve ne sono alcuni in-guaribili. L’alimentazione parenterale, la detersione delle ferite, l’igiene corporea, le adeguate condizioni ambientali sono diritti ineludibili di cui ogni malato non può essere privato fino agli ultimi istanti della sua esistenza.

5.2.3.2. Testamento vitale. Il “testamento vitale” (living will) é un documento che esprime la volontà della persona a che siano rispettati i suoi valori e le sue convinzioni se un giorno, per effetto di una lesione o di una infermità, sia incapace di manifestarla. In concreto chiede che sia mantenuto il diritto, in queste circostanze, a non esser sottoposto a trattamenti sproporzionati o inutili; che non si prolunghi il processo del morire in modo irragionevole e che si allevino le sofferenze con farmaci appropriati anche se questo dovesse avere come effetto una minore durata della vita.

Formulato in questo modo e come dichiarazione di intenti, non vi é dubbio alcuno che il testamento vitale é buono e raccomandabile. Infatti esplicita la volontà del paziente su come desideri essere trattato dai medici alla fine della sua vita. Oggigiorno il testamento vitale non ha forza legale in senso stretto. Per questo un ampio settore della società reclama, con insistenza e motivatamente, la sua tutela giuridica in modo tale che, in caso di conflittualità, possa ricorrere al tribunale per risolvere il contenzioso in base a una legislazione specifica.

La Chiesa non può accettare in alcun modo che si provochi la morte anche se questa dovesse essere la volontà dell’interessato, liberamente espressa. Il limite del disporre della propria vita con l’intervento di terzi, in caso di malattia o invalidità incurabile e permanente, fino a provocare direttamente la morte, segna la differenza tra il testamento vitale accettabile per i cattolici e altre sue modalità espressive.

Oltre al testamento vitale si devono prendere in considerazione altre forme di protezione dei diritti del malato quando per incompetenza del paziente debbano intervenire terzi. Questo comporta il riconoscimento giuridico della figura di un tutore delegato a prendere le decisioni mediche. Questa persona, scelta dal paziente, avrà il potere di decidere, come se si trattasse del paziente stesso, le azioni che possano tutelare maggiormente il suo bene, integralmente considerato.

5.2.3.3. Proporzionalità delle cure e accanimento terapeutico. Per quanto orientati alla promozione della salute, i nostri ospedali non possono considerare la morte come un fenomeno estraneo, che debba essere emarginato, ma come parte integrante del corso della vita, particolarmente importante per la realizzazione piena e trascendente del malato. Conseguentemente ogni malato deve esser soddisfatto nel suo diritto a non essere impedito, anzi facilitato, nell’assumere responsabilmente, in armonia con la sua religione e il suo senso della vita, l’evento della propria morte. (11) Ad esso si opporrebbe l’occultare la verità o il privarlo, senza vera e urgente necessità, delle sue abituali relazioni con la famiglia, gli amici, la comunità religiosa e ideologica. Solo così si realizzerà, anche in questi momenti definitivi dell’esistenza, la umanizzazione della Medicina.

Naturalmente questo comporta il vivere con piena responsabilità e dignità il momento della propria morte. Se, da un lato, questo non può essere direttamente provocato, dall’altro non si deve insistere in trattamenti che non influiscono significativamente sul prolungamento della vita o sulla sua qualità, protraendo solo l’agonia in un inutile accanimento terapeutico. Ognuno ha diritto a morire con dignità e serenità senza inutili tormenti, ponendo in atto tutti e solo i trattamenti che appaiano effettivamente proporzionati. (12)

5.2.3.4. Cure palliative . Possiamo dire che l’uomo, fin dai primordi, abbia praticato cure palliative tutte le volte che si è fatto carico della fase “terminale” di un malato supportandola con tutti i rimedi disponibili ma anche aiutandolo, confortandolo, accompagnandolo alla morte. Oggi abbiamo una concezione più elaborata di tali cure unitamente a una loro specifica strutturazione operativa (negli hospices, nelle unità di cure palliative, ecc.) che ci consentono di non abbandonare al suo destino il paziente affetto da una patologia inguaribile. Le cure palliative si presentano così come “cure totali” offerte alla persona in una globale relazionalità di aiuto che si fa carico di tutti i suoi bisogni assistenziali. (13)

In realtà la cura palliativa è esattamente quello che c’è da fare per quel malato. Non sarà certo la guari­gione, perché questa è impossibile ma tutta una serie di provvedimenti (a volte anche tecnicamente impegnativi) per garantire una buona qualità della vita, per il tempo in cui questa gli rimane.

Alla luce di queste considerazioni le istituzioni dell’Ordine Ospedaliero che si occupano di pazienti in una fase avanzata della loro malattia dovrebbero predisporre, per quanto possibile, unità di cure palliative destinate a rendere più sopportabile al paziente la fase finale della malattia e, nello stesso tempo, assicurare al paziente un accompagnamento umano adeguato.

5.2.4. Problemi relativi alla ricerca con soggetti umani

5.2.4.1. Sperimentazione clinica. La ricerca costituisce da sempre uno dei principali “motori” con cui é andato avanti il progresso della medicina. Ad essa, unitamente ad alcune scoperte fortuite come quella degli antibiotici o dei raggi X, dobbiamo le attuali conquiste della scienza. Oggi la ricerca non la si effettua più nel chiuso di un laboratorio o sull’animale ma direttamente sull’uomo. Tale procedura sperimentale non é un optional che alcuni ricercatori vogliono realizzare ma é diventata oggi una necessità ineludibile soprattutto per ciò che riguarda i nuovi farmaci. Dopo il laboratorio e l’animale ogni farmaco deve essere saggiato per la prima volta sull’uomo. Non si tratta, ovviamente, di utilizzare l’uomo come una cavia ma di mettere a punto nel migliore dei modi una modalità terapeutica di cui lo stesso soggetto su cui si sperimenta e/o altri potranno trarre giovamento. Questo può avvenire solo ad alcune rigorose condizioni ormai fissate da numerose Carte e dichiarazioni internazionali. (14) E poiché tale ricerca si effettua prevalentemente nelle strutture di ricovero, é importante che i nostri Centri siano edotti ed attenti a tali condizioni.

La prima di queste é che ogni sperimentazione parta da una presunzione di beneficità. Cioè l’immissione nel mercato di un presidio terapeutico prima inesistente o di uno migliore rispetto ad un altro per varie possibilità: maggiore efficacia, minori rischi, minore costo, maggiore facilità di somministrazione, ecc.

Ovviamente ogni sperimentazione dovrà essere effettuata col consenso dell’interessato. Perché tale consenso sia valido esso deve essere fondamentalmente libero. Questo significa che nessuna forma di costrizione potrà essere esercitata, neanche implicita o di carattere “morale” come potrebbe essere l’influsso dell’autorevolezza medica o la paura di non essere più curati adeguatamente.

Inoltre tale il consenso dovrà essere “informato” rendendo il paziente edotto circa il suo inserimento in una sperimentazione clinica, i suoi possibili rischi e benefici, le alternative, le garanzie assicurative, ecc. Quale condizione previa perché il consenso sia realmente informato é indispensabile che il paziente sia adeguatamente a conoscenza del suo stato di malattia. Non si può mai nascondere indefinitamente e sistematicamente la verità al malato che, viceversa deve essere sempre consapevole delle sue condizioni di salute. Naturalmente questo non significa che tale comunicazione di verità non possa essere graduale, differita nel tempo, condivisa con i familiari. Né che si debba ostinatamente violentare la coscienza del malato qualora questi abbia espresso il desiderio di non conoscere la verità. Né ancora che tale verità debba essere minuziosa entrando nel merito di qualunque lontano e ipotizzabile effetto collaterale: é sufficiente che si sia adeguata.

Per una più organica modalità di ottenimento del consenso potrà essere opportuno che le varie Case o le Provincie producano un’apposita modulistica da adoperare nella pratica clinica dei vari Centri. E’ di fondamentale importanza che tutti gli operatori sanitari capiscano come la richiesta del consenso non é una procedura di carattere legale tesa a salvaguardare il medico ma un diritto del paziente e come tale comporta una specifica doverosità etica da parte degli operatori stessi.

5.2.4.2 Ricerca su persone incapaci e gruppi vulnerabili. Quanto sopra detto riguarda naturalmente la sperimentazione clinica effettuata su soggetti giuridicamente ed eticamente competenti, cioè in grado di comprendere perfettamente quanto viene loro detto e fatto, e di formulare un consenso pienamente consapevole. Ma la sperimentazione non riguarda solo tali soggetti né la si può limitare ad essi. Ne rimarrebbero esclusi, infatti, pazienti come i bambini, i malati di mente o i soggetti in coma pur essi bisognosi di nuovi ritrovati terapeutici. Proprio per questo si dovrà pensare ad opportune forme di “delega” affidate a soggetti che per i loro specifici legami affettivi con il paziente o per la loro funzione istituzionale si presume facciano sempre l’interesse del paziente stesso. A queste condizioni e valutata l’accettabilità del rischio che il paziente corre in rapporto ai potenziali benefici, tale sperimentazione potrà essere lecitamente condotta.

Una particolare problematica si presenta inoltre per le possibile sperimentazioni condotte su soggetti sani. Difficilmente uno di loro sarebbe disponibile a sottoporsi a una tale sperimentazione senza averne nulla in cambio. Il più delle volte, infatti, tali soggetti sono carcerati ai quali viene offerto uno sconto di pena. Spesso tale prassi viene giustificata per una sorta di “tributo” che così pagherebbero nei confronti della società. Altre volte tali soggetti sono studenti che vengono in qualche modo rimborsati per la prestazione effettuata o altre volte ancora, vere e proprie “cavie umane” reclutate nei Paesi del Terzo Mondo dietro un miserevole compenso. E’ inutile dire come in tali casi manchi il requisito fondamentale della libertà nell’adesione alla sperimentazione e come tali comportamenti si rivelino lesivi della dignità umana. Nei nostri Centri, pertanto occorrerà vigilare sempre perché anche una possibile sperimentazione su soggetti sani venga condotta previo un loro consenso assolutamente libero e con l’adeguata garanzia dell’assenza di rischi significativi.

5.2.4.3. Feti ed embrioni. Per ciò che riguarda la sperimentazione prenatale possono darsi due evenienze fondamentali. La prima é costituita dalla sperimentazione sugli embrioni sovrannumerari frutto di tecniche di fecondazione in vitro. Spesso questa viene eseguita con considerazioni di carattere pseudoumanitario valutando che, rispetto alla soppressione o ai rischi del congelamento, sarebbe in ogni caso preferibile “utilizzare” così l’embrione. La seconda evenienza é data dalla sperimentazione eseguita su donne gravide che abbia chiesto di interrompere la gravidanza. Anche in questo caso verrebbe così “utilizzato” un feto destinato ad essere in ogni caso perso. In realtà tali considerazioni, per quanto utile possa risultare tale ricerca per altri esseri umani fanno sì che l’uomo venga deliberatamente strumentalizzato, sia pure per una nobile causa, non essendo più “fine” ma semplice “mezzo”. (15)

Diversa da questa é la situazione in cui una terapia sperimentale, sia pure con tutti i rischi che comporta viene impiegata per un possibile beneficio da apportare al feto su cui viene sperimentata. Tale beneficio, ovviamente, dovrà essere potenzialmente superiore al non eseguire la sperimentazione stessa o all’uso di un’altra terapia.

5.2.4.4. Comitati di ricerca clinica e comitati di etica. Per promuovere i diversi campi della ricerca clinica e farmacologica, è opportuno che gli ospedali costituiscano comitati di ricerca clinica. Questi comitati sono anche un’istanza formativa che ispira e promuove momenti di riflessione, di informazione, di innovazione e di sensibilizzazione nelle aree assistenziale, scientifica, didattica ed amministrativa.

Dall’altra parte, i Comitati di etica che é opportuno costituire o promuovere in tutte le opere del nostro Ordine, si pongono oggi quali organi per la difesa dell’autonomia del paziente e il rispetto dei suoi diritti. Nella loro strutturazione dovranno essere adeguatamente rappresentate tutte le componenti della Casa a cui appartengono e soprattutto dovranno esservi persone adeguatamente competenti sul piano etico.

Non tutti i Paesi hanno apposite legislazioni in materia e spesso la fisionomia di tali Comitati è diversa. In alcuni Paesi esistono Comitati “nazionali” mentre in altri sono solo ospedalieri; alcuni si occupano solo di ricerca e altri solo di problemi clinici; alcuni sono del tutto indipendenti, altri sono collegati a una data istituzione, ecc.

In ogni caso possiamo dire che, complessivamente, le funzioni che assolvono i Comitati di Etica sono tre.

La prima é di ordine autorizzativo. Ad essi infatti compete l’esame dei trials sperimentali, sia di carattere medico che chirurgico. In tale ambito i Comitati dovranno esprimere un ponderato parere che tenga conto di tutte le condizioni di liceità che permettono la sperimentazione stessa (razionale dello studio, proporzione rischi/benefici, tutela del paziente, consenso informato, ecc.).

In secondo luogo i Comitati hanno funzione consultiva ove vengano specificamente interpellati da terzi (personale sanitario, pazienti, enti esterni) per formulare un parere su questioni di rilevante impegno etico o per illuminare situazioni conflittuali per la coscienza degli operatori.

Infine i Comitati hanno una funzione culturale potendo formulare linee-guida su aspetti comportamentali di rilievo etico o promuovendo con varie iniziative (convegni, pubblicazioni, ecc.) una maggiore competenza etica da parte del personale e delle istituzioni sanitarie.

Inoltre, i Comitati possono avere una notevole ricaduta di ordine formativo potendo ritenersi anzi veri e propri strumenti di formazione per promuovere la sensibilità etica da parte sia dei religiosi che dei collaboranti operanti nei centri.

5.2.5. Problemi etici in rapporto alla medicina predittiva

5.2.5.1. La comunicazione di diagnosi. Le moderne possibilità offerte dalla medicina predittiva, praticata in molti dei nostri Centri, offre problemi bioetici finora inediti. Il primo di questi riguarda la comunicazione di diagnosi. A chi dovrà essere fatta? All’interessato, ai suoi familiari, a entrambi? Il criterio etico generale relativo alla verità da comunicare al paziente ci dice che titolare prioritario, se non esclusivo, di tale diritto, é lo stesso malato, indipendentemente dalla gravità della malattia. Anzi proprio in quelle a prognosi infausta il problema si pone con maggiore urgenza.

La situazione delle malattie genetiche non dovrebbe costituire motivo di eccezione a tale regola. Tuttavia la particolarità relativa a molte di queste malattie la cui espressione clinica potrebbe coinvolgere i membri della famiglia spinge a porsi il suddetto interrogativo. Ovviamente in questa sede non é possibile approfondire ulteriormente il problema rinviando solo a un attento esame delle singole situazioni che tenga conto dei “diritti” di tutte le persone in gioco con una assoluta priorità del malato (che non potrà essere mai defraudato di un realtà che lo riguarda così profondamente) ma tenendo anche nel debito conto, se il caso lo richiede, le giuste esigenze dei suoi familiari.

5.2.5.2 Assetto genetico e tutela della riservatezza. Nel prossimo sviluppo delle scienze mediche si delinea l’orizzonte di una piena conoscenza dell’assetto genetico dell’individuo, non solo per ciò che riguarda la sua struttura fisiologica ma, ed é ciò che più conta, per valutarne le possibili patologie. Se questo da un lato é la premessa indispensabile per una loro futura correzione (ingegneria genetica) tale possibilità pone nuovi interrogativi etici.

Il primo di questi é dovuto alla riservatezza dei tali dati che, custoditi in apposite “banche genetiche”, potrebbero costituire un pericoloso elemento di ritorsione o di semplice invasione nella vita dell’individuo. Il problema in realtà non é diverso da quello che potrebbe comportare l’invasione di un archivio clinico o informatico. Pone solo in termini diversi un problema vecchio che é quello della riservatezza dei dati individuali. Forse ciò che in questo caso più colpisce é la profondità e l’ “intimità” di una tale possibile invadenza che penetra nelle più segrete fibre della struttura umana. Ma i criteri da applicare alle altre situazioni dovrebbero potersi trasferire a questa.

Strettamente correlato a questo problema é quello relativo a una sorta di “carta di identità genetica” dell’individuo, ultimo traguardo di quell’auspicata medicina predittiva di cui tanto di parla. Quali problemi potrà causare un tale strumento? Come inciderà sulla psiche dell’individuo il sapersi portatore di varie malattie genetiche non sempre clinicamente espresse ma potenzialmente tali? Come influirà nei problemi relativi alla scelta di un partner? In fondo fino ad oggi si é sempre detto che é giusto prevenire le malattie genetiche con opportuni esami prematrimoniali. Questo costituirebbe l’ultimo e insuperato strumento. Potrà condizionare le scelte affettive dell’individuo? Indubbiamente si tratta di uno scenario lontano ma al quale é opportuno iniziare a prepararsi.

Un ultimo aspetto, più pragmatico ma non meno importante riguarda le implicanze di ordine professionale e assicurativo. Non é escluso che il datore di lavoro possa un domani richiedere (come fa oggi con un semplice certificato medico) la “carta di identità genetica” magari escludendo quei lavoratori che risultino non essere idonei, in atto o in futuro. Questo costituirebbe una grave forma di discriminazione lavorativa e, di fronte a una tale evenienza, la filosofia assistenziale dei nostri Centri dovrebbe prevedere eventuali misure a garanzia di tali lavoratori che forse potrebbero costituire una delle “nuove povertà” del futuro.

5.2.6. Problemi etici nelle situazioni di emarginazione

5.2.6.1. Tossicodipendenti. Per quanto presso tutti i popoli e in ogni epoca siano esistite forme di dipendenza fisica e/o psichica da varie sostanze spesso a sfondo magico-religioso, solo oggi tale problema ha assunto dimensioni etico-sociali di vasta portata. Le principali motivazioni sono dovute alla diffusione di tale fenomeno, alla sua prevalenza nelle fasce giovanili della popolazione, al danno individuale e sociale che il ricorso a tali sostanze comporta.

Il problema, di grande complessità, interpella fortemente l’Ordine Ospedaliero che ne viene investito a vario titolo. Innanzitutto per le componenti tipicamente sanitarie che esso comporta: prestazioni di primo soccorso, procedure di disassuefazione clinica, trattamento medico delle complicanze.

In secondo luogo per gli interventi di ordine psicologico-educativo finalizzati al definitivo superamento della dipendenza psichica. Se, infatti, é relativamente semplice superare l’assuefazione fisica, non altrettanto può dirsi per quella psichica. Se manca, infatti, una proposta forte in grado di riempire il vuoto di valori che porta alla tossicodipendenza il soggetto non riuscirà mai a vincere la sua battaglia contro l’abuso di sostanze. Questa é la ragione, d’altra parte, perché nel mondo la Chiesa é presente con varie strutture (Centri di accoglienza, comunità terapeutiche) che hanno consentito il recupero e il pieno reinserimento sociale dei tossicodipendenti.

Infine non va trascurata la dimensione sociale di un tale impegno da parte dell’Ordine Ospedaliero pienamente corrispondente al suo carisma. Non v’è dubbio, infatti, che la tossicodipendenza rientri tra quelle “nuove” povertà di cui oggi si parla e da cui l’Ordine deve sentirsi fortemente interpellato.(16)

Le suddette attività, naturalmente, non dovranno svolgersi in dissonanza con i servizi e gli interventi pubblici ma in modo complementare ad essi. Questo non significa che si debbano necessariamente condividere provvedimenti legislativi o sociali che non si ritengano in armonia con la missione carismatica delle nostre opere.

Alle tossicodipendenze sono per certi versi assimilabili, altre forme di dipendenza, come ad esempio quella alcolica. Il problema dell’alcolismo, infatti, in alcuni Paesi del mondo raggiunge livelli di diffusione di gran lunga superiori a quelli dell’uso di droga. Non solo ma le fasce sociali interessate sono assai più variegate costituendo un ulteriore stimolo perché l’Ordine possa efficacemente impegnarsi anche in quest’ambito.

5.2.6.2. Malati di AIDS. L’attuale diffusione di tale patologia e le peculiarità di ordine sociale che comporta necessitano una valida risposta da parte del nostro Ordine sintetizzabile in varie adempienze.

La prima di queste dovrà essere di tipo culturale evitando nell’atteggiamento interiore e nei conseguenti comportamenti ogni prassi discriminante. Questo si rende particolarmente necessario in tutte quelle situazioni di carattere sanitario in cui il soggetto sieropositivo o con AIDS conclamata si trovi all’interno di ospedali generali per vari motivi (pronto soccorso, necessità di intervento chirurgico, ecc.) condividendo con altri malati e visitatori la sua condizione di degenza.

Tale atteggiamento di accoglienza dovrà poi esprimersi più appropriatamente e in spirito di specifica attuazione di una dimensione carismatica, in apposite strutture di soggiorno dei malati o di accompagnamento ai pazienti giunti alla fase terminale della malattia. Anzi é opportuno che l’Ordine si faccia promotore di tali strutture improntante di quello spirito cristiano che é stato sempre orientato, sul piano assistenziale, alle persone più emarginate. Anzi, sul piano dell’eredità storica non bisogna dimenticare come proprio nell’assistenza a persone affette da varie malattie infettive si siano distinti in passato, spesso eroicamente, molti nostri religiosi.

Unitamente alle suddetta presa in carico di questi malati, l’Ordine contribuirà all’opera di prevenzione della patologia che sia prevalentemente centrata su un’appropriata educazione valoriale. Qualora tali strategie si rivelino inefficaci o insufficienti, ogni eventuale riduzione del danno dovrà essere realizzata nell’effettiva consapevolezza che tali provvedimenti, a motivo della loro fallibilità, non costituiscono una garanzia assoluta per la prevenzione del contagio.

Inoltre, per quanto possibile sarebbe auspicabile che l’Ordine collaborasse anche ad attività di ricerca condotte da altri organismi o istituzioni sanitarie volte a identificare nuovi rimedi di ordine terapeutico o preventivo per sconfiggere definitivamente questo male.

Infine dovrà porsi particolare attenzione perché la profonda comprensione umana, l’accoglienza, il rifiuto di ogni emarginazione e di ogni presunta “condanna divina” espressa in tale patologia non si traduca in una legittimazione dei comportamenti che ne sono all’origine.

5.2.6.3. Portatori di handicap fisico e psichico. Anche se la società contemporanea sembra aver riscoperto l’attenzione nei confronti dei disabili, sia con la generica accettazione del “diverso”, sia con appositi provvedimenti quali l’abbattimento delle “barriere architettoniche”, sul piano culturale permane un certo rifiuto di tale realtà. Questo si estende dalla promozione di un eugenismo prenatale spinto alla soppressione dell’embrione affetto da qualsiasi anomalia fino alla richiesta dell’eutanasia per sopprimere il neonato malformato o l’adulto disabile.

Ma non avrebbe senso biasimare tutto questo se, al tempo stesso, non si operasse in modo tale da evidenziare l’accoglienza e l’amore che una vera società civile deve evidenziare nei confronti dei suoi membri che si trovino svantaggiati. Una società veramente a misura d’uomo non può essere orientata ai “forti” ma ai “deboli”. Pertanto, oltre ad opere specifiche a sostegno dei portatori di handicap, l’Ordine dovrebbe esercitare in quest’area una forte funzione di testimonianza.

Per la frequente combinazione di handicap fisico e psichico, rimandiamo alle considerazioni del paragrafo seguente. D’altra parte qualora l’handicap fosse esclusivamente di tipo fisico, con ancora maggior forza si porrà l’impegno per una riabilitazione integrale. In questa prospettiva, non meno bisognosa di riabilitazione é la stessa società, spesso incapace di riconoscere nel portatore di handicap una persona con problemi particolari.

5.2.6.4. Malati di mente e disabili psichici. Com’è noto, per la personale esperienza biografica del nostro Fondatore, costituiscono da sempre una categoria di malati particolarmente prediletti nelle nostre opere assistenziali. Nei loro confronti, pertanto, si é acquisito un bagaglio di esperienze e competenze assai spesso anticipatrici di idee e soluzioni oggi attuate dalla sanità pubblica. Tuttavia persistono nei loro confronti, al di là di alcune specifiche problematiche assistenziali inerenti le disposizioni legislative dei vari Paesi, specifici problemi di ordine etico.

Il primo di questi costituisce un po’ il denominatore comune di tutti gli altri e riguarda la capacità di consenso. Il superamento del paternalismo medico del passato e l’attuale valorizzazione dell’autonomia del paziente coinvolgono naturalmente anche il malato di mente e il disabile psichico. Anzi lo coinvolgono in modo più radicale stante la sua limitazione nell’esercizio di tale autonomia decisionale. Potrebbe esservi pertanto la tentazione di un ritorno, sia pure solo in questo caso e sia pure con un fine benefico, al vecchio paternalismo. Questo non deve verificarsi, limitando tale esercizio solo a quelle situazioni in cui a motivo di uno stato di necessità o in assenza di altre persone (familiari, tutori, comitati di bioetica) con cui poter condividere la scelta non vi siano effettivamente possibilità alternative. In tutti gli altri casi si dovrà rendere il paziente partecipe delle decisioni, nella misura in cui le sue facoltà glielo consentono, o coinvolgere le suddette persone che, a motivo dei loro legami o del loro ruolo si presume facciano sempre il maggior interesse del paziente.

Tale problema appare evidente nella somministrazione di psicofarmaci, nella terapia elettroconvulsiva (elettroshock), nella contenzione fisica e nella privazione della libertà. Nel far questo dovrà ritenersi sufficiente un generico e spesso solo implicito consenso espresso da chi é autorizzato a farlo, nel momento stesso in cui si rende indispensabile il ricovero.

Un problema di particolare delicatezza si pone in ordine all’esercizio della sessualità. Condizione indispensabile per tale esercizio é che esso possa essere liberamente voluto. Sia nel malato mentale che nel disabile psichico esistono vari gradi di restrizione di tale libertà decisionale mentre sono al tempo stesso presenti gli stimoli sessuali. Se, da un lato, appare irrispettoso della dignità umana ogni intervento atto a mutilarne una delle sue funzioni (nel caso specifico quella riproduttiva) da un altro lato il soggetto che presenti deficit psichici non solo non é in grado di esercitare liberamente tale facoltà ma dall’uso della stessa, che mantiene inalterato il suo potenziale biologico, potrebbe derivarne una gravidanza. Proprio per questo, cercando il custodire il massimo rispetto che é dovuto all’essere umano nella sua piena identità corporea si dovrà responsabilmente evitare che il malato di mente e il disabile psichico, a motivo di particolari condizioni esistenziali in cui venga a trovarsi possa essere di danno a stesso e agli altri.

In ogni caso, e al di là di queste specifiche problematiche, le strutture psichiatriche e sociali dell’Ordine dovranno caratterizzarsi sempre per la profonda umanità di trattamento nei confronti dei malati mentali e dei disabili psichici. Da un lato questo diventa perenne attuazione carismatica di quella particolare sensibilità mostrata a tale riguardo da San Giovanni di Dio, dall’altro rinnovata profezia in un ambito che necessita di continua umanizzazione. Questa, infatti, non va intesa in modo riduttivo limitandosi a garantire al malato di mente e al disabile psichico uno spazio vitale adeguato, un ambiente igienicamente soddisfacente, una buona qualità del cibo, una doverosa libertà di movimento, la possibilità di mantenere legami affettivi con la famiglia ecc. ma si dovrà estendere in termini positivi alla “realizzazione” della sua persona. Per far questo si dovrà far appello a ogni sua potenzialità, a ogni sua risorsa, anche spirituale. E’ un processo che deve condurre alla valorizzazione di una personalità che, nonostante le sue carenze, lascia trasparire sempre il volto dell’uomo.

5.2.6.5. Anziani. Il numero di anziani, sempre crescente nella società contemporanea comporta non solo un maggiore aumento delle patologie a loro carico, con l’impegno di carattere sanitario che ne deriva, ma anche specifici problemi di ordine socio-assistenziale. Le oggettive difficoltà di alcuni nuclei familiari ad accogliere la persona anziana al proprio interno o il rifiuto egoistico da parte di altri costringono spesso la persona anziana alla soluzione abitativa della casa di riposo. Sono ormai numerose le strutture di questo tipo gestite dall’Ordine in varie parti del mondo.

Naturalmente sono vari i percorsi esistenziali che possono condurre un anziano alla casa di riposo. Pur non avendo alcun diritto di giudicare le famiglie che hanno compiuto tale scelta l’Ordine dovrà adoperarsi, per quanto possibile, a favorire i legami affettivi tra la persona anziana e la famiglia d’origine anche aiutando a rimuovere possibili ostacoli che eventualmente possano frapporsi.

Il soggiorno della persona anziana in una Casa gestita dall’Ordine, non deve essere inteso solo come una soluzione di tipo abitativo ma deve essere profondamente improntata dal suo senso carismatico. Questo comporterà la valorizzazione della “terza età” che non deve essere mascherata nell’illusione di un eterna giovinezza ma vissuta come particolare e diversa età della vita con le ricchezze e i problemi che comporta, al pari delle altre. Naturalmente questa é caratterizzata da un vissuto di perdita (della forza fisica, del ruolo sociale, degli affetti, del lavoro, dell’abitazione, ecc.) che dovrà essere interiorizzato e compensato da vissuti di arricchimento (dell’esperienza, dei ricordi, del bene operato, ecc.). In una prospettiva di fede, infine, tale tempo può acquistare anche il senso di una lunga vigilia in preparazione all’incontro con l’eternità.

5.2.6.6. Problemi emergenti. Con questo termine si vogliono indicare varie tipologie di emarginazione o di “nuove povertà”, alcune già presenti e per le quali l’Ordine si é attivato con specifiche risposte assistenziali, altre appena agli inizi del loro apparire ma che sfidano la nostra immaginazione e il nostro impegno etico.

La prima di queste é costituita dai migranti e dai rifugiati, fenomeno in forte crescita in tutti i paesi del mondo occidentale. Se, da un lato, i problemi che questo pone sono prevalentemente di ordine sociale (integrazione culturale e religiosa, problemi occupazionali, ecc.), al tempo stesso essi costituiscono un ambito in cui il carisma dell’ospitalità può trovare una sua specifica espressione. Le risposte in tal senso possono essere le più varie, suggerite da una creatività che sa ascoltare le suggestioni dello Spirito e suscitate anche dagli specifici bisogni di ogni singolo Paese o situazione sociale. Naturalmente accanto alla dimensione della semplice accoglienza potranno esservi anche problemi di tipo specificamente sanitario per persone che spesso non possono usufruire di altra forma di assistenza pubblica. Anche per tali necessità l’Ordine dovrà attivarsi, sia con la possibile creazione di apposite strutture, sia trovando le più opportune soluzioni a tali problemi all’interno di altre strutture assistenziali.

Una situazione analoga é quella presentata da altre persone denominate senzatetto, barboni, squatters, accomunati da una povertà così radicale da non possedere una qualsiasi forma di abitazione stabile essendo costretta a vivere per strada, sotto i portici, nelle sale di attesa delle stazioni. Forse, pur con il divario di tanti secoli, lo scenario di questa umanità sofferente é assai simile a quello che si presentava alla vista di S. Giovanni di Dio o di S. Giovanni Grande. Per cui ogni tipologia di intervento assistenziale nei loro confronti (materiale, alberghiero, sanitario, ecc.) si pone sulla linea di una assoluta continuità carismatica.

Accanto a tali situazioni non é escluso che negli anni futuri l’Ordine possa essere interpellato (dovendo dare una pronta risposta) da altre situazioni oggi più sporadiche o assai meno avvertite. Pensiamo ad esempio alle donne vittime di violenza, ai bambini che hanno subito abusi, a persone che hanno tentato il suicidio, alla solitudine della vedovanza, ai problemi psico-alimentari (anoressia e bulimia), ecc. Una adeguata attenzione alle necessità dell’uomo sofferente non può non essere attenta anche alle “nuove sofferenze” che nel tempo possono affacciarsi e che devono trovare l’Ordine pronto a farsene carico con creatività ed amore.

5.3. Nella gestione e direzione

5.3.1. Gestione

5.3.1.1. Organizzazione e impiego delle risorse. Il nostro fondatore si seppe anticipare all’assistenza della sua epoca e lo fece mediante criteri di organizzazione e distribuzione delle risorse. Come lui, anche noi siamo chiamati ad apportare innovazioni di avanguardia alla nostra società. Nella nostra epoca, più che allora, l’organizzazione e la gestione devono essere una componente importante di questo contributo.

Un motto dei nostri Centri potrebbe essere questo: essere capaci di operare una corretta allocazione delle risorse disponibili, sapendo privilegiare gli aspetti più specifici delle nostre istituzioni. Al livello del Centro questo servirà a garantirne il futuro, a livello dei servizi e reparti sarà finalizzato a dare un’assistenza integrale al malato e al bisognoso.

La retribuzione e la formazione degli operatori, l’ottenimento dei prodotti necessari per il corretto funzionamento, l’adeguamento tecnologico e la dovuta promozione dell’umanizzazione dovranno camminare di pari passo: se una di queste parti si scompensa ci stiamo incamminando lungo la via della frattura, della rottura, della crisi.

La ricerca di equità, in una dimensione locale e regionale, senza perdere di vista la nostra vocazione universale, deve rendersi presente nel prendere le decisioni anche se in alcuni momenti o circostanze questo potrà risultare difficile.

Compito prioritario degli amministratori é l’ottenimento di tali risorse e, pertanto, una parte importante del loro tempo e del loro lavoro dovrà esser dedicata a questa mansione. Sarà loro compito individuare come difendere il lavoro che il Centro svolge e al tempo stesso promuovere l’opera e i suoi progetti.

5.3.1.2. Professionalità. Poiché aspiriamo a un’assistenza integrale e ci sentiamo chiamati a una risposta vocazionale nelle nostre opere é necessario che la nostra professionalità sia assolutamente fuori discussione.

Partendo da una risposta professionale, coerente con i principi etici della professione e animata dalla filosofia dell’Istituzione potremo realizzare l’identità che le nostre opere devono avere. La capacità tecnica e umana sono le basi imprescindibili per render possibile questa risposta professionale.

5.3.1.3. Competenza tecnica. In egual modo, il Centro dovrà vigilare perché la sua dotazione tecnica e tecnologica sia adeguata al suo livello assistenziale. Solo una competenza tecnica adeguata ci permetterà di realizzare il contributo specifico che vogliamo.

I continui mutamenti tecnologici esigono sforzi aggiuntivi per non rimanere indietro. Gli operatori dovranno impegnarsi ad acquisire una formazione tecnica sufficiente e si adopereranno per aggiornarla con le nuove conquiste della scienza.

5.3.2. Organizzazione

5.3.2.1. Corretta espressione della missione dell’opera nei mezzi organizzativi. La nostra missione in ogni nostro Centro é molto ricca e diversificata: pertanto la nostra forma di organizzazione dovrà camminare verso la pluralità. Non tutti gli ambiti della missione possono essere compatibili con lo stesso sistema organizzativo.

Nella misura in cui la nostra organizzazione si impregna della filosofia della nostra missione faciliteremo il processo comunicativo di tutto il Centro e dei suoi operatori con la medesima.

La formula, già posta in atto, di separare le funzioni di superiore e di direttore generale ha dimostrato di essere molto adeguata ed efficace e in questi momenti é imprescindibile nella gestione di molte delle nostre opere. Il Superiore della comunità e il Direttore generale dell’Opera sono chiamati a formare un’équipe, insieme agli altri membri del Comitato Direttivo.

La funzione principale di questo organo é di lavorare in modo interdisciplinare e promuovere questa modalità di lavoro anche nelle altre équipe del Centro.

5.3.2.2. Difesa del pluralismo. La diversità di opinioni e di culture sono un cammino adeguato per riconoscere la diversità dell’uomo.

Dobbiamo quindi stabilire spazi ed elementi organizzativi che consentano l’espressione di tale pluralismo e promuovere attitudini personali che rendano possibile, in tale pluralismo, la comunione.

I nostri valori, la cultura di ciascuna opera sarà lo spazio proprio in cui si potrà articolare questa dimensione pluralistica.

5.3.2.3. Delega. Partecipazione. Assunzione di ruoli funzionali. Dobbiamo lavorare con l’obiettivo di far assumere a ogni persona tutte le competenze che possiede di cui é capace, da quello che ha le più piccole responsabilità a quello che ha le più importanti.

Facciamo in modo di rendere possibile tale assunzione, poniamo gli elementi organizzativi che possano facilitarla e vigiliamo perché tale delega si consolidi in idonee espressioni funzionali per tutti coloro che costituiscono il Centro.

5.3.2.4.Decentramento / Centralizzazione . Procediamo in modo tale che la persona con un ruolo dirigente tuteli le iniziative e le aspettative dei collaboratori.

Mettiamo in opera programmi di lavoro che consentano ai collaboratori di crescere e di assumersi compiti che spesso riserviamo a ruoli superiori.

Che il professionista possa crescere nelle sue competenze, che l’équipe di lavoro veda aumentare il suo spazio di intervento, che i ruoli intermedi abbiano una maggiore capacità di iniziativa, che il dirigente possa crescere in responsabilità

Facciamo sì che la sussidiarietà, valore particolarmente legato alla tradizione cristiana, sia un elemento fondamentale nella funzionalità nelle nostre opere.

L’Ordine intende favorire un adeguato decentramento integrato con una corretta centralizzazione in sintonia con i principi e i valori che ci sforziamo di promuovere.

5.3.2.5. Nuove formule giuridiche. Il nostro punto di riferimento é stato sempre il diritto canonico. Unitamente e, al tempo stesso, al di là di esso é possibile individuare formule che permettano nuovi modi di dirigenza, di delega, di partecipazione.

Tradizionalmente le nostre opere sono state contrassegnate dalla formula giuridica del Centro come proprietà dell’Ordine Ospedaliero. I nuovi tempi che viviamo, la dimensione che vanno acquistando le opere, la dinamica di costante evoluzione in cui si trovano la Sanità e i servizi Sociali consigliano di non chiudersi alle formule passate in questo campo.

La Fondazione, la Associazione, l’Ente senza fine di lucro o gli Organismi non governativi sono formule giuridiche che possono essere più adeguate ad alcune realtà e potrebbero risultare persino più convenienti. Esperienze concrete vissute in alcune opere lo hanno già dimostrato. Sarà bene essere attenti a discernere quali siano le formule più adeguate ai diversi tempi e ai diversi luoghi.

5.3.2.6. Lavoro in équipe. Se vogliamo curare la persona e i suoi bisogni lo potremo fare solo insieme:

- Nella direzione. Quando i massimi responsabili del Centro sono capaci di strutturare una équipe di lavoro, saranno in condizione di poter ispirare ed animare le altre componenti del Centro perché lo facciano anch’esse. La tentazione di efficientismo individualista é molto grande e così pure gli effetti a catena di questa tentazione.

- Nei ruoli intermedi. Il ruolo più difficile nei Centri assistenziali é quello di coloro che stanno nel mezzo. Essi pure devono darsi una linea di lavoro in équipe che consenta loro di farsi carico delle esigenze dei subalterni per farle pervenire ai superiori: allo stesso modo devono far giungere ai subalterni i piani di lavoro della direzione.

- Nei servizi assistenziali e non assistenziali. Quando tutte le persone che curano un malato o un bisognoso sono capaci di lavorare insieme, in quel preciso momento gli diamo un’assistenza integrale.

Nei Centri più complessi non potremo far parte della stessa équipe però potremo far parte di un équipe che si senta chiamata a dare una risposta integrale alle necessità del malato e integrante per tutti coloro che la stiamo costituendo.

5.3.3. Politica delle risorse umane

5.3.3.1. Criteri generali. L’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, come organizzazione:

- é essenzialmente un’opera umana, in quanto é frutto dello sforzo umano ed é composta da persone che ne costituiscono l’elemento portante;

- é cosciente che le sue opere sono imprese con un carattere peculiare, poiché essendo un Ente senza fine di lucro, deve coniugare i suoi obiettivi imprenditoriali con la sua responsabilità sociale, economica e di istituzione ecclesiale;

- é recettivo alle correnti attuali che provengono dal mondo dell’impresa – sociologia, relazioni umane, psicologia- essendosi adattato ai tempi attuali, introducendo i necessari cambi organizzativi per la necessità di amministrare alcune opere con criteri imprenditoriali di efficacia e efficienza, ma sapendo mantenere filosofia, stile e cultura propri;

- é presente con un personale che lavora nelle sue opere e per questo si propone di realizzare una relazione tra organizzazione e lavoratori che soddisfi le necessità e i diritti di entrambe le parti, stabilendo meccanismi che facilitino l’azione congiunta di tutti per raggiungere i suoi fini e le sue aspirazioni.

Per quanto detto, é necessario mostrare apertamente una sincera disponibilità a chiarire le relazioni con il personale lavoratore sempre alla luce della legislazione vigente, della dottrina sociale della Chiesa, salvaguardando i diritti del malato e del bisognoso, fine principale delle opere.

5.3.3.2. Relazioni con i lavoratori. Tenendo presente che la persona é l’elemento fondamentale di tutta l’organizzazione bisogna far sì che la gestione delle risorse umane sia orientata a motivare, attrarre, promuovere e integrare i lavoratori in modo coerente con le loro esigenze e le finalità dell’opera, sempre con criteri di giustizia sociale.

L’azione direttiva comporta un lavoro di gestione delle persone, poiché senza di queste é impossibile venire a capo di qualsiasi impresa o azione. Per questo la gestione delle risorse umane esige attualmente alcuni ruoli direttivi con un livello adeguato di capacità professionale insieme a equilibrate competenze nell’ambito delle relazioni umane.

Un aspetto che si deve potenziare in tutti i Centri dell’Ordine sono le vie di comunicazione. Si deve tendere a stabilire una comunicazione strutturata, sviluppando strumenti comunicativi adeguati per raggiungere tutti i livelli dell’organizzazione e tutti i lavoratori. Almeno si devono predisporre specifici canali comunicativi e facilitare una informazione verace e comprensibile.

Un altro punto importante nell’Ordine e nei suoi Centri deve essere la accoglienza e l’inserimento di tutta la persona che inizia a lavorare, così come il suo accompagnamento nelle prime tappe del lavoro.

5.3.3.3. L’azione sindacale. La dottrina sociale della Chiesa, ormai da molti anni, ha riconosciuto il diritto del lavoratore a costituire associazioni per la difesa dei suoi diritti comuni o lavorativi. Il sindacalismo è una realtà sociale in ambito mondiale. In questo senso l’Ordine riconosce e rispetta il diritto all’esercizio della libertà sindacale.

La dottrina sociale della Chiesa assume e sostiene questa realtà e la considera un elemento indispensabile della vita sociale contemporanea, come forza costruttiva di ordine sociale e di solidarietà, capace di ottenere non solo che il lavoratore abbia di più ma che sia di più. I sindacati non sono solo strumenti contrattuali ma anche luoghi in cui si esprime la personalità dei lavoratori; i loro servizi costituiscono lo sviluppo di un’autentica cultura del lavoro e aiutano a partecipare in modo pienamente umano alla vita dell’impresa.

L’accettazione di questa realtà ci deve portare a trovare formule di informazione-comunicazione tra la direzione e i sindacati con un atteggiamento onesto e realista, salvaguardando sempre i diritti dei malati e degli ospiti.

5.3.3.4. Selezione e contratto del personale. Il personale sarà selezionato tenendo conto della sua qualificazione tecnica e umana, assicurandosi che le sue motivazioni, attitudini e comportamenti rispettino i principi dell’Ordine.

E’ opportuno che ogni Centro possieda norme di attuazione chiare relative alla selezione del personale essendo auspicabile che siano conoscibili da parte di tutti le procedure relative alla selezione stessa: posti in organico, atti, normative, ecc.

Si deve prestare particolare attenzione ai seguenti criteri contrattuali:

- Tecnici. Si esigerà per l’assegnazione di una persona a un posto di lavoro che questo sia in possesso del titolo professionale che la legislazione vigente esige. Indipendentemente dal titolo si curerà con attenzione che abbia adeguate capacità e competenze professionali per esercitare e realizzare quel dato lavoro.

- Profilo umano. Si devono valorizzare le qualità umane come attitudini e capacità di relazione umana, equilibrio emozionale, senso di responsabilità e capacità di prendere decisioni, vocazione sanitaria e/o sociale.

- Profilo etico. E’ necessario che le persone che lavorano nei Centri dell’Ordine promuovano i principi del codice deontologico della propria professione, rispettino e promuovano i principi dell’Istituzione, essendo il rispetto di entrambi i principi una condizione minima per lavorare nei Centri dell’Ordine.

- Dimensione religiosa. Si farà in modo che l’attitudine delle persone sia favorevole a far sì che l’attenzione religiosa nel Centro si vada potenziando.

5.3.3.5. Sicurezza di impiego. Partiamo dalla base che tutte le realizzazioni dell’Ordine nel campo del lavoro debbano adeguarsi alla legislazione vigente in ogni paese, sempre che questa non violi i princìpi dell’Ordine.

Nonostante quanto già attuato in quest’ambito (anche se condizionato principalmente dal bene dell’Ente e delle persone assistite) si devono evitare situazioni di instabilità e demotivazione nelle persone coinvolte offrendo al contrario quelle condizioni di sicurezza e stabilità di impiego, necessarie per un migliore svolgimento del lavoro personale.

Così pure é certo che la dinamica del funzionamento dei Centri sanitari e sociali con un orario permanente di apertura obbliga a una complessa rete di supplenze e sostituzioni che rende difficile la garanzia di una stabilità nell’impiego a quelle persone che occupano questo posto in modo temporaneo. Non é escluso che anche in questo campo, si studino sistemi che possano porre dei limiti alla instabilità lavorativa.

5.3.3.6. Sistema salariale. La giusta remunerazione del lavoro realizzato é un problema chiave di tutta l’etica sociale. I problemi salariali sono quelli più frequentemente rivendicati dai lavoratori.

La dottrina sociale della Chiesa considera il salario come la verifica concreta della giustizia sociale nelle relazioni lavorative. Non é l’unico riscontro ma certamente il più importante.

Non é facile quantificare il giusto salario, dato che il salario in sé é fluido a causa di fattori come la situazione economica dei vari paesi, le aspettative dei vari mercati -incluso quello sanitario e sociale- la situazione di ciascun Centro, le aspettative e i bisogni di ogni singolo lavoratore, ecc.

Tutto questo ci obbliga a remunerare i lavoratori con il salario che é possibile dar loro, per quanto coscienti che a volte possono non esaudire le aspettative. Però, al di sopra delle remunerazioni concrete esistenti, bisogna rimanere aperti a un reale atteggiamento di impegno a migliorare le condizioni sia economiche che sociali dei lavoratori. Il loro comfort e benessere sarà sempre un fattore positivo per il benessere e il comfort del malato e del bisognoso.

5.3.3.7. Motivazione. La motivazione di un lavoratore dipenderà dal grado di soddisfazione delle sue necessità fondamentali e dalla percezione delle attrattive che un’impresa o un’organizzazione offrono per consentire lo sviluppo delle sue capacità umane e professionali.

La motivazione del personale è uno strumento fondamentale per conseguire uno degli obiettivi di tutta l’organizzazione cioè lo sviluppo umano e professionale dei lavoratori.

Hanno una fondamentale incidenza sul grado di soddisfazione e motivazione nel lavoro i sistemi retributivi (salari, incentivi, premi, ecc.), le condizioni di lavoro (ambiente, sicurezza, clima, lavoro in équipe, ecc.) e gli stimoli individuali (sicurezza, stabilità nell’impiego, considerazione, realizzazione, ecc.). Si devono, quindi, realizzare gli sforzi necessari per conseguire un adeguato livello di queste tre aree fondamentali che soddisfano le necessità dei lavoratori.

Come strumento di motivazione, l’Ordine pone particolare attenzione alla promozione personale. Si tratta di un campo specifico di intervento degli organi dirigenti e in modo speciale di gestione delle risorse umane. Si deve ottenere che le persone possano intravedere una aspettativa di futuro a livello professionale e vocazionale nei nostri Centri. Per questo si dovranno individuare gli strumenti più idonei: per qualcuno sarà la formazione, per altri la ricerca, per altri ancora l’insegnamento, ecc.

5.3.3.8. Convergenza di valori tra tutti coloro che costituiscono il Centro. Una delle caratteristiche della nostra società é il pluralismo; possiamo dire che l’epoca di predominio da parte di una cultura su di un’altra volge al termine. Ormai da tempo in molte delle nostre opere si stanno realizzando forme di gestione, di direzione, di assistenza che cercano di raggruppare e integrare questa realtà multiculturale.

E’ urgente continuare lungo questa strada, che tutti ci impegniamo in questo progetto di riunificare gli sforzi e le culture, essendo capaci di integrare i diversi elementi culturali contemporaneamente presenti nei nostri Centri.Ogni progetto di convergenza comporta che si trovi una unione: i valori non si conseguono per imposizione. Probabilmente sarà necessario stabilire alcuni minimi che non possono essere modificati. Ma a partire da questi bisogna lavorare per conseguire una cultura con alcuni valori specifici, promossi e assunti da tutti.

Nella misura in cui i collaboratori dispongono di spazi per esprimere le proprie idee, i propri valori, si staranno impegnando nel conseguimento di un progetto condiviso. E’ altrettanto necessario che possano sentirsi responsabili su temi, aree e spazi che vengono loro delegati.

5.3.3.9.Creare una cultura di appartenenza al Centro, alla Provincia, all’Ordine. Le indagini attuali delle scienze amministrative hanno evidenziato l’importanza che per le istituzioni ha lo sviluppo di una “cultura organizzativa” coerente con la sua missione ed i suoi valori. L’Ordine Ospedaliero come istituzione ha sviluppato un proprio modello su questa linea sin dalla sua fondazione.0

Forse in passato, abbiamo mantenuto alcune attitudini paternalistiche, protettive nei confronti dei lavoratori come riflesso incosciente di un’attitudine difensiva di ciò che è nostro e, in particolare, della nostra cultura. Senza perdere tutti i valori che questa cultura ha, dobbiamo superare tale attitudine difensiva e uno strumento adeguato per farlo é la costituzione di un gruppo di persone professionalmente qualificate che sappia dirigere e orientare la realizzazione di una cultura comune.

Elemento ineludibile di questo processo, sarà il rispetto e la applicazione della legislazione sul lavoro vigente, in modo speciale la sicurezza sul lavoro e la salute del lavoratore, elemento dinamizzante, la difesa dei diritti dei lavoratori.

La soddisfazione personale, la gratificazione per il lavoro ben realizzato, il sollievo che si ottiene a vedere che gli obiettivi si stanno raggiungendo, insomma la serenità, la pace interiore che inonda la persona quando si sente realizzata nella sua professione, quando vede che con quello che fa, insieme ai suoi colleghi, sta contribuendo alla costruzione del nostro mondo, a una migliore sanità, a migliori servizi sociali. Tutte queste sono realtà che dobbiamo potenziare.

Un richiamo va fatto per evitare che vi siano tra di noi situazioni lavorative che siano di ostacolo per la integrazione dei professionisti. E’ certo che con il passar del tempo le persone si stabilizzano perdendo gli stimoli iniziali. Sarà responsabilità della direzione vegliare e animare le persone perché questa situazione non si verifichi e, in casi estremi, possano esser presi le conseguenti decisioni.

Ebbene, un’opera in cui non vi siano alcune garanzie di stabilità non sarà mai uno spazio adeguato per invitare i collaboratori a impegnarsi in un progetto congiunto.

L’Ordine mantiene l’appoggio e la difesa dei lavoratori in caso di intervento giudiziario, salvo in casi di manifesta negligenza professionale. Dinanzi alle denunzie, che sfortunatamente arrivano ai Centri, si richiede un principio di onestà sulla prassi istituzionale e un manifesto sostegno alle persone coinvolte.

In egual modo, se vogliamo realizzare la cultura propria delle nostre opere, sarà necessario creare forme specifiche di attuazione nei momenti di difficoltà e tensione che si possono verificare nei rapporti di lavoro. Anche nella conflittualità può esservi una forma specifica di impegno per trovare la soluzione.

5.3.4. Politica economica e finanziaria

5.3.4.1. Enti senza fine di lucro. L’Istituzione é stata definita sempre come “ente senza fine di lucro”, cioè che non ha come obiettivo di accumulare ricchezza.

I mezzi che si possono ottenere verranno destinati al proprio centro perché in ogni momento le sue attrezzature, le sue équipes, i suoi metodi di lavoro, siano coerenti e adeguati alla sua ubicazione e classificazione territoriale.

5.3.4.2. Carattere benefico e sociale. L’origine dell’Istituzione sta nella beneficenza, nella generosa collaborazione di varie persone perché l’opera realizzi la sua missione. Sarà bene che promuoviamo questa dimensione di carità cristiana per continuare con l’iniziativa originale dell’Istituzione.

E’ arrivato il momento di dare una dimensione più universale alla nostra solidarietà. Nel nostro mondo le diseguaglianze si vanno accentuando e le differenze sono ogni volta più grandi. Questa dimensione benefico-sociale delle nostre opere, potrebbe trovare uno spazio attuale di collaborazione tra i Centri o tra i paesi nel campo della salute o delle necessità sociali.

5.3.4.3. Equilibrio finanziario. L’arte della gestione é l’arte dell’assegnare risorse alle differenti necessità. Nel caso dei Centri é l’assegnazione di risorse alle diverse attività che si realizzano in quella data struttura.

Si dovrà decidere sull’assegnazione a ciascuna delle parti però garantendo il futuro del Centro o, ciò che é lo stesso, il suo equilibrio finanziario.

Se per una scorretta ripartizione delle risorse, poniamo il Centro in condizione di insussistenza economica, stiamo mettendo in pericolo il futuro dell’opera e di tutte le persone che ne fanno parte.

5.3.4.4. Trasparenza di gestione. Se l’insieme di valori che vogliamo promuovere nelle nostre opere e che danno senso alla nostra missione giungono a termine, non vi sarà nessun inconveniente a far conoscere ai professionisti, agli utenti, alla società e alla pubblica amministrazione la realtà dei nostri Centri.

La ragione si trova proprio nella trasparenza della nostra gestione: se i principi sono chiari e se intendiamo metterli in pratica, vi é un motivo in più per farli conoscere.

La quantificazione numerica del centro (attività, ricavi, spese, risultati, investimenti, disponibilità finanziarie) non é che una parte di tutta la sua realtà e pertanto può essere anch’essa conosciuta.

Un modo adeguato per far conoscere la realtà dei nostri centri, favorire la trasparenza e stimolare la corresponsabilità, potrebbe essere la pubblicazione di una memoria annuale delle attività in ogni centro.

5.3.5. Responsabilità sociale

5.3.5.1. Servizio alla società come elemento legittimante le opere. Ogni Istituzione, ogni opera, corre il rischio di chiudersi in se stessa e di entrare in una dinamica di legittimazione della sua esistenza ai margini della realtà.

Non é raro vedere enti che in questo isolamento stanno progettando un’opera che non é necessaria o che nessuno ha chiesto. Non deve esser così nelle nostre. La loro ragion d’essere sta nel servizio che offrono e, quindi, devono rimanere aperte ai mutamenti e all’evoluzione per essere attuali nel servizio.

Lungo questa direttrice le Costituzione specificano che noi siamo amministratori dei beni e non proprietari, con la missione specifica di garantire una corretta utilizzazione delle risorse nelle opere.

5.3.5.2. Rispetto e applicazione della legge. Nella nostra volontà di dare un apporto specifico alla società é imprescindibile che sia garantito il rispetto e la applicazione della legge.

Se intendiamo la legge come il minimo comune che regola tutti coloro che costituiamo la società é necessario che ci distinguiamo nell’allocazione di questo minimo comune denominatore. Ma non possiamo limitarci ad applicare questo minimo comune; nella misura delle nostre possibilità dobbiamo superarlo tentando di promuovere i nostri principi al di sopra di ciò che propone la legge.

Una situazione particolare si verifica quando la legge può esser contraria alla identità e ai valori che l’Istituzione promuove. In questo caso, riconoscendoci nel pluralismo che cerchiamo di promuovere nella nostra società ci appelliamo all’obiezione di coscienza per ciò che riguarda l’applicazione della legge nella nostra opera.

5.3.5.3. Impegno di giustizia sociale nella distribuzione delle risorse. Non é facile nella nostra società garantire un’equa distribuzione delle risorse. I gruppi di pressione da un lato e le grandi diseguaglianze dall’altro, possono far pendere il bilancio in modo poco equo.

Sarà necessario fare uno sforzo di gestione e di educazione ai valori perché non vi sia sempre la legge del più forte. Dovremo tenere presenti le diverse realtà con l’intento di una giusta ripartizione delle risorse.

In modo speciale bisogna stare attenti alla dimensione universale delle nostre vite e delle nostre opere. Dobbiamo ammettere che vi sono segni di ingiustizia nella distribuzione mondiale delle risorse: non ci rendiamo anche noi partecipi di questa ingiusta distribuzione. Vogliamo lavorare per un’azione solidale, partendo da un missione universale e da una universale visione dei problemi.

Questo deve costituire uno spazio per applicare la dottrina sociale della chiesa e nella misura in cui la sviluppiamo, la promuoviamo. E potremo contribuire a far sì che in modo pratico tale dottrina si vada estendendo, come un compendio dei valori della nostra società.

5.3.5.4. Funzione di denunzia nelle situazioni che lo richiedono. Diamo il contributo della nostra riflessione e dei nostri suggerimenti a quelle situazioni che vediamo chiaramente, essere deficitarie.

Nella nostra denunzia non ci limitiamo a lamentarci; oltre a evidenziare le deficienze diamo suggerimenti e orientamenti.

Se siamo capaci di dare soluzioni concrete e poi riusciamo a realizzarle, la nostra funzione di denunzia avrà raggiunto la sua massima espressione.

5.3.6. Presenza della società nel Centro

5.3.6.1. Gli utenti. Associazioni di malati e familiari. Tradizionalmente l’ “utente” del servizio sanitario e sociale lo abbiamo chiamato paziente ma é arrivato un tempo in cui desidera essere attivo ed é bene che assuma questo ruolo.

Due tipi di associazioni di pazienti sono presenti attualmente:

- le associazioni generiche di malati con un intento rivendicativo importante e frequentemente con una certa predisposizione a far uso delle vie legali;

- le associazioni specifiche intorno a una data malattia, in genere patologie croniche o molto gravi.

Entrambe devono avere uno spazio nei nostri Centri.

Le prime é molto probabile che si presentino con una querela o una qualche rivendicazione. Sarà nostro compito dar loro uno spazio di espressione in cui possano sentirsi interlocutori sociali validi perché in modo costante possano collaborare con il nostro modo di lavorare e noi possiamo farle partecipi del lavoro che stiamo realizzando.

Le seconde devono trovare nei Centri un sostegno privilegiato, in modo particolari ai loro inizi. Nella nostra dinamica sociale, solo un raggruppamento di persone può permettere di raggiungere certe mete e, in molti casi, é difficile costituire un gruppo iniziale. Il Centro é sempre una piattaforma che consente di superare queste difficoltà iniziali.

In entrambi i casi, il dialogo e le posizioni aperte permetteranno che le parti – Centro e Associazione – siano a conoscenza della situazione che si vive, delle possibilità, dei limiti e anche degli errori.

Purtroppo non riusciremo a evitare la dinamica della querela o della chiamata in giudizio -in molti casi con l’unico fine di lucro- ma possiamo trovare forme diverse di relazione che si basino sulla reciproca fiducia.

Il realizzare servizi di relazione col pubblico che mediante l’applicazione di diverse modalità possa esprimere la sua opinione é una via particolarmente idonea per attivare la presenza del cittadino all’interno delle opere.

5.3.6.2. I lavoratori. I lavoratori hanno alcuni organismi rappresentativi, riconosciuti dalla legge, mediante i quali si dovrà articolare il rapporto collaboratore-Istituzione.

Quindi nella misura in cui consideriamo che l’Istituzione é una realtà costruita e condivisa tra tutti sarà bene che si articolino modalità, forme e stili di legame che senza trascurare il precedente presupposto diano spazio a questo nuovo progetto che cerchiamo di fare in ogni opera di San Giovanni di Dio.

Per alcuni il legame sarà nell’ambito della relazione lavorativa in modo esclusivo. Questi troveranno la via di collegamento nel quadro del riferimento legislativo.

Altri si sentiranno motivati da una risposta vocazionale che superi quella professionale. Sarà bene che questi stabiliscano vie formali e informali perché possano far crescere il proprio impegno di solidarietà col malato e col bisognoso.

Infine alcuni vedranno la propria presenza all’interno dell’opera come espressione del proprio impegno di fede. Anche questi dovranno disporre di uno spazio in cui poter esprimere in gruppo ciò che li motiva nella loro vita a servire il malato e il bisognoso ad esser presenti in un’opera di San Giovanni di Dio.

Fatto salvo il primo presupposto che viene definito dal dettato legislativo, le altre situazioni, che dovranno essere realizzate da ogni singolo centro, sarà il modo più sicuro di esprimere questo legame che si attua nelle opere di San Giovanni di Dio.

5.3.6.3. I benefattori. Essi permisero al nostro Fondatore di portare avanti la sua opera; furono capaci di assolvere a tutti gli infiniti impegni che San Giovanni di Dio andava assumendo nei confronti dei malati e dei bisognosi.

Nel corso dei secoli essi hanno seguito e sostenuto la nostra opera; in alcuni paesi più e in altri meno. Ma fino alla costituzione dello stato sociale la maggior parte delle nostre opere é vissuta grazie alle generose donazioni di persone che hanno posto la propria fiducia nell’Ordine Ospedaliero e nel servizio all’uomo da questo compiuto.

Oggi la maggior parte dei Centri non dipende dalle loro elargizioni economiche come una volta, ma ancor oggi tutto ciò continua ed é fondamentale per ciò che riguarda l’ambito della solidarietà e della carità. Il principio persiste ed é quello dell’uomo che decide di esser solidale con un altro uomo facendolo attraverso l’Ordine Ospedaliero.

La forma potrà cambiare; di fatto é cambiata e continuerà a cambiare. Ma sta a noi la responsabilità di rendere effettiva questa solidarietà nel modo più equo possibile e, se é possibile, anche aumentarla.

Forse é arrivato il momento in cui in ossequio a una maggior efficacia della solidarietà dobbiamo dare ad essa un carattere più collettivo che ci permetta di aiutare di più dove maggiori sono le necessità.

Senza dubbio si tratta di un tema aperto alla riflessione, al dibattito e alla creatività mirata a individuare nuove vie per ottenere fondi e nuovi modi per rendere più efficace quest’opera di solidarietà.

Questo é stato ed é un tema molto radicato nella cultura di molte opere e anche di molte provincie ed é un impegno di tutti far sì che sia promosso. Probabilmente i nuovi mezzi di comunicazione saranno una via da valorizzare per questo lavoro, soprattutto con l’obiettivo di potenziare il legame di queste persone con l’opera.

5.3.6.4. I volontari. L’Ordine ha saputo sempre muoversi nel mondo della collaborazione altruista in alcuni casi come espressione di solidarietà e in altri come espressione di carità cristiana.

Il nostro fondatore poté mandare avanti la sua opera grazie alla generosa collaborazione di molte persone; alcune con il loro contributo economico, benefattori, altre con il loro lavoro gratuito e i loro sforzi, volontari.

L’Ordine ha saputo dare una risposta ai nuovi movimenti del volontariato. In alcuni paesi é stato addirittura pioniere dell’incorporazione dei movimenti di volontariato all’interno dei Centri. Tuttavia bisogna essere costantemente aggiornati e pronti all’adattamento per non rimanere attaccati a idee e strutture sorpassate.

Ogni Centro é differente e dovrebbe promuovere una creatività e una originalità nel suo volontariato. La diversità, in questo caso, sarà una prova di ricchezza.

Il processo di orientamento e selezione dei candidati, il profilo del volontario, la sua missione nel centro, il tempo che vi dedica, la formazione di cui ha bisogno, ecc. sono temi da discutere nell’Ordine, in ogni Centro.

Ugualmente, forse, é giunto il momento in cui le associazioni di volontari e i loro membri abbiano la possibilità di indirizzare le loro osservazioni agli organi di governo del Centro. Essi possono cogliere una realtà diversa da quella che si ritiene al Centro. Sarebbe bene che si potesse conoscere tale visione attraverso uno strumento appropriato.

5.3.6.5. La chiesa locale. Siamo una Istituzione esente dall’Ordinario del luogo. Questo é un punto di partenza che dovremmo tener presente ma é altrettanto certo che, se l’Ordine vuole avere una presenza significativa nel secolo che viene, deve farlo con un lavoro congiunto e coordinato con la Chiesa.

Se come Chiesa siamo il popolo di Dio e tutti siamo chiamati a far parte di questo popolo, dovremo riflettere a come realizzare questa azione di popolo di Dio. Il luogo dove più facilmente si può realizzare questa articolazione é nella diocesi e nella comunità parrocchiale.

Forse manca ancora molto perché possiamo cooperare allo stesso progetto pastori, religiosi e laici.

Non si tratta di rinunziare alle rispettive identità né di rinunziare ai progetti pastorali; ognuno dal suo posto, deve lavorare per costruire un progetto pastorale comune. In caso contrario o non sarà comune o non sarà progetto.

5.3.6.6. La pubblica amministrazione. Le nostre opere hanno un orientamento pubblico nella loro attività ed in molti casi si é fatto in modo che siano inserite nei servizi sanitari o sociali pubblici.

Questa situazione necessita un livello di relazione con la pubblica amministrazione molto fluido che ci permetta di essere informati sulla realtà del presente, sui progetti e i piani per il futuro e che ci permetta di poter informare sulla nostra situazione e le nostre proiezioni.

Bisogna continuare a percorrere questo cammino di relazione e connessione con la pubblica amministrazione. Da parte nostra questo esigerà onestà, chiarezza e trasparenza. Onestà come espressione di coerenza con i principi che difendiamo; chiarezza nella nostra posizione e nelle nostre pretese; infine trasparenza nei nostri criteri nel momento di applicare le risorse che riceviamo.

In tutto ciò che si riferisce alle relazioni istituzionali l’Ordine deve riflettere sul ruolo che deve occupare. Due sono i rischi estremi: il rimanere intrappolati in queste relazioni e per la dinamica che comportano lasciare che si diluisca, nel tempo, l’essenza della nostra identità; o l’allontanarci dalle stesse e lasciare che sia il Centro e il suo progetto assistenziale a diluirsi trovandosi disconnesso dalla realtà.

Una cosa é evidente, che l’intrattenere queste relazioni istituzionali esige una formazione professionale, umana e religiosa sufficientemente grande. In caso contrario la nostra presenza sarà controproducente; una volta di più si mette in evidenza che se vogliamo dire qualcosa dobbiamo dirlo con un linguaggio consono alla nostra società.

5.3.7. Verifica

Se vogliamo esser fedeli alla missione che si va progressivamente attualizzando e ricreando, ne consegue che periodicamente dobbiamo osservare in quale misura stiamo realizzando i nostri piani.

Dovremo valutare come stiamo applicando nella gestione, nella direzione e nella assistenza i principi filosofici dell’Ordine e i suoi criteri generali.

5.3.7.1. Attenzione ai segni dei tempi. La nostra società é una realtà molto dinamica. La scienza é in costante evoluzione e ogni giorno appaiono nuovi metodi di lavoro, nuove tecniche professionali e nuovi strumenti tecnici.

Un messaggio, un principio filosofico é attuale nella misura in cui si trasmette con mezzi, metodi e tecniche del momento. In caso contrario la nostra proposta può risolversi in un discorso inutile.

In questo processo sarà necessario valutare la idoneità dei mezzi che la società ci fornisce poiché può accadere che volendo ottenere una maggiore efficacia ci serviamo di strumenti che sono contrari alla filosofia dell’Istituzione.

5.3.7.2. Risposta alle necessità dell’uomo e della società. In questa evoluzione costante della società, anche l’uomo sta cambiando anche se non siamo in grado di distinguere se é il cambiamento della società a trascinare l’uomo o se é il cambiamento dell’uomo che conduce al mutamento della società.

Quel che é certo é che in questo comune cambiamento stanno comparendo:

- nuove infermità alle quali é necessario far fronte;

- nuovi atteggiamenti della persona di fronte alla malattia che esigono nuovi modi di prestare assistenza;

- nuovi problemi nella famiglia che dobbiamo saper affrontare, appoggiare, illuminare ed accompagnare;

- nuovi bisogni che esigono creatività e solidarietà da parte nostra se vogliamo dare una risposta coerente;

- nuove forme di egoismo che ci interpellano per trovare nuove forme di risposte di solidarietà a livello istituzionale.

Rispondere alle necessità della persona con i mezzi e le forme attuali, mantenendo lo stile e i valori dell’Ordine significa essere fedeli alla Nuova Ospitalità come sintesi del nostro progetto apostolico.

Per la riflessione:

1) Identifica successi e difficoltà “nell’applicazione a situazioni concrete” quali si presentano nei nostri Centri e nelle nostre Comunità nei seguenti ambiti:

· assistenza integrale e diritti del malato

· problemi specifici della nostra azione assistenziale

· gestione e direzione

2) Definisci le priorità che si pongono per l’Ordine in base all’analisi fatta al punto precedente nei seguenti ambiti:

· assistenza integrale e diritti del malato

· problemi specifici della nostra azione assistenziale

· gestione e direzione

NOTE DEL QUINTO CAPITOLO

(1) Alcuni preferiscono il termine privacy che costituisce un insieme più ampio, più globale, di aspetti della personalità che considerati isolatamente possono esser carenti di significato intrinseco ma che legati coerentemente tra loro riflettono un ritratto della personalità dell’individuo che questi ha il diritto di custodire riservatamente.

(2) Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes (GS), 16.

(3) Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae (EV), 44.

(4) Sacra Congregazione per la dottrina della fede, Donum Vitae, 22 febbraio 1987, # 2.

(5) Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Carta degli Operatori Sanitari, città del vaticano, 1995, #142.

(6) Ibid, 21.

(7) Ibid, 87

(8) Ibid, 129.

(9) Ibid, 146.

(10) Cfr. EV 57.

(11) Sacra Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione sull’eutanasia, 5 maggio 1980, p. 549. Cf.

(12) Cfr. Carta degli Operatori Sanitari, 119-120.

(13) Cfr. EV 65.

(14) Cfr. Codice di Norimberga, Dichiarazione di Helsinki, Dichiarazione di Ginevra, Good Clinical Practice, ecc.. Oltre ai criteri del Magistero, vedi anche la Carta degli Operatori Sanitari, 75-82.

(15) Cfr. EV 63.

(16) Cfr. Pierluigi Marchesi, L’Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000, , Roma 1986, Appendice III

* – - – *

6.

FORMAZIONE, INSEGNAMENTO E RICERCA

6.1. Formazione

6.1.1. Formazione tecnica, umana, carismatica

Oltre a quanto detto negli capitoli del presente documento, vogliamo sottolineare qui alcuni aspetti specifici relativi alla responsabilità di formarsi che hanno i membri dell’Ordine e i Collaboratori. Non insisteremo sulla necessità di formazione umana, intesa come quella che si orienta a promuovere la conoscenza di sé e ad approfondire le modalità di relazionarsi con la persona e la società, imprescindibile per poter essere agenti di umanizzazione nelle opere dell’Ordine.

Alcune caratteristiche del nostro tempo sono determinate dalla velocità del progresso delle scienze, in generale, e della biomedicina, in particolare; dalla velocità e facilità delle comunicazioni; dalla globalizzazione dei problemi; dalla mentalità scientifico-tecnica in riferimento alla visione della realtà e alla concezione dell’uomo -riduzionismo scientifico- dal fondamentalismo religioso –riduzionismo spiritualista-; e dalla constatazione che l’unico criterio etico che possiamo considerare globalmente condiviso, per lo meno sul piano teorico, è il rispetto della dignità della persona che esige che la persona non sia strumentalizzata come mezzo per un fine, per elevato che sia o possa apparire. Questo fatto che non è nuovo, riveste un’importanza particolare nelle relazioni degli operatori sanitari con la persona malata.

A partire dagli anni 70 abbiamo in effetti assistito ad una profonda trasformazione del rapporto medico-paziente come non si era mai visto negli ultimi secoli. Il fulcro di questa trasformazione è stata la presa di coscienza che il paziente capace deve essere riconosciuto come soggetto morale autonomo nelle decisioni che riguardano la salute. L’informazione corretta del paziente passa così in primo piano. Inoltre il ruolo del medico nell’assistenza ha perso, perlomeno nel mondo occidentale, la sua funzione esclusiva e preponderante. Oggi dobbiamo parlare di rapporto tra équipe assistenziale, paziente ed ambiente sociale. Il carattere ambiguo, in quanto a progresso umano, di talune tecnologie che, anche se impiegate con la massima correttezza, presentano tremendi conflitti tra valori vitali e valori spirituali, e la crescente importanza degli infermieri nei reparti e dei tecnici di laboratorio nei processi diagnostici esigono una formazione molto più rigorosa che in altri tempi. Sia negli ospedali che nei servizi di assistenza primaria e/o centri sociosanitari il livello dell’assistenza integrale dipende in maniera determinante dal grado di formazione degli operatori sanitari.

La formazione tecnica e professionale da un lato, e la formazione umana ed etica dall’altro, devono camminare parallele nel quadro della formazione permanente. Ci saranno momenti in cui si dovrà privilegiare il primo aspetto, mentre in altri si dovrà dare una speciale enfasi al secondo, il tutto a favore di un aggiornamento continuo delle conoscenze che rendono possibile una corretta assistenza sanitaria integrale secondo criteri attuali.

Ogni centro deve impegnarsi a promuovere programmi di formazione a tutti i livelli prevedendo le necessarie risorse economiche nei preventivi.

Mentre l’attualizzazione delle conoscenze scientifiche e tecniche non richiederà, in generale, uno sforzo di motivazione eccessivo, nell’altro caso è necessario una motivazione in più per formarsi nella filosofia assistenziale e nei criteri carismatici dell’Ordine. Questo tipo di formazione deve essere occasione per accrescere il senso di appartenenza e uno strumento per attualizzare i valori che improntano la cultura e l’identità dell’Ordine e deve esser promossa dalla direzione dei Centri, pienamente integrata nel piano di formazione del Centro stesso.

E’ importante che una persona, nella misura del possibile, stia al passo con i programmi e le esperienze che si stanno realizzando nelle diverse regioni del globo per vedere se si possono adeguare al proprio luogo e centro. Dato che formatori capaci di comprendere la problematica sanitaria e di destreggiarsi, allo stesso tempo, con dominio pedagogico negli ambiti del pensiero contemporaneo filosofico, teologico, pastorale e spirituale, sono un bene raro, ci si dovrà sforzare di costituire équipes e di potenziare le qualità di diversi soggetti in ordine a elaborare un programma comune. Questo programma dovrà essere realistico, efficace ed efficiente. I comitati di etica potrebbero espletare perfettamente questa funzione.

Oggi che la Chiesa vive con particolare forza la necessità del ‘dialogo interreligioso’ affinché, seguendo il Vaticano II, si “riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socioculturali che si trovano in altre religioni per collaborare alla ricerca di un mondo di pace, libertà, giustizia e valori morali”(1), appare imprescindibile offrire, oltre alla necessaria formazione professionale e tecnica, una solida formazione nel carisma dell’Ordine, in filosofia e teologia, centrata in maniera speciale nella persona e nel mistero di Gesù Cristo.

Le grandi correnti del pensiero filosofico(2) e teologico devono fungere da pilastri fondamentali nella formazione, nella quale il carisma dell’Ordine e la sua profonda conoscenza devono ispirare gli atteggiamenti e i comportamenti a favore dei poveri e bisognosi.

In questo modo saremo in grado di stabilire il quadruplo dialogo necessario in un mondo di pluralismo religioso (3):

· dialogo di vita, in cui le persone si sforzano di vivere in uno spirito di apertura e di buon vicinato condividendo le loro gioie e sofferenze e problemi e preoccupazioni umane;

· dialogo d’azione, in cui cristiani ed altri s’impegnano a collaborare per lo sviluppo integrale e la libertà delle persone;

· dialogo d’esperienza religiosa, in cui le persone, radicate nelle proprie tradizioni religiose, condividono le loro ricchezze spirituali per quanto riguarda la preghiera e la contemplazione, la fede e i cammini di ricerca di Dio e dell’Assoluto;

· dialogo d’interscambio teologico, in cui gli esperti si sforzano di comprendere più profondamente le rispettive eredità religiose apprezzandone i rispettivi valori spirituali.

6.1.2. I Comitati di Etica quali strumenti di formazione

Anche se questo tema è stato già trattato nel quinto capitolo del presente documento, vogliamo riproporlo qui nella prospettiva della ricerca e della formazione.

Nel campo della clinica, la parola bioetica è correlata al concetto del dialogo interdisciplinare come metodologia di lavoro e, a partire dal 1978, ai principi comuni della bioetica contemporanea: autonomia, beneficio/non nocività e giustizia. Questi principi, basati sul paradigma antropologico del personalismo di ispirazione cristiana, altro non sono che la traduzione del principio del rispetto per la dignità della persona, del servizio al bene del paziente integralmente considerato e della solidarietà.

La necessità di garantire la protezione dei soggetti umani partecipanti ad una sperimentazione o ad una ricerca clinica e la rilevanza e correttezza scientifica del protocollo di ricerca dettero origine all’istituzionalizzazione di comitati appositamente incaricati di svolgere queste funzioni. Sono i Comitati Etici di Ricerca Clinica e i Comitati di Bioetica. I termini corrispondenti nella letteratura americana sono Institutional Review Boards e Institutional Ethics Committee. Questi ultimi sono denominati anche Clinical Ethics Committees.

I Comitati Etici di Ricerca Clinica si diversificano per composizione, funzionamento e riconoscimento legale a seconda dei paesi. In ogni caso devono rispettare e vigilare, affinché siano messe in pratica le cosiddette Norme della Buona Pratica Clinica. Le decisioni di questi comitati sono giuridicamente vincolanti. I membri dei Comitati Etici di Ricerca Clinica devono essere qualificati per esaminare progetti di ricerca, valutando innanzitutto se si dispongono di sufficienti dati scientifici, test farmacologici e tossicologici su animali che garantiscono che i rischi che corrono le persone implicate nella sperimentazione proposta, siano ammissibili, e che le persone interessate siano state correttamente informate e partecipino alla sperimentazione liberamente. Altri aspetti da considerare sono: soppesare se il problema che si intende indagare sia importante o banale; se il progetto sperimentale proposto sia adeguato agli obiettivi previsti; se esista un’assicurazione che copre i danni che come conseguenza della sperimentazione potrebbero derivare per le persone soggette alla stessa.

Non ci sono dubbi che la partecipazione a questi comitati riveste un grande valore pedagogico e di arricchimento. Dove il dialogo bioetico negli ospedali assume in ogni caso una importante funzione pedagogica, è la discussione di casi concreti nei comitati di etica assistenziale. Questi comitati, per la loro composizione interdisciplinare, per la loro metodologia di informazione-formazione, per il rispetto reciproco, per l’importanza dei casi da discutere, per la necessità di individuare soluzioni rispetto ai conflitti di valori che si pongono e di normare, in qualche modo, la condotta in casi simili, sono in se stessi formativi.

La funzione docente è molto importante. In primo luogo, “locus” di formazione degli stessi membri del comitato. Secondaria, ma non meno importante, è la programmazione dell’insegnamento bioetico nella Provincia, nei Centri, e la sua realizzazione. Il dialogo interdisciplinare come metodologia di lavoro è necessario. Generalmente, la presa delle decisioni deve avvenire per consenso etico e non meramente strategico. I consultori di casi concreti –medici, infermieri, psicologi…- devono essere membri “ad hoc” nelle deliberazioni del comitato, affinché le decisioni abbiano la forza del vincolo morale. La composizione dei comitati potrà variare a seconda del tipo di ospedale o centro residenziale e/o sociosanitario.

In ultima istanza, i comitati di etica assistenziale rappresentano qualcosa di antico come la consultazione collegiale e qualcosa di relativamente recente come il riconoscimento dell’équipe di salute ed una medicina orientata al paziente considerato come agente morale autonomo che non perde i suoi diritti per il fatto di essere ospedalizzato. I comitati che funzionano correttamente possono essere strumenti efficaci per definire la “lex artis” dell’ospedale con le relative implicazioni giuridiche.

I comitati devono stabilire qual è il sistema di valori di riferimento in caso di conflitto: ispirazione cristiana; diritti umani; codici deontologici professionali in ambito nazionale o internazionale, ecc. Il comitato di etica assistenziale deve passare l’esame di coerenza nelle sue decisioni.

E’ imprescindibile assicurare la funzionalità dei comitati attraverso una serie di misure, tra cui ha una particolare importanza il comitato per la soluzione di casi urgenti.

A questo punto desideriamo precisare alcuni aspetti. Riteniamo importante, in primo luogo, analizzare le premesse necessarie per affrontare correttamente la decisione etica: a) storia clinica corretta; b) competenza professionale per la discussione scientifica del caso clinico; c) controllo di qualità.

Stabiliti il problema clinico e le alternative possibili di trattamento, si passa a considerare le dimensioni etiche riguardanti i problemi collegati alla qualità di vita, dalla prospettiva professionale e dalla prospettiva del paziente e della sua famiglia, i cui sistemi di valori devono essere rispettati. I fattori non clinici, in particolare quelli economico-sociali, devono trovare una speciale considerazione in una medicina che vuole essere integrale.

Il consenso da parte di terzi, per l’incapacità del paziente, presenta problemi di difficile soluzione in neonatología, psichiatria, pazienti comatosi, disabili mentali ecc. In questi casi, in cui sovente si può parlare di problematica limite, si rivela in tutta la sua utilità la funzione dei comitati di etica assistenziale al servizio di una medicina di qualità scientifico-tecnica ed umana.

La formazione per la soluzione di conflitti nella ricerca e nella clinica richiede come elementi fondamentali: 1) capacità e competenza professionale per comprendere il problema posto dalla prospettiva in cui una persona lavora; 2) aver meditato sul proprio atteggiamento etico ed un minimo di fondamento razionale dello stesso. A questo proposito si deve distinguere tra il fatto in se stesso (atteggiamento coerente nella vita tra essere e agire) e la possibilità di concettualizzazione. Questa dev’essere sorretta da un programma di formazione in antropologia e etica filosofica e/o teologica. 3) Metodologia per la soluzione di conflitti in un clima di dialogo che non escluda il confronto.

Qui facciamo riferimento soltanto al paragrafo precedente. Non c’è dubbio che i principi bioetici precedentemente pronunciati sono strumenti pedagogici che si rivelano utili nei dialoghi dei comitati di etica assistenziale. La soluzione dei problemi può essere affrontata dal punto di vista della discussione di principi che entrano in conflitto o della loro gerarchia in un caso concreto (per esempio priorità del principio di autonomia o del principio di beneficità/giovamento) o dell’analisi casistica. Consideriamo che questa sia la più adeguata nella discussione di casi clinici.

6.2. Insegnamento

6.2.1. L’insegnamento, una costante nell’Ordine

L’insegnamento nell’Ordine affonda le sue radici nello stesso Fondatore San Giovanni di Dio, che prima di insegnare, si è fatto insegnare l’arte del guarire a Guadalupe, famosa in tutta Spagna come centro di formazione dal XV secolo, come dimostra il seguente detto: “Ni que hubieras andado toda tu vida a la práctica de anatomía en Guadalupe…”(‘Sembra che tu non abbia fatto altro nella vita che fare pratica di anatomia a Guadalupe’, detto di persona molto esperta).

“Guadalupe diede a Giovanni di Dio una visione allo stesso tempo scientifica e caritativa, grazie all’apporto della “Scuola” di Medicina, la cui qualità trova unanime elogio presso i ricercatori più recenti… Lì scoprì uno strumentario sconosciuto in tutti gli altri ospedali spagnoli e le lezioni teoriche e pratiche impartite ai principianti“ (4).

Il primo seguace di San Giovanni di Dio, Antón Martín, ebbe una sensibilità speciale per l’insegnamento. Nella cosiddetta Madrid de los Austrias, intorno al 1553, gli venne l’idea di creare la “Scuola dei Chirurgi minori” per il suo ospedale dell’ “Amore di Dio”, progetto che sarebbe poi stato realizzato dal suo successore Pedro Delgado (5).

“Questa Scuola di Chirurgia raggiunse un gran credito e presto vi accorsero, spinti dal desiderio di praticare nelle sue cliniche e ricevere insegnamento… persone che volevano acquisire i requisiti necessari per superare l’esame dinanzi al Tribunale dei Protomedici come chirurgi. L’Hospital de la Plaza di Antón Martín fu dunque il primo ospedale a Madrid a carattere docente e con un’organizzazione secondo specialità mediche” (6).

Man mano che l’Ordine si espanse dapprima in Spagna e poi in Europa e in America Latina, per diffondersi finalmente in tutti e cinque i continenti, non abbandonò mai la sua inquietudine per la pedagogia ospedaliera. Il suo insegnamento avvenne, per dir il vero, prevalentemente più per via verbale che per via scritta, con un linguaggio spiccatamente pratico ed accessibile a tutti. Inoltre elaborò importanti manuali in differenti specialità.

L’Ordine plasmò questa inquietudine pedagogica in diverse scuole con differenti livelli formativi che continua a promuovere e a sostenere.

6.2.2. L’insegnamento, un imperativo nell’attualità

Nel 1956, l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) ha definito l’ospedale, tra l’altro, come “centro di formazione del personale medico sanitario e di ricerca”.

A partire da questa data, tutti i paesi, nelle loro legislazioni sanitarie, contemplano l’insegnamento come un imperativo: non esiste modello assistenziale che non gli dedica ampio spazio. Insegnare ciò che si apprende giorno per giorno nella pratica e metterlo a disposizione della collettività attraverso i molteplici mezzi di cui oggi disponiamo, è un compito altrettanto importante come il curare, prevenire e indagare.

L’insegnamento si converte ogni giorno dentro le strutture assistenziali in una garanzia di qualità. Se non siamo capaci di dimostrare alla società quello che facciamo in forma di insegnamento, non possediamo la vitalità che la collettività s’aspetta da noi. Da qui l’impegno di contemplare nei preventivi annuali dei Centri una voce dedicata all’insegnamento e la volontà di concertare con enti pubblici e/o privati la messa in pratica della “vocazione docente” propria dell’Ordine sin dalle prime origini.

In vista del futuro l’insegnamento è una responsabilità di ogni Centro. Un accreditamento che legittimerà ed avallerà la nostra presenza nella società. Un elemento basico della qualità assistenziale che richiede impegno. Una missione di insegnare a tutti a pensare e a agire in maniera nuova per il bene della persona che soffre.

6.3. Ricerca

6.3.1. Trasmissione dell’ottica dell’Ordine

L’attività assistenziale, tecnica e scientifica dell’Ordine Ospedaliero ha prodotto lungo gli ultimi cinque secoli tutt’una serie di validi contributi a favore della salute e della vita. Lo stesso Giovanni di Dio iniziò la sua “avventura ospedaliera” andando a Baeza e a Guadalupe per formarsi, consigliato dal maestro Giovanni d’Avila. Sono oramai diversi gli autori che sostengono che il padre maestro, noto per la sua curiosità scientifica e sicuramente a conoscenza dell’alta qualità degli ospedali gestiti a Guadalupe dai frati di San Girolamo, vi abbia inviato Giovanni di Dio come pellegrino e apprendista ospedaliero per conoscere come funziona un ospedale (7). Di ritorno a Granada, ha poi messo in pratica il suo progetto di servizio agli infermi. In considerazione del suo alto contributo all’assistenza – organizzazione di due ospedali con metodi molto avanzati rispetto all’epoca – la storia lo riconosce difatti come Fondatore dell’ospedale moderno.

Durante il processo d’espansione dell’eredità dinamica di San Giovanni di Dio attraverso il tempo e lo spazio, i Fatebenefratelli e i loro collaboratori hanno perfezionato i suoi metodi, accumulando esperienze ed aumentando le loro conoscenze. “In termini generali si può dire che l’evoluzione dell’Ordine ha rispecchiato l’evoluzione della psichiatria e della neurologia”(8).

Sono stati i Fatebenefratelli a creare il primo ospedale per epilettici in Europa (9). Inoltre, già nei primi ospedali, integrarono l’attività di cura con attività di formazione: difatti già dal XVI secolo si ha notizia delle prime scuole per chirurgi installate negli ospedali dell’Ordine (10). A queste vanno aggiunte scuole di chimica, farmacia, medicina ed infermeria, di cui alcune create in epoca più recente e tuttora in funzione.

D’altro canto, ci sono stati religiosi Fatebenefratelli noti e meno noti che si sono distinti come medici, chirurgi, dentisti ed infermieri. Alcuni di loro sono stati veri esempi di come integrare col massimo profitto carisma dell’ospitalità e spirito scientifico e investigativo. (11)

L’Ordine Ospedaliero è un’istituzione con secoli di presenza nel mondo della salute e dei servizi sociali; per questo può e deve sostenere l’impegno continuo di migliorare l’assistenza attraverso la promozione della ricerca. Senza rinunciare ad alcun campo della ricerca, le aree più specifiche da promuovere dovrebbero essere l’assistenza integrale, l’umanizzazione, la bioetica nei suoi risvolti clinici, epidemiologici, gestionali e formativi, tanto nella medicina come nell’infermeria, la pastorale, il dialogo interreligioso nella predisposizione di servizi per i poveri e i bisognosi, i valori dell’istituzione in generale, ecc.

L’approfondimento creativo di questo documento, la qualità delle risorse umane di cui si dispone nei diversi centri e la motivazione dei collaboratori a potenziare la dimensione innovativa dell’Ordine Ospedaliero che è stato sempre un suo segno caratteristico, determineranno le linee di lavoro più opportune per giungere ad una proficua collaborazione in questo campo.

6.3.2. Promozione della ricerca in vista del terzo millennio

Il costante progresso della scienza e l’impegno degli operatori della salute, non solo nell’attività propriamente assistenziale, ma anche in quella di carattere sperimentale, rendono indispensabile oggi un’adeguata promozione della ricerca. Non c’è progresso della medicina che non sia stato preceduto da un’adeguata e notevole attività di ricerca (teorica, di laboratorio, su animali e sull’uomo). Pertanto, l’assistenza integrale al malato e bisognoso passa necessariamente attraverso queste fasi preliminari.

Anche se tradizionalmente l’attività dell’Ordine mirava prevalentemente all’assistenza diretta ai malati e bisognosi, di fronte ai nuovi sviluppi sociali e sanitari, la ricerca si presenta oggi come una premessa indispensabile che non ha bisogno di “altri” professionisti, ma che rientra a pieno titolo nelle attività che possono essere realizzate e promosse nei nostri centri.

Questo è già una realtà da diversi anni all’interno dell’Ordine con grande beneficio per i malati e grande gratificazione per i collaboratori, pienamente inseriti nei circuiti della ricerca internazionale e pertanto partecipi di quel “progresso della salute” a cui tutta la comunità scientifica è interessata.

I mezzi principali per realizzare tale attività saranno: la sperimentazione clinica, le convenzioni con istituti di ricerca, la partecipazione a programmi internazionali di ricerca, la specifica ed esclusiva qualificazione di alcuni collaboratori in questo settore.

Per una promozione più proficua della ricerca, si potranno costituire inoltre associazioni che abbiano come obiettivo fare ricerca in maniera più organica, coordinata e interdisciplinare, anche col contributo di professionisti qualificati “esterni” allo stesso centro.

Un particolare problema riguarda la destinazione dei mezzi finanziari. Non si tratta di risorse “sottratte” al malato, ma al contrario, impiegati per una sua migliore cura, anche quando non si vede immediatamente il “ritorno”, dato che a volte in un primo momento sembra che le risorse impiegate non abbiano dato i risultati sperati.

Proprio per questo l’Ordine non solo apprezza e favorisce la ricerca sperimentale nei suoi centri, ma si fa anche promotore della stessa di fronte agli enti che legittimamente la perseguono come campo istituzionale proprio. Di ciò si dovrà tener conto, sempre che la tipologia di un determinato Centro lo permetta, anche nel momento di stipulare le rispettive convenzioni con i governi che destinano alla ricerca una parte dei fondi (anche se modesta) dei propri preventivi.

Per la riflessione:

1) Quali sono i programmi di formazione, insegnamento e ricerca che esistono nel suo Centro o nella sua Provincia? Dai una valutazione della messa in pratica e della loro efficacia.

2) Quali dovrebbero essere le priorità per l’Ordine in questo campo?

· nella formazione

· nell’insegnamento

· nella ricerca

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NOTE DEL SESTO CAPITOLO

(1) Concilio Vaticano II, Nostra Aetate, 2 s.

(2) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Fede e Ragione, 1999, Capitolo 1.

(3) Consiglio Pontificio per il dialogo interreligioso e Congregazione per la Evangelizzazione dei popoli: Dialogo e Annuncio, BCDR (1991), 210-250.

(4) JAVIERRE, José María Juan de Dios, loco en Granada, Sígueme, Salamanca, 1996.

(5) PLUMED MORENO, C. “Jornadas Internacionales de Enfermería” San Juan de Dios. 1992.

(6) ALVAREZ SIERRA, José Antón Martín y el Madrid de los Austrias, 1961.

(7) JAVIERRE, Ibid., p. 413.

(8) RUMBAUT, Ruben D. John of God: his place in the history of Psychiatry and Medicine, 1978, edizione bilingue (Ing/Spa), p. 115.

(9) ALVAREZ SIERRA, José Influencia de San Juan de Dios y de su Orden en el progreso de la Medicina y de la Cirugía, Talleres Arges, Madrid, 1950, p. 148.

(10) RUSSOTTO, Gabriele OH. San Giovanni di Dio e il suo Ordine Ospedaliero, Roma 1969, volume secondo, p. 124.

(11) Nella succitata opera di P. Gabriele Russotto ci sono 73 pagine dedicate a Fatebenefratelli distintisi nei diversi campi della medicina. Le figure più conosciute tra i Medici e Chirurgi sono: Fra Gabriele Ferrara (Italia), Fra Alonso Pabón (Spagna), Fra Bernardo Fyrtram (Austria), Fra José Lopez de la Madera (Spagna), P. Costantino Scholz (Silesia, Austria), Fra Ambrosio Guivebille (Austria), P. Lázaro Nobel (Germania), Fra Matías del Carmen Verdugo (Cile), Fra Miguel Isla (Colombia), P. Probo Martini (Germania, Cechia, Silesia), P. Bertrando Schroder (Austria), P. Norberto Boccius (Ungheria, Cechia), P. Manuel Chaparro (Cile), P. Ludovico Perzima (Polonia), Fra Eliseo Talochon (Francia), P. Odilone Wolf (Cechia), Fra Justo Sarmiento (America), P. Fausto Gradischeg (Austria), P. Giovanni Luigi Portalupi (Italia), P. Benedetto Nappi (Italia), P. Celestino Opitz (Cechia), P. Prosdocimo Salerio (Italia), P. Celso Broglio (Italia), P. Juan de Dios Sobel (Silesia), P. Francisco de Sales Whitaker (Irlanda e Inghilterra). La lista termina con San Riccardo Pampuri.

Tra i Farmacisti e i Botanici più famosi della storia dell’Ordine ricordiamo: P. Augustin Stromayer (Cechia), P. Innocenzo Monguzzi (Italia), P. Ottavio Ferrario (Italia), P. Gallicano Bertazzi (Italia), P. Anastasio Pellicia (Italia) e P. Antonio Mattia dell’Orto (Italia).

Tra i Dentisti, i più famosi sono due: Fra Giovanni di Dio Pelizzoni (Italia) e P. Giovan Battista Orsenigo (Italia) che fu molto conosciuto a Roma.

In Colombia, Fra Miguel de Isla (XVIII secolo) fu medico, cattedratico di medicina e riformatore della Facoltà di Medicina dell’Università del Rosario. In Cile, Fra Manuel Chaparro introdusse il metodo dell’inoculazione (vaccino) –mai utilizzato prima e perfino sconosciuto in Europa- per domare una devastante epidemia di vaiolo che imperversava dal 1765 al 1772.

Da ricordare infine che nel 1821 il farmacista Fra Ottavio Ferrario scoprì il Iodoformio, anche se il merito fu attribuito a un francese che fece la stessa scoperta nello stesso anno. Sempre Fra Ferrario fu la prima persona in Italia ad estrarre nel 1822 chinina, isolando le costituenti attive della china.

* – - – *

7.

LA RETTITUDINE PERSONALE COME BASE PER L’AZIONE

7.1. La rettitudine come progetto esistenziale

7.1.1. Vivere in armonia con i valori che configurano la persona

Intendiamo per rettitudine personale la qualità morale della persona il cui agire é in armonia con i principi e i valori spirituali che professa: ”Operari sequitur esse” (l’operare segue l’essere). Questa rettitudine esige un cuore indiviso, correttezza nell’operare e fedeltà in mezzo alle prove e alle difficoltà. In ultima istanza bisogna dire che l’uomo retto é quello che vive in accordo con il comandamento dell’amore che ci ha dato Gesù: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”.

L’unità di mente e di cuore, di coerenza tra il sentire e l’operare richiede un processo più o meno ampio di maturazione umana, psicologica e spirituale in rapporto ai vari individui, al loro grado di vocazione al servizio e di generosità nella risposta. Integrare l’azione e l’unione con Dio secondo il carisma di San Giovanni di Dio é compito di tutta la vita.

Se nel nostro agire noi tendiamo solo o prevalentemente all’utilità sociale, in vista dell’efficacia, eliminando la dimensione della testimonianza di amore a Cristo, secondo il carisma di San Giovanni di Dio, attentiamo alla nostra rettitudine come progetto esistenziale e le nostre opere non avranno la forza evangelizzatrice che devono avere. Se la persona é retta lo é per quello che é, non per quello che dice o fa.

7.1.2. L’uomo testimone della trascendenza e dell’amore

La vocazione dell’uomo é la vita divina: “Irrequietum est cor nostrum donec requiescat in Te” (il nostro cuore è inquieto fino quando riposa in Te) . La sequela di Gesù Cristo, pienezza di rivelazione di Dio, é il cammino dell’uomo verso la pienezza della sua realizzazione. La sequela di Gesù Cristo secondo lo stile di San Giovanni di Dio, identificandosi con i più poveri e bisognosi é il modello esemplare dell’Ordine Ospedaliero.

Il darsi incondizionatamente agli altri come segno dell’amore di Dio esige un certo grado di maturità umana e spirituale: l’esperienza intima di Dio, il sapersi amati da Dio e conoscere se stessi accettandosi come si é sono condizioni per conseguire il necessario grado di identità, fiducia e libertà necessari per l’apostolato. L’orazione é necessaria per vitalizzare, unificare e integrare la vita spirituale e l’attività.

L’esperienza della misericordia di Dio per noi e del suo amore incondizionato ci dà la misura della relazione che dobbiamo avere nei confronti del bisognoso, aiutandolo a costruire la sua vita, a valorizzare la sua dignità e a rivelargli la sua propria capacità di amare. L’esperienza dell’amore incondizionato aiuta le persone a scoprire la loro vocazione di figli di Dio.

Il Vangelo di Cristo nel rivelare all’essere umano la sua qualità di persona libera chiamata a entrare in comunione con Dio suscita la presa di coscienza delle profondità della libertà umana: la liberazione da ogni schiavitù, la liberazione dal peccato, la liberazione per proclamare il Vangelo, la liberazione per crescere in libertà secondo lo Spirito.

7.2. La coscienza come motore della nostra azione

“Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non é lui a darsi ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa questo, fuggi quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore; obbedire é la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato” (1) .

“La dignità della persona umana implica ed esige la rettitudine della coscienza morale. La coscienza morale comprende la percezione dei principi della moralità (“sinderesi”), la loro applicazione nelle circostanze di fatto mediante un discernimento pratico delle ragioni e dei beni, e infine il giudizio riguardante gli atti concreti che si devono compiere o che sono stati già compiuti. La verità sul bene morale, dichiarata dalla legge della ragione, é praticamente e concretamente riconosciuta attraverso il giudizio prudente della coscienza. Si chiama prudente l’uomo le cui scelte sono conformi a questo giudizio”(2).

“L’uomo ha il diritto di agire in coscienza e libertà per prendere personalmente le decisioni morali. L’uomo non deve essere costretto ad agire contro la sua coscienza ma non si deve neppure impedirgli di operare in conformità ad essa soprattutto in campo religioso” (3).

Nella formazione della coscienza, la Parola di Dio é la luce sul nostro cammino; la dobbiamo assimilare nella fede e nella preghiera e metterla in pratica. Dobbiamo anche esaminare la nostra coscienza rapportandoci alla croce del Signore. Siamo sorretti dai doni dello Spirito Santo, aiutati dalla testimonianza e dai consigli altrui e guidati dall’insegnamento certo della Chiesa.

La riflessione personale e comunitaria, una delle cui manifestazioni sono i Comitati di etica può apportare luce nei difficili problemi in cui i casi concreti sfuggono alla normativa etica dei pronunciamenti del Magistero. Competenza professionale, docilità e rispetto del Magistero, spirito di dialogo sono requisiti essenziali per discernere le condotte concrete in casi particolarmente conflittuali in cui é necessaria una gerarchizzazione dei valori che entrano in conflitto.

Posto che i problemi etici più importanti del diritto naturale non trovano una risposta esplicita nella Bibbia, bisogna insistere maggiormente in una fondazione convincente e razionale che non si appoggi sulla semplice autorità. Senza questa condizione sarà sempre più difficile che l’uomo di oggi, cosciente della sua autonomia e responsabilità, dia il suo assenso liberamente.

7.3. Coscienza e rettitudine morale

7.3.1. Il servizio all’uomo malato e bisognoso come “conditio sine qua non”

Il termine “servo” nella prima comunità ecclesiale formalizza e definisce la condizione del credente che, per amore, si mette a disposizione dei suoi fratelli. Tale attitudine é resa più evidente nella cura che la comunità ecclesiale mette in atto dei confronti dei malati e dei bisognosi.

In realtà già autorevoli testimonianze del passato (giuramento di Asaph, preghiera di Maimonide, ecc.) avevano sottolineato l’impegno etico di servizio dell’operatore sanitario e l’idea di stessa di mini­sterialità socio-sanitaria è comune a molti versanti ideologico-culturali. Tuttavia è nel Cristianesimo che tale idea assume un rilievo del tutto particolare per il riferimento alla ministerialità di Cristo, “diacono” del Padre per gli uomini, servo di Dio per essere servo dei fra­telli. Non a caso Policarpo (fine I sec.) lo chiamerà “diacono, servo di tutti”.

Proprio per questo all’interno dell’Ordine religioso che fa dell’ospitalità il suo carisma specifico la dimensione del servizio diventa assolutamente irrinunziabile ed esprime la ragion d’essere delle proprie opere e l’atteggiamento interiore dei collaboratori più coinvolti.

In tale prospettiva può inserirsi una differen­ziazione vocazionale che fa della pluralità motivo di ricchezza carismatica per cui le vicende esistenziali, gli stati di vita, l’ambito lavorativo diventano occasioni e impegni “ministeriali”. Laddove poi il proprio impegno professionale ed ecclesiale ha insita in sé una così diretta partecipazione alle necessità esi­stenziali dell’altro, come nel caso dell’Ordine Ospedaliero, il servizio diventa una vera e propria linea-guida del suo agire.

7.3.2. Gradi di coinvolgimento personale nella missione dell’Ordine

7.3.2.1. I Confratelli. Costituiscono, com’è ovvio, le persone più radicalmente coinvolte, in virtù della professione religiosa. Tale termine (professione) non a caso é identico a quello che indica l’esercizio di un’attività lavorativa. Entrambe le situazioni sono caratterizzate da tre elementi: il credere, dichiarandolo apertamente e formalmente, alla realtà esistenziale che liberamente si abbraccia; l’appartenere a un particolare gruppo sociale che fa di tale realtà la sua ragion d’essere; l’impegno a esprimere nella vita la realtà professata.

La prima dimensione, credere, riguarda la sfera intellettiva e si realizza, se così possiamo dire, nel “credere all’ospitalità”. Non si può vivere né agire secondo lo stile di S. Giovanni di Dio, cioè concretamente incarnando il carisma dell’ospitalità, se a tale ospitalità innanzitutto non si crede. Si tratta cioè di rinnovare una testimonianza che scaturisca dalle profondità della propria sorgente vocazionale, rinnovandosi quotidianamente e riformulando ogni giorno il proprio “sì” all’ospitalità.

La seconda prospettiva, appartenenza, riguarda l’ambito relazionale, cioè il senso di appartenenza e, più concretamente la dimensione comunitaria della propria vita. Questa é innanzitutto specchio di una vocazione, pur senza eliminare la dimensione personalistica di un Dio che “chiama per nome”, si attualizza all’interno di una comunità. Inoltre, nella sua risposta, comporta una specifica appartenenza comunitaria che si realizza: per ciò che riguarda il suo essere, nella struttura organica dell’Ordine; per ciò che riguarda il suo agire, nella vita fraterna e nel comune impegno ospedaliero.

Infine la prospettiva volitiva, impegno, si esprime elettivamente nella professione dei voti. A tal proposito é necessario sottolineare ancora una volta la loro dimensione oblativa più che ascetica, vedendoli cioè nella loro realtà di “dono” più che di “rinunzia”. In tale ottica, il loro significato può costituire una imitabile esemplarità valoriale anche per i collaboratori trovando una dimensione comunionale che supera l’ambito del semplice lavorare insieme. Il Confratello potrà così condividere con il laico l’obbedienza come adesione alle circostanze esistenziali dalle cui trame può trapelare la volontà di Dio; la povertà come dono dei propri averi interiori, del proprio tempo, del proprio intelletto, del proprio cuore; la castità come offerta della propria corporeità e delle risorse specifiche del proprio essere uomo o donna e l’ospitalità come espressione di accoglienza e servizio verso la persona malata e bisognosa.

7.3.2.2. I collaboratori laici. In quest’ambito possiamo includere tutti coloro che, lavorando all’interno delle Case dell’Ordine o partecipando da “esterni” a iniziative e opere promosse dall’Ordine ne attuano le finalità. “I livelli di questa partecipazione sono ovviamente vari: così ci sono persone che si sentono particolarmente legate all’Ordine attraverso la sua spiritualità; altri invece vivono la partecipazione tramite il disimpegno della stessa missione. Ma quel che conta è che il dono dell’ospitalità ricevuto da San Giovanni di Dio instauri tra Confratelli e Collaboratori un legame di comunicazione che sia per ambedue impulso e stimolo a sviluppare la loro vocazione cristiana e a essere per il povero e il bisognoso segno visibile dell’amore misericordioso di Dio verso gli uomini”. (4)

Indipendentemente dalla loro fede, i collaboratori dei nostri Centri, contribuiscono a realizzare in modo determinante l’attività dell’opera divenendo partecipi della sua missione. Essi instaurano con l’Ordine un rapporto essenzialmente basato sul lavoro essendo in gran parte artefici del servizio che l’opera rende alla collettività. Per il loro numero e per l’oggettiva promozione della struttura che essi realizzano danno un contributo significativo alle opere dell’Ordine pur senza cercare una più profonda condivisione carismatica secondo stili e modalità che, probabilmente, non trovano consoni alla propria situazione esistenziale. Nel rispetto delle loro scelte valoriali e senza alcuna forzatura delle coscienze sarà opportuno, tuttavia, dar loro tutti gli strumenti perché possano intraprendere un cammino che nel tempo possa condurli ad assumere liberamente un più diretto coinvolgimento nella missione dell’Ordine.

I collaboratori più sensibili e impegnati, che vogliono vivere una loro identificazione con la missione dell’Ordine sono pienamente partecipi del carisma di S. Giovanni di Dio che su di essi si estende e in loro vive e si diffonde non meno che nei Confratelli. Proprio per questo, nell’ambito di tali collaboratori, si sono già realizzate (ed è apprezzabile che si continui a farlo) particolari forme associative che, più direttamente, esprimono nello stile di vita secolare la testimonianza del carisma ospedaliero, contribuendo a realizzare e rivitalizzare la missione dell’Ordine. In questa prospettiva la collaborazione tra Confratelli e Collaboratori cessa di essere un fatto occasionale e spontaneo per appartenere istituzionalmente alla vita dell’Ordine nell’ottica di una vera e propria integrazione.

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Si tratta di una prospettiva oggi fortemente avvertita dalla Chiesa universale: “Di fronte alle nuove situazioni, non pochi Istituti sono giunti alla conclusione che il proprio carisma può essere partecipato ai laici. Questi sono invitati a partecipare in modo più intenso alla spiritualità e alla missione del medesimo Istituto. In continuità con le esperienze storiche dei diversi Ordini secolari o dei Terz’Ordini si può dire che sia iniziato un nuovo capitolo, ricco di speranze nella storia delle relazioni tra persone consacrate e laici”. (5)

Per la riflessione:

1) Quali risorse si stanno impiegando per promuovere l’integrità personale di cui si parla in questo capitolo?

2) Quali altre risorse bisognerebbe utilizzare?

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NOTE DEL SETTIMO CAPITOLO

(1) Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, 16

(2) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1780

(3) Ibid., n. 1782

(4) Curia Generalizia, Fatebenefratelli e collaboratori, insieme per servire e promuovere la vita, #. 116

(5) Giovanni Paolo II, Vita consecrata, 1997, # 54.

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8.

CREARE IL FUTURO CON SPERANZA

8.1. Le sfide del presente

Nella riflessione sul futuro, più propriamente sul rapporto tra creatività e temporalità, dobbiamo registrare e superare una contraddizione: il tempo che vogliamo indagare non é uno spazio mentale astratto e lontano, ma é una determinazione del nostro presente.

È l’epoca in cui si vive che prepara il futuro: nei valori fondanti la nostra testimonianza risiede il seme dell’avvenire. Perché l’impegno e la testimonianza non devono essere continuamente trasferiti in un ipotetico futuro che ci priverebbe continuamente dell’assunzione delle nostre responsabilità presenti ed attuali.

Occorre entrare nel terzo millennio con il coraggio vocazionale e profetico di nuovi ruoli e di nuove testimonianze.(1) Nel mondo dell’Ospitalità, la speranza come annuncio di salvezza crea un possibile futuro solo se genera strutture di salute che accolgano l’uomo sofferente di oggi. Creare vuol dire istituire e promuovere processi in grado di fecondare il tempo in maniera da produrre iniziative fedeli al volere di Dio e ai segni in cui esso si manifesta nel tempo.

Creare in ospitalità significa generare e testimoniare costantemente un amore vivo, operante, costruttivo, per il fratello nel dolore. Fermarsi costantemente a progettare e pensare il futuro senza creare il NUOVO può mettere l’Ordine fuori dalla storia.

Il cambiamento epocale che stiamo vivendo ci impone di valutare e quindi scegliere e produrre concretamente le risposte più adeguate poste dal crescente pluralismo culturale, dal movimento dei diritti umani, dall’invecchiamento della popolazione, dalla crescita delle povertà vecchie e nuove, dal desiderio di pace e dal ridursi delle risorse economiche disponibili per la difesa dello stato sociale.

Come si dice in altra parte di questo documento, il dialogo bioetico si impone come parametro del nostro corretto agire religioso e professionale, proprio perché impone un punto di vista più universale al nostro comportamento ed alle nostre scelte, mirate sempre alla promozione dell’umanità dell’uomo.

L’uomo, come ha testimoniato San Giovanni di Dio, non é un oggetto insignificante nel panorama della natura, ma un punto di vista originale su tutta la creazione .(2) Per testimoniare il futuro orizzonte della nostra ospitalità dobbiamo considerare più a fondo le esigenze dell’uomo bisognoso collegando etica e spiritualità ad un’antropologia coerente.

Oggi, noi Confratelli e Collaboratori abbiamo il compito di essere profeti di speranza, di dignità del sofferente, di amore che viene spento dalla tecnica e dalle leggi del mercato che hanno penetrato il mondo della sanità e dell’assistenza.

Nel passato, in molte circostanze, abbiamo sostituito o anticipato l’ambito dello Stato: oggi dobbiamo entrare in questo ambito e nelle organizzazione di mercato con la cultura e lo spirito di San Giovanni di Dio a difesa del povero, degli anziani e dei cronici. L’Ordine deve realizzare un percorso che traduca l’insegnamento sociale della Chiesa, avvalendosi di tecnici competenti che lascino spazio alla creatività dell’amore e alla spiritualità dell’Ordine stesso.

Tutto questo potrebbe portare a ripensare la presenza dell’Ordine in alcune opere specifiche ma forse consentirà una rifondazione all’inizio di questo millennio.

Creare il futuro vuol dire entrare come lievito nella pasta dell’umanità rinunziando a restare muti osservatori al di qua delle nostre limitate finestre, scambiate spesso per la totalità del mondo.

Mandati ad evangelizzare il mondo sanitario, annunciamo che la salvezza é in mezzo a noi e si manifesta nell’accogliere Cristo nel fratello: ogni opera di ospitalità é segno di speranza per raggiungere la vera salute.

8.2. Forza profetica dell’ospitalità

Per vivere nella nuova ospitalità abbiamo bisogno di ridisegnare la nostra presenza nella sanità che cambia immettendoci in un movimento vertiginoso che rischia di distruggerci, a meno che non definiamo i nostri progetti e le strategie adeguate per realizzarli. Non si tratta di salvare delle “opere” ma di rendere possibile l’annunzio del Vangelo attraverso la pratica del Carisma di ospitalità quale servizio a Dio nei bisognosi. Dopo aver sentito tante invocazioni al cambiamento, oggi siamo chiamati ad andare oltre il cambiamento: dobbiamo avviare un processo destinato a reinventarci e reinventare l’Ospitalità.

Attendere o voler essere “perfetti” nel cambiamento significa non sentire Dio che pensa nella nostra storia personale e non solo nella storia delle nostre opere. Il tempo, il domani, non giocano a nostro favore se non viviamo con coraggio e con pienezza il nostro oggi.

La forza profetica, infatti, non si esprime semplicemente nella capacità di interpretare i segni dei tempi, ma anche e soprattutto nel saper andare oltre il presente e “leggere il futuro” secondo lo sguardo di Dio.

“Anche se il rinnovamento non é sparito dal lessico dell’Ordine e dai suoi progetti e viene auspicato e ricercato dai singoli e dalle Comunità, occorre che la sua necessità e i mezzi per la sua realizzazione vengano richiamati con maggiore forza”. (3)

Riflettere sul rinnovamento con spirito profetico ci fa pensare a tante cose sulle quali operare un discernimento. Rinnovare l’ospitalità significa offrire servizi di qualità per i bisogni umani, valutare correttamente le risorse economiche, considerare le esigenze di giustizia sociale, curare la formazione dei Confratelli e dei Collaboratori, adeguare le strutture organizzative.

Un vero sforzo di “formazione nuova” per i Confratelli e per i Collaboratori si impone come scelta prioritaria. Non si può più avere una formazione “provinciale”: occorre avere un respiro mondiale. E’ pertanto indispensabile una valorizzazione delle esperienze delle varie Provincie dell’Ordine, con interscambi culturali e pastorali per religiosi e collaboratori laici, per avere una nuova spinta, un nuovo entusiasmo, capaci di ispirare una nuova evangelizzazione ed una nuova ospitalità.

Ma tutto questo può non essere sufficiente a produrre un vero e proprio movimento di innovazioni durature. Perciò, ispirati da un vero amore per il nostro servizio carismatico non dobbiamo limitarci a semplici proposte correttive di situazioni che abbiamo trovato insufficienti o inadeguate. Dobbiamo andare alla radice dei problemi, rimettere in discussione ciò che costa maggiormente mettere in discussione, vale a dire noi stessi come persone, come Confratelli o come Collaboratori, la nostra mentalità, il modo di guardare la nostra comunità e i Centri da noi animati.

I Confratelli debbono costruire un tessuto nuovo comunitario nel quale il ruolo di “proprietari” delle opere sia equilibrato dalla funzione di “animatori”. Quindi, occorre che si aprano a una condivisione più convinta e coerente con quanti vogliono unirsi a loro con vincoli più stretti della pura e semplice collaborazione.

Il rinnovamento richiesto dalla nuova ospitalità, la re-invenzione della nostra esistenza in sanità consiste piuttosto nel ridisegnare non soltanto le strutture visibili ma anche quelle invisibili e quelle culturali. Dobbiamo pensare ad una trasformazione che permetta di mantenere nel tempo i miglioramenti indipendentemente dalle variazioni del contesto economico-sanitario esterno.(4)

Il fine ultimo della vita dei Fatebenefratelli é di fare presente nel loro apostolato di carità Cristo che li invita a impegnare l’esistenza nell’evangelizzazione dei poveri e degli ammalati. (5) Alla luce della nuova evangelizzazione, la Chiesa li invita a verificare:

- se il loro apostolato ha in tutte le sue espressioni una autentica valenza evangelizzatrice;

- in quale misura le comunità nella loro azione apostolica sono coscienti del loro ruolo evangelizzatore;

- fino a che punto i singoli si percepiscono e si apprezzano nella loro dimensione di testimoni del Vangelo;

- in quale misura sanno essere animatori motivati, fondati nel Vangelo ma nello stesso tempo sensibili alle scienze umane e organizzative;

- fino a che punto sono riusciti ad armonizzare la dimensione apostolica e la dimensione contemplativa nella loro vita.

In ultimo, è importante che riscoprano il senso di gioia che circonda il profeta entusiasta di aver scoperto il senso della sua chiamata: “Mi hai sedotto, o Dio, ed io mi sono lasciato sedurre!”. (Ger 20, 7)

La partecipazione condivisa della gestione, della testimonianza, della missione o della spiritualità si rivela il passaggio obbligato per realizzare il ministero di salute e salvezza che annunciamo profeticamente all’umanità sofferente.

Dobbiamo convincerci nella pratica delle cose concrete che la soluzione partecipativa coinvolge le persone e impone la revisione del sistema gerarchico che spesso ha condizionato i rapporti tra Collaboratori e Confratelli, e anche tra i Confratelli stessi.

La partecipazione deve tracciare un suo itinerario che investa sia gli aspetti culturali e di comunicazione, sia quelli organizzativi e avvia alla maturazione di più moderne relazioni nell’azienda-ospedale e nella comunità ospedaliera.

Ciò vuol dire sottomettersi tutti ad un confronto costante sui problemi concreti quali la produttività, il miglior uso delle strutture tecniche, la qualità del lavoro e del servizio, il riconoscimento della centralità dell’uomo malato. La soddisfazione del paziente va cercata in tutti i modi con la stessa intelligenza e costanza con cui va cercata la creazione di un ambiente di lavoro soddisfacente.

La partecipazione può accrescere la soddisfazione degli operatori e degli utenti se viene sostenuta dallo sviluppo professionale, da un sistema retributivo più vicino alle modalità partecipative, da un’attenta cura della formazione spirituale di tutti il fedeltà al carisma dell’ospitalità.

Ma, ancor di più, su un altro piano, la partecipazione comporta un’informazione più diffusa e una comunicazione più interattiva di quanto non sia stato fatto finora.

8.3. Vitalità umano-divina del carisma dell’ospitalità

Nulla può garantirci il successo nelle sfide future o di mantenere le eventuali conquiste se non l’Uomo radicato nella fiducia al Padre. Si può investire su tutto, ma se gli uomini non sono all’altezza non c’è niente da fare. nella risposta convinta e integrale alla chiamata di Dio noi coinvolgiamo tutto il nostro essere e tutte le nostre risorse nel servizio all’umanità.

In questo, il carisma di ospitalità é grazia riversata per mezzo nostro sugli uomini sofferenti e ci impegna a diventare guide morali Essere guide morali impone una coerenza di vita nei comportamenti quotidiani, nell’espletamento dei nostri compiti, nella nostra opera di evangelizzatori positivi e propositivi nel mondo sanitario.

Radicati nella fedeltà a Cristo uomo-Dio salvatore dell’uomo, noi dobbiamo costruire le opportunità perché sia rispettata la dignità umana, riconosciuto il senso e il destino trascendente di ogni uomo.

Emerge qui la dimensione spirituale, più propriamente teologica del nostro carisma. La vitalità umana del carisma, il visibile del nostro stile, deve essere una manifestazione dell’invisibile del nostro legame con Dio. Dal modo in cui riconosciamo e connotiamo la figura di Dio e il “senso” della sua funzione nella storia, nella natura, nell’esistenza degli uomini, noi determiniamo il Suo ruolo nella nostra vita personale.

Il modello di azione apostolica che dobbiamo formulare ed attuare deve trovare il suo fondamento nella teologia del servizio. Infatti, se la nostra scelta vocazionale é orientata al sollievo della sofferenza, noi dobbiamo determinare qual é il nostro modo di concepire tale compito come un preciso servizio reso a Dio. Sta scritto, infatti:

“Quando verrà il Figlio dell’uomo nella sua maestà…allora il Re dirà a quelli che sono alla sua destra: venite, benedetti dal Padre mio, prendete possesso del Regno preparato per voi sino dalla creazione del mondo. Perché ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui pellegrino e mi albergaste; ero nudo e mi rivestiste; infermo e mi visitaste; carcerato e veniste a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti vedemmo infermo o carcerato e siamo venuti a visitarti? E il Re risponderà loro: «in verità vi dico: ogni volta che voi avete fatto queste cose a uno dei più piccoli di questi ieri fratelli, l’avete fatto a me»”. (Mt 25, 31-40)

Ma ciò che secondo il Vangelo appariva così istintualmente vicino alla mentalità della Chiesa primitiva, in seno alla quale nascono i Vangeli – lo spirito comunionale e il vivo senso della testimonianza – é più difficile da attuare nell’era moderna. Perché la nostra visione del mondo, la cultura moderna, ci hanno portato ad escludere la vitale dipendenza divina e trascendente delle cose terrene.

Quindi é necessario rivedere i nostri procedimenti di pensiero e di azione, per poter trasformare la nostra esistenza di Confratelli e di Collaboratori, ed essere veramente “trasparenti”, vivi testimoni dell’amore misericordioso.(6)

È dunque improrogabile la fondazione di un nostro modello efficace di teologia del servizio: il concetto di servizio é al centro della tradizione cristiana.

Nell’immensa complessità della società contemporanea, la ricerca di un modello di teologia del servizio deve essere compiuta quasi distaccandoci dalle abitudini dottrinali, come per un salto rischioso che ci porti alla invenzione di qualcosa di nuovo. Siamo chiamati a ripensare in maniera nuova la relazione fondamentale e fondante, sempre particolare tra la fede cristiana e le forme del servizio religioso, politico o intellettuale rese al mondo dalla prassi sociale cristiana.

Occorre un coraggio nuovo per rischiare questa apertura a doppia uscita che comprenda in un unico movimento sia Dio, il totalmente altro e l’uomo del tutto simile a noi. Una teologia dunque, centrata sull’ospitalità di Dio nell’uomo, e dell’uomo nell’uomo. Soltanto in questa rischiosa apertura, come una splendida avventura, potrà fondarsi il nostro servizio.

Così il malato, il sofferente e il bisognoso diventa per la fede in Dio, una sorgente di vita. Fare posto all’altro, esercitare il carisma dell’ospitalità significherà in certo qual senso, cedere il posto all’altro e farlo vivere con noi e in noi.

Tradurre in operosità questi principi o questi rischi avventurosi cambierebbe e rivoluzionerebbe il nostro essere, daremmo una testimonianza che potrebbe affascinare i giovani della nostra epoca e darebbe ai nostri centri una caratteristica propria che il nostro fondatore volle per il suo ospedale.

Atteggiamento di semplice disponibilità, ma anche lotta per offrire un posto “agli altri” nella nostra preghiera, nelle nostre parole, nell’esercizio concreto delle nostre professioni, nell’accoglienza, nell’assistenza e nell’accompagnamento dei malati e dei bisognosi.

E così l’ospitalità diventa luogo teologico in cui Dio che ci ha accolti da sempre e ispira gesti di ospitalità che Lo facciano sentire accolto negli uomini e Lo rendano presente al mondo.

 

Per la riflessione:

1) Quali segni attuali ci fanno guardare al futuro con timore?

2) Quali segni attuali ci fanno guardare al futuro con speranza?

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NOTE DELL’OTTAVO CAPITOLO

(1) Una prima traccia é stata indicata nel documento dell’Ordine Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000, trasmesso ai Confratelli nell’aprile 1987.

(2) Cfr. Seconda lettera di San Giovanni di Dio alla Duchessa di Sessa.

(3) LXIII CAPITOLO GENERALE, La Nuova Evangelizzazione e la Nuova Ospitalità alle soglie del terzo millennio, Bogotá, 1994, # 3.3., ultimo paragrafo.

(4) Tutta la carica propositiva di queste parole é contenuta nella pagina conclusiva del documento La Nuova evangelizzazione e nuova ospitalità alle soglie del terzo millennio, Op. Cit., 5.6.

(5) Cfr. Costituzioni n. 41

(6) Cfr. Costituzioni n. 2

(7) GIOVANNI PAOLO II, Redemptor Hominis, 1979. Vedi anche Vita Consacrata: ‘La vita consacrata epifania di Dio nel mondo’; n.73: Al servizio di Dio e dell’uomo.

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