06 – LE CONFESSIONI DI PAOLO – Conversione e rottura – C.M. Martini

Conversione e rottura

Rifletteremo sopra un altro episodio fortemente drammatico e oscuro della vita di Paolo: la rottura con Barnaba.
Negli ultimi istanti della sua vita Paolo, ripensando ai momenti che più l’hanno scosso, non avrà dato probabilmente molto peso alla prigionia, alle percosse, ai naufragi, ai trentatré colpi di flagello, insomma alla lista della 2 Cor, 11. Niente pare l’abbia segnato più di questo evento.
Paolo non ne parla mai nelle sue lettere. Questo episodio difficile anche per la nostra interpretazione fa parte di quelle oscurità dell’esistenza attraverso le quali l’uomo di Dio passa, si raffina e si purifica.

Chiediamo al Signore, nella preghiera, di aprirci gli occhi del cuore per capire il significato di questi eventi oscuri nella vita della Chiesa primitiva, nella vita della Chiesa di tutti i tempi e della nostra vita.

Signore Gesù, tu sai che noi passiamo per tanti eventi difficili a capirsi ed incontriamo intorno a noi, nella storia della Chiesa e dei tuoi Santi, tanti avvenimenti di cui non comprendiamo bene il senso. Signore, non ti chiediamo di capire, vorremmo invece saper amare di più, vorremmo trarre da ciò che possiamo comprendere la capacità di amare, perché noi siamo certi che niente ci può separare dal tuo amore, niente ci può separare dalla forza dello Spirito diffusa nei nostri cuori.
Che la forza dello Spirito sia ora presente in noi mentre leggiamo la Scrittura.
Concedici, o Maria, Madre del Signore, che se non sappiamo capire, sappiamo almeno amare. E tutto questo chiediamo a Dio Padre, fonte dell’amore e della luce, che vince ogni oscurità per mezzo di Cristo luce del mondo, nello Spirito fuoco che illumina la nostra notte, per Cristo nostro Signore. Amen.

Procederemo domandandoci:

- prima di tutto chi era Barnaba;
- poi chi era Barnaba per Paolo;
- che cosa è successo;
- con quali conseguenze;
- come Paolo ha vissuto questa lacerazione traumatica.

Chi era Barnaba

Uno dei giganti della Chiesa primitiva, uno dei primissimi che aveva preso sul serio il Vangelo. Non aveva probabilmente conosciuto il Signore, ma era tanto meritevole che Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni, che erano stati col Signore, gli avevano dato fiducia.
È uno dei primi a credere alla parola degli apostoli, uno dei primi che si butta, il primo che vende tutto. Ci viene presentato negli Atti: «Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba, che significa” figlio dell’esortazione”, un levita originario di Cipro, che era padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l’importo deponendolo ai piedi degli apostoli» (At 4, 36). In un momento in cui la comunità ancora non significava quasi niente, era un gruppo sparuto di uomini, che potevano apparire fanatici, lui ha creduto, si è sbarazzato di tutto e si è messo totalmente dalla parte degli apostoli e di Cristo. Per questo è chiamato «figlio dell’esortazione, figlio della consolazione ».
Come personalità, Barnaba, era un uomo ricco di sapienza, di ottimismo, irradiava fiducia, e volentieri gli altri camminavano con lui e facevano affidamento su di lui.

Infatti lo vediamo adoperato in missioni di somma importanza. Ritorna il suo nome nel cap. 11 degli Atti: quando si tratta di verificare quello che sta succedendo ad Antiochia, da Gerusalemme inviano Barnaba. Barnaba va ad Antiochia e « quando questi giunse e vide la grazia del Signore, si rallegrò e, da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede, esortava tutti a perseverare con cuore risoluto nel Signore. E una folla considerevole fu condotta al Signore» (At 11, 23-24).
Barnaba è l’uomo che ha saputo riconoscere l’autenticità del cristianesimo di Antiochia da cui è nato tutto il cristianesimo dell’occidente greco e dell’Asia Minore.
Senza di lui la Chiesa sarebbe rimasta ancora chissà quanto tempo prigioniera delle pastoie giudeo-cristiane di Gerusalemme. Barnaba ha una intuizione profonda, è libero da pregiudizi, da paure, e capisce che ad Antiochia sta operando lo Spirito. È capace anche di mediare: di rassicurare Gerusalemme e di incoraggiare Antiochia, evitando le rotture. Uomo, perciò, prezioso per la primitiva cristianità.

Chi è stato Barnaba per Paolo

È stato d’importanza fondamentale: dopo Anania è l’uomo a cui Paolo deve di più. Anzi ad Anania deve il primo ingresso, la prima accoglienza, ma poi tutto il resto lo deve a Barnaba. Egli è stato per Paolo colui che l’ha cercato (l’abbiamo accennato parlando del periodo doloroso di Tarso), l’ha capito, l’ha sostenuto. È stato l’amico, il padre spirituale, il maestro di apostolato, quello che l’ha introdotto nell’esperienza apostolica.

Vediamo qualche testo. Dopo essere fuggito da Damasco, Saulo va a Gerusalemme: «Cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo» (At 9, 26). Le diffidenze che c’erano state tra Gerusalemme ed Antiochia, ci sono ora, a Gerusalemme, verso questo nuovo arrivato che non si sa bene cosa voglia.
Il testo continua: «Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù» (At 9, 27).
È molto bello poter commentare questo testo parola per parola. «Barnaba lo prese con sé »: il verbo greco è « epilabòmenos », lo stesso che viene usato per Gesù che prende per mano Pietro che sta per affondare nel lago durante la tempesta (cf. Mt 14, 31). L’immagine che possiamo avere davanti è quella di Paolo smarrito a Gerusalemme: tutti gli chiudono la porta in faccia, non ha neanche dove dormire, e Barnaba va, gli tende la mano e gli dice: «Vieni con me, ti accompagno, ti presento io ».
Per Paolo, attraverso Barnaba, le porte si riaprono. Dicono gli Atti: «Così egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme parlando apertamente nel nome del Signore» (At 9, 28).

Anche in seguito, quando si tratta della comunità di Antiochia, Barnaba è il primo dei profeti: «C’erano nella comunità di Antiochia profeti e dottori: Barnaba, Simeone soprannominato Niger, Lucio di Cirene, Manaen, compagno di infanzia di Erode tetrarca, e Saulo » (At 13, 1). Dunque la gente di Antiochia riconosce i profeti, ma il primo è Barnaba e Saulo è l’ultimo venuto, e sappiamo come: «Barnaba poi partì alla volta di T arso per cercare Saulo e trovatolo lo condusse ad Antiochia; Rimasero insieme un anno intero in quella comunità e istruirono molta gente; ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani » (At 11, 25-26).
Dietro a questo versetto c’è l’immagine di una meravigliosa collaborazione tra Barnaba e Paolo: Barnaba è il primo dei profeti, Paolo è l’ultimo venuto, ma Barnaba lo sa valorizzare e lo introduce in una attività che diventa la più fruttuosa di tutta la Chiesa antica, quella da cui nasce una cristianità, che si impone talmente che il nome di cristiani deriva da lì. È la comunità che ha cominciato veramente a farsi notare nella storia.
Barnaba è stato tutto questo per Paolo.

Barnaba è anche il primo scelto dallo Spirito per la missione. È descritto l’inizio della missione che poi diventerà la grande missione ai pagani: «Mentre essi – questi profeti – stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati» (At 13, 2). Barnaba è il primo e Saulo è l’aggiunto. Barnaba è il capo della nuova spedizione; descrivendola, l’autore menziona per primo sempre Barnaba. L’ordine non è mai indifferente: Barnaba è colui che viene riconosciuto ufficialmente capo della missione: al v. 7 dice che arrivarono dal proconsole, persona di senno, « che aveva fatto chiamare a sé Barnaba e Saulo e desiderava ascoltare la parola di Dio ».
Ed ecco che, molto rapidamente, in questa missione la personalità di Paolo comincia ad emergere. Pochi versetti dopo, noi vediamo che l’attore principale della situazione in cui il mago Elìmas viene accecato è Saulo: «Saulo, detto anche Paolo, pieno di Spirito Santo, fissò gli occhi su di lui e disse: O uomo pieno di ogni frode e di ogni malizia» (At 13, 9); e più avanti: «Salpati da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge di Panfilia» (13, 13). Barnaba è già ridotto al rango di « compagno ».
Possiamo qui cogliere lentamente il cambiamento psicologico che è avvenuto e la mutazione di ruoli in questa primitiva spedizione.

E purtroppo, proprio poco dopo, quando la mutazione di ruoli è ormai quasi codificata – il primo discorso di missione del cap. 13 degli Atti è attribuito a Paolo e non a Barnaba: «Si alzò Paolo e, fatto cenno con la mano, disse: Uomini di Israele… » (At 13, 16) – accade che. Giovanni-Marco se ne va e la spedizione si restringe di numero.

Durante tutta la prima missione noi assistiamo ad una alternanza di primato tra Barnaba e Paolo.
Nell’episodio di Listra, quando i pagani vedono la guarigione dell’uomo paralizzato e scambiano i due missionari per esseri divini, il testo dice: «Chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes » (At 14, 12). In questo caso Barnaba era l’anziano, l’uomo dalla lunga barba che si imponeva come figura di vecchio, Paolo era l’uomo attivo, intraprendente, che sapeva parlare. Quindi i ruoli erano divisi e la gente oscillava nel riconoscere l’uno o l’altro come principale: «Sentendo ciò gli apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando: Cittadini, perché fate questo? » (At 14, 14-15). Barnaba torna ad essere primo nell’ordine.

Poco dopo, nasce un’opposizione radicale alla loro missione ed è Paolo – come dice il testo – ad essere preso a sassate e trascinato fuori dalla città. È chiaro che pur essendo ancora un po’ incerta la designazione di chi era il capo reale della missione, gradualmente Paolo prende importanza di fronte agli occhi della gente. La missione termina senza rotture, a parte l’incidente dell’allontanamento di Marco che lascia amareggiati i due missionari, ma non causa, per il momento, difficoltà.
Il capitolo seguente, il 15 degli Atti, mostra Paolo e Barnaba in strettissima collaborazione, ormai però sempre nell’ordine, prima Paolo e poi Barnaba. I due sono pienamente d’accordo, agiscono con piena concertazione e condivisione di scopi là dove si tratta di resistere all’ingiunzione dei giudaizzanti di circoncidere i pagani convertiti. Tutto il cap. 15 è presentato ancora sotto il segno di una precisa collaborazione fra i due.

Che cosa è accaduto

Verso la fine del capitolo 15 viene presentato il dramma della rottura.
C’è stato il Concilio di Gerusalemme. La lettera è stata consegnata a Paolo, a Barnaba e ad altri due fratelli, Giuda-Barsabba e Sila, perché la portassero ad Antiochia. Scendono ad Antiochia, rimangono là ad insegnare, ad annunciare la Parola di Dio e poi Paolo decide di riprendere la missione. Leggiamo il testo:
« Dopo alcuni giorni Paolo disse a Barnaba: “Ritorniamo a far visita ai fratelli in tutte le città nelle quali abbiamo annunziato la Parola del Signore, per vedere come stanno” » (At 15, 36). Non è più la comunità che manda Barnaba e Saulo, ma è Paolo che si sente responsabile di tutta l’attività dell’Asia Minore e vuole rivisitare i fratelli. « Barnaba voleva prendere insieme anche Giovanni, detto Marco, ma Paolo riteneva che non si dovesse prendere uno che si era allontanato da loro nella Panfilia e non aveva voluto partecipare alla loro opera. Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, raccomandato dai fratelli alla grazia del Signore» (At 15, 37-40).

Che cosa è successo? Dal punto di vista immediato il racconto è evidente: un dissenso su un collaboratore. Per Barnaba andava bene, per Paolo no. Si aggiungeva il fatto imbarazzante che Barnaba era cugino di Giovanni-Marco, e probabilmente difende anche un po’ se stesso, l’immagine di famiglia.
Paolo si irrigidisce su una questione di principio: « Il dissenso fu tale che si separarono» (At 15, 39). Discutono forse per parecchi giorni, forse la comunità cerca di riconciliarli, di convincerli; ma la discussione raggiunge un punto tale di tensione che pare davvero meglio che ciascuno se ne vada per conto proprio. Questo culmine è indicato nel greco con la parola « paraxusmòs », «parossismo », anche se, in altri casi, ha un significato più blando, cioè provocazione o stimolo.
Ma in At 17, 16 questo termine viene usato per dire che Paolo fremeva Bel suo spirito, al vedere la città piena di idoli. Possiamo immaginare come fosse il fremito di Paolo e a quale incandescenza fosse giunta la discussione con Barnaba.
C’è anche un altro uso del verbo, là dove Paolo, nella prima lettera ai Corinti, descrive le qualità della carità: la carità « ou paroxunetai » (1 Cor 13, 5), non si adira, non giunge a questi eccessi di irritazione.
È interessante pensare che forse Paolo fa qui un giudizio su se stesso perché lui stesso è arrivato a quell’eccesso e non era stato capace di frenarsi nella discussione con Barnaba.

È naturale chiederci se un punto di vista diverso a proposito di un collaboratore possa giustificare una rottura così drammatica; o se in realtà sia stato solo un pretesto. Non c’era dietro qualcosa di più? Non ci poteva essere, dal punto di vista psicologico, quel crescente imbarazzo su chi doveva essere il capo missione tra Paolo e Barnaba? Barnaba era l’uomo di grande autorità, che fin dai tempi di Gerusalemme era noto a tutta la Chiesa. Come poteva lasciare il posto a un uomo nuovo, che ancora molti non conoscevano, che a Gerusalemme era inviso, e per questo avrebbe magari screditato la figura della missione? Oppure motivi psicologici più profondi: Barnaba era a disagio nell’avere da una parte la responsabilità e accorgersi, d’altra parte, che in fondo era Paolo a prendere le decisioni. Paolo dal canto suo aveva l’imbarazzo opposto. Non possiamo sapere quanto questi elementi abbiano giocato nella decisione finale.
C’è un altro fatto: Paolo stava tirando la corda per la rottura con i giudaizzanti e Barnaba invece era l’uomo delle grandi amicizie con la Chiesa giudeo-cristiana e vedeva più opportuno non tirare troppo la corda, perché le conseguenze sarebbero state gravi. Barnaba già intravedeva la spaccatura con la Chiesa giudeocristiana, che poi è avvenuta, e avrebbe voluto a tutti i costi evitarla. Anche Paolo diceva a parole di volerla evitare, ma in realtà agiva in maniera da irritare ed esasperare gli avversari.
Pensiamo ancora al fatto di Pietro ad Antiochia: Paolo scriverà che Barnaba si è lasciato attirare dalla ipocrisia dei Giudei (cf. Gal 2, 11-14).
Ci è impossibile storicamente determinare cosa sia stato. Tuttavia, dobbiamo concludere che quella lacerazione è stata molto dolorosa e drammatica per entrambi.

Con quali conseguenze?

Una conseguenza paradossale, dal punto di vista dell’incontro tra le persone. Paolo che aveva goduto della fiducia di Barnaba e, grazie a questa fiducia, si era salvato ed era stato rimesso in circolazione, non riesce a dare fiducia a Barnaba per Marco.
La sofferenza di Barnaba è assai dolorosa: si sente respinto forse anche come amico, non per una volontà cattiva di Paolo, ma come conseguenza delle cose che stavano accadendo.
Barnaba, dopo questo episodio, scompare. Un gigante della Chiesa primitiva, ad un certo punto, non lascia quasi più traccia di sé. Lo ricorda ancora Paolo come una persona che si conosceva e che aveva buona reputazione (cf. 1 Cor 9,6), e un’altra volta, in modo indiretto che sembra riparatorio: «Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco, il cugino di Barnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni; se verrà da voi, fategli buona accoglienza» (Col 4, lO). Paolo si è riconciliato con Marco e, menzionandolo come cugino di Barnaba, pare voler dire: «quello che io non avevo accolto un tempo ».
Al di fuori di questi brevissimi ricordi, di Barnaba sappiamo solo quel poco che ci dice la tradizione. Rinchiusosi a Cipro, non ha più fatto grandi viaggi missionari, ma, ritornato in patria, vi è rimasto. Tutta la sua enorme capacità si è ridotta entro un limite ristretto.

Un testo su S. Paolo sempre classico, anche se di qualche anno fa, è quello dello Hollzner: «L’Apostolo Paolo ». L’autore riflette sui fatti narrati e dice: «Guardando le cose da un punto di vista umano forse l’atteggiamento di Barnaba ci potrebbe apparire il più simpatico, mentre Paolo avrebbe giudicato con troppa severità il giovane Marco. Anche di fronte a Barnaba egli ci può apparire duro e quasi ingiusto: doveva pur nutrire verso di lui della riconoscenza per il suo intervento che lo aveva tratto dall’ombra ». E più avanti: «Il suo spirito doveva progredire di conoscenza in conoscenza, passo passo e così la sua totale immedesimazione col Cristo avveniva per gradi successivi ». E qui cita un altro autore tedesco che scrisse una vita di Paolo e che commenta così: «Non pervenne Paolo sempre a rendersi padrone del tempestoso palpito del suo cuore; riuscì a uno soltanto di camminare sulla terra senza raccogliere nemmeno un granello della sua polvere, a colui che non aveva nessun peccaminoso legame di natura con Adamo ». Poi conclude: «È sempre cosa dolorosa lo spezzarsi di una antica e santa amicizia e quanto più profondo era il vincolo tanto più riesce doloroso il distacco ». « Quante volte avrà rievocato il tempo in cui Barnaba era il solo che credeva in lui, mentre tutti ne diffidavano, specialmente il giorno indimenticabile nel quale egli si era portato a Tarso per cercarlo, e quella notte quando a Listra, Barnaba, con l’animo pieno di angoscia si era chinato piangente sull’amico che credeva morto. Non si lacerano simili legami senza che il cuore ne sanguini».

Chi aveva ragione? Il tempo ha dato ragione a Barnaba; tuttavia gli eventi si sono svolti così e, da un certo punto, ciascuno ha dovuto adattarsi alla nuova situazione.
Potremmo fare ancora una riflessione e dire cosa sarebbe stato per la Chiesa primitiva se i due non si fossero separati. Forse Barnaba avrebbe operato da mediatore e da moderatore e le Chiese giudeo-cristiane non sarebbero giunte alla rottura a cui giunsero. È difficile fare delle ipotesi su ciò che non è avvenuto. Tuttavia è probabile che, in seguito, Paolo abbia più volte rimpianto la capacità mediatrice, l’affabilità, il senso della misura di Barnaba, che in parecchie situazioni avrebbe contribuito a chiarire le cose. Eppure l’Apostolo ha dovuto camminare per questa via, in fondo senza aver nulla da rimproverarsi, oppure ben poco, perché era venuta fuori un’esasperazione senza che nessuno capisse bene cosa stesse accadendo.
Negli anni successivi Paolo imparerà a convivere con queste difficoltà e con questi problemi.

Come Paolo ha vissuto la rottura

Paolo ha vissuto questa rottura certamente con sofferenza, sentendo il peso della solitudine. E anche questo evento gli ha fatto approfondire sempre meglio l’intuizione fondamentale della prima visione di Damasco. Il Signore è il solo amico perfetto, di sempre, il solo fedele, il solo che capisce .fino in fondo, che non ci abbandona mai.
Comprendendo l’animo affettuoso e vulcanico di Paolo, possiamo intuire come si sia chiarito in lui quell’amore personale per Cristo, amato fino in fondo, in maniera tenerissima, ardente, che lo caratterizzerà sempre più. Ancora oggi leggiamo con stupore le frasi meravigliose delle sue lettere che non possono essere nate se non da un travaglio di sofferenza, dall’aver capito che il Signore è davvero tutto. Lui ci ha fatto e ci conosce fino in fondo; le amicizie umane, per belle e grandi che siano, impallidiscono di fronte alla forza della « conoscenza di Cristo nostro Signore» .
«Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla Legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3, 8-11). « Per me vivere è Cristo» (Fil 1, 21). Cristo è divenuto l’inseparabile e per questo potrà scrivere nella lettera ai Romani: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? » (Rm 8, 35). Di fronte a qualunque possibile infedeltà egli mi amerà ancora e mi chiamerà a sé.

Attraverso vicende diverse, non tutte chiare e limpide come noi vorremmo, Paolo gradualmente viene condotto dalla misericordia di Dio a concentrare sempre di più la sua attenzione dall’impresa apostolica come impresa sua, verso l’impresa apostolica come impresa di Dio, dal Regno di Dio verso il Re Gesù Signore.
Matura in lui l’identificazione del Regno di Cristo con Cristo stesso: era stato il faticoso cammino che Gesù aveva fatto seguire agli apostoli durante tutta la sua vita e che ci è presentato, in particolare, dal Vangelo di Marco. Nella prima parte, Gesù è il grande guaritore, il taumaturgo, l’uomo la cui opera entusiasma. Nella seconda parte si rivela il mistero messianico: Gesù stesso è il Regno, Gesù nella sua morte e nella sua risurrezione è la pienezza del Regno.

Paolo ha capito che l’essenziale per lui è Cristo: tutto il resto che egli fa, opera, predica con tutto l’entusiasmo di cui è capace non è se non Cristo che vive in lui. La sua inseparabilità da Cristo è la radice di tutto.
Egli è colui nel quale ogni altra amicizia acquista senso, significato, bellezza. L’Apostolo ritornerà spesso sul tema dell’amicizia con i suoi, con la comunità, con i collaboratori, perché certamente sapeva anche collaborare, pur avendo momenti così difficili. Ma ritroverà sempre meglio questa bontà profonda a partire dall’esperienza che non delude: l’amicizia piena col Cristo che è la sua vita.

Chiediamo anche noi che, attraverso le vicende del cammino apostolico, la nostra esperienza pastorale ci si chiarisca sempre più come dipendente dall’amicizia con Cristo nostra vita.

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