L’INTESA CON DIO – Romano Guardini

L’INTESA CON DIO (Audio 9)

Abbiamo parlato della coscienza e abbiamo cercato d’intenderla come la conoscenza del bene; di ciò che forma il compendio supremo di ogni valore e significanza, ed è degno di avere in sé e non d’altronde la sua ragione d’essere. Questo bene si rivolge a me con l’intimazione che io lo riconosca, lo accolga e lo attui. La coscienza è appunto la consapevolezza di questa esigenza e della sua legittimità.

Abbiamo visto che si tratta di una conoscenza di natura speciale. Essa ha un carattere di intimità, significa un ripiegarsi su se stessi, un abbracciare e un custodire. L’abbiamo espresso nella proposizione: « Sono conscio a me stesso del bene ». Questa interiorità sta in relazione col valore infinito del bene, col fatto che il bene è in se stesso il fine ultimo, il significato più profondo di tutto. Essa dipende però insieme dal fatto che qui si tratta anche del fine ultimo di me stesso e del senso supremo del mio essere. Perciò è un « sapere intorno a (qualche cosa) »; un abbracciare ciò che è nascosto; un accostarsi a quello che è principio e fine, origine e mèta.

Abbiamo visto inoltre che il bene è al tempo stesso infinito e semplice. Se ci domandiamo quindi: «Che cosa è il bene?» e « Che cosa debbo fare per attuarlo? » – la risposta a questa domanda non viene così alla spiccia. Esperimentiamo anche qui quello che è espresso nella proposizione agostiniana: «Se tu non mi interroghi, lo so. Ma se mi interroghi ed io devo dirlo, allora non lo so ». Il fondo del nostro essere è in comunicazione col bene. Quanto più pura si fa sentir la voce del nostro intimo, tanto più esatta riesce la nostra conoscenza del bene. Ma dare senz’altro un nome a questo bene ed esprimerlo per l’azione non ci è possibile, appunto perché esso è il termine finale, infinitamente ricco di contenuto e ad un tempo semplicissimo. La risposta reale e vivente alla domanda: « Che cosa sei, o bene? e come ti debbo attuare? », ci viene solamente dalla situazione; da quello cioè che di volta in volta ci sta d’intorno e ci viene incontro. Quello che da questo insieme emerge, come comando a noi rivolto, è appunto il bene. Il bene semplicissimo eppur ricco di contenuto infinito, si manifesta e si specifica incessantemente nella situazione. Ma la situazione è sempre presente; essa si produce continuamente; per il fatto che io, come persona capace di responsabilità, vengo a contatto con cose e avvenimenti. Così il bene si concreta, passo per passo, lungo il corso della mia vita, ricevendo la sua forma da ciò che di volta in volta, secondo la situazione, è il giusto e il retto – il che naturalmente non significa una superficiale utilizzabilità; giacché quello che noi chiamiamo « situazione» abbraccia la realtà fino nelle sue estreme profondità, quindi l’uomo come spirito e persona, compreso il suo eterno destino. Tommaso d’Aquino dice: Che cosa dobbiamo fare? Il bene. Ma che cosa è il bene? Quello che di volta in volta è ragionevole; quello che è giusto secondo la situazione. Ma la coscienza è l’organo col quale, di mezzo alla situazione che continuamente si forma di nuovo, contemplo il bene; arresto in certo modo la sua parola che fugge; le dico il mio: «sì» e il mio « no » – per poi passare da esso all’azione.

Ma anche questo è un « conoscere intorno », e un « esser consci a se stessi»; qualche cosa di racchiuso nell’intimo della persona. Poiché quando si tratta di attuare quello che forma il supremo senso della situazione, cioè il bene, è in gioco l’ultimo significato della mia vita, la mia salvezza. Qui io sono, da solo a solo, con me stesso. A me spetta agire, non ad altri. Io devo rispondere della mia azione e nessun altro può sgravarmi dalla mia responsabilità. Ma ciò costituisce la mia dignità, che non può essermi tolta da alcuno.

Coscienza significa quindi qualche cosa di grande; una potenza creatrice, capace di vedere e di attuare qualche cosa che prima non esisteva ancora; di inserire il bene eterno nel corso del tempo; di generare in certo modo qualcosa di infinito e semplice insieme nella forma limitata dell’azione. E a ciò tutto si presta come materia: tutto il contenuto della vita, ogni cosa, ogni avvenimento.

Così a un dipresso abbiamo cercato di capire la coscienza; ed ora dobbiamo scavare più a fondo.
Questa coscienza è ciò che abbiamo di più nostro. Non che per questo la intendiamo così facilmente. Non è uno strumento meccanico, un ago magnetico che si metta in posizione da sé, bensì qualche cosa di vivo, e tutto ciò che è vivente è soggetto ad errori. Così anche la coscienza. Il rimettere l’uomo semplicemente alla «sua coscienza» e fermarsi lì, è prova di scarsa conoscenza dell’uomo e del suo intimo. La nostra coscienza è la nostra suprema bussola; ma, se è lecito esprimersi così, questa stessa bussola può a sua volta perdere la bussola (1).

In tre modi anzitutto l’atto vivente della coscienza può soffrire pregiudizio. Accenniamoli brevemente: la coscienza può diventar superficiale, frivola, ottusa. La coscienza ci rende la vita più pesante. Più ricca di contenuto, più degna – ma anche più pesante. Ora in noi vive la tendenza a cercar le vie facili e a liberarci dai pesi. Donde un lavorìo interno, che mira ad attutire la voce della coscienza. Non si tratta sempre di una volontà consapevole; può darsi che agisca la sfera del subcosciente. Ciò può avvenire in mille modi: facendo sì, ad esempio, che lo sguardo venga distratto dalle linee spiacevoli di ciò di cui propriamente si tratta; che il punto più importante rimanga velato; che la situazione con la sua affaticante unicità e irripetibilità venga ridotta ad uno schema generale più comodo. Altre volte il monito della coscienza viene tacitato e ci si rassicura, dicendo che alla fin fine non si tratta poi di cosa « tanto cattiva ». Vengono messi in rilievo punti di vista atti a contestare. Ci si richiama a quello che fanno gli altri; si cerca per il proprio giudizio e la sensibilità personale uno sgravio di responsabilità col richiamo all’andazzo tradizionale, che « è stato sempre così »; all’ambiente che « è pure in buona fede »; al « sano buon senso» e simili, e così l’esigenza morale, che ha in sé sempre qualche cosa di duro, viene svigorita.

La coscienza può venir anche affinata eccessivamente. Può veder dei doveri là dove non ce ne sono; sentire delle responsabilità, che evidentemente non esistono; esagerare gli obblighi oltre i limiti del giusto e del possibile. (È specialmente l’uomo di tendenze sociali, che è in pericolo di sovraccaricare la sua coscienza). Sì, la coscienza può andar soggetta a vere malattie. Il puro e chiaro dovere che, per quanto difficile, solleva sempre in alto, può trasformarsi in ossessione. Il comando della coscienza deve essere percepito nella libertà. Ma quando la coscienza è ammalata questa libertà sparisce e dal suo comando deriva una vera schiavitù: la coscienza angosciata, lo scrupolo. Nell’uomo infatti è profondamente radicato l’istinto segreto di tormentarsi, e in taluni temperamenti questo istinto opera con forza particolare. Se non viene guarito con cura prudente, può degenerare in malinconia. Ora questo istinto si serve spesso della coscienza come di un’arma terribile contro la propria esistenza. Nessun modo di tormentarsi è peggiore di questo.

(Audio 10) La coscienza può venire alterata anche in un terzo modo, cioè nel suo contenuto. La nostra conoscenza non è uno specchio, che riproduca semplicemente quello che si para innanzi ad esso. Noi non apprendiamo la situazione, come una macchina fotografica coglie l’oggetto. Nel nostro sguardo siamo presenti noi stessi. Noi stessi, col nostro temperamento, coi nostri desideri, coi nostri motivi palesi e segreti siamo già contenuti nello sguardo, che dirigiamo sulle cose: così, guardandole, le modelliamo. Non le prendiamo come sono in se stesse, ma come vorremmo che esse fossero, cioè tali da trovarvi un ambiente ospitale per i nostri desideri e per i nostri sentimenti. Noi desidereremmo di veder nella situazione la conferma di quello che siamo. Vorremmo che da essa ci venisse incontro quello che portiamo in noi stessi, come aspirazione. Così noi interpretiamo la situazione secondo i nostri desideri coscienti ed inconsapevoli. Questi ultimi specialmente esercitano una grande influenza. La moderna psicologia ha dimostrato quanto profonda sia l’influenza della volontà incosciente sugli atti della percezione. Il calcolo delle misure, l’attenzione alle differenze, il senso dell’urgente e del meno urgente, del principale e dell’accessorio, – tutto questo subisce tali influenze. Anzi l’esperienza dimostra che spesso noi sopprimiamo addirittura degli oggetti che ci riescono molesti. La psicologia del dimenticare, del perdere, dell’omettere, ci dimostra che noi possiamo andar cercando per ore ed ore oggetti, che pure abbiamo sul tavolo dinanzi a noi, perché un qualche occulto motivo non vuole che li vediamo; ma non appena il motivo cessa o non è più così urgente, l’oggetto ci capita subito sotto mano. Il giudizio sulle persone e la valutazione del loro modo di agire, dei loro sentimenti e delle loro intenzioni, dipendono moltissimo dalle nostre disposizioni interne, dalla simpatia o dall’avversione. Così si dica anche della comprensione di rapporti e di molte altre cose.

Tutto questo richiama alla nostra attenzione importanti problemi pedagogici: quelli della formazione della coscienza nell’educazione degli altri e di noi stessi. Ma non possiamo addentrarci in questa materia.
Qui ci occupiamo d’altro.
Se guardiamo più esattamente, finiamo qui col trovarci evidentemente in un circolo. Capitiamo cioè nel
circolo dell’io: nella coscienza io devo afferrare il giusto, anche contrariando il mio stesso desiderio. Ma la coscienza è un atto vitale, in cui opera ed influisce tutto quello che io sono, anche il mio stesso desiderio. Un motto spiritoso dice: «La memoria afferma: questo l’hai fatto tu. L’orgoglio dichiara: questo non posso averlo fatto io. E la memoria cede! ». Così si chiude il circolo dell’io. Da questa prigionia in me stesso io mi libero soltanto se trovo un punto, che non sia il mio «io »; una «altezza al di sopra di me ». Un qualche cosa di solido e operante che si affermi nel mio interno. Ed eccoci arrivati al nocciolo della nostra odierna considerazione, cioè alla realtà religiosa.

Quel « bene », del quale abbiamo parlato, che cos’è veramente?

Non una « legge », che penda affissa da qualche parte. Non una semplice idea. Non un concetto campato in aria. No, esso è qualche cosa di vivo. Diciamolo senz’ambagi: è la pienezza di valore dello stesso Dio vivente. La santità del Dio vivente: ecco il bene.

Un maestro di spirito, per esprimere il valore assoluto della verità, affermò una volta: «Se Dio potesse staccarsi dalla verità, abbandonerei Dio e aderirei alla verità ». La proposizione è indirizzata a credenti, alla cui coscienza essa vuol dimostrare in forma drastica di che si tratta quando è in gioco la «verità ». Perciò incomincia col proporre loro un assurdo mostruoso: col metter cioè, per un momento, questa verità in contraddizione con ciò che per loro è pure il fine ultimo e il compendio di tutte le cose, col Dio vivente. Ma questo assurdo non può che provocare il grido irrefrenabile: La verità? Ma la verità è pur Dio!… In mille e mille sfumature il contenuto del bene può venir determinato mediante la multiformità della situazione che continuamente si rinnova. Si può dire: il bene è far questo lavoro; mostrarsi benevolo verso quell’uomo; rinunciare a questo piacere; difendere una determinata convinzione e cosi via. In questo primo momento il nome « Dio» non è necessario che apparisca. Ma quando vien posta l’ultima domanda: Dove ha tutto questo le sue radici? Che cosa si nasconde dietro tutta questa varietà di cose? Che cos’è quell’uno, quell’infinito, quel semplice, che noi abbiamo chiamato « il bene», e che trova la sua espressione in tutte quelle singole specificazioni – che cos’è propriamente? Allora la risposta suona: È la santità vivente di Dio.

Mi ricordo ancora il luogo, ove un bel mattino mi si affacciò questo concetto così semplice e pur così celato e sottile: Quando io dicessi: «l’amore »… e questo amore divenisse pieno e perfetto in forza, in purezza, in misura, in durata e profondità e quanto al suo oggetto; ed ora, assolutamente pieno e perfetto incominciasse ad esistere in sé, divenisse persona; diventasse l’amore stesso per essenza – che sarebbe questo amore? il Dio vivente! Questa intuizione mi rese raggiante di gioia!… Il valore, la fedeltà, l’onore, la bontà, la giustizia, la misericordia… in una parola: «il bene », nella sua infinitezza e nella sua pura semplicità – tutto ciò è la santità vivente di Dio e nient’altro.

Aver cognizione del bene significa dunque in definitiva aver cognizione di Dio. E percepire il comando del bene significa, in ultima analisi, udire il comandamento del Dio santo.

(Audio 11) La coscienza è l’organo per il bene; ed è l’organo per Iddio. Non appena scrutiamo un po’ a fondo il sentimento del dovere, la consapevolezza dell’obbligatorietà, le nostre deliberazioni e quanto altro abbiamo chiamato coscienza, giungiamo su terreno religioso.

Quello che alla superficie significa coscienza morale, nelle sue ultime radici è il «fondo dell’anima», la «scintilla dell’anima». Possiamo prendere anche la direzione inversa e dire che quello che nel suo fondo significa coscienza morale, al suo vertice è la « punta» o la «lama» dello spirito. Ma questi sono organi ed atti che hanno per oggetto la realtà religiosa e spirituale.

La coscienza è dunque l’organo per la realtà vivente e per il contatto con Dio; per il volere di Dio.

Nell’Antico Testamento torna spesso una parola, nella quale il dovere morale trova la sua espressione religiosa: «Camminare sotto gli sguardi di Dio », oppure più semplicemente: «Camminare alla presenza di Dio ». Nel Nuovo Testamento Paolo parla dell’agire « in onore di Dio »; del « vivere in Dio ». Queste parole dicono, in termini diversi, che il comandamento del bene giunge al nostro orecchio dal Dio vivente e che l’azione è diretta a Lui.

Noi abbiamo espressa la natura singolare della coscienza nella proposizione: «esser consci a se stessi del bene ». Poi ci siamo accorti che questo non basta ancora. Con questo solo noi rimaniamo ancor sempre prigionieri nel circolo vizioso del nostro « io », poiché quel bene resta in balla delle illusioni del nostro desiderio. Ora diciamo: aver coscienza significa esser consci a se stessi del bene - ma al cospetto di Dio, la cui santità è appunto il bene stesso. Con la serietà di chi è parte interessata, con la serietà singolare che deriva dal sapere che si tratta della nostra salvezza. In modo però, che quella serietà possa uscire dal labirinto della prigionia soggettiva e conoscere il dovere impostole, come è in se stesso. Il termine « al cospetto di Dio» indica una misura della chiarezza. Significa che in me si afferma una realtà assoluta, la quale mi apre gli occhi per farmi vedere quei comandamenti e mi rende capace di prendere innanzi a lei liberamente, le mie decisioni.

Ma qui sorge la domanda: Quel traviamento dell’« io» non coinvolgerà forse anche questa realtà assoluta? Non ha forse la sua verità quel terribile capovolgimento della parola della Genesi, per cui « l’uomo si crea Dio a sua immagine e somiglianza? » No! Questa parola nasce dall’assenza di fede. La fede sa meglio le cose. Dio non è un concetto, un’idea, un sentimento, un’esigenza sociologica. Dio esiste veramente ed è la realtà assoluta. E nella coscienza di quelli che gli si accostano sinceramente, egli non mancherà di rendere testimonianza di sé. Dio farà sì che al suo cospetto la coscienza sincera acquisti la libertà di vedere senza abbagli e di decidere giustamente. A chi prega: «Sia fatta la sua volontà come in cielo così in terra», Dio darà la grazia di una coscienza chiara.

Partendo da queste premesse quello che abbiamo chiamato « situazione» acquista il suo significato ultimo nella Provvidenza. L’interna pressione del bene, che vuol essere attuato, sulla nostra coscienza, è il comando del Dio santo, che « sia fatta la sua volontà ». 
La situazione poi, dalla quale la coscienza attinge il contenuto specifico di quel comando, è disposizione voluta dal medesimo Iddio.
Il credente vive di un ricco tesoro di precetti, di esperienze, di insegnamenti, religiosi e morali: di un ordine. Egli cerca di giungere alla comprensione, alla sintesi, alla unità teoretica. Tutto questo però rimane necessariamente nella sfera dell’universale. Comandamenti, dottrine, ordinamenti riguardano sempre ciò che torna di continuo, il caso tipico. La loro ultima e vivente specificazione la raggiungono solo quando il monito interno del bene è precisato dalla situazione, che, in forma sempre nuova, ci viene incontro di volta in volta.

Ma questo significa: Dio ci circonda, ci avvolge, ci penetra. Egli è presente nel più profondo del nostro intimo. Là, dove il nostro essere confina, quasi a dire, col nulla, sta la mano di Dio e ci regge. Là egli ci parla. Non come una forza indeterminata o una semplice legge. Non come alcunché di impersonale, ma come un «io», al quale è possibile rispondere con un « tu ». Dio parla dunque dentro di noi. Ma questo stesso Dio è il Creatore e il Signore del mondo. Fin dall’eternità il mondo e quanto in esso avviene sono nelle sue mani. Il mondo non è un meccanismo perfetto che giri da sé, ma è sorretto e guidato continuamente da Lui. Quello che avviene, avviene per volontà di Dio – anche se avviene secondo le leggi della natura e per mezzo delle sue forze, poiché queste sono strumenti nelle mani di Dio. E in questo divenire il singolo è per il tutto, come del pari il tutto è per il singolo. L’uomo sta nel tutto come membro, come parte, parte minima, sul punto di svanire – e tuttavia questo tutto mira a lui; «è creato per lui ». Ovunque viva un uomo, ivi, in lui, è il centro del mondo. Nello stesso tempo però il centro è « di fronte» a quest’uomo, nel tutto. Uomo e mondo esteriore nei loro reciproci rapporti, sono come una ellisse, la quale ha appunto due fuochi; l’uno nell’interno del singolo, come termine della totalità, che a lui si riferisce; l’altro al di fuori, nella totalità, al quale si riferisce il singolo. Ma l’insieme di questi rapporti è opera del Dio vivente, ispirata da eterna sapienza e da eterno amore. La Provvidenza sta in ciò: nel come la vita del singolo, in funzione di membro, con molti altri membri, costruisca il tutto; e a sua volta nel come il divenire di questo « tutto» sia ordinato alla vita del singolo, di ogni singolo, sempre di nuovo, per servirgli di fondamento, di compito, di dovere, di prova. La tensione vivente fra questi due fuochi si rinnova continuamente nella situazione. Essa è la Provvidenza che si attua incessantemente. In lei il tutto diventa, qui, adesso, in questo modo, espressione della volontà di Dio, che tutto subordina alla mia salvezza; e con ciò stesso mi viene indicato in qual modo io, il singolo, debba essere, secondo la volontà di Dio, membro del tutto.

In entrambi parla Iddio: dall’interno coll’incalzare della coscienza, dall’esterno con la disposizione delle cose. La parola dell’uno è chiarita dalla parola dell’altro. L’impulso sempre nuovo di questa relazione sprona continuamente la vita morale dell’uomo religioso. Di qui noi comprendiamo la parola di Cristo: «Non preoccupatevi del domani. Ogni giorno ha la sua pena» e l’altra: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», che esprimono profondissima dipendenza e vincolo e insieme perfetta apertura e disponibilità.

(Audio 12) Ora abbiamo un concetto più chiaro della coscienza. Essa significa: esser consapevoli a se stessi, al cospetto di Dio, del bene, inteso come un comandamento della santità di Dio; con se stessi, al cospetto di Dio, comprenderlo, traendone il senso della situazione, che si presenta di volta in volta, considerata come disposizione provvidenziale dello stesso Iddio.

Se l’uomo comprende e vuole tutto ciò; se si mette in quest’ordine di idee; se lo accoglie dentro di sé come la forma non più discutibile della sua vita – allora ne nasce qualche cosa di mirabile, quello che costituisce appunto il gran mistero della coscienza: l’intesa con Dio. Voi avete la sensazione, nevvero, che qui si spalanca un regno di intimità, profondità e ricchezza infinita! È l’intesa dell’uomo internamente vigile e pronto col volere divino, quale si precisa continuamente nell’attimo che passa. Scrutiamo l’intimo senso della parola: «intesa» (Einverständnis )… «intendere» (Verstehen); già di per sé più che un semplice « conoscere» (Wissen); è piuttosto un penetrare, un avanzar in profondità e in interiorità; un esser dentro fino in fondo. Ma si tratta inoltre di un’intesa con Dio; di un’intesa che è frutto di una relazione sempre più intima e più profonda con Lui. Il termine significa dunque non soltanto che l’uomo stia in ascolto, accetti ed obbedisca, perché quello che gli vien comandato è giusto; ma significa che l’uomo si è inteso con Dio, che Questi gli faccia sapere che cosa è il bene, dichiarandosi da parte sua pronto ad ascoltare e ad agire. Questa è un’alleanza fra Dio e l’uomo, che ha per scopo l’attuazione dell’unum necessarium. Ora, qui, così, in virtù di ciò che va nominato soltanto nell’umiltà e nello stupore dell’adorazione, la volontà di Dio, la quale è lo stesso bene, che comanda. Quale preziosissimo e profondissimo significato acquista qui la coscienza!

Ma tutto questo raggiunge la sua pienezza nel mistero della nostra elevazione a figli di Dio: l’uomo viene rigenerato; da Dio Padre, in Cristo, per opera dello Spirito Santo; per partecipare alla vita divina. Tra lui e il suo Dio vi è ora il rapporto amoroso da figlio a padre, da fratello a fratello, da amico ad amico; il Padre vostro che è nei cieli sa di che avete bisogno… non cade capello dalla vostra testa, ch’Egli non lo sappia… Cristo non ci chiama più servi, ma amici… Egli è tra noi come il primogenito tra molti fratelli… il suo Spirito è fra noi per assisterci e consolarci… Egli ci insegna tutta la verità… In Lui noi diciamo «Padre », diciamo «Signore Gesù», preghiamo e rendiamo testimonianza… e, per dir tutto in una parola: chi ama Cristo, a lui vengono i sommi « Noi », i santissimi Tre, e stabiliscono in lui la loro dimora, in una inesprimibile comunanza di vita divina.

Nel Padre nostro poi questo rapporto e il suo contenuto diventano preghiera.

A questo punto un moralista potrebbe obbiettare: Identificando il bene con Dio e pretendendo che l’intelligenza del bene da parte della coscienza derivi da Dio, tu hai abbandonato ciò che è specifico della morale, vale a dire il principio dell’autonomia e della responsabilità soggettiva. Kant ne ha fatto uno dei cardini del pensiero moderno: morale, secondo lui, è quell’azione, che prende per norma la legge del nostro «io », del «soggetto assoluto », trascendentale. La vera morale è dunque autonoma. Se vincolo il rapporto morale ad una realtà fuori di me, lo inquino; divento schiavo d’altri, eteronomo e perciò immorale. Il nostro pensiero filosofico è in procinto di spezzare su tutta la linea il predominio di Kant. Lo romperò anche in questo punto. La legge morale non è una legge del mio «io ». Ciò è un’illusione ottica interiore, anche se dicendo « io» si intenda il « soggetto trascendentale », cioè il complesso dei giudizi umani in generale. Inderogabile ed essenziale caratteristica della legge morale si è che mi «venga incontro »; che non sia dunque per me l’« io » stesso. Già dal punto di vista filosofico dunque la proposizione di Kant è falsa. Ma è falsa anche religiosamente parlando. Anzi in fondo essa è di una superficialità religiosa singolare, che si comprende soltanto, sapendo che Kant, in fatto di religione, era piuttosto freddo. Egli dice: Dal momento che identifico il bene con Dio e concepisco la legge morale come comando di Dio, è un « altro» che mi comanda e vado soggetto ad altri… Ma chi viene da un ambiente strettamente religioso deve rispondere meravigliato: Ma Dio non è punto un « altro»! Come si possono confondere in tal modo cose e concetti? Un uomo accanto a me è un altro, un’autorità dello Stato è un altro. Ma Dio non è «un altro» in questo senso! Dio è Dio! Egli non può assolutamente venir incluso in tale categoria. Evidentemente Lui non è me. Tra Lui e me vi è un abisso immenso. Ma Dio è il Creatore, nel quale io ho la causa del mio essere e della mia esistenza; nel quale io sono più me stesso, che in me stesso. Il mio rapporto religioso con Dio è determinato appunto da quel fenomeno unico che non si ripete altrove, cioè che quanto più profondamente io mi abbandono a Lui, quanto più pienamente io lo lascio penetrare in me, con quanta maggior forza Egli, il Creatore, domina in me, tanto più io divento me stesso. Quel mio « io », che si sforza di comprendere il bene al cospetto di Dio, come comando della sua santità, traendone il significato dalla realtà disposta dalla Provvidenza, è ben più profondo, anzi ben altrimenti profondo che quell’« io », il quale ossessionato dal pensiero della propria autonomia, si irrigidisce in se stesso.

(Audio 13) Ma questo ci spinge ancora una volta verso le profondità del nostro essere, cioè verso ciò che forma il segreto principale della persona.

Il bene che debbo fare, debbo farlo in nome di colui che sono. Non come un « soggetto» qualsiasi, che si può scambiare, ma in quanto sono io, nella unicità della mia persona.

Un pezzo di una macchina può sempre venir sostituito da un altro. Non è esso, come oggetto tale, che abbia importanza, ma la sua funzione. Anche una pianta, un animale, possono venir sostituiti da un altro essere della medesima specie, poiché il centro di gravità, in definitiva, non sta nell’individuo, ma nella specie. Quello che importa soprattutto è che sia un individuo, nel quale si esprime la specie; non che sia proprio questo o quello. Nell’uomo la cosa è ben diversa. Nell’uomo parla un «io». Nell’uomo quello che importa è l’individuo, perché è un «io ». Un uomo non può in definitiva venir surrogato da un altro, perché egli è persona. Le cose hanno un’essenza: l’archetipo del loro essere e del loro operare, che è comune a tutti i soggetti della medesima specie.

L’uomo non ha soltanto un’essenza, comune a tutti i suoi simili; egli ha di più. L’essenza dell’uomo porta in ogni singolo l’impronta terminale di unicità: è «nome». Tutte le altre cose si trovano già nel tipo della specie. L’uomo solo è a priori «singolo». Ma lo è, perché ha rapporto immediato con Dio. Tutte le cose del mondo sono intrecciate nel contesto dell’universo e negli ordinamenti della specie; e anzi, in misura totale. Anche l’uomo vi è inserito, ma solo con una parte del suo essere. L’uomo ha qualche cosa che sta a sé, perché viene immediatamente da Dio. Il mio spirito vivente è stato creato immediatamente da Dio; non come « caso », ma come « questo ». L’uomo dunque non ha soltanto un’essenza determinata, ma porta anche un nome. L’atto divino della creazione, dal quale ho ricevuto la mia realtà, fu un atto di denominazione. « Io ho scritto il tuo nome sulla mia mano », dice Dio nell’Antico Testamento. Questo mio nome lo trovo soltanto presso Colui «che lo sa», poiché me lo ha imposto nell’atto di crearmi; presso Dio. Soltanto presso Dio io imparo a comprendere e a conoscere il nome, che esprime la mia essenza. E precisamente cercando di conoscere la sua volontà, poiché questa non è una « legge» astratta per l’« umanità », ma un comando vivente di Dio. Diretta certo a tutti gli uomini, ma anche ad ogni singolo, così come egli è, quasi dal Padre a questo suo figlio. Nella misura in cui io conosco la volontà del Padre, vi riconosco quello che io sono. Poiché quello che sono è contenuto in questa volontà. Il mio nome è la sua volontà a mio riguardo. Con questa egli si rivolge a me, « chiamandomi ». E per il fatto che io adempio questa volontà e traduco in atto il mio nome, nasce e cresce il mio più vero « io », e « di fatto e in verità» io divento colui, che come tale sono chiamato da Dio.

Non bisogna prendere tutto questo come una semplice figura retorica. Si tratta di verità, delle quali uomini, che le hanno esperimentate, rendono viva testimonianza. Su certi settori del mio essere io esercito un dominio immediato; io cammino, mangio, guardo. Altri mi si di schiudono a poco a poco: sono i recessi più profondi del mio interno, le energie creatrici, le forze dell’amore. Ma gli ultimi, gli intimi, sfuggono affatto al mio immediato potere. Sono nascosti in Dio e mi si scoprono solo per dono di Dio. Ci sono in me delle zone che diventano realtà, soltanto se messe in rapporto con Dio. Il fondo del mio essere vive soltanto nello sguardo d’amore che Iddio posa su di me. Solo in questo sguardo esso è reale ed io divengo padrone della sua realtà.

Ed ora rifacciamoci ancora una volta a quello che abbiamo appreso intorno alla coscienza. Io ho cognizione del bene infinito e semplice, so come esso si rivolge a me e da me vuol essere attuato; come esso si specifica nella situazione, che continuamente si rinnova e mi parla. Ho cognizione di questo bene al cospetto di Dio, riconoscendolo come un comando della sua santità. Solo così il mio sguardo e il mio giudizio diventano liberi. Solo così acquisto il possesso di me stesso, del mio « io » intimo, del mio nome, che sta tra me e Dio e prende vita non appena io « compio la sua volontà» e «santifico il suo nome ». Questo mio nome essenziale s’immedesima in ciò che ho da fare e lo rende insurrogabilmente mio proprio. Con ciò io divento nel senso più vero della parola « personalità ». Questo mistero, nel cui « contesto », se è lecito esprimersi così, è presente Dio; e il bene proveniente da Lui; ed io in quanto io e col nome ricevuto da Dio – questo mistero, dico, è ciò che forma l’interiorità della coscienza.

Forse tutto questo vi sembra complicato. Ma è tale soltanto nel pensarlo. In realtà è semplice. Vera complicazione in questo complesso viene introdotta soltanto dalla volontà negativa dell’uomo, dal fatto ch’egli voglia cose contrarie alla volontà di Dio, dal male. In sé quest’articolazione è il semplice segreto della nostra vita interiore, nei suoi rapporti con Dio. Alla fine del libro dell’Ecclesiaste si legge: «Meditiamo dunque insieme la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, poiché questo è tutto l’uomo ».
Il Nuovo Testamento lo esprime nella semplice esortazione a « fare la volontà del Padre », e nel Padre Nostro prega che questa volontà sia fatta, poiché in ciò è il compendio di tutto.

Partendo da qui si superano anche le possibili deviazioni della coscienza dianzi accennate. 
Se l’educazione naturale vuol formare l’uomo in modo da dargli uno sguardo limpido e una sensibilità delicata per comprendere uomini e cose; un giudizio sicuro e uno slancio creatore per l’azione; in modo da renderlo fiducioso, serio e capace di responsabilità; in grado di vedere chiaro attraverso le proprie limitazioni psicologiche e di liberarsi da coazioni spirituali – tutte queste cose sono importanti, e qui non solo riconosciute, ma anzi presupposte. Per noi tuttavia rimane di particolare importanza quel punto d’Archimede, che affiora nel nostro interno, non appena ci mettiamo alla presenza di Dio, e facendo leva sul quale noi possiamo sollevare dai cardini il nostro mondo interiore.

Solo in questa prospettiva il dovere morale ci appare nella sua portata ultima; acquista la sua reale e non soltanto mentale «eternità ». Ora si comprende il senso più profondo dell’atto morale, considerato come realtà vivente. Il mettersi alla presenza di Dio è il mezzo per giungere alla sincerità interiore; alla libertà, spezzando pastoie psicologiche ed oggettive. Qui si spezza anche la schiavitù morale. L’adempimento della legge morale non è più soltanto il compimento di un dovere astratto, ma edificazione della nostra salvezza.

 

[1] Noti il lettore il metodo suggestivo con cui il G. prima ricostruisce il dramma della coscienza «autonoma» dal punto di vista meramente psicologico descrittivo, rilevandone la debolezza, per poi arrivare al «nocciolo» del problema della coscienza ch’è la realtà religiosa (n. d. t.).

 

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