FERDINANDO MICHELINI E IL CASTELLO DI MONGUZZO

 

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Il Complesso del castello di Monguzzo, uno dei più antichi ed importanti della brianza sorge sopra un colle isolato (Mons Acutus) sopra a Monguzzo, a pochi chilometri da Erba Incino, scendendo alla stazione di Merone, ttraversando la ferrovia e la strada Valassina.

 

Eretto attorno al 920 D.C. , passato dapprima in possesso di vari casati Nobiliari e Reggenti , ed usato dapprima come fortezza, prigione ed infine abitazione, dal 1946 il Castello fù donato per lascito alla Provincia Lombardo Veneta dell’Ordine Ospedaliero S.Giovanni di Dio che, secondo il volere della sua testatrice (l’ultima proprietaria Leonilde Trussardi), ha adibito a Centro Studi Ospedalieri e luogo di Congressi e Convegni di carattere scientifico, sanitario e religioso.

 

 

LA STORIA 

 

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LA COSTRUZIONE

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Le fondamenta del castello di Monguzzo, paese non lontano da Erba, secondo alcuni storici, furono gettate probabilmente intorno all’anno 900.

Per far fronte alle invasioni barbariche, il re Berengario dispose la costruzione di appositi fortilizi sulle alture, per potersi difendere: fra questi anche Monguzzo, che inizialmente non era che una semplice rocca.

Nel 920 al castello furono assegnate le terre che scendevano verso il lago e nello stesso anno Berengario concesse in privilegio, tra le altre, la corte di Calpuno (di cui facevano parte Monguzzo ed il castello) ai Canonici di San Giovanni in Monza.

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I VISCONTI

 

Intorno al 1250, essendo stati revocati i cosiddetti “privilegi”, anche il feudo di Monguzzo passò dai canonici di Monza alla Camera Ducale.

I Visconti, impadronitisi del Ducato di Milano, in segno di riconoscenza per i servizi prestati, donarono alla famiglia veronese Dal Verme varie terre (tra cui Monguzzo). Il possesso venne confermato anche dagli Sforza.

Alla morte di Taddeo Dal Verme, avvelenato dalla seconda moglie Chiara Sforza, figlia del Duca Galeazzo Maria e nipote di Ludovico il Moro, Monguzzo, con tutte le proprietà dei Dal Verme, tornò al Duca di Milano.

Ed è a Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, che il 27 marzo 1487, “quale stipendio a lui dovuto da ogni retro”, fu destinato il feudo di Monguzzo.

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IL MENEGHINO

 

 

Nel 1527, però, il castello passò nelle mani del ben noto avventuriero Gian Giacomo Medici, detto il “Medeghino”, che già con la frode aveva occupato la roccaforte di Musso nel 1523, divenendo signore di un vastissimo territorio comprendente le Valli intorno al lago di Como, e divenne una vera roccaforte.

Ma per il funzionamento del castello ed il mantenimento e le paghe dei soldati il Medeghino ricorse ad ogni mezzo: tasse, razzie, taglie, sequestri, esazioni, imposti con la forza ai conventi, ai proprietari, ai comuni. Ed a chi non pagava era riservata la prigione. Per scacciarlo, si dovette combattere sotto le mura del castello. Il primo tentativo fu compiuto dal conte Ludovico Belgioioso – mandato dal Leyva, capitano generale delle truppe spagnole residenti nel ducato – che, dopo vari assalti risultati infruttuosi, abbandonò l’impresa.

Tra il 1530 ed il 1531 il castello fu assalito dalle truppe spagnole e sforzesche, condotte dal capitano Alessandro Gonzaga e dal Commissario ducale Battista Carcano, e dal Bentivoglio.

 

Il Medeghino, però, aveva abbandonato il castello e vi aveva messo a difesa l’eccellente capitano Pellizzone, che si oppose strenuamente, ma, per la scarsità di uomini, la mancanza di viveri e di munizioni, alla fine dovette cedere e nottetempo abbandonare il castello con i suoi soldati.

 

Per gli abitanti della zona non cessarono, tuttavia, i soprusi e le angherie: le soldatesche spagnole non erano da meno di quelle del Medici. Fu, comunque, questo il periodo di maggior notorietà del castello di Monguzzo.

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GLI ANNI SUCCESSIVI

 

Il castello ritornò di proprietà dei Bentivoglio, i quali iniziarono a venderne i possedimenti a varie famiglie. Risulta, tuttavia, da un documento del 29 dicembre 1596 che feudatario del castello di Monguzzo è il marchese Gabriele Ferrante Novati (a cui fu ceduto nel 1564 da Ermes Bentivoglio): i Bentivoglio spariscono ormai di scena.

In questo periodo il castello è ancora ben fortificato. Ma il Governo spagnolo tolse la proprietà ai Novati, ed i possedimenti di Monguzzo passarono alla famiglia Rosales che, sebbene fosse stata loro ceduta la proprietà fin dal 1664, per le lunghe controversie sia con i precedenti proprietari sia con il fisco, potè entrare in possesso del castello solo nel 1751.

Il castello riprese importanza durante questo periodo a motivo delle riunioni che qui tenevano i signori della Brianza aderenti alla Carboneria, ed in particolare i mazziniani.

Il castello, unitamente ai beni del paese, vennero, poi, acquistati dal conte Sebastiano Mondolfo, “noto per la sua carità ed ingegno”, ed è ad una sua erede, la Nobildonna Enrichetta Lodigiani, che gli stessi risultano appartenere nel 1880.

Il castello o, meglio, quello che era rimasto del castello, fu acquistato nei primi decenni del 1900 dagli eredi del Mondolfo dal senese Cav. Ferruccio Benocci che si adoperò molto per restaurare sia il complesso del castello che l’ampio parco.

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I FATEBENEFRATELLI

 

Lasciato disabitato per un certo periodo, dopo la sua morte, esso fu, poi, dalla moglie Signora Leonilde Trussardi donato alla Provincia Lombardo-Veneta dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, Fatebenefratelli, perchè fosse adibito a Centro Studi Ospedalieri e per manifestazioni di carattere ospedaliero e religioso.

Nel 1970 i Fatebenefratelli affidarono all’arch. Fernando Michelini il compito di provvedere alla sistemazione ed al restauro del castello e delle sue pertinenze, in modo da renderlo adeguato allo scopo prefisso dal lascito. I lavori durarono poco più di due anni e nel 1972, alla morte della Sig.ra Trussardi, l’opera di ripristino e di abbellimento era interamente conclusa.  Il castello, il castelletto e la pusterla come sono attualmente sono il risultato di tali lavori.

Da allora nel castello ed anche nel parco, oltre ai Capitoli Provinciali dell’Ordine, sono stati ospitati numerosi eventi di carattere culturale (convegni, congressi, corsi di aggiornamento, manifestazioni varie), religioso (esercizi spirituali, giornate di preghiera…) e sociale (incontri per giovani, anziani… organizzati da enti locali).

 

 

Domenica 7 settembre 1997 per la prima volta è stata anche sperimentata, con grande successo e gradimento, su iniziativa del Comune di Monguzzo, una giornata di apertura al pubblico, che ha visto una partecipazione di persone notevolmente superiore al previsto. Tale manifestazione, organizzata dalla Pro Loco, si è poi ripetuta annualmente.

 

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IL QUADRO

 

 

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IL PITTORE: Giovanni Moroni Battista

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Nato ad Albino presso Bergamo , morì a Bergamo il 5 feb-braio 1578.
“Inviato giovanissimo nella bottega del Moretto a Brescia, trasse elementi determinanti per la sua formazione, tutta riconducibile al Savoldo, al Moretto, e al Romanino” .

La grande fama del Moroni sta nel ritratto in cui riuscì sommo. Pochi artisti sono arrivati a ripro-durre i caratteri fisionomici con tanta verosimiglianza e tanta vitalità. I ritratti del Moroni sembrano persone di conoscenza delle quali si potrebbe definire la posizione sociale, il genere di vita, il modo di pensare e di sentire. Tiziano stesso induceva i go-vernatori veneziani residenti a Bergamo a non mancare di farsi ritrarre dal Moroni.

Questi fece molti ritratti di figura intera dietro l’esempio del Moretto, sebbene in quel tempo ciò non si usasse se non rarissimamente e per grandi personaggi.

Ricordiamo i ritratti di Bernardo Spina e di Pace Rivola Spina , quello di Isotta Brembati ; a Firenze, agli Uffizi, il ritratto del conte Secco Suardo (1563); a Milano, quello di un cavaliere (1554); a Londra, alla National Gallery una dama seduta e due gentiluomini in piedi, a Vienna (lo Scultore), a Londra (il Sarto), a Dublino (Vedovo con due bambini).

 

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IL QUADRO

 

Il quadro raffigurerebbe – ma non è certo – Gian Giacomo Medici, il “Medeghino”, ritratto a mezza figura. Il Medeghino (o un noto personaggio o signore di quel periodo) è un uomo cui può essere attribuita una età tra i 50 ed i 60 anni.

Ha barba e baffi: la barba sulle guance è ancora rossiccia, mentre quella sul mento ed i baffi hanno cominciato ad imbianchire, segno dell’avanzamento dell’età.

I capelli un po’ ondulati, invece, mantengono il loro colorito rossiccio. La fronte è spaziosa ed è già un po’ stempiata. Il naso è un po’ adunco, ma ben proporzionato.

Quello che caratterizza il personaggio e lo definisce sono gli occhi. Paragonati a quelli di un uccello rapace può sinteticamente rendere l’idea di come siano e chi sia l’uomo. Sono occhi vivaci, penetranti, furbeschi, ma non direi che facciano intravedere un uomo crudele, violento e sanguinario.

Questo ritratto non è certo noto come quei tanti altri che sono esposti in musei oppure sono stati esposti in occasione di mostre. Ma questo non vuol dire che non sia significativo. Esso, infatti, rispetta appieno le caratteristiche ritrattistiche proprie del Moroni, dipinto com’è “con verosimiglianza fisionomica, grande vitalità e corposa consapevolezza della vita individuale” .

Il quadro è custodito nel museo fatebenefratelli non essendo più osservabile presso il castello ne rappresenta sempre la parte più tangibile della sua storia.

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IL SOGGETTO: Giacomo Medici

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Nato nel 1497, discendente della famiglia dei Medici Nosigia di Milano, detto il Medeghino, morì l’8 novembre 1556.

Iniziò la sua carriera come pirata sul lago di Como, poi al servizio di Carlo V° come generale, combattè per Cosimo I° Medici occupando Siena. Sposò Marzia Orsini, figlia di Luigi Conte di Nola e vedova dal 1537 di Livio Attilio di Bartolommeo d’Alviano.

Gian Giacomo Medici occupava paesi, invadeva le valli, percorreva da padrone il lago di Como ed il ramo del lago di Lecco, imponeva tasse, spaventava famiglie e persone, rubava quello che gli era necessario.
A Milano il ducato era stato ridato nelle mani di Francesco Sforza II°, mediante i patti della Pace di Bologna del 23 dicembre 1529 e il Duca si trovò a dover affrontare anche la questione del lago di Como.

 

I successi di Gian Giacomo si mutarono presto in una serie di disastri: la morte del fratello, Gabriele; la perdita in battaglie di parecchi amici fidati; la progressiva mancanza di soldi; la resistenza delle famiglie potenti del lago; la privazione di nuove armi e munizioni.Gian Giacomo trattò per ottenere una soluzione non svantaggiosa e per liberare i fratelli Giovanni Angelo e Giovanni Battista, che si trovavano ostaggi nel castello di Milano.

Il fiero Gian Giacomo si arrese e il duca Francesco Sforza II° investì Gian Giacomo come marchese di Melegnano.

Giovan Battista Moroni

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

« Tuttavia quel Moron, quel Bergamasco
per esser gran pittor bravo e valente,
El vogio nominar seguramente
che de bona nomea l’ha pieno el tasco;

Ghè dei ritrat, ma in particolar
quel d’un sarto sì belo, e sì ben fato
che ‘l parla più de qual si sa Avocato,
l’ha in man la forfe, e vu ‘l vede’ a tagiar

O in pitura Pitor, che carne impasta
o Bergamasco pien d’alto giudizio
più di così ti non puol far l’offitio:
Ti è Batista Moron, tanto me basta.

Marco Boschini, La carta del navegar pitoresco, Venezia, 1660 »

Il Sarto

Il Moroni, formatosi presso il Moretto, da cui riprende l’intonazione severamente Già Carlo Ridolfi, ne Le maraviglie dell’arte, del 1648, definiva “eccellenti” e “naturali” i personaggi ritratti dal Moroni, volendo indicare lo scrupolo dell’esatta riproduzione dell’effigiato, senza concessioni ad abbellimenti e piaggerie, come del resto il cardinale Paleotti, nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e profone del 1582 aveva prescritto, scrivendo che

“…si dovrà curare che la faccia od altra parte del corpo non fosse fatta più bella o più grave da quella che la natura in quell’età ha conceduto, anzi, se vi fossero anco difetti, o naturali o accidentali che molto la deformassero, né questi s’avriano a tralasciare…”.

Era questa la determinazione assunta dal Concilio di Trento, che accoglieva, una volta tanto, la scelta nordica e protestante del naturalismo, opposta alla tradizione celebrativa del ritratto italiano.

Il Moroni resterà sempre fedele a questa sua convinta adesione naturalistica, non limitandosi alla caratterizzazione individuale ma ricercando una verità umana più profonda, fino a trasmettere la verità morale e sociale del personaggio rappresentato. Nel ritratto della poetessa aristocratica Isotta Brembati, per esempio, tra i primi del pittore, dove si sono rilevati influssi dei nordici Franz Pourbus e Anthonis Mor, alla ricchezza dell’abito e dei gioielli si unisce la fermezza dello sguardo che non è interpretabile soltanto come alterigia di un elevato stato sociale ma anche come certezza di un consapevole valore intellettuale.

Impavidum ferient ruinae, “le sventure mi colpiranno impavido” è scritto nel Ritratto di Michel de L’Hōpitdevozionale nei dipinti di soggetto religioso, è famoso soprattutto per la sua attività di ritrattista, con dipinti che possono essere definiti «ritratti in azione», presentando personaggi nell’attimo in cui stanno compiendo un gesto, in modo da evitare l’aridà fissità del ritratto ufficiale.

 

Biografia

Sono scarse le notizie sulla sua vita: nasce da Francesco di Moretto, capomastro e a volte anche progettista, attivo tra Bergamo e Brescia, e da Maddalena Brigati, in una famiglia collaterale a quella, di mercanti e possidenti, che darà poi origine alla dinastia dei conti Moroni di Bergamo. Non è nota l’esatta data della sua nascita: un documento del giugno 1549, citandolo come titolare di una procura da parte del padre – per cui doveva aver compiuto già venticinque anni – e tenendo conto della sua attività di pittore indipendente, iniziata verso il 1547, la farebbe risalire intorno al 1522.

La sua formazione artistica inizia, verso la metà degli anni Trenta, nella bottega bresciana del Moretto, frequentata ancora nel 1543, come testimonia un suo disegno preparatorio alla pala morettiana della Madonna e i santi Gerolamo, Francesco e Antonio nella chiesa di San Clemente di Brescia. Un documento del 1549 cita una collaborazione tra il Moretto e l’ormai emancipato allievo che operava già a Trento verso il 1547, durante il Concilio, a contatto con la corte del Principe vescovo Cristoforo Madruzzo; è anche a Orzivecchi e nella sua Albino, per affrescare Palazzo Spini.

È operoso a Bergamo per tutti gli anni Cinquanta, che segnano la maggior fortuna dell’artista, come attestano i numerosi ritratti di esponenti dei circoli aristocratici, intellettuali e politici, spagnoleggianti e neofeudali, della città.

Dagli anni Sessanta la fortuna del Moroni declina di colpo per un decennio, sia per la caduta in disgrazia della più potente, insieme con quella dei Grumello, famiglia bergamasca, gli Albani – allontanata dalla città a seguito di vicende criminose – sia per le nuove tendenze, in materia di arte sacra, della locale Curia, la cui ostilità gli preclude l’accesso alle committenze della nobiltà cittadina, subito adeguatasi al nuovo clima culturale; pur essendo il Moroni il pittore più valido di tutta la provincia, a Bergamo le committenze importanti vengono infatti riservate a modesti pittori, oggi pressoché dimenticati, come un Gerolamo Colleoni o un Troilo Lupi, e così Moroni deve limitarsi a ritrarre personaggi della provincia bergamasca di mediocre condizione sociale, come un Mario Benvenuti, capitano di milizie mercenarie, Simone Moroni, Bernardo Spini, un Sarto, del mercante albinese Paolo Vidoni Cedrelli o di un agricoltore di Albino suo vicino di casa, e a eseguire pale d’altare per parrocchiali di piccoli borghi, percependo compensi ridotti, spesso dilazionati e a volte persino in natura. Tuttavia sembra essersi ben adattato alla nuova condizione, che dovette essere comunque abbastanza redditizia se poté acquistare terreni, essere membro dell’albinese Fraternita della Misericordia e ottenere l’incarico di Console di Albino nel 1571.

Ma il Moroni ottiene un’improvvisa rivalutazione a Bergamo, ai primi anni Settanta, grazie al ritorno, da cardinale, del suo vecchio mecenate Gian Gerolamo Albani, che l’artista ritrae in uno dei suoi migliori dipinti.

Negli Atti della visita pastorale del cardinale Carlo Borromeo, avvenuta nel 1575, è attestato l’apprezzamento delle sue tele da parte del più influente propagandista della Controriforma come è attestato altresì il mutamento degli indirizzi curiali nella commissione delle pale d’altare, affidate ad artisti, come il Cavagna, lo Zucco e poi Enea Salmeggia, che si ponevano coscientemente sulle tracce del Nostro, il quale tuttavia ebbe poco tempo di godere del ritrovato interesse per la sua pittura, essendo venuto a mancare pochi anni dopo.

 

I ritratti

   

Ritratto di Giovanni Pietro Maffeis, Vienna, Kunsthistorisches Museum

al del 1553, per indicare l’integrità del personaggio, ripreso in una posa ferma e molle insieme, quasi a sottolineare la rigorosa duttilità del diplomatico francese. Il dipinto mostra il recupero dei modelli italiani, tanto nell’impostazione che richiama l’Avogadro del Moretto, del 1526, quanto per il naturalismo meno pungente, più adeguato allo spirito dell’aristocrazia lomdarda. Un’aristocrazia, quella ritratta dal Moroni, provinciale e da poco giunta al potere che ha perciò bisogno di giustificarsi e di acquisire autorevolezza, se non attraverso inesistenti glorie di antenati, almeno da una dignità culturale e morale che si costruisce e si cautela anche con i richiami, attraverso sfondi in rovina ed espliciti sentenze letterarie, con l’inesorabile procedere del tempo che, come esalta il successo e il privilegio, egualmente lo può dissolvere. Tali riferimenti non possono essere pertanto essere interpretati soltanto come un accoglimento delle esigenze borromee dell’austerità della rappresentazione pittorica.

Ma accanto alle figure aristocratiche compaiono nella ritrattistica moroniana i borghesi, letterati, mercanti e artigiani; questi ultimi, come il famoso Sarto della londinese National Gallery, databile intorno al 1565, sono l’esempio della serietà morale del Moroni, “un quadro come Il sarto è un fatto importante non solo nella storia dell’arte, ma in quella della società italiana: il bravo artigiano, che si è fatta una situazione civile, è ritratto nell’atto di tagliare la stoffa sul bancone e l’espressione del gesto e del volto è seria e pensierosa come quella del gentiluomo che legge le sue lettere o del letterato che interrompe per un momento la lettura e riflette. Essere per sé ciò che si è per gli altri, conoscersi e darsi a conoscere: questo è il principio dell’etica borghese di cui il Moroni è l’interprete nei suoi ritratti lucidi, veritieri e onesti” (Argan).

 

La pittura sacra

Devoto in adorazione della Madonna e del Bambino, Washington, National Gallery

Se, in particolare nelle giovanili opere sacre, il Moroni si vale dei modelli del maestro Moretto, la sostanza della sua pittura religiosa mostra la sua attenzione ai primi dibattiti nel Concilio di Trento, ancora volti alla ricerca di un canone comune di cattolici e protestanti dell’immagine religiosa. Così si giustificano le pale di Orzivecchi e di Trento e il Redemptor Mundi dell’Accademia Carrara. Ma del tutto originali sono la Coppia in adorazione davanti alla Madonna col Bambino e San Michele di Richmond o il Devoto in contemplazione del Battesimo di Cristo dove sono stati rilevati riferimenti agli insegnamenti di Ignazio di Loyola, noti a Bergamo dal 1551 – “la composizione consisterà nel vedere, con la vista dell’immaginazione, il luogo fisico dov’è quel che voglio contemplare”.

Nell’”esilio” ad Albino negli anni Sessanta, se si accentuano le notazioni veristiche e l’atteggiamento devozionale che doveva essere o ritenere particolarmente caro ai semplici abitanti delle valli bergamasche, si volge tanto all’oratoria sacra gradita dal Borromeo quanto alle tipologie della sacra rappresentazione, inventando infine “un modulo catechistico e didascalico di pala sacra quale si affermerà solo con Ludovico Carracci: che è l’esatto contrario del preteso prevalere della ragion pigra e rivela una partecipazione vigile e sensibile – da intellettuale – a un dibattito non ancora pienamente formato” (Rossi, 1991).

Non dunque una semplicità di costruzione dell’immagine che si risolva in arcaismo bigotto, tanto che lo splendido Crocefisso con i santi Bernardino e Francesco della chiesa di San Giuliano ad Albino, “iconam pulchram” per Carlo Borromeo, – i due santi sono inginocchiati ai piedi del Crocefisso, in un paesaggio scuro e boscoso, carico di nubi, ma il perizoma di Cristo si accende improvvisamente d’arancione e svolazza nell’aria ferma, con un effetto d’estraniamento – resta pienamente naturalistico per essere meglio fruibile dalle esigenze della devozione.

Nella Madonna in gloria e le sante Barbara e Caterina nell’altare maggiore della chiesa di Santa Barbara a Bondo di Albino, riprende lo schema piramidale del Moretto, con la Madonna che si richiama alla Madonna Sistina di Raffaello, ma le sante sono vestite d’abiti moderni, per mostrare l’attualità del messaggio cristiano, e Barbara guarda verso l’osservatore a far da tramite con l’oggetto devozionale.

Nella Deposizione di Cristo, del 1566, commissionata dall’Ordine degli Zoccolanti per la chiesa di Santa Maria delle Grazie a Gandino, si vuole vedere una messa in scena da sacra rappresentazione, ove la rigidità del corpo di Cristo simulerebbe le statue lignee da processione. “Si dirà che qui la Controriforma sillaba parole di catechismo… Gli è che a sillabarle risulta la gente, la più povera gente e l’orazione che ne esce, giusto come il dolore, attinge nella sua umiliata, marmorea fissità, la grandezza di una fede neobiblica…” (Testori, 1978)

Resta il problema di come il Moroni, residente ad Albino negli anni Sessanta, sia stato così puntuale e consapevole dell’orientamento verso la rappresentazione dell’immagine di devozione, dato che le procedure normative, in materia artistica, del Concilio di Trento, concluso nel 1564, procedono dal 1573: si pensa a una “frequentazione di poeti moralisti come Publio Fontana ed Ercole Tassi o di prelati ortodossi come Basilio e Gian Grisostomo Zanchi, o infine di preti albinesi colti e di antica frequentazione romana come Simone Moroni…resta il fatto che per tutti gli anni Sessanta, le sue idee de pictura sacra – devozionale, didascalica, oratoria – non furono affatto condivise dalla Curia di Bergamo, che ne accetterà i moduli solo dopo il decisivo intervento di san Carlo Borromeo nel 1575. Solo allora, negli ultimi tre anni di vita, il Moroni potrà vedere le sue opere accolte con onore nel capoluogo…e si direbbe, visto il carattere tutt’altro che innovativo degli esiti ultimi, che il nuovo clima…gli risultasse estraneo: e questo è il suo singolare destino di pittore sacro, a mezzo tra la rimeditazione realistica di Caravaggio e l’eloquenza oratoria di Ludovico Carracci, tra natura e norma” (Rossi, 1991)

È infatti un fallimento, non essendo nelle sue corde la magniloquenza drammatica, l’ultima opera, lasciata incompiuta e ultimata dopo la sua morte da Giovan Francesco Terzi nel 1580, il Giudizio Universale della parrocchiale di Gorlago, ispirato al capolavoro di Michelangelo ma concepita secondo le Instructiones del cardinal Borromeo.

 

Antologia critica

“La pittura grigia del Moroni, i suoi fondi segati dalla diagonale dell’ombra, la sua secchezza pur sempre dipinta, i suoi bianchi tra gessosi e cinerei, sono tutt’altro che in contrasto col Caravaggio, massime coi suoi esordi. La Maddalena Doria siede nello stesso ambiente, ridotto ma traslucido e schietto, su cui già fondavano parecchi dei ritratti femminili del Moroni. D’altronde, anche nelle sue composizioni sacre – lasciando stare i molti casi in cui si limitò a plagiare il Moretto – ebbe il Moroni talvolta di mira una semplicità che non è soltanto arcaismo o impoverimento bigotto. Brani eccellenti e nuovi sono nella Cena ultima di Romano; nella pala di Parre, il San Paolo, in quello stupendo profilo perduto, va, oltre il Moretto, verso il Caravaggio…” (Longhi, 1929)

Il maestro di scuola, Washington, National Gallery

“Come nel periodo romantico avvenne che un artista, per la via del ritratto lasciasse a poco a poco le lindure accademiche, ogni giorno rinnovandosi all’osservazione continua di uomini e cose, così nel furoreggiar manieristico il Moroni, osservando e penetrando i suoi svariati clienti del castello, della piazza e del monastero, lasciò le trame abusate del Moretto, i giochi coloristici e i cangiantismi dei manieristi, per guardare con occhi limpidi la verità della vita” (Venturi, 1929)

“La rappresentazione religiosa …è nel Moroni caratterizzata dalla più assoluta assenza di problematicità: è…un’enunciazione tematica della massima semplicità e ortodossia. Il termine realismo religioso a proposito del Moroni non è stato usato, ma esso si presenta con immediatezza alla mente…l’assenza stessa della tensione problmatica, che per contro nella pittura religiosa del tempo costituisce l’essenza del manierismo, fornisce queste opere di uno speciale carattere” (Spina, 1966)

“Non c’è dubbio che nei confronti del Buonvicino e degli altri maestri della generazione precedente interessati al fenomeno liministico, la qualità e la funzione della luce sono nel Moroni notevolmente diverse, nel senso che essa è ormai un’entità di cui lo sguardo del pittore, con un rigore intellettuale e selettivo che si esplica anche nell’indagine della realtà, scopre la presenza, ponendola in evidenza nel contesto. Tali risultati rappresentano un passaggio obbligato che si approssima stringentemente…alla visione del Caravaggio” (Gregori, 1979)

Il Savoldo “…studiò degli scorci che, quasi come le coeve anamorfosi (anche se ottenute per via empirica e con una pratica che è all’opposto dell’artificio manieristico) richiedono…uno sforzo di lettura ma che alla fine son ben decifrabili…indica la ricerca di un nuovo metodo trasgressivo di rappresentazione scorciata sulla base di un’indagine diretta ed empirica, quale si addiceva all’approccio al naturale dipingendo senza disegno” (Gregori, 1991)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

One Response to “FERDINANDO MICHELINI E IL CASTELLO DI MONGUZZO”

  1. [...] Il castello ritornò di proprietà dei Bentivoglio, i quali iniziarono a venderne i possedimenti a varie famiglie. Risulta, tuttavia, da un documento del 29 dicembre 1596 che feudatario del castello di Monguzzo è il marchese Gabriele Ferrante Novati (a cui fu ceduto nel 1564 da Ermes Bentivoglio): i Bentivoglio spariscono ormai di scena. In questo periodo il castello è ancora ben fortificato. Ma il Governo spagnolo tolse la proprietà ai Novati, ed i possedimenti di Monguzzo passarono alla famiglia Rosales che, sebbene fosse stata loro ceduta la proprietà fin dal 1664, per le lunghe controversie sia con i precedenti proprietari sia con il fisco, potè entrare in possesso del castello solo nel 1751. Il castello riprese importanza durante questo periodo a motivo delle riunioni che qui tenevano i signori della Brianza aderenti alla Carboneria, ed in particolare i mazziniani. Il castello, unitamente ai beni del paese, vennero, poi, acquistati dal conte Sebastiano Mondolfo, “noto per la sua carità ed ingegno”, ed è ad una sua erede, la Nobildonna Enrichetta Lodigiani, che gli stessi risultano appartenere nel 1880. Il castello o, meglio, quello che era rimasto del castello, fu acquistato nei primi decenni del 1900 dagli eredi del Mondolfo dal senese Cav. Ferruccio Benocci che si adoperò molto per restaurare sia il complesso del castello che l’ampio parco. I FATEBENEFRATELLI (http://compagniadeiglobulirossi.org/blog/2009/11/ferdinando-michelini-e-il-castello-di-monguzzo) [...]

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