BENEDETTO MENNI – L’UOMO E IL SANTO – Di Manuel Iglesias, S. J.

menni

- L’uomo e il santo .

Di   MANUEL IGLESIAS, S. J.


Chi è Benedetto Menni?

Nella cittadina di Ciempozuelos, distante trentadue km da Madrid, riposano i resti mortali di un italiano, deceduto nel 1914 nel nord della Francia. Chi era? Un avventuriero in giro per l’Europa? Un esiliato politico? Un commerciante? Una spia internazionale? No, anche se le qualità che aveva e le circostanze in cui visse gli avrebbero consentito di essere tutto questo ed altro ancora! Lui stesso si definì in questi termini alla fine della sua vita: “Sono un miserabile, degno soltanto di disprezzo; meriterei che mi buttassero nel mondezzaio!” Ma anche i santi sbagliano! Il sepolcro di questo uomo “degno di disprezzo” riceve oggi grande venerazione, avendolo il Papa Giovanni Paolo II dapprima dichiarato beato nel 1985 e poi nel 1999 deciso di proclamarlo santo durante un’apposita cerimonia nella Basilica Vaticana in occasione della festa di Cristo Re. Nonostante egli si ritenesse un “grande peccatore, uno straccione di Cristo”, ora dunque la Chiesa ci invita ufficialmente ad invocarlo come SanBenedetto Menni. Più in alto non si può salire. Ma, come iniziò tutto ciò?

I primi passi .

Seguire i suoi azzardati percorsi lungo i quattro punti cardinali della Spagna non è difficile; anzi è appassionante come un romanzo. Seguire invece le orme del suo itinerario interiore, del suo cammino verso la santità, è molto più impegnativo. Diremmo, quindi, qualcosa, molto brevemente, giusto per ricordare una verità fondamentale che a noi toglie ogni scusa per non diventare santi: i santi non scendono dal cielo come un meteorite; e meno ancora, sono fatti così fin dall’inizio. Per loro non è stato facile. In qualsiasi bivio avrebbero potuto intraprendere altre strade, diverse da quella di seguire Cristo. Ad esempio, nel nostro caso… Forse non riusciamo ad immaginare la febbre politica della penisola italiana nella seconda metà del secolo scorso, segnata dall’astio contro Papa e clero e scossa da nord a sud dal fervore nazionalista e dalla ribellione.

Un giovane come Benedetto, fine, intelligente, milanese intraprendente, aveva tutte le porte aperte per far carriera; forse ora sarebbe stato considerato un eroe del Risorgimento; ai giardinetti i nostalgici garibaldini ne avrebbero contemplato la statua, in groppa ad un impetuoso cavallo e indicando alle truppe, spada in mano, il passo della vittoria. “santo”; il suo vero nome però fu Angelo Ercole, e le sue radici affondano nella famiglia dove nacque l’11 marzo 1841. Una famiglia che, grazie alle entrate di un modesto negozio gestito dal padre, aveva il necessario per sfuggire alla miseria pur senza scialare; una famiglia di quindici figli (Angelo Ercole era il quinto); famiglia di cristiani all’antica, nella quale si recitava il Rosario ogni sera, si vibrava per qualsiasi evento religioso, si aiutava i poveri e si frequentava i sacramenti.

Accanto all’humus familiare, che segna la vita di qualsiasi uomo, l’evento personale della vocazione, della quale conosciamo appena questi tre fatti: gli esercizi spirituali a 17 anni, poco dopo aver lasciato la Banca dove lavorava; i consigli di un eremita di Milano, e la sua preghiera quotidiana davanti ad un quadro della Vergine. La conclusione: la decisione di donare la sua vita a Dio nell’esercizio della carità. . L’aver conosciuto i Fatebenefratelli durante il servizio volontario di barelliere fu determinante per chiedere l’ingresso nel Noviziato annesso al loro ospedale milanese di Santa Maria d’Araceli. Vi entrò il 1° maggio 1860; il 13 maggio ricevette l’abito ed il nome da frate di: Benedetto, Fra Benedetto Menni, un “uomo nuovo” che oggi la Chiesa glorifica. Dopo un anno di noviziato fece i voti semplici, e tre anni più tardi, la professione solenne.

Abbiamo già il santo? .

No. Questo giovane frate ospedaliero può ancora diventare di tutto, compreso un “buon religioso”, ma non santo. Un santo non si improvvisa. Tre anni di studio e di pratica infermieristica a Lodi. Fu lì che iniziò anche la sua preparazione all’ordinazione sacerdotale, che ricevette poi a Roma, nell’autunno del 1866, quando si annusava già l’esplosione finale della guerra dello Stato italiano contro il Papa per togliergli Roma. Dopo cinque anni, il novizio è già diventato sacerdote. Una formazione professionale di certo affrettata se si tratta di formare un luminare della ricerca teologica o della investigazione filosofica, ma non nel caso di un uomo di azione, come era Fra Benedetto, fatto per medicare ferite concrete di corpi e di anime ugualmente concrete. Dove?

Il Generale dei Fatebenefratelli, P. Giovanni Maria Alfieri, che trattenne accanto a sé il P. Benedetto durante un anno, si rese subito conto che aveva a portata di mano la persona che gli occorreva per un’impresa quanto mai impegnativa: restaurare in Spagna l’Ordine dei Fatebenefratelli. Il giovane frate si spaventa: ha soltanto 26 anni, è troppo integro e retto per un compito che richiederebbe una grande esperienza diplomatica; è coraggioso, ma non temerario.

Il Papa Pio IX lo riceve in udienza: – “Va in Spagna, figlio mio, e restaura l’Ordine nella sua stessa culla”. Era il 14 gennaio 1867. Due giorni dopo, parte per una avventura, umanamente parlando, assurda, sostenuto dall’obbedienza, dalla benedizione del Vicario di Cristo e dalla preghiera alla Vergine. In Spagna l’aria che si respirava era totalmente contraria. Da quando era finita la guerra di Indipendenza mai più era tornata la tranquillità nel paese. L’anticlericalismo e il liberalismo di importazione stavano inaridendo la Vita Religiosa. Il governo di Mendizábal, con i due tremendi Regi Decreti del 1835 e 1836, riuscì dapprima a limitare le attività degli Istituti Religiosi, e poi a sopprimerli.

Il ramo spagnolo dei Fatebenefratelli, che contava allora tre provincie nella Spagna, una in Portogallo, tre nell’America Latina e una viceprovincia nelle Filippine, oltre ad alcuni ospedali nell’Africa e nell’India, finì per estinguersi. Occorreva ripartire da capo, non solo in un clima di aperta ostilità verso tutto ciò che sapeva di religioso, ma per di più in mezzo a guerre e rivoluzioni. Dopo una breve sosta in Francia a Lione e Marsiglia, il P. Menni si lanciò alla conquista della penisola iberica come un don Chisciotte in versione divina, “un divino imprudente”. Mentre il paese rabbrividiva per le scosse politico-sociali che avrebbero portato alla caduta della Monarchia nel 1873, il P. Menni, forte solo della benedizione del Papa, entrava in aprile a Barcellona e si presentava al Vescovo diocesano che, evidentemente, lo considerò un ingenuo, se non addirittura una persona pericolosa, e non gli diede credito. . Tutte le cose hanno un inizio . .

Continua

Quel giovanotto milanese però, impiegato in una Banca senza aver nemmeno finito gli studi superiori, ebbe il coraggio di perdere il posto di lavoro (aveva 16 anni, e cominciava a vivere!) piuttosto che essere coinvolto in faccende poco pulite o nelle quali i conti non tornavano con la sua coscienza. Ed ebbe il coraggio di rifiutare la proposta di iscriversi alla Massoneria, dove avrebbe sviluppato a fin di male le sue qualità di leader. E in quanto alla guerra, bisogna dire che la vide, ma soltanto dal versante della carità: ha 18 anni quando apprende le prime e immediate conseguenze dello scontro con l’Austria: dozzine di corpi straziati di combattenti che arrivano dal fronte di Magenta a Milano in treni speciali. Benedetto diventa barelliere anonimo per trasportare i feriti dalla stazione ferroviaria all’ospedale dei Fatebenefratelli. Va precisato che gesti come questi non si improvvisano. L’abbiamo chiamato “Benedetto”, il suo nome di “santo”; il suo vero nome però fu Angelo Ercole, e le sue radici affondano nella famiglia dove nacque l’11 marzo 1841. Una famiglia che, grazie alle entrate di un modesto negozio gestito dal padre, aveva il necessario per sfuggire alla miseria pur senza scialare; una famiglia di quindici figli (Angelo Ercole era il quinto); famiglia di cristiani all’antica, nella quale si recitava il Rosario ogni sera, si vibrava per qualsiasi evento religioso, si aiutava i poveri e si frequentava i sacramenti.

Accanto all’humus familiare, che segna la vita di qualsiasi uomo, l’evento personale della vocazione, della quale conosciamo appena questi tre fatti: gli esercizi spirituali a 17 anni, poco dopo aver lasciato la Banca dove lavorava; i consigli di un eremita di Milano, e la sua preghiera quotidiana davanti ad un quadro della Vergine.

La conclusione: la decisione di donare la sua vita a Dio nell’esercizio della carità.
.
L’aver conosciuto i Fatebenefratelli durante il servizio volontario di barelliere fu determinante per chiedere l’ingresso nel Noviziato annesso al loro ospedale milanese di Santa Maria d’Araceli. Vi entrò il 1° maggio 1860; il 13 maggio ricevette l’abito ed il nome da frate di: Benedetto, Fra Benedetto Menni, un “uomo nuovo” che oggi la Chiesa glorifica. Dopo un anno di noviziato fece i voti semplici, e tre anni più tardi, la professione solenne.
Abbiamo già il santo?
.
No. Questo giovane frate ospedaliero può ancora diventare di tutto, compreso un “buon religioso”, ma non santo. Un santo non si improvvisa.
Tre anni di studio e di pratica infermieristica a Lodi. Fu lì che iniziò anche la sua preparazione all’ordinazione sacerdotale, che ricevette poi a Roma, nell’autunno del 1866, quando si annusava già l’esplosione finale della guerra dello Stato italiano contro il Papa per togliergli Roma.
Dopo cinque anni, il novizio è già diventato sacerdote. Una formazione professionale di certo affrettata se si tratta di formare un luminare della ricerca teologica o della investigazione filosofica, ma non nel caso di un uomo di azione, come era Fra Benedetto, fatto per medicare ferite concrete di corpi e di anime ugualmente concrete. Dove?
Il Generale dei Fatebenefratelli, P. Giovanni Maria Alfieri, che trattenne accanto a sé il P. Benedetto durante un anno, si rese subito conto che aveva a portata di mano la persona che gli occorreva per un’impresa quanto mai impegnativa: restaurare in Spagna l’Ordine dei Fatebenefratelli.
Il giovane frate si spaventa: ha soltanto 26 anni, è troppo integro e retto per un compito che richiederebbe una grande esperienza diplomatica; è coraggioso, ma non temerario. Il Papa Pio IX lo riceve in udienza:
- “Va in Spagna, figlio mio, e restaura l’Ordine nella sua stessa culla”. Era il 14 gennaio 1867.
Due giorni dopo, parte per una avventura, umanamente parlando, assurda, sostenuto dall’obbedienza, dalla benedizione del Vicario di Cristo e dalla preghiera alla Vergine.
In Spagna l’aria che si respirava era totalmente contraria. Da quando era finita la guerra di Indipendenza mai più era tornata la tranquillità nel paese. L’anticlericalismo e il liberalismo di importazione stavano inaridendo la Vita Religiosa. Il governo di Mendizábal, con i due tremendi Regi Decreti del 1835 e 1836, riuscì dapprima a limitare le attività degli Istituti Religiosi, e poi a sopprimerli. Il ramo spagnolo dei Fatebenefratelli, che contava allora tre provincie nella Spagna, una in Portogallo, tre nell’America Latina e una viceprovincia nelle Filippine, oltre ad alcuni ospedali nell’Africa e nell’India, finì per estinguersi.
Occorreva ripartire da capo, non solo in un clima di aperta ostilità verso tutto ciò che sapeva di religioso, ma per di più in mezzo a guerre e rivoluzioni.
Dopo una breve sosta in Francia a Lione e Marsiglia, il P. Menni si lanciò alla conquista della penisola iberica come un don Chisciotte in versione divina, “un divino imprudente”. Mentre il paese rabbrividiva per le scosse politico-sociali che avrebbero portato alla caduta della Monarchia nel 1873, il P. Menni, forte solo della benedizione del Papa, entrava in aprile a Barcellona e si presentava al Vescovo diocesano che, evidentemente, lo considerò un ingenuo, se non addirittura una persona pericolosa, e non gli diede credito.
.
Tutte le cose hanno un inizio
.
.

Quel divino imprudente però impugnò l’argomento delle “opere”. Elemosinando di porta in porta, ottenne quanto fu indispensabile per iniziare un piccolo ospedale per bambini handicappati e scrofolosi. Quell’ospedale, che aveva soltanto una dozzina di letti, fu, niente meno, il primo ospedale pediatrico della Spagna, e fu benedetto personalmente dal Vescovo che lo aveva respinto qualche mese prima, credendolo un sognatore. Siamo nel dicembre del 1867.

E visto che i bambini sono sempre all’avanguardia nel Regno di Dio, il piccolo ospedale di Barcellona fu il trampolino di lancio per la conquista ospedaliera nella penisola. Figurava come “centro assistenziale civile di carattere filantropico” e, senza dubbio, comportò per il P. Menni difficoltà indicibili; tuttavia, il 31 maggio 1868, il Generale dell’Ordine approvò la fondazione come la prima cellula dell’Ordine restaurato in Spagna.

Nel 1872 il P. Menni è nominato Commissario Generale dell’Ordine per la Spagna. Quattro mesi più tardi, l’avvento della Repubblica ravviva il fuoco rivoluzionario. Travestito da contadino catalano e accompagnato dal confratello spagnolo Fra Girolamo Tataret, un giorno il P. Benedetto alla guida di una vecchio carretto squinternato, si dirigeva verso la periferia di Barcellona per fuggire dalla cerchia irresistibile delle milizie; il carro però si ribaltò in una curva, vicino a un posto di blocco, e i due “contadini” vennero arrestati. Espulso dalla Spagna il 1° aprile 1873, già all’inizio di giugno vi tornò in visita clandestina, portando con sé le elemosine raccolte in Francia per sussidiare l’ospedaletto di Barcellona.

menni - guerraAltre due volte fece quel medesimo viaggio, e la seconda, quasi in modo rocambolesco, entrò da Gibilterra, dopo uno scalo in Africa: da Marsiglia s’era infatti dapprima diretto in Marocco con l’intenzione di fondare un ospedale a Tangeri, dove arrivò realmente, ma a nuoto, gettato dalla nave in mare da un estremista spagnolo. E da Gibilterra al cuore della guerra civile spagnola, in qualità di volontario della Croce Rossa. Il Re Don Carlos l’accettò come infermiere, assieme ad altri cinque confratelli dell’Ordine. Fino alla cessazione delle ostilità (il 6 aprile 1876) il P. Benedetto curò corpi e anime dei due opposti schieramenti, sfidando il fuoco incrociato sui fronti di Portugalete, Abárzuza, Lácar, Lumbier e Pamplona, o nella pace sofferta degli ospedali di guerra organizzati a Santurce, Irache, Comillas, Gomilar, Ochandiano e Santa Agueda.

Le litografie del tempo, ingenue nel loro drammatismo, non mettono in evidenza quel buon samaritano all’azione in mezzo al fumo delle scariche, tra i berretti rossi dei carlisti o i chepì dei liberali, in mezzo alla sanguinosa lotta corpo a corpo con le baionette lunghe come spade, tra i campi punteggiati di cadaveri umani e di cavalli sventrati. E tuttavia era lì, come infermiere e come sacerdote. E quel battesimo di carità, in sintonia con la più genuina tradizione dei Fatebenefratelli, fu provvidenziale perché il gruppetto di seguaci del P. Menni, giunto poi a Madrid al termine delle ostilità, ottenesse il riconoscimento legale come “Associazione Infermieristica dei Fratelli della Carità”, e il permesso di fondare in seguito ricoveri e ospedali.

La centrale della carità

Ciempozuelos fu il vero focolare della restaurazione dell’Ordine in Spagna. Lì si trasferirono i novizi di Barcellona; e lì, tra il susseguirsi di nuovi padiglioni, sorse un manicomio per uomini, che andò affermandosi come una struttura psichiatrica di avanguardia.

Nel giro di poco tempo, così come a volte la primavera esplode all’improvviso e tutto fiorisce da un giorno all’altro, si moltiplicarono le domande e le possibilità di fondare in tantissime parti. E alcune di queste possibilità diventarono anche realtà. In seguito al moltiplicarsi delle fondazioni, il P. Menni fu nominato Provinciale della nuova Provincia della Spagna (1884), con affidati a lui 70 religiosi professi e 25 novizi; tutto ciò significava che, oltre ai problemi amministrativi, si aggiungevano ora l’impegno per la formazione umana e spirituale dei suoi confratelli, l’animazione del fervore religioso, e il tenere vive e unite le diverse comunità. E anche se si manifestò qualche dissenso, poiché sempre qualcuno la pensa differentemente, nel complesso il suo servizio come Provinciale fu giudicato positivamente, considerando che venne riconfermato per ben 6 volte durante diversi Capitoli, restando in carica per 19 anni consecutivi. Nel 1903, quando cessò il suo incarico da Provinciale, l’Ordine contava in Spagna, Portogallo e Messico complessivamente quindici case fondate da lui, con la seguente tipologia: quattro ospedali ortopedici per bambini rachitici e scrofolosi; sei ospedali psichiatrici per uomini; una colonia agricola per l’ergoterapia dei malati mentali dell’ospedale di Ciempozuelos; un ospedale per epilettici; un gerontocomio; una residenza funzionante come casa di riposo per sacerdoti e come scuola per bambini poveri; e un collegio per orfani poveri.

I santi fanno pazzie

Tutto questo era ancora poco. Visto che Dio ama “complicare” la vita ” dei suoi amici, gli addossò un nuovo lavoro, di certo non contemplato minimamente quando a 19 anni aveva bussato alle porte del Noviziato per donare la sua vita a servizio degli infermi: fondare una congregazione religiosa femminile.

Qualche anno dopo, lui stesso qualificò quel gesto come “pazza decisione”. Ma ora che a distanza di oltre un secolo quella pianticella si è trasformata in albero frondoso, una cosa appare certa: la “pazzia” di quella sua fondazione ci appare della stessa stoffa della divina pazzia di cui ci parla tanto “saggiamente” San Paolo nell’Epistola ai Corinti.

Ma facciamo qualche passo indietro nel tempo.

Fin dall’inizio della sua missione di restauratore, il P. Menni si rese conto che il Signore, che l’aveva chiamato a prendersi cura degli emarginati fisici e psichici della Spagna, aveva bisogno di mani femminili e di cuori di madri per attendere le malate mentali e le bambine handicappate che la normativa dell’epoca non consentiva fossero accolte negli ospedali dei Fatebenefratelli. Considerando che la prospettiva di fondare lui stesso una specie di Ramo femminile del proprio Ordine cui affidare tali malate fosse una “pazza decisione”, cercò di temporeggiare; chiedendo ispirazione alla Madonna e nel frattempo, come gli consigliava il suo Superiore Generale, provando a rivolgersi agli Istituti femminili già esistenti, ma dovette constatare che non se ne trovavano di disposti a risolvergli il problema.

Nel frattempo, al sud, proprio nella città di Granada dove San Giovanni di Dio aveva fondato l’Ordine dei Fatebenefratelli, due donne, Maria Giuseppina Recio e Maria Angustia Gimenez, sentirono la chiamata della grazia a donare la loro vita per un “progetto” ancora non ben definito. Si affidarono ad un direttore spirituale, ma quando questi s’ammalò, la Provvidenza guidò sui loro passi come loro nuovo direttore spirituale proprio P. Menni, che però inizialmente provò riluttanza ad assecondare la loro aspirazione e ad avvalersene per dare infine vita ad un nuovo Istituto Religioso femminile specializzato nell’assistenza psichiatrica.

María Josefa Recio

Alla fine, durante l’estate del 1880, da Ciempozuelos arrivò a Granada l’invito del Padre: “Se volete, potete venire…” Le due donne decisero di lasciare la città alla chetichella e, dopo una sorta di fuga notturna da Granada, giunsero a Ciempozuelos, stabilendosi in una casa poverissima e inospitale, tenuta per di più da una proprietaria intrattabile, e sul momento occupando le giornate giusto a lavar montagne di biancheria dell’ospedale, tra i pettegolezzi della gente sull’onore del P. Menni.

María Angustias Jiménez Vera

Come inizio, niente male! e rischiò di essere anche la fine! Comunque fu un buon inizio, segnato dalla croce e in una povertà da Betlemme. In una circolare a tutto l’Istituto, il 22 giugno 1903, il P. Menni spiegava il segreto dell’esito: quella “pazza decisione” fu alla fine indovinata perché “scaturiva dal Cuore di Gesù, in virtù del suo divino Spirito”.

Presto la nascente Congregazione cominciò a ricevere vocazioni: tre, quattro, sette, dieci… Presto poterono sistemarsi in un altra casetta del paese. Presto le giovani ebbero come libro di riferimento il crocifisso e come Superiora la Madonna (”Questa è la vostra Superiora – disse loro il Padre – sotto la sua protezione pongo tutte le mie figlie“), invocata come “Nostra Signora del Sacro Cuore”, titolo mariano col quale cominciarono a chiamarsi, e che diede più tardi luogo all’attuale denominazione di “Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù”. Presto ebbero i loro primi “fioretti”, come quella indimenticabile scena dell’accoglienza della prima malata: le si fecero attorno con grande affetto e, una dietro l’altra, si avvicinarono a lei per baciarle i piedi, così come avrebbero fatto con il Signore, al quale avevano consacrato la loro vita. Presto ebbero un motto che sintetizzava in sei verbi all’infinito altrettante esigenze ascetiche: “pregare, lavorare, patire, soffrire, amare Dio e tacere“.

Continua

E presto ebbero la loro prima martire della carità: una delle due coraggiose pioniere venute da Granada, Maria Giuseppina Recio, messa alla guida dell‘Istituto appena nato, moriva il 30 ottobre 1883 dopo essere stata calpestata e malmenata da una demente; oggi la sua salma e quella della Confondatrice Maria Angustia Gimenez riposano in una cappella laterale della medesima Chiesa di Ciempozuelos nella quale le Suore custodiscono sotto l’altare centrale il venerato corpo di San Benedetto Menni.

La nuova Congregazione, avendo ottenuto l’approvazione diocesana, ebbe il suo inizio canonico con l’ammissione in noviziato delle prime suore il 31 maggio 1881. L’anno seguente (1882) il P. Menni scriveva le prime Costituzioni; nel cui prologo precisava che l’incipiente istituzione mirava all’assistenza caritativa delle malattie mentali; o, come spiegava poco dopo, “all’esercizio costante della virtù della carità cristiana attraverso il soccorso, la cura e l’assistenza continua delle donne alienate, accettando questo sacrificio come necessità particolare che esiste oggi nell’umanità sofferente”. A distanza di più di un secolo, quell’oggi è valido ancora!

Undici anni dopo era già una Congregazione di Diritto Pontificio. Quando il P. Menni cessò di essere Provinciale dell’Ordine (1903), le Suore avevano nove case: sei per malate mentali e tre per bambine rachitiche e scrofolose povere, aperte rispettivamente a Ciempozuelos, Málaga, Madrid, Las Corts, Palencia, Parigi, Idanha, (Portogallo), San Baudilio di Llobregat, Santa Agueda; e nuove case sorsero negli anni seguenti: Pamplona (1909), Roma (1905), Viterbo (1909), Nettuno (1910), ecc. fino alle oltre cento case sparse in 24 nazioni nelle quali attualmente lavora “questa famiglia religiosa, nata dal divin Cuore”, secondo la testuale affermazione del loro Fondatore.

I santi non vanno in pensione

Riprendiamo il filo della biografia nella data chiave del 1903. Il P. Benedetto Menni finisce il suo lungo servizio come Provinciale. Ha 62 anni. Ha avviato un’opera molto estesa, e ormai potrebbe anche pensare al meritato e sereno riposo, dedicando maggiore attenzione alla sua Congregazione delle Suore Ospedaliere, ma come “uomo” ancora è in grado di lavorare; e come “santo” la Chiesa ha bisogno di lui quale strumento di rinnovamento in quegli anni tormentati.

Nel 1905 lo incontriamo a Roma, in un Capitolo Generale dell’Ordine. Ritornato in Spagna, la Santa Sede lo richiama a Roma per nominarlo Visitatore Apostolico dei Fatebenefratelli (1909): viaggi, lettere e visite personali alle diverse Province, nella delicata missione di ravvivare lo spirito e l’osservanza religiosa. Finito questo compito, il Papa San Pio X lo nomina Generale dell’Ordine (1911).

In questa mobilità e attività snervante, che caratterizzano la sua vita, dove finisce “l’uomo” e dove comincia il “santo”? Organizzare, viaggiare, cercare prestiti, dirigere costruzioni, amministrare… lo può fare qualsiasi impresario, e poteva averlo fatto quel giovane milanese, tipicamente intraprendente, chiamato Angelo Ercole Menni, se avesse deciso di lanciarsi sulla strada della rivoluzione o della politica.

Ma l’uomo di Dio, il “santo”, viveva tutte queste attività con novità interiore, faceva tutto con un cuore diverso, un cuore ogni giorno più immedesimato con i sentimenti di Cristo Gesù, che finivano col trasparire nel suo comportamento, nel quale possiamo schematicamente evidenziare cinque attitudini fondamentali:

  • Fiducia totale e profonda nel Cuore di Gesù “colmo di misericordia e di amore”, un tema, questo, che lo emozionava quando ne parlava. Acceso di devozione al Sacro Cuore, dispose che tutti i primi Venerdì si celebrasse una Messa cantata e si esponesse il Santissimo. Difficilmente egli avrebbe potuto divenire “un altro Cristo” se non avesse bevuto alla fonte di quel Cuore redentore, perennemente misericordioso con gli infermi e le folle abbandonate.

  • Ricorso quasi istintivo alla Vergine Maria; egli, dai tempi del Rosario recitato da ragazzo in famiglia e fino all’ora della sua morte, trovò sempre in Maria la strada per andare a Gesù. Ed identico cammino suggeriva alle sue figlie. “La Vergine - scriveva loro - porta tra le braccia Gesù che ci lascia vedere il suo divino cuore e con le sue braccia aperte ci invita ad andare verso di Lui”. Ed aggiungeva loro: “Lei ci consentirà d’entrare e rimanere nel Cuore di Gesù”.

  • Pietà semplice, immediata, per nulla cerebrale. Sempre in movimento per impegni o viaggi, egli immancabilmente all’uscire o rientrare si soffermava in cappella, convinto che la cosa migliore era porre ogni assunto nelle mani di Dio. La sua giaculatoria più ricorrente era: “Gesù mio, di me diffido, al Cuore tuo m’affido e mi ci rifugio”. Il nome di Gesù era costante sulle sue labbra. Questa pietà lo portava a compiere ogni cosa pensando a Lui: “L’unico cammino da seguire – usava ripetere – è fare la volontà di Dio”. E questo uniformarsi al volere divino non si stancava di raccomandarlo nelle sue lettere: “Chiediamo a Gesù che ci infiammi del suo amore. Chiediamo alla Regina di questo amore, la Vergine Immacolata, che accenda in noi questo fuoco divino… Oh Gesù, non intendiamo offrirti resistenza”.

  • Carità senza limiti e molto concreta, seguendo il consiglio stesso di Gesù: “Se io ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”. Carità che gli faceva vedere negli infermi l’immagine di Cristo, e che spiega perché qualche volta lo videro imboccarli in ginocchio. Carità che lo faceva intenerire alla vista di un mendicante; carità che lo portò una volta a consegnare ad un uomo che gli raccontava le sue miserie le uniche cinque pesetas che aveva per affrontare un debito di cinquecento, ed a giustificarsene dicendo “questa moneta per noi è niente, ma a lui lo toglierà da grandi difficoltà”; carità che mise a grande rischio la sua vita nel 1885 quando volle recarsi ad assistere i contagiati dal colera. Una carità, sorgente di così alta libertà interiore nel cercare il bene dei malati, che una volta giunse ad offrire la direzione sanitaria dell’ospedale di Ciempozuelos ad un celebre psichiatra, il Dott. Simarro, nonostante fosse ateo e membro della Massoneria spagnola (”non ho bisogno di catechisti, diceva, ho già i religiosi; necessito piuttosto di un grande medico“); il Dott. Simarro, commosso da quel gesto, raccomandò, al suo posto, un suo discepolo ed eccellente cattolico, il Dott. Michele Gayarre.

  • Umiltà eroica. Ciò che meno ci interessano sono gli aneddoti, come quella sua reazione davanti alle Suore di una comunità che, per festeggiare il suo arrivo, avevano eretto un baldacchino con il suo ritratto: O togliete quella roba lì, o non entro”. O quell’altra volta che raccontò alle Suore, pieno di gioia:“Passando dalla Piazza della Rocca alcuni cocchieri mi hanno deriso e mi hanno persino insultato. Mi sta bene e me ne rallegro, ne merito ancora di più!”



    La cosa più difficile però, quella che gli consentì nel suo cammino verso la santità di bruciare le tappe, fu il fatto che, a partire dalla volta che finì arrestato a Barcellona, fu costretto a presentarsi davanti a tutti i tribunali della terra, come ebbe a dire alcuni anni prima di morire. Due casi soprattutto: Il famoso “caso Semillan”, davanti al Tribunale Penale di Madrid. Si prolungò per sette anni (1895-1902) con morbosità scandalosa, fomentata dai giornali anticlericali, nel quale si accusava il P. Menni di ripugnanti violenze verso una povera demente.

    Furono sette anni durante i quali quel “prete abominevole”, presentato grossolanamente dai giornali, non volle mai un avvocato difensore (l’accettò soltanto su richiesta del Vescovo di Madrid, che ritenne che quella interminabile campagna scandalistica avesse come bersaglio la Chiesa e volle fosse presentata querela, risultandone nel gennaio 1902 la piena condanna dei calunniatori da parte del Tribunale di Madrid) né volle ricorrere alla stampa per replicare ai suoi avversari, né mai giunse a biasimarli; al contrario, arrivò a gesti estremi, come quello di baciare i giornali che lo diffamavano (”questo mi fa bene, diceva, è oro puro per me”), o a gongolare di gioia nel ricevere un giorno una lettera ingiuriosa, dicendo: “questo non accade tutti i giorni”… e immediatamente si mise a cantare, facendo il gesto di suonare il violino… Più amara ancora fu la campagna di calunnie, da lui stesso definite innumerevoli, davanti al tribunale vaticano del Sant’Uffizio.

    Questa fu per lui la sofferenza più penosa, trascinatasi per circa tre anni, fin quando nell’aprile 1896 venne comunicata ufficialmente la sentenza che non si doveva tenere “conto alcuno” delle accuse. Fu pure vittima di altre accuse davanti alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, davanti al suo Superiore Generale. Fu ogni volta riconosciuto innocente, ma neppure i santi sono d’acciaio e intimamente ne soffrì, specie perché le accuse vennero mosse da alcuni suoi confratelli e, in qualche occasione, dalle sue stesse figlie. Cosa era successo? Soltanto questo: che la carità del P. Menni non era debolezza e tanto meno condiscendenza bonacciona con il male.

    Durante i suoi lunghi anni di governo come Provinciale, Visitatore e Generale, in circostanze delicate per la Chiesa d’Europa, represse con serena fermezza alcuni abusi; nel manicomio di San Baudilio di Llobregat espulse alcuni medici in seguito ad alcuni casi seri di immoralità; e tagliò corto con alcune deviazioni nella disciplina religiosa di alcune comunità.

    Tutto ciò gli procurò, all’interno dell’Ordine, un piccolo gruppo di avversari, influenti ed intriganti, che usarono contro di lui tutti i mezzi possibili, compresa la calunnia. Accusato e accerchiato, ancora una volta non volle difendersi, ma preferì presentare le dimissioni da Superiore Generale, dopo esserlo stato per poco più di un anno: era il 20 giugno 1912. Il cammino Regale della Santa Croce Gli rimanevano ancora due anni di vita. Cosa avrebbe fatto nel frattempo? Si sarebbe detto di lui, come si dice di alcuni personaggi biblici: “riposò nella sua buona vecchiaia”?

    Poteva ritirarsi a riposare in qualcuna delle tante case da lui fondate, lasciarsi curare dalle Suore con affetto filiale, forse scrivere le sue memorie, come fanno i grandi personaggi della storia. Ma lui, il “grande” uomo Benedetto Menni, era già più piccolo che il grande “santo”, scolpito dalla grazia. E tuttavia il “santo” non era ancora compiuto del tutto. A Dio restavano ancora due anni per completare in quell’anziano l’immagine del figlio suo Gesù, che morì rifiutato, abbandonato e perdonando. In effetti, furono presi contro di lui alcuni provvedimenti che oggi ci sembrano spietati. All’inizio gli consentirono di visitare le case delle Suore, pur con qualche limitazione.

    Nell’agosto 1912 lo obbligarono ad eleggere dimora stabile in una casa dell’Ordine, che non fosse né a Roma né in Spagna. Lasciò dunque l’alloggio nell’ospedale che le sue Suore avevano a Viterbo e si trasferì in settembre nella Comunità dei suoi Confratelli a Parigi. Nel novembre 1912 gli fu proibito qualsiasi tipo di intervento, diretto o indiretto, nelle questioni della Congregazione delle Suore Ospedaliere; gli fu tolto il fedele aiutante e segretario, Fra Alfonso Galtés; gli fu vietato di vivere nelle città dove le Ospedaliere avevano case: e siccome a Parigi l’avevano, dovette allontanarsi da Parigi!

    L’umiliazione crebbe ancora di più quando dal Vaticano la Congregazione dei Religiosi ordinò una visita di verifica alle diverse comunità della Suore Ospedaliere, che pur concludendosi onorevolmente, si protrasse fino a due mesi prima della morte del Fondatore. Vale la pena contemplare il suo volto in una fotografia del tempo. E’ e non è lo stesso di qualche anno prima: ha ancora lo stesso viso squadrato da milanese spiccio e intraprendente; ma al tempo stesso si è invecchiato e sono apparse le rughe, le sue fattezze però hanno acquisito una particolare nobiltà; i suoi occhi scrutatori, ben lontani dall’apparire melanconicamente rassegnati o addirittura scoraggiati, sembrano invece quelli di un vecchio marinaio che scruta il porto tra la nebbia all’orizzonte.

    E’ un anziano. Mentre “l’uomo esteriore” si va disfacendo, il santo, “l’uomo interiore”, si rinnova ogni giorno” (2 Cor 4,16); la dimora terrena di questo indomito costruttore di case per gli altri, è prossima a disfarsi, ma per lui è già pronta una casa solida, non costruita da mani umane, ma eterna, nei Cieli (2 Cor 5,1). Spogliato di tutto, aspettava serenamente, senza condannare nessuno, di approdare nella Patria celeste, a godervi il Signore.

    Era ancora a Parigi quando soffrì un attacco di paresi; non ricuperato perfettamente, il 19 aprile 1913 si traferì a Dinan, una casa dell’Ordine nel nord della Francia dove le Suore non avevano Comunità. Due di loro, capitate a chiedere elemosina nella zona, chiesero di vederlo: il Padre seppe dir loro, con lacrime agli occhi, soltanto questo: - Siete ancora vive, figlie mie?

    La sua saluteandava peggiorando vistosamente, nonostante le affettuose premure dei Confratelli. Un secondo attacco di paresi lo ridusse alla immobilità quasi assoluta. Fu allora che quel grande imprenditore, amministratore, organizzatore, costruttore, fondatore, governante, compì l’opera maggiormente meritevole della sua vita: la sua propria morte, “volontariamente accettata” – come Cristo fece con la sua – per la redenzione di tutti gli uomini.

    La mattina del 24 aprile 1914, preparato per il grande viaggio con i sacramenti della Chiesa e una benedizione speciale del Papa Pio X, morì “l’uomo” Benedetto Menni per iniziare una vita che non ha fine. Cristo glorioso, che soffre in tanti esseri umani ammalati e deformi, accolse il suo piccolo buon samaritano, Fra Benedetto, con le beatifiche parole: “Quello che hai fatto ai più piccoli dei miei fratelli, l’hai fatto a me. Entra nel gaudio del tuo Signore”. Due anni prima, quando aveva rinunciato al suo compito di Generale, nell’udienza di commiato dal Papa Pio X, gli aveva detto: “Santità, sono stato convocato da tutti i tribunali della terra. Mi auguro che, così come sono uscito felicemente da tutti i tribunali di quaggiù, possa ugualmente essere assolto un giorno dal tribunale di Dio e trovi la sua misericordia”. Il Papa gli aveva replicato con amabilità: - La troverà, la troverà

    Sì; adesso sappiamo dalla Chiesa che l’ha trovata, e nel grado più alto. Impegnando la sua infallibilità, la Chiesa ci assicura che “l’uomo” Benedetto Menni ha raggiunto la vetta della carità perfetta: è “santo”. E’ un giudizio formulato da quel tribunale di Dio sulla terra che è la Chiesa gerarchica.

    SAN BENEDETTO MENNI – Certificato di battesimo

    Posted on Giugno 21st, 2009 di Angelo


    San Benedetto
    .
    .
    Menni
    .
    .
    _benedetto_menni

    Cresimato il 26 Giugno 1849

    Battezzato l’11 Marzo 1841

    Ricorre quest’anno un duplice anniversario del nostro confratello San Benedetto Menni, poiché il 21 novembre si compiranno dieci anni dalla sua Canonizzazione ed in questo mese di giugno si compiono centocinquanta anni dal germogliare della sua vocazione.

    .

    Specialmente quando si tratta di Santi, di persone cioè che seppero rispondere con piena generosità al piano del Signore, gli anniversari offrono il destro per rintracciare il filo sottile che la mano di Dio tesse negli avvenimenti quotidiani per far a poco a poco progredire le imprese più memorabili. Vedremo perciò di ripercorrere i noti eventi nazionali del 1859 col preciso intento di scoprire il suddetto filo.

    .

    G. Fattori, Campo italiano dopo la battaglia di Magenta.

    La II Guerra d’Indipendenza dell’Italia fu astutamente avviata da una mobilitazione di truppe sabaude sul confine lombardo, cui l’Austria reagì invadendo il Piemonte, il che giustificò, in forza dell’alleanza negoziata da Cavour con i francesi, che questi accorressero in aiuto con un contingente di 200.000 soldati, guidati dallo stesso Napoleone III.

    .

    Fu quella la nostra prima guerra in cui ci fu un uso strategico delle ferrovie1, la cui rete aveva preso a svilupparsi. I francesi poterono rapidamente raggiungere in treno il fronte di battaglia sia da Susa, dov’erano pervenuti dal Moncenisio, sia da Genova, nel cui porto sbarcarono portandosi perfino dei vagoni. Lo scartamento dei binari era identico allora ovunque poiché il materiale rotabile era tutto d’origine inglese.

    .

    Le truppe austriache, che si erano concentrate a Magenta, vi furono vittoriosamente attaccate da quelle francesi il 4 giugno 1859. Nel sanguinoso scontro, che impegnò centomila soldati, gli austriaci, di poco preponderanti, ebbero 1.368 morti, 4.358 feriti e 4.500 dispersi; i francesi ebbero 634 morti, 3.239 feriti e 735 dispersi; i piemontesi, intervenuti marginalmente, ebbero 4 feriti2.

    .

    Sul campo di Magenta risultò estenuante evacuare i tantissimi feriti. Già in serata la popolazione delle vicine frazioni, avvalendosi di una cinquantina di carrette, iniziò a trasportarli verso Novara dove, oltre ai due ospedali civili, erano stati allestiti due ospedali militari grandi e quattro piccoli, per un totale di 2.500 posti letto3. Nella serata del 5 giunsero anche le ambulanze militari, che in tre giorni evacuarono oltre 600 feriti francesi ed austriaci, inviandoli a Buffalora e Novara4. Inoltre, visto che Magenta era lungo la ferrovia Milano-Novara, si cominciò ad utilizzare i vagoni che arrivavano dal Piemonte con i rifornimenti per l’esercito, facendoli tornare a Novara carichi di feriti.

    Rievocazione storica della Battaglia di Magenta il 13 e il 14 giugno: quattordici gruppi sfileranno in uniforme storica, tra salve di armi d’epoca

    Nel frattempo Milano la sera del 6 giugno venne abbandonata dalle truppe austriache, che in seguito alla sconfitta di Magenta avevano deciso di ripiegare su Lodi. La mattina del 7 le truppe francesi penetrarono in Milano da Porta Vercellina (che oggi in ricordo si chiama Porta Magenta) e con loro entrò un enorme convoglio di feriti5. La popolazione ne rimase tremendamente impressionata6 e molte famiglie accolsero feriti nelle loro case.

    .

    La vista di quel sangue rappreso rimase indelebile nella memoria non solo dei milanesi, ma anche in Inghilterra, dove subito, grazie al telegrafo, i giornali dettero così risalto all’evento che s’iniziò a popolarmente chiamare magenta un nuovissimo colorante sintetico di tonalità sanguigna derivato dall’anilina, individuato dal chimico Emanuele Verguin in Francia, dov’era venduto col nome di fucsina7; l’appellativo magenta si diffuse, finendo internazionalmente usato per designare nella scala dei colori una tonalità cremisi scura, risultante da una particolare combinazione di rosso e di violetto8, e nel 1967 fu adottato commercialmente per indicare uno dei quattro inchiostri basici per la stampa industriale9.

    Ospedale Fatebenefratelli – Porta Nuova

    Fbf - EnterAncor più feriti arrivarono a Milano nei giorni seguenti poiché i vagoni, invece di puntare sulla ormai satura Novara, dirottarono sul tronco Magenta-Milano, che era entrato in funzione da ottobre e che in solo 25 km raggiungeva la Stazione di Porta Nuova10. Qui prese perciò a giungere un vero fiume di feriti e tantissimi giovani milanesi accorsero a dare una mano, aiutando a scendere dal treno ed a raggiungere ambulanze e carrozze coloro che non erano in grado di farlo da soli.

    .

    Tra quei volenterosi c’era anche il diciottenne Ercole Angelo Menni. Era nato a Milano l’11 marzo 1841 e nel 1857, conclusa la quinta classe nel Regio Ginnasio di Porta Nuova, aveva trovato lavoro in Banca, ma se n’era presto licenziato per non piegarsi a pratiche truffaldine che gli venivano richieste e che erano incompatibili con la rettitudine insegnatagli in famiglia. In attesa d’un lavoro migliore, profittò che era libero da impegni per andare quotidianamente non solo a far scendere i feriti dai vagoni, ma ad accompagnarli al vicino Ospedale di Porta Nuova, nel quale noi Fatebenefratelli avevamo messo a disposizione 200 letti per loro, e restandovi poi per l’intero giorno11 come volontario, pronto ad offrire ogni possibile aiuto ai feriti che ne avevano bisogno.

    .

    Presto cominciarono ad arrivare nell’Ospedale dei Fatebenefratelli anche i feriti della successiva ancor più sanguinosa battaglia di Solferino, combattuta il 24 giugno e nella quale gli austriaci ebbero 2.292 morti, 10.837 feriti e 8.638 dispersi; gli avversari ebbero 2.313 morti, 12.102 feriti (di cui 3.572 italiani) e 2.776 dispersi12.

    .

    Al cessare l’8 luglio le ostilità per l’armistizio di Villafranca, le Autorità di Milano vollero fare un bilancio numerico dei militari smistati nei ventun luoghi di degenza, in gran parte provvisori, che erano stati organizzati in città. Secondo il prospetto13 compilato l’8 luglio 1859, all’inizio della giornata i ricoverati risultavano 5.774, di cui 3.123 francesi, 895 italiani e 1.926 austriaci; nel corso della giornata ne morirono 27, ne furono dimessi 493 e ne furono ricoverati 302, per cui il numero complessivo dei ricoverati era sceso a mezzanotte a 5.526. Per quanto riguarda l’Ospedale dei Fatebenefratelli, all’inizio della giornata vi figuravano degenti 107 militari, ossia 105 francesi (dei quali 13 erano ufficiali) e 2 austriaci; a mezzanotte erano scesi a 94, essendoci stati tra i francesi 13 trasferimenti, un deceduto ed un nuovo ricovero.

    organo foto.jpg (66020 byte)

    Vespri d’Organo diffusi nelle stanze dell’Ospedaledale Fatebenefratelli 1990, dopo il restauro dell’organo costruito da “Natale Morelli” nel 1853.
    .

    Quando Napoleone III venne a sapere che i ricoverati del nostro Ospedale milanese erano quasi tutti francesi, volle venirvi a confortare i suoi soldati e rimase ammirato per lo zelo con cui erano assistiti dai frati, tanto che si staccò dal petto l’onorificenza della Legion d’Onore e seduta stante ne insignì il Priore, fra Girolamo Conti14.

    .

    La vecchia Stazione Centrale (1864-1931)

    La Stazione Centrale dal lato città con il grande emiciclo del piazzale antistante, visto dai Bastioni a fine Ottocento, prima della realizzazione degli anelli tranviari. (cartolina Publicards)

    Ancora più memorabile fu la reazione del giovane Menni, anche lui colpito dall’ardore con cui i frati, spinti dal loro peculiare Voto di Ospitalità, sapevano trasformarsi in araldi dell’amore e della premura di Dio per ogni sofferente. Si ripeté in qualche modo per Menni quanto era successo nel 1538 al Fondatore dei Fatebenefratelli, San Giovanni di Dio, che proprio in occasione di una sconvolgente esperienza nell’Ospedale Reale di Granada si sentì sfidato a consacrare la propria vita ai malati, specie i più abbandonati.

    .

    La stazione di Porta Nuova (1840) – La stazione è stata fino al 1849 il capolinea della linea per Monza ed è ancor oggi esistente. Il fronte dell’edificio, parallelo al rettifilo per Monza e al Naviglio della Martesana (oggi via Melchiorre Gioia) si trova pertanto perpendicolare alla circonvallazione della città, lungo cui viaggia il tram ‘33′. La seconda stazione di Porta Nuova (1849) è anch’essa esistente ed è oggi sede della Guardia di Finanza.

    Dopo averci riflettuto a lungo nella preghiera ed aver consultato un santo eremita, Menni decise di fare altrettanto. Acquistata come corredo una borsetta di ferri chirurgici15, l’11 febbraio 1860 chiese ai Fatebenefratelli di riceverlo nel loro Istituto. Dato che n’avevano già apprezzato lo zelo con i malati, l’accettarono subito in prova come Postulante e chiesero d’avere sia il consenso scritto del papà, che lo firmò il 15 marzo, sia certificati e referenze del suo Parroco, che parimenti in data 15 marzo attestò l’impegno del giovane in Parrocchia e la sodezza della sua vocazione alla vita religiosa. Allo scadere del trimestre di prova la sua richiesta d’ammissione in Noviziato, che aveva firmato il 19 aprile, fu approvata all’unanimità sia dalla Comunità locale, sia dai Consigli Provinciale e Generale, per cui prese l’abito di Novizio domenica 13 maggio 1860, ricevendo in religione il nome di fra Benedetto.

    .

    Porta Nuova, dove sorgeva l’antico ospedale Fatebenefratelli

    Quel frate era destinato a grandi cose e nella trama predisposta per lui dalla Provvidenza i feriti del 1859 tornarono di nuovo a giocare un ruolo importante, però stavolta in tempi lunghi, come vedremo.

    Henry Dunant

    Se a Magenta l’evacuazione dei feriti fu agevolata dalla ferrovia, a Solferino fu molto più difficile e le tremende sofferenze dei tanti rimasti sanguinanti sul campo, mossero a pietà uno svizzero che casualmente passava nella zona. Si chiamava Henry Dunant e non solo si prodigò con gruppi di contadini a prestare qualche primo soccorso, ma redasse un sofferto libro di memorie, che pubblicò nel 1862 col titolo “Un ricordo di Solferino”. Con quel libro e con un’incessante opera di propaganda riuscì a convincere vari governi europei che andava assolutamente organizzata l’assistenza ai feriti di guerra propri ed altrui, affidandola ad un apposito corpo neutrale di infermieri volontari. Fu così che, con un accordo iniziale di 16 Stati, nacque nel 1863 la Croce Rossa, da allora presente in ogni guerra.

    .

    In Spagna la Croce Rossa fu introdotta dal medico militare Nicasio de Landa nella sua città nativa di Pamplona il 5 luglio 1864 ed ebbe il battesimo di fuoco nella battaglia di Oroquieta del maggio 1872 durante la guerra civile carlista16.

    Nel 1873 a Marsiglia padre Benedetto Menni ebbe modo d’incontrarsi col dott. Landa, in quel momento Ispettore Generale della Croce Rossa spagnola, e gli si offrì volontario indifferentemente “per soccorrere i feriti del campo repubblicano o carlista, poiché la nostra missione caritativa è superiore a qualsiasi fazione politica o ideologica”17. Landa accettò l’offerta di Menni e da Pamplona gli spedì a Marsiglia il 20 giugno 1873 un salvacondotto per aggregarsi all’esercito carlista sotto il vessillo della Croce Rossa ed usandone le insegne18.

    .

    Bisogna sapere che Menni fin dal 1867 era stato inviato dal suo Superiore Generale, padre Giovanni Maria Alfieri, a Barcellona per restaurare l’Istituto, estintosi in Spagna per le leggi eversive di trent’anni prima. Grazie ad un certo afflusso di vocazioni native, Menni poté aprire a Barcellona una Comunità di Fatebenefratelli che assistevano gratis i bambini rachitici e tubercolotici in quello che, dal punto di vista della Storia della Medicina, fu il primo Ospedale Pediatrico fondato in Spagna19. Dopo la proclamazione della Repubblica nel 1873, ci furono a Barcellona vari tumulti contro i cattolici e Menni rischiò ripetutamente d’essere linciato ed in ultimo gli intimarono di abbandonare il suolo spagnolo. Egli fu perciò costretto ad imbarcarsi per Marsiglia, ma il suo cuore era in Spagna e fu ben felice di potervi tornare come volontario della Croce Rossa.

    .

    Menni restò al fronte per tre anni, rimanendo memorabile la sua eroica dedizione sui monti di Lumbier o nel trasferimento dei feriti dall’ospedale da campo di Gomilar a quello di Santa Agueda, sfidando il crepitio del fuoco nemico20. Il dott. Landa gli espresse la sua gratitudine rilasciandogli il 10 settembre 1876 un attestato di benemerenza della Croce Rossa21 per essersi “consacrato a prestar continuamente negli ospedali il soccorso spirituale e corporale ai feriti, senza distinzione di provenienza e con uguale amore e cristiana carità con quelli dell’uno e l’altro campo”.

    .

    Non solo i belligeranti, ma tutta la popolazione della Navarra apprezzò moltissimo la dedizione di Menni e dei suoi  confratelli e molti chiesero di indossarne l’abito. Grazie a quel fiorire di vocazioni, appena nel 1876 tornò la pace Menni poté moltiplicare le fondazioni, ricostituendo nel 1884 la Provincia Spagnola dei Fatebenefratelli, di cui rimase alla guida fino al 1903, avendo la gioia di dare l’abito a quasi un migliaio di candidati. Tra Spagna, Portogallo e Messico lasciò fondati ben 15 Ospedali per ogni specie di infermi, soprattutto però dementi e fanciulli storpi, i più trascurati allora dall’assistenza pubblica.

    Poiché tali Ospedali erano solo maschili, Menni nel novembre 1880 si sentì inspirato a fondare per l’assistenza alle donne le “Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù”, che nel 1881 ottennero l’approvazione diocesana e nel 1901 quella Pontificia: egli affidò loro otto Ospedali in Spagna, uno in Portogallo, uno in Francia e due in Italia, a Viterbo e Nettuno. Le Suore oggi sono in 25 nazioni.

    .

    La Chiesa ha riconosciuto Menni come Santo nel novembre 1999 e per il decennale di tale proclamazione ci proponiamo di ritornare a parlare di lui, ma per intanto c’è sembrato opportuno accennare a come gli eventi della II Guerra d’Indipendenza furono utilizzati dalla Provvidenza per dapprima guidarlo nel nostro Istituto e poi per trasformarlo in luminoso modello dei volontari, dei quali ben meriterebbe22 essere designato Patrono Universale.

    .

    Fra Giuseppe Magliozzi o.h.


    Il Gamba in uscita dal depositi di Corso Vercelli

    La storia del Gamba de Legn’ (questa sarebbe la corretta ortografia milanese) inizia il 9 settembre 1878, con l’atto di concessione per la costruzione di una tramvia a vapore tra Milano e Magenta, di circa 23 km di lunghezza, con una diramazione da Sedriano a Càstano Primo. Un anno più tardi venne inaugurato il primo tratto della linea da Milano a Sedriano, cui seguì in breve tempo il completamento del percorso.

    Per l’epoca si trattava di un mezzo di trasporto tecnologicamente molto avanzato, se confrontato con i tram a cavalli milanesi gestiti della SAO, in grado di trasportare una decina di persone, o con lo stesso tram di Monza, che restò ippovia per altri vent’anni, fino al 1900. Il Gamba de Legn’, invece, poteva trasportare molti più passeggeri in diverse carrozze, ad una velocità commerciale di una decina di chilometri all’ora.

    QUI IL CERTIFICATO DI BATTESIMO

    curriculum-menni2

    Benedetto (al secolo Angelo Ercole) Menni è stato un sacerdote italiano dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, fondatore della congregazione delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù .

    Menni Benedetto

    MILANO : SANTUARIO di Santa Maria alla FONTANA Added MILANO : SANTUARIO di Santa Maria alla FONTANA La Parrocchia nella quale ha ricevuto il battesimo e che lo ha formato. Qui ha origine la marcata spiritualità mariana del Menni san bebedetto menni Il sedicenne ragioniere, da poco assunto in un Istituto Bancario di Milano, si auto-licenzia, lasciando di stucco il Direttore che gli aveva “girato” delle operazioni di Banca poco pulite, non in linea con l’ortodossia della sua etica… I “conti” per Angelo Ercole Menni, dovevano inanzitutto quadrare con la propria coscienza. Sono i sintomi di un carattere allergico al “compromesso”: una nota che emergerà nell’azione del futuro amministratore.

    menni
    SAN BENEDETTO (Ercole) MENNI
    .

    SAN BENEDETTO MENNI

    - L’uomo e il santo
    .
    Di   MANUEL IGLESIAS, S. J.

    Chi è Benedetto Menni?

    Nella cittadina di Ciempozuelos, distante trentadue km da Madrid, riposano i resti mortali di un italiano, deceduto nel 1914 nel nord della Francia. Chi era? Un avventuriero in giro per l’Europa? Un esiliato politico? Un commerciante? Una spia internazionale? No, anche se le qualità che aveva e le circostanze in cui visse gli avrebbero consentito di essere tutto questo ed altro ancora!
    Lui stesso si definì in questi termini alla fine della sua vita: “Sono un miserabile, degno soltanto di disprezzo; meriterei che mi buttassero nel mondezzaio!” Ma anche i santi sbagliano! Il sepolcro di questo uomo “degno di disprezzo” riceve oggi grande venerazione, avendolo il Papa Giovanni Paolo II dapprima dichiarato beato nel 1985 e poi nel 1999 deciso di proclamarlo santo durante un’apposita cerimonia nella Basilica Vaticana in occasione della festa di Cristo Re.
    Nonostante egli si ritenesse un “grande peccatore, uno straccione di Cristo”, ora dunque la Chiesa ci invita ufficialmente ad invocarlo come SanBenedetto Menni.
    Più in alto non si può salire. Ma, come iniziò tutto ciò?
    I primi passi
    .
    Seguire i suoi azzardati percorsi lungo i quattro punti cardinali della Spagna non è difficile; anzi è appassionante come un romanzo. Seguire invece le orme del suo itinerario interiore, del suo cammino verso la santità, è molto più impegnativo. Diremmo, quindi, qualcosa, molto brevemente, giusto per ricordare una verità fondamentale che a noi toglie ogni scusa per non diventare santi: i santi non scendono dal cielo come un meteorite; e meno ancora, sono fatti così fin dall’inizio. Per loro non è stato facile. In qualsiasi bivio avrebbero potuto intraprendere altre strade, diverse da quella di seguire Cristo. Ad esempio, nel nostro caso…
    Forse non riusciamo ad immaginare la febbre politica della penisola italiana nella seconda metà del secolo scorso, segnata dall’astio contro Papa e clero e scossa da nord a sud dal fervore nazionalista e dalla ribellione. Un giovane come Benedetto, fine, intelligente, milanese intraprendente, aveva tutte le porte aperte per far carriera; forse ora sarebbe stato considerato un eroe del Risorgimento; ai giardinetti i nostalgici garibaldini ne avrebbero contemplato la statua, in groppa ad un impetuoso cavallo e indicando alle truppe, spada in mano, il passo della vittoria.
    Continua
    Quel giovanotto milanese però, impiegato in una Banca senza aver nemmeno finito gli studi superiori, ebbe il coraggio di perdere il posto di lavoro (aveva 16 anni, e cominciava a vivere!) piuttosto che essere coinvolto in faccende poco pulite o nelle quali i conti non tornavano con la sua coscienza. Ed ebbe il coraggio di rifiutare la proposta di iscriversi alla Massoneria, dove avrebbe sviluppato a fin di male le sue qualità di leader. E in quanto alla guerra, bisogna dire che la vide, ma soltanto dal versante della carità: ha 18 anni quando apprende le prime e immediate conseguenze dello scontro con l’Austria: dozzine di corpi straziati di combattenti che arrivano dal fronte di Magenta a Milano in treni speciali. Benedetto diventa barelliere anonimo per trasportare i feriti dalla stazione ferroviaria all’ospedale dei Fatebenefratelli.
    Va precisato che gesti come questi non si improvvisano. L’abbiamo chiamato “Benedetto”, il suo nome di “santo”; il suo vero nome però fu Angelo Ercole, e le sue radici affondano nella famiglia dove nacque l’11 marzo 1841. Una famiglia che, grazie alle entrate di un modesto negozio gestito dal padre, aveva il necessario per sfuggire alla miseria pur senza scialare; una famiglia di quindici figli (Angelo Ercole era il quinto); famiglia di cristiani all’antica, nella quale si recitava il Rosario ogni sera, si vibrava per qualsiasi evento religioso, si aiutava i poveri e si frequentava i sacramenti.
    Accanto all’humus familiare, che segna la vita di qualsiasi uomo, l’evento personale della vocazione, della quale conosciamo appena questi tre fatti: gli esercizi spirituali a 17 anni, poco dopo aver lasciato la Banca dove lavorava; i consigli di un eremita di Milano, e la sua preghiera quotidiana davanti ad un quadro della Vergine.
    La conclusione: la decisione di donare la sua vita a Dio nell’esercizio della carità.
    .
    L’aver conosciuto i Fatebenefratelli durante il servizio volontario di barelliere fu determinante per chiedere l’ingresso nel Noviziato annesso al loro ospedale milanese di Santa Maria d’Araceli. Vi entrò il 1° maggio 1860; il 13 maggio ricevette l’abito ed il nome da frate di: Benedetto, Fra Benedetto Menni, un “uomo nuovo” che oggi la Chiesa glorifica. Dopo un anno di noviziato fece i voti semplici, e tre anni più tardi, la professione solenne.
    Abbiamo già il santo?
    .
    No. Questo giovane frate ospedaliero può ancora diventare di tutto, compreso un “buon religioso”, ma non santo. Un santo non si improvvisa.
    Tre anni di studio e di pratica infermieristica a Lodi. Fu lì che iniziò anche la sua preparazione all’ordinazione sacerdotale, che ricevette poi a Roma, nell’autunno del 1866, quando si annusava già l’esplosione finale della guerra dello Stato italiano contro il Papa per togliergli Roma.
    Dopo cinque anni, il novizio è già diventato sacerdote. Una formazione professionale di certo affrettata se si tratta di formare un luminare della ricerca teologica o della investigazione filosofica, ma non nel caso di un uomo di azione, come era Fra Benedetto, fatto per medicare ferite concrete di corpi e di anime ugualmente concrete. Dove?
    Il Generale dei Fatebenefratelli, P. Giovanni Maria Alfieri, che trattenne accanto a sé il P. Benedetto durante un anno, si rese subito conto che aveva a portata di mano la persona che gli occorreva per un’impresa quanto mai impegnativa: restaurare in Spagna l’Ordine dei Fatebenefratelli.
    Il giovane frate si spaventa: ha soltanto 26 anni, è troppo integro e retto per un compito che richiederebbe una grande esperienza diplomatica; è coraggioso, ma non temerario. Il Papa Pio IX lo riceve in udienza:
    - “Va in Spagna, figlio mio, e restaura l’Ordine nella sua stessa culla”. Era il 14 gennaio 1867.
    Due giorni dopo, parte per una avventura, umanamente parlando, assurda, sostenuto dall’obbedienza, dalla benedizione del Vicario di Cristo e dalla preghiera alla Vergine.
    In Spagna l’aria che si respirava era totalmente contraria. Da quando era finita la guerra di Indipendenza mai più era tornata la tranquillità nel paese. L’anticlericalismo e il liberalismo di importazione stavano inaridendo la Vita Religiosa. Il governo di Mendizábal, con i due tremendi Regi Decreti del 1835 e 1836, riuscì dapprima a limitare le attività degli Istituti Religiosi, e poi a sopprimerli. Il ramo spagnolo dei Fatebenefratelli, che contava allora tre provincie nella Spagna, una in Portogallo, tre nell’America Latina e una viceprovincia nelle Filippine, oltre ad alcuni ospedali nell’Africa e nell’India, finì per estinguersi.
    Occorreva ripartire da capo, non solo in un clima di aperta ostilità verso tutto ciò che sapeva di religioso, ma per di più in mezzo a guerre e rivoluzioni.
    Dopo una breve sosta in Francia a Lione e Marsiglia, il P. Menni si lanciò alla conquista della penisola iberica come un don Chisciotte in versione divina, “un divino imprudente”. Mentre il paese rabbrividiva per le scosse politico-sociali che avrebbero portato alla caduta della Monarchia nel 1873, il P. Menni, forte solo della benedizione del Papa, entrava in aprile a Barcellona e si presentava al Vescovo diocesano che, evidentemente, lo considerò un ingenuo, se non addirittura una persona pericolosa, e non gli diede credito.
    .
    Tutte le cose hanno un inizio
    .
    .

    Quel divino imprudente però impugnò l’argomento delle “opere”. Elemosinando di porta in porta, ottenne quanto fu indispensabile per iniziare un piccolo ospedale per bambini handicappati e scrofolosi. Quell’ospedale, che aveva soltanto una dozzina di letti, fu, niente meno, il primo ospedale pediatrico della Spagna, e fu benedetto personalmente dal Vescovo che lo aveva respinto qualche mese prima, credendolo un sognatore. Siamo nel dicembre del 1867.

    E visto che i bambini sono sempre all’avanguardia nel Regno di Dio, il piccolo ospedale di Barcellona fu il trampolino di lancio per la conquista ospedaliera nella penisola. Figurava come “centro assistenziale civile di carattere filantropico” e, senza dubbio, comportò per il P. Menni difficoltà indicibili; tuttavia, il 31 maggio 1868, il Generale dell’Ordine approvò la fondazione come la prima cellula dell’Ordine restaurato in Spagna.

    Nel 1872 il P. Menni è nominato Commissario Generale dell’Ordine per la Spagna. Quattro mesi più tardi, l’avvento della Repubblica ravviva il fuoco rivoluzionario. Travestito da contadino catalano e accompagnato dal confratello spagnolo Fra Girolamo Tataret, un giorno il P. Benedetto alla guida di una vecchio carretto squinternato, si dirigeva verso la periferia di Barcellona per fuggire dalla cerchia irresistibile delle milizie; il carro però si ribaltò in una curva, vicino a un posto di blocco, e i due “contadini” vennero arrestati. Espulso dalla Spagna il 1° aprile 1873, già all’inizio di giugno vi tornò in visita clandestina, portando con sé le elemosine raccolte in Francia per sussidiare l’ospedaletto di Barcellona.

    Imagen de San Benito Menni como enfermero durante la tercera guerra carlista

    Altre due volte fece quel medesimo viaggio, e la seconda, quasi in modo rocambolesco, entrò da Gibilterra, dopo uno scalo in Africa: da Marsiglia s’era infatti dapprima diretto in Marocco con l’intenzione di fondare un ospedale a Tangeri, dove arrivò realmente, ma a nuoto, gettato dalla nave in mare da un estremista spagnolo. E da Gibilterra al cuore della guerra civile spagnola, in qualità di volontario della Croce Rossa. Il Re Don Carlos l’accettò come infermiere, assieme ad altri cinque confratelli dell’Ordine. Fino alla cessazione delle ostilità (il 6 aprile 1876) il P. Benedetto curò corpi e anime dei due opposti schieramenti, sfidando il fuoco incrociato sui fronti di Portugalete, Abárzuza, Lácar, Lumbier e Pamplona, o nella pace sofferta degli ospedali di guerra organizzati a Santurce, Irache, Comillas, Gomilar, Ochandiano e Santa Agueda.

    Le litografie del tempo, ingenue nel loro drammatismo, non mettono in evidenza quel buon samaritano all’azione in mezzo al fumo delle scariche, tra i berretti rossi dei carlisti o i chepì dei liberali, in mezzo alla sanguinosa lotta corpo a corpo con le baionette lunghe come spade, tra i campi punteggiati di cadaveri umani e di cavalli sventrati. E tuttavia era lì, come infermiere e come sacerdote. E quel battesimo di carità, in sintonia con la più genuina tradizione dei Fatebenefratelli, fu provvidenziale perché il gruppetto di seguaci del P. Menni, giunto poi a Madrid al termine delle ostilità, ottenesse il riconoscimento legale come “Associazione Infermieristica dei Fratelli della Carità”, e il permesso di fondare in seguito ricoveri e ospedali.

    La centrale della carità

    Ciempozuelos fu il vero focolare della restaurazione dell’Ordine in Spagna. Lì si trasferirono i novizi di Barcellona; e lì, tra il susseguirsi di nuovi padiglioni, sorse un manicomio per uomini, che andò affermandosi come una struttura psichiatrica di avanguardia.

    Nel giro di poco tempo, così come a volte la primavera esplode all’improvviso e tutto fiorisce da un giorno all’altro, si moltiplicarono le domande e le possibilità di fondare in tantissime parti. E alcune di queste possibilità diventarono anche realtà. In seguito al moltiplicarsi delle fondazioni, il P. Menni fu nominato Provinciale della nuova Provincia della Spagna (1884), con affidati a lui 70 religiosi professi e 25 novizi; tutto ciò significava che, oltre ai problemi amministrativi, si aggiungevano ora l’impegno per la formazione umana e spirituale dei suoi confratelli, l’animazione del fervore religioso, e il tenere vive e unite le diverse comunità. E anche se si manifestò qualche dissenso, poiché sempre qualcuno la pensa differentemente, nel complesso il suo servizio come Provinciale fu giudicato positivamente, considerando che venne riconfermato per ben 6 volte durante diversi Capitoli, restando in carica per 19 anni consecutivi. Nel 1903, quando cessò il suo incarico da Provinciale, l’Ordine contava in Spagna, Portogallo e Messico complessivamente quindici case fondate da lui, con la seguente tipologia: quattro ospedali ortopedici per bambini rachitici e scrofolosi; sei ospedali psichiatrici per uomini; una colonia agricola per l’ergoterapia dei malati mentali dell’ospedale di Ciempozuelos; un ospedale per epilettici; un gerontocomio; una residenza funzionante come casa di riposo per sacerdoti e come scuola per bambini poveri; e un collegio per orfani poveri.

    I santi fanno pazzie

    Tutto questo era ancora poco. Visto che Dio ama “complicare” la vita ” dei suoi amici, gli addossò un nuovo lavoro, di certo non contemplato minimamente quando a 19 anni aveva bussato alle porte del Noviziato per donare la sua vita a servizio degli infermi: fondare una congregazione religiosa femminile.

    Qualche anno dopo, lui stesso qualificò quel gesto come “pazza decisione”. Ma ora che a distanza di oltre un secolo quella pianticella si è trasformata in albero frondoso, una cosa appare certa: la “pazzia” di quella sua fondazione ci appare della stessa stoffa della divina pazzia di cui ci parla tanto “saggiamente” San Paolo nell’Epistola ai Corinti.

    Ma facciamo qualche passo indietro nel tempo.

    Fin dall’inizio della sua missione di restauratore, il P. Menni si rese conto che il Signore, che l’aveva chiamato a prendersi cura degli emarginati fisici e psichici della Spagna, aveva bisogno di mani femminili e di cuori di madri per attendere le malate mentali e le bambine handicappate che la normativa dell’epoca non consentiva fossero accolte negli ospedali dei Fatebenefratelli. Considerando che la prospettiva di fondare lui stesso una specie di Ramo femminile del proprio Ordine cui affidare tali malate fosse una “pazza decisione”, cercò di temporeggiare; chiedendo ispirazione alla Madonna e nel frattempo, come gli consigliava il suo Superiore Generale, provando a rivolgersi agli Istituti femminili già esistenti, ma dovette constatare che non se ne trovavano di disposti a risolvergli il problema.

    Nel frattempo, al sud, proprio nella città di Granada dove San Giovanni di Dio aveva fondato l’Ordine dei Fatebenefratelli, due donne, Maria Giuseppina Recio e Maria Angustia Gimenez, sentirono la chiamata della grazia a donare la loro vita per un “progetto” ancora non ben definito. Si affidarono ad un direttore spirituale, ma quando questi s’ammalò, la Provvidenza guidò sui loro passi come loro nuovo direttore spirituale proprio P. Menni, che però inizialmente provò riluttanza ad assecondare la loro aspirazione e ad avvalersene per dare infine vita ad un nuovo Istituto Religioso femminile specializzato nell’assistenza psichiatrica.

    María Josefa Recio

    Alla fine, durante l’estate del 1880, da Ciempozuelos arrivò a Granada l’invito del Padre: “Se volete, potete venire…” Le due donne decisero di lasciare la città alla chetichella e, dopo una sorta di fuga notturna da Granada, giunsero a Ciempozuelos, stabilendosi in una casa poverissima e inospitale, tenuta per di più da una proprietaria intrattabile, e sul momento occupando le giornate giusto a lavar montagne di biancheria dell’ospedale, tra i pettegolezzi della gente sull’onore del P. Menni.

    María Angustias Jiménez Vera

    Come inizio, niente male! e rischiò di essere anche la fine! Comunque fu un buon inizio, segnato dalla croce e in una povertà da Betlemme. In una circolare a tutto l’Istituto, il 22 giugno 1903, il P. Menni spiegava il segreto dell’esito: quella “pazza decisione” fu alla fine indovinata perché “scaturiva dal Cuore di Gesù, in virtù del suo divino Spirito”.

    Presto la nascente Congregazione cominciò a ricevere vocazioni: tre, quattro, sette, dieci… Presto poterono sistemarsi in un altra casetta del paese. Presto le giovani ebbero come libro di riferimento il crocifisso e come Superiora la Madonna (”Questa è la vostra Superiora – disse loro il Padre – sotto la sua protezione pongo tutte le mie figlie“), invocata come “Nostra Signora del Sacro Cuore”, titolo mariano col quale cominciarono a chiamarsi, e che diede più tardi luogo all’attuale denominazione di “Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù”. Presto ebbero i loro primi “fioretti”, come quella indimenticabile scena dell’accoglienza della prima malata: le si fecero attorno con grande affetto e, una dietro l’altra, si avvicinarono a lei per baciarle i piedi, così come avrebbero fatto con il Signore, al quale avevano consacrato la loro vita. Presto ebbero un motto che sintetizzava in sei verbi all’infinito altrettante esigenze ascetiche: “pregare, lavorare, patire, soffrire, amare Dio e tacere“.

    ContinuaE presto ebbero la loro prima martire della carità: una delle due coraggiose pioniere venute da Granada, Maria Giuseppina Recio, messa alla guida dell‘Istituto appena nato, moriva il 30 ottobre 1883 dopo essere stata calpestata e malmenata da una demente; oggi la sua salma e quella della Confondatrice Maria Angustia Gimenez riposano in una cappella laterale della medesima Chiesa di Ciempozuelos nella quale le Suore custodiscono sotto l’altare centrale il venerato corpo di San Benedetto Menni.

    La nuova Congregazione, avendo ottenuto l’approvazione diocesana, ebbe il suo inizio canonico con l’ammissione in noviziato delle prime suore il 31 maggio 1881. L’anno seguente (1882) il P. Menni scriveva le prime Costituzioni; nel cui prologo precisava che l’incipiente istituzione mirava all’assistenza caritativa delle malattie mentali; o, come spiegava poco dopo, “all’esercizio costante della virtù della carità cristiana attraverso il soccorso, la cura e l’assistenza continua delle donne alienate, accettando questo sacrificio come necessità particolare che esiste oggi nell’umanità sofferente”. A distanza di più di un secolo, quell’oggi è valido ancora!

    Undici anni dopo era già una Congregazione di Diritto Pontificio. Quando il P. Menni cessò di essere Provinciale dell’Ordine (1903), le Suore avevano nove case: sei per malate mentali e tre per bambine rachitiche e scrofolose povere, aperte rispettivamente a Ciempozuelos, Málaga, Madrid, Las Corts, Palencia, Parigi, Idanha, (Portogallo), San Baudilio di Llobregat, Santa Agueda; e nuove case sorsero negli anni seguenti: Pamplona (1909), Roma (1905), Viterbo (1909), Nettuno (1910), ecc. fino alle oltre cento case sparse in 24 nazioni nelle quali attualmente lavora “questa famiglia religiosa, nata dal divin Cuore”, secondo la testuale affermazione del loro Fondatore.

    I santi non vanno in pensione

    Riprendiamo il filo della biografia nella data chiave del 1903. Il P. Benedetto Menni finisce il suo lungo servizio come Provinciale. Ha 62 anni. Ha avviato un’opera molto estesa, e ormai potrebbe anche pensare al meritato e sereno riposo, dedicando maggiore attenzione alla sua Congregazione delle Suore Ospedaliere, ma come “uomo” ancora è in grado di lavorare; e come “santo” la Chiesa ha bisogno di lui quale strumento di rinnovamento in quegli anni tormentati.

    Nel 1905 lo incontriamo a Roma, in un Capitolo Generale dell’Ordine. Ritornato in Spagna, la Santa Sede lo richiama a Roma per nominarlo Visitatore Apostolico dei Fatebenefratelli (1909): viaggi, lettere e visite personali alle diverse Province, nella delicata missione di ravvivare lo spirito e l’osservanza religiosa. Finito questo compito, il Papa San Pio X lo nomina Generale dell’Ordine (1911).

    In questa mobilità e attività snervante, che caratterizzano la sua vita, dove finisce “l’uomo” e dove comincia il “santo”? Organizzare, viaggiare, cercare prestiti, dirigere costruzioni, amministrare… lo può fare qualsiasi impresario, e poteva averlo fatto quel giovane milanese, tipicamente intraprendente, chiamato Angelo Ercole Menni, se avesse deciso di lanciarsi sulla strada della rivoluzione o della politica.

    Ma l’uomo di Dio, il “santo”, viveva tutte queste attività con novità interiore, faceva tutto con un cuore diverso, un cuore ogni giorno più immedesimato con i sentimenti di Cristo Gesù, che finivano col trasparire nel suo comportamento, nel quale possiamo schematicamente evidenziare cinque attitudini fondamentali:

  • Fiducia totale e profonda nel Cuore di Gesù “colmo di misericordia e di amore”, un tema, questo, che lo emozionava quando ne parlava. Acceso di devozione al Sacro Cuore, dispose che tutti i primi Venerdì si celebrasse una Messa cantata e si esponesse il Santissimo. Difficilmente egli avrebbe potuto divenire “un altro Cristo” se non avesse bevuto alla fonte di quel Cuore redentore, perennemente misericordioso con gli infermi e le folle abbandonate.

  • Ricorso quasi istintivo alla Vergine Maria; egli, dai tempi del Rosario recitato da ragazzo in famiglia e fino all’ora della sua morte, trovò sempre in Maria la strada per andare a Gesù. Ed identico cammino suggeriva alle sue figlie. “La Vergine - scriveva loro - porta tra le braccia Gesù che ci lascia vedere il suo divino cuore e con le sue braccia aperte ci invita ad andare verso di Lui”. Ed aggiungeva loro: “Lei ci consentirà d’entrare e rimanere nel Cuore di Gesù”.

  • Pietà semplice, immediata, per nulla cerebrale. Sempre in movimento per impegni o viaggi, egli immancabilmente all’uscire o rientrare si soffermava in cappella, convinto che la cosa migliore era porre ogni assunto nelle mani di Dio. La sua giaculatoria più ricorrente era: “Gesù mio, di me diffido, al Cuore tuo m’affido e mi ci rifugio”. Il nome di Gesù era costante sulle sue labbra. Questa pietà lo portava a compiere ogni cosa pensando a Lui: “L’unico cammino da seguire – usava ripetere – è fare la volontà di Dio”. E questo uniformarsi al volere divino non si stancava di raccomandarlo nelle sue lettere: “Chiediamo a Gesù che ci infiammi del suo amore. Chiediamo alla Regina di questo amore, la Vergine Immacolata, che accenda in noi questo fuoco divino… Oh Gesù, non intendiamo offrirti resistenza”.

  • Carità senza limiti e molto concreta, seguendo il consiglio stesso di Gesù: “Se io ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”. Carità che gli faceva vedere negli infermi l’immagine di Cristo, e che spiega perché qualche volta lo videro imboccarli in ginocchio. Carità che lo faceva intenerire alla vista di un mendicante; carità che lo portò una volta a consegnare ad un uomo che gli raccontava le sue miserie le uniche cinque pesetas che aveva per affrontare un debito di cinquecento, ed a giustificarsene dicendo “questa moneta per noi è niente, ma a lui lo toglierà da grandi difficoltà”; carità che mise a grande rischio la sua vita nel 1885 quando volle recarsi ad assistere i contagiati dal colera. Una carità, sorgente di così alta libertà interiore nel cercare il bene dei malati, che una volta giunse ad offrire la direzione sanitaria dell’ospedale di Ciempozuelos ad un celebre psichiatra, il Dott. Simarro, nonostante fosse ateo e membro della Massoneria spagnola (”non ho bisogno di catechisti, diceva, ho già i religiosi; necessito piuttosto di un grande medico“); il Dott. Simarro, commosso da quel gesto, raccomandò, al suo posto, un suo discepolo ed eccellente cattolico, il Dott. Michele Gayarre.

  • Umiltà eroica. Ciò che meno ci interessano sono gli aneddoti, come quella sua reazione davanti alle Suore di una comunità che, per festeggiare il suo arrivo, avevano eretto un baldacchino con il suo ritratto: O togliete quella roba lì, o non entro”. O quell’altra volta che raccontò alle Suore, pieno di gioia:“Passando dalla Piazza della Rocca alcuni cocchieri mi hanno deriso e mi hanno persino insultato. Mi sta bene e me ne rallegro, ne merito ancora di più!”



  • La cosa più difficile però, quella che gli consentì nel suo cammino verso la santità di bruciare le tappe, fu il fatto che, a partire dalla volta che finì arrestato a Barcellona, fu costretto a presentarsi davanti a tutti i tribunali della terra, come ebbe a dire alcuni anni prima di morire. Due casi soprattutto:
    Il famoso “caso Semillan”, davanti al Tribunale Penale di Madrid. Si prolungò per sette anni (1895-1902) con morbosità scandalosa, fomentata dai giornali anticlericali, nel quale si accusava il P. Menni di ripugnanti violenze verso una povera demente. Furono sette anni durante i quali quel “prete abominevole”, presentato grossolanamente dai giornali, non volle mai un avvocato difensore (l’accettò soltanto su richiesta del Vescovo di Madrid, che ritenne che quella interminabile campagna scandalistica avesse come bersaglio la Chiesa e volle fosse presentata querela, risultandone nel gennaio 1902 la piena condanna dei calunniatori da parte del Tribunale di Madrid) né volle ricorrere alla stampa per replicare ai suoi avversari, né mai giunse a biasimarli; al contrario, arrivò a gesti estremi, come quello di baciare i giornali che lo diffamavano (”questo mi fa bene, diceva, è oro puro per me”), o a gongolare di gioia nel ricevere un giorno una lettera ingiuriosa, dicendo: “questo non accade tutti i giorni”… e immediatamente si mise a cantare, facendo il gesto di suonare il violino…
    Più amara ancora fu la campagna di calunnie, da lui stesso definite innumerevoli, davanti al tribunale vaticano del Sant’Uffizio. Questa fu per lui la sofferenza più penosa, trascinatasi per circa tre anni, fin quando nell’aprile 1896 venne comunicata ufficialmente la sentenza che non si doveva tenere “conto alcuno” delle accuse.
    Fu pure vittima di altre accuse davanti alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, davanti al suo Superiore Generale. Fu ogni volta riconosciuto innocente, ma neppure i santi sono d’acciaio e intimamente ne soffrì, specie perché le accuse vennero mosse da alcuni suoi confratelli e, in qualche occasione, dalle sue stesse figlie. Cosa era successo?
    Soltanto questo: che la carità del P. Menni non era debolezza e tanto meno condiscendenza bonacciona con il male. Durante i suoi lunghi anni di governo come Provinciale, Visitatore e Generale, in circostanze delicate per la Chiesa d’Europa, represse con serena fermezza alcuni abusi; nel manicomio di San Baudilio di Llobregat espulse alcuni medici in seguito ad alcuni casi seri di immoralità; e tagliò corto con alcune deviazioni nella disciplina religiosa di alcune comunità. Tutto ciò gli procurò, all’interno dell’Ordine, un piccolo gruppo di avversari, influenti ed intriganti, che usarono contro di lui tutti i mezzi possibili, compresa la calunnia. Accusato e accerchiato, ancora una volta non volle difendersi, ma preferì presentare le dimissioni da Superiore Generale, dopo esserlo stato per poco più di un anno: era il 20 giugno 1912.
    Il cammino Regale della Santa Croce
    Gli rimanevano ancora due anni di vita. Cosa avrebbe fatto nel frattempo? Si sarebbe detto di lui, come si dice di alcuni personaggi biblici: “riposò nella sua buona vecchiaia”? Poteva ritirarsi a riposare in qualcuna delle tante case da lui fondate, lasciarsi curare dalle Suore con affetto filiale, forse scrivere le sue memorie, come fanno i grandi personaggi della storia. Ma lui, il “grande” uomo Benedetto Menni, era già più piccolo che il grande “santo”, scolpito dalla grazia.
    E tuttavia il “santo” non era ancora compiuto del tutto. A Dio restavano ancora due anni per completare in quell’anziano l’immagine del figlio suo Gesù, che morì rifiutato, abbandonato e perdonando.
    In effetti, furono presi contro di lui alcuni provvedimenti che oggi ci sembrano spietati. All’inizio gli consentirono di visitare le case delle Suore, pur con qualche limitazione. Nell’agosto 1912 lo obbligarono ad eleggere dimora stabile in una casa dell’Ordine, che non fosse né a Roma né in Spagna. Lasciò dunque l’alloggio nell’ospedale che le sue Suore avevano a Viterbo e si trasferì in settembre nella Comunità dei suoi Confratelli a Parigi. Nel novembre 1912 gli fu proibito qualsiasi tipo di intervento, diretto o indiretto, nelle questioni della Congregazione delle Suore Ospedaliere; gli fu tolto il fedele aiutante e segretario, Fra Alfonso Galtés; gli fu vietato di vivere nelle città dove le Ospedaliere avevano case: e siccome a Parigi l’avevano, dovette allontanarsi da Parigi!
    L’umiliazione crebbe ancora di più quando dal Vaticano la Congregazione dei Religiosi ordinò una visita di verifica alle diverse comunità della Suore Ospedaliere, che pur concludendosi onorevolmente, si protrasse fino a due mesi prima della morte del Fondatore.
    Vale la pena contemplare il suo volto in una fotografia del tempo. E’ e non è lo stesso di qualche anno prima: ha ancora lo stesso viso squadrato da milanese spiccio e intraprendente; ma al tempo stesso si è invecchiato e sono apparse le rughe, le sue fattezze però hanno acquisito una particolare nobiltà; i suoi occhi scrutatori, ben lontani dall’apparire melanconicamente rassegnati o addirittura scoraggiati, sembrano invece quelli di un vecchio marinaio che scruta il porto tra la nebbia all’orizzonte. E’ un anziano. Mentre “l’uomo esteriore” si va disfacendo, il santo, “l’uomo interiore”, si rinnova ogni giorno” (2 Cor 4,16); la dimora terrena di questo indomito costruttore di case per gli altri, è prossima a disfarsi, ma per lui è già pronta una casa solida, non costruita da mani umane, ma eterna, nei Cieli (2 Cor 5,1). Spogliato di tutto, aspettava serenamente, senza condannare nessuno, di approdare nella Patria celeste, a godervi il Signore.
    Era ancora a Parigi quando soffrì un attacco di paresi; non ricuperato perfettamente, il 19 aprile 1913 si traferì a Dinan, una casa dell’Ordine nel nord della Francia dove le Suore non avevano Comunità. Due di loro, capitate a chiedere elemosina nella zona, chiesero di vederlo: il Padre seppe dir loro, con lacrime agli occhi, soltanto questo:
    - Siete ancora vive, figlie mie?
    La sua saluteandava peggiorando vistosamente, nonostante le affettuose premure dei Confratelli. Un secondo attacco di paresi lo ridusse alla immobilità quasi assoluta. Fu allora che quel grande imprenditore, amministratore, organizzatore, costruttore, fondatore, governante, compì l’opera maggiormente meritevole della sua vita: la sua propria morte, “volontariamente accettata” – come Cristo fece con la sua – per la redenzione di tutti gli uomini. La mattina del 24 aprile 1914, preparato per il grande viaggio con i sacramenti della Chiesa e una benedizione speciale del Papa Pio X, morì “l’uomo” Benedetto Menni per iniziare una vita che non ha fine.

    Il Cielo ha una porta, e questa porta ha delle chiavi che Cristo affidò a Pietro e ai suoi successori: loro conoscono i criteri per poter emettere questo giudizio. Avviato il processo di beatificazione nel 1964, dichiarata l’eroicità delle sue virtù l’11 maggio 1982, riconosciuta come miracolosa, per intercessione del P. Menni, la guarigione della signora Assunta Cacho, il Papa Giovanni Paolo II lo dichiarò beato nel 1985. Un nuovo miracolo, la guarigione immediata e durevole, non attribuibile a farmaci né ad altre cure, di una religiosa Ospedaliera (Suor Maria Nicoletta Vélaz) affetta da un cancro invasivo della vescica, chiude il cammino che la Chiesa ha percorso per dichiarare la santità di questo eroico discepolo di San Giovanni di Dio, anche lui incompreso e combattuto durante la sua vita: Benedetto Menni è santo.

    Se nelle ultime lettere indirizzate alle sue religiose, nelle quali si firmava come “povero di Gesù“, egli si confessava depresso e molto bisognoso di preghiere (”perché non mi schernisca il demonio della tristezza, anzi affinché il Signore, per intercessione della Vergine Immacolata, mi dia una santa gioia e fiducia in Gesù, Giuseppe e Maria“), ora invece siamo noi che invochiamo i suoi favori per “strappare” al Cuore di Gesù e alla Vergine Immacolata la grazia di vivere con coerenza, giorno dopo giorno, la nostra consacrazione battesimale e religiosa.

    VOLUNTARIADO

    La canonizzazione di P. Benedetto Menni sanziona non solamente la sua santità, ma anche l’attualità del messaggio proposto e vissuto da colui che fu il Restauratore dell’Ordine dei Fatebenefratelli nella penisola iberica e nell’America Latina, nonché il Fondatore delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù. Messaggio mirabilmente sintetizzato nella preghiera liturgica figurante nel proprio della Messa di San Benedetto Menni: essere araldi del Vangelo della Misericordia mediante il servizio ai fratelli infermi e bisognosi.

    Chi desiderasse conoscere meglio la vita, gli scritti e la spiritualità di San Benedetto Menni, può rivolgersi ad uno dei seguenti indirizzi:

  • Provincia Romana dei Fatebenefratelli - Via Cassia, 600 - 00189 Roma RM E-mail: “Curia Prov.Romana FBF” <curiafbf.rm@flashnet.it>




  • Provincia Lombardo-Veneta dei Fatebenefratelli - Via Cavour, 2 20063 Cernusco sul Naviglio MI - E-mail:<prcu.lom@oh-fbf.org>Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù - Via Urbisaglia, 3/A - 00183 Roma RM – E-mail: “Provincia Italiana Suore Ospedaliere del Sacro Cuore” <hsc.prov.it@iol.it>



  • Vedi >>   Donne dell’Hospitalitas


    DISCORSO DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II AI PELLEGRINI CONVENUTI PER LA CERIMONIA DI CANONIZZAZIONE DI CIRILO BERTRÁN E OTTO COMPAGNI, INOCENCIO DE LA INMACULADA, BENEDETTO MENNI, TOMMASO DA CORI

    22 Novembre 1999 . Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, Carissimi Religiosi e Religiose, Fratelli e Sorelle! . 1. Ci ritroviamo oggi per rinnovare il nostro inno di lode e di ringraziamento a Dio, all’indomani della solenne liturgia, durante la quale, ieri, nella Basilica Vaticana, ho avuto la gioia di proclamare 12 nuovi Santi, invitti testimoni di Cristo, Re dell’Universo. Allo stesso tempo, vogliamo ancora una volta soffermarci a riflettere insieme sul loro luminoso esempio di amore incondizionato a Dio e di generosa dedizione al bene spirituale e materiale dei fratelli. . 2. Saludo con gran afecto a los peregrinos de lengua española venidos a Roma. En esta ocasión, de modo particular saludo a los Hermanos de las Escuelas Cristianas, acompañados de sus alumnos y ex-alumnos, a los Padres Pasionistas, así como a los miembros de la gran Familia Hospitalaria. Estos Santos, hijos predilectos de la Iglesia y testigos fieles del Señor Resucitado, nos ofrecen el testimonio de una rica espiritualidad, fraguada en la fidelidad cotidiana y en la entrega incondicional a su vocación al servicio del prójimo. . 3. Los Hermanos mártires de las Escuelas Cristianas canonizados ayer, seguidores del carisma de San Juan Bautista de La Salle, se entregaron plenamente a la educación integral de los niños y jóvenes. Ellos pertenecen a la larga serie de educadores cristianos que han dedicado su vida y sus energías a la enseñanza en la escuela católica, comprometidos en este irrenunciable servicio que la Iglesia presta a la sociedad. Ésta, en nuestros días a veces se presenta individualista y con tentaciones de secularismo. Frente a ello, los Santos Mártires de Turón, procedentes de diversos puntos de la geografía española y uno de ellos de Argentina, son la prueba elocuente de que la fidelidad a Cristo vale más que la propia vida. . Que su ejemplo, junto con el del P. Inocencio de la Inmaculada, mueva a los jóvenes a abrazar el estilo de vida que nos propone el evangelio, vivido con valentía y entusiasmo. Que la labor educativa de estos Santos Mártires sea también modelo para los educadores cristianos a las puertas del nuevo milenio que está ya a las puertas. Respecto a la formación de las jóvenes generaciones, quisiera recordar el deber primordial de los padres como primeros y principales responsables de la educación de los hijos, lo cual supone que han de contar con absoluta libertad para elegir el centro docente para sus hijos. Las autoridades públicas, por su parte, han de procurar que, desde el respeto al pluralismo y la libertad religiosa, se ofrezca a las familias las condiciones necesarias para que, en todas las escuelas, sean públicas o privadas, se imparta una educación conforme a los propios principios morales y religiosos. Y esto es más necesario aún en un país, como España, donde la mayoría de padres pide la educación religiosa para sus hijos. . 4. San Benito Menni, miembro ilustre de la Orden Hospitalaria de San Juan de Dios y Fundador de las Religiosas Hospitalarias del Sagrado Corazón de Jesús, vivió su vocación como apóstol en el campo de la sanidad, sin ahorrarse esfuerzos y sufrimientos, con audacia y una entrega sin límites al cuidado de los enfermos, especialmente de los niños y de los trastornados mentales. La labor que realizan sus Hermanos de religión y las Religiosas del Instituto que fundó tiene plena actualidad en el mundo actual, donde con frecuencia se margina a los débiles y a los que sufren. Que la gran Familia Hospitalaria, en fidelidad al carisma del nuevo Santo, imite el inmenso amor que él sentía hacia los más desfavorecidos, dedicando enteramente la vida a su servicio. . San Benito Menni descubrió su vocación precisamente cuando llevaba a cabo tareas de voluntariado en Milán. Muchos de los peregrinos que habéis venido para su canonización sois voluntarios en diversos centros hospitalarios y en otros centros asistenciales. Ese servicio enriquece vuestra vida y hace crecer la capacidad de donación y acogida solidaria del prójimo, especialmente de los que sufren. Os animo a proseguir en esa labor, iluminados por los ejemplos del Padre Menni, imitándole y siguiéndole en el camino de misericordia que él practicó. . 5. Mi rivolgo a voi, cari Religiosi dell’Ordine Francescano dei Frati Minori, ed a quanti insieme con voi esultano per la canonizzazione di san Tommaso da Cori. “Vengo al Ritiro per farmi santo”: con queste parole il nuovo Santo si presentò al luogo solitario di Bellegra, dove per lunghi anni realizzò progressivamente questo impegnativo programma di vita evangelica. Aveva ben compreso che ogni vera riforma inizia da se stessi e, proprio per questo, la sua umile persona si colloca tra i grandi riformatori dell’Ordine dei Frati Minori. . Dall’intensità del suo intimo rapporto con Dio, soprattutto dalla profonda devozione all’Eucaristia, fioriva la fecondità della sua azione pastorale, così incisiva da meritargli l’appellativo di “apostolo del sublacense”. Vero figlio del Poverello d’Assisi, anche di lui si potrebbe affermare ciò che si diceva di san Francesco, che cioè “non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente” (Tommaso da Celano, Vita Seconda, 95: Fonti Francescane, 682). . 6. Carissimi Fratelli e Sorelle! Insieme con tutta la Chiesa, lodiamo il Signore per le grandi opere che ha compiuto attraverso questi nuovi Santi. . Facendo ritorno alle vostre case ed alle vostre occupazioni quotidiane, portate con voi il lieto ricordo di questo pellegrinaggio a Roma, e continuate con coraggio nell’impegno di testimonianza cristiana, perché possiate prepararvi a vivere con intensità e fervore l’Anno Santo ormai vicino. Con questi auspici, vi affido tutti alla celeste protezione della Madonna e dei nuovi Santi, e di cuore vi benedico, insieme con le vostre famiglie e le vostre comunità.


    OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II NELLA CERIMONIA DI CANONIZZAZIONE DEI BEATI:

    CIRILO BERTRÁN E OTTO COMPAGNI, INOCENCIO DE LA INMACULADA, BENEDETTO MENNI, TOMMASO DA CORIDomenica, 21 novembre 1999

    1. “Si siederà sul trono della sua gloria” (Mt 25,31). L’odierna solennità liturgica è dominata da Cristo, Re dell’universo, Pantocràtor, quale risplende nell’abside delle antiche basiliche cristiane. Contempliamo questa maestosa immagine nell’odierna ultima domenica dell’anno liturgico. La regalità di Gesù Cristo è, secondo i criteri del mondo, paradossale: è il trionfo dell’amore, che si realizza nel mistero dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione del Figlio di Dio. Questa regalità salvifica si rivela pienamente nel sacrificio della Croce, supremo atto di misericordia, in cui si compie al tempo stesso la salvezza del mondo e il suo giudizio. . Ogni cristiano partecipa della regalità di Cristo. Nel Battesimo egli riceve con la grazia l’interiore spinta a fare della sua esistenza un dono gratuito e generoso a Dio ed ai fratelli. Ciò appare con grande eloquenza nella testimonianza dei Santi e delle Sante, che sono modelli di umanità rinnovata dall’amore divino. Tra essi, con gioia, annoveriamo da oggi Cirilo Bertrán con otto suoi Compagni, Inocencio de la Inmaculada, Benedetto Menni e Tommaso da Cori. . 2. “Cristo tiene que reinar” hemos escuchado de san Pablo en la segunda lectura. El reinado de Cristo se va construyendo ya en esta tierra mediante el servicio al prójimo, luchando contra el mal, el sufrimiento y las miserias humanas hasta aniquilar la muerte. La fe en Cristo resucitado hace posible el compromiso y la entrega de tantos hombres y mujeres en la transformación del mundo, para devolverlo al Padre: “Así Dios será todo para todos”. . Este mismo compromiso es el que animó al Hermano Cirilo Bertrán y a sus siete compañeros, Hermanos de las Escuelas Cristianas del Colegio “Nuestra Señora de Covadonga”, que habiendo nacido en tierras españolas y uno de ellos en Argentina, coronaron sus vidas con el martirio en Turón (Asturias) en mil novecientos treinta y cuatro, junto con el Padre Pasionista Inocencio de la Inmaculada. No temiendo derramar su sangre por Cristo, vencieron a la muerte y participan ahora de la gloria en el Reino de Dios. Por eso, hoy tengo la alegría de inscribirlos en el catálogo de los Santos, proponiéndolos a la Iglesia universal como modelos de vida cristiana e intercesores nuestros ante Dios. (in lingua catalana) . Al grup dels màrtirs de Turón si agrega el Germà Jaume Hilari, de la mateixa Congregaciò religiosa, i que fou assassinat a Tarragona tres anys més tard. Mentre perdonava els qui el mataven, exclamà: “Amics, morir per Crist és regnar”. Todos ellos, como cuentan los testigos, se prepararon a la muerte como habían vivido: con la oración perseverante, en espíritu de fraternidad, sin disimular su condición de religiosos, con la firmeza propia de quien se sabe ciudadano del cielo. No son héroes de una guerra humana en la que no participaron, sino que fueron educadores de la juventud. Por su condición de consagrados y maestros afrontaron su trágico destino como auténtico testimonio de fe, dando con su martirio la última lección de su vida. ¡Que su ejemplo y su intercesión lleguen a toda la familia lasaliana y a la Iglesia entera! . . 3. “Venid vosotros, benditos de mi Padre; heredad el Reino preparado para vosotros desde la creación del mundo, … porque estuve enfermo y me visitasteis” (Mt 25,34.36). Estas palabras del Evangelio proclamado hoy le serán sin duda familiares a Benito Menni, sacerdote de la Orden de San Juan de Dios. Su dedicación a los enfermos, vivida según el carisma hospitalario, guió su existencia. Su espiritualidad surge de la propia experiencia del amor que Dios le tiene. Gran devoto del Corazón de Jesús, Rey de cielos y tierra, y de la Virgen María, encuentra en ellos la fuerza para su dedicación caritativa a los demás, sobre todo a los que sufren: ancianos, niños escrofulosos y poliomielíticos y enfermos mentales. Su servicio a la Orden y a la sociedad lo realizó con humildad desde la hospitalidad, con una integridad intachable que lo convierte en modelo para muchos. Promovió diversas iniciativas orientando a algunas jóvenes que formarían el primer núcleo del nuevo instituto religioso, fundando en Ciempozuelos (Madrid) las Hermanas Hospitalarias de Sagrado Corazón de Jesús. Su espíritu de oración le llevó a profundizar en el misterio pascual de Cristo, fuente de comprensión del sufrimiento humano y camino para la resurrección. En este día de Cristo Rey, San Benito Menni ilumina con el ejemplo de su vida a quienes quieren seguir las huellas del Maestro por los caminos de la acogida y la hospitalidad. . 4. “Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura” (Ez 34,11). Tommaso da Cori, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori, è stato immagine vivente del Buon Pastore. Come guida amorevole, ha saputo condurre i fratelli affidati alle sue cure verso i pascoli della fede, animato sempre dall’ideale francescano. . Nel Convento dimostrava il suo spirito di carità, rendendosi disponibile a qualsiasi esigenza, anche la più umile. Visse la regalità dell’amore e del servizio, secondo la logica di Cristo che, come canta la Liturgia odierna, “ha sacrificato se stesso immacolata vittima di pace sull’altare della croce, operando il mistero dell’umana redenzione” (Prefazio di Cristo Re). . Da autentico discepolo del Poverello d’Assisi, san Tommaso da Cori fu obbediente a Cristo, Re dell’universo. Meditò ed incarnò nella sua esistenza l’esigenza evangelica della povertà e del dono di sé a Dio ed al prossimo. Tutta la sua vita appare così segno del Vangelo, testimonianza dell’amore del Padre celeste, rivelato in Cristo e operante nello Spirito Santo, per la salvezza dell’uomo. . 5. Rendiamo grazie a Dio che, lungo i sentieri del tempo, non cessa di suscitare luminosi testimoni del suo Regno di giustizia e di pace. I dodici nuovi Santi, che oggi ho la gioia di proporre alla venerazione del Popolo di Dio, ci indicano il cammino da percorrere per giungere preparati al Grande Giubileo del Duemila. Non è, infatti, difficile riconoscere nella loro esemplarità alcuni elementi che caratterizzano l’evento giubilare. Penso, in particolare, al martirio ed alla carità (cfr Incarnationis Mysterium, 12-13). Più in generale, l’odierna celebrazione richiama il grande mistero della comunione dei santi, fondamento dell’altro elemento qualificante del Giubileo che è l’indulgenza (cfr ivi, 9-10). . I Santi ci mostrano la via del Regno dei cieli, la via del Vangelo accolto radicalmente. Sostengono, al tempo stesso, la nostra serena certezza che ogni realtà creata trova in Cristo il suo compimento e che, grazie a Lui, l’universo sarà consegnato a Dio Padre pienamente rinnovato e riconciliato nell’amore. Ci aiutino San Cirilo Bertrán con gli otto Compagni, San Inocencio de la Inmaculada, San Benedetto Menni e San Tommaso da Copri a percorrere anche noi questo cammino di perfezione spirituale. Ci sostenga e protegga sempre Maria, Regina di tutti i Santi, che proprio oggi contempliamo nella sua presentazione al Tempio. Sul suo esempio, possiamo anche noi collaborare fedelmente al mistero della Redenzione. Amen!


    125 anni di vita della Congregazione delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù NEL 125° ANNIVERSARIO DELLA FONDAZIONE DELLA CONGREGAZIONE Abbiamo inaugurato il 2006 avendo in prospettiva un evento importante per la Congregazione: il 125° anniversario della fondazione. Il 2006 rappresenta quindi un’occasione eccezionale per tutte noi Sorelle Ospedaliere. Prepariamoci dunque a celebrarlo con fervore e con iniziative a livello congregazionale, provinciale e comunitario. CHE COSA SIGNIFICA CELEBRARE 125 ANNI DI VITA DELLA CONGREGAZIONE Gli anni sono la misura del tempo e rendono possibile la costruzione della storia, nel nostro caso della storia congregazionale intesa non già come una somma di anni con le loro impronte più o meno visibili, ma come una successione di eventi, di esperienze di vita, di realizzazioni ospedaliere. Celebrare 125 anni di storia significa guardare al passato per conoscerlo meglio, vivere il presente perché questo è il tempo di grazia che il Signore ha disposto per noi e progettare il futuro poiché il carisma è una realtà dinamica che dobbiamo sviluppare costantemente. Celebrare 125 anni di vita significa ricordare e ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile questa storia meravigliosa; significa intensificare gli sforzi per continuare a costruire, in modo innovativo e con spirito ardente, il futuro della Congregazione e della sua missione ospedaliera. QUANDO LO CELEBREREMO Il periodo dedicato alla celebrazione del 125° anniversario va dal 31 maggio 2006 al 31 maggio 2007. L’apertura avrà luogo a Ciempozuelos dove si recheranno tutte le sorelle capitolari presenti a Roma per la celebrazione del XIX Capitolo Generale. QUALI OBIETTIVI VOGLIAMO RAGGIUNGERE

    1. Esaminare e intensificare la nostra fedeltà alla chiamata del Signore per seguirlo in modo creativo.

    2. Approfondire la spiritualità dei nostri Fondatori affinché Gesù occupi realmente il centro della nostra vita e noi possiamo servirlo attraverso la persona dei malati.

    3. Promuovere la comunione a livello personale e istituzionale.

    4. Incoraggiare azioni solidali tra coloro che oggi sperimentano nuove situazioni di emarginazione e povertà.

    INIZIATIVE CHIAVE A LIVELLO CONGREGAZIONALE Il 125° anniversario della Congregazione è un’ottima occasione per prendere iniziative a livello congregazionale e locale, tra le sorelle e insieme alle persone che lavorano nel progetto ospedaliero, al fine di rendere più vivo e visibile il carisma ospedaliero. Pertanto, il Governo generale ha individuato alcune iniziative che non esauriscono tutte quelle che si possono e si devono avviare nei vari luoghi in cui è presente la Congregazione. Eccone alcune:

    1. Cerimonia di apertura a Ciempozuelos il 31 maggio 2006.

    2. Intensificare le celebrazioni nei giorni che ogni anno sono oggetto di ricordo speciale per la Congregazione, dando loro una sfumatura particolarmente carismatica.

    3. Pubblicazione di un numero speciale della rivista HOSPITALARIAS.

    4. Celebrazione di alcune giornate scientifiche nel campo della salute mentale (informazioni psichiatriche).

    5. Utilizzazione dei mezzi locali di comunicazione.

    6. Ogni Provincia studierà come collaborare ad iniziative a favore degli immigrati, la cui condizione presenta molteplici sfaccettature. In quanto ospedaliere dobbiamo contribuire ad alleviare le conseguenze che produce lo sradicamento sulle persone e sulle famiglie costrette a lasciare il loro paese d’origine.

    REFERENTI PROVINCIALI Per assicurare il coordinamento delle iniziative, ciascuna Provincia designerà un referente la cui missione sarà quella di stimolare e promuovere le iniziative locali e comunicare al Governo generale le azioni più significative realizzate dalla Provincia in occasione di questo evento. A loro volta fungeranno da collegamento tra il Governo generale e la Provincia; le persone referenti presso la casa generale sono Josefa Jáuregui e Begoña Pérez. TITOLO DEL 125° ANNIVERSARIO Il 2006 è anche un’occasione per diffondere i nostri valori, un’occasione per ottenere aiuti a favore dei destinatari della missione, è un’occasione per comunicare tra noi e stabilire o riprendere i contatti. L’identità corporativa deve essere visibile in tutte le celebrazioni, come pure il titolo che proponiamo: ospitalitÀ oggi, come ieri e sempre OLTRE IL 2006 Misureremo il successo di questa commemorazione con il raggiungimento degli obiettivi proposti. Auguro a tutte le sorelle e a coloro che condividono la missione ospedaliera di raccogliere copiosi frutti spirituali e temporali e che il carisma, trasmesso dai nostri fondatori, acquisti nuovo splendore durante il II centenario della Congregazione delle Suore Ospedaliere. Roma, 2 febbraio 2006 Celebrare 125 anni significa anche ricominciare il “cammino ospedaliero” a partire dalla triplice dimensione cristiana della fede come origine, della speranza come cammino e della carità nel servizio ospedaliero. Ci rallegriamo di trovare nell’enciclica di Benedetto XVI gli stessi principi contenuti nello Strumento di lavoro capitolare e che sono insiti nel “modo di realizzare” la missione ospedaliera: attività caritativa organizzata; la competenza professionale. Condividiamo con il Papa la convinzione che l’uomo afflitto, qualsiasi essere umano, ha bisogno di amorevole dedizione personale, ha bisogno di umanità, ha bisogno dell’attenzione del cuore, di una dedizione suggerita dal cuore in modo che l’altro sperimenti la loro ricchezza di umanità; ha bisogno di uno sguardo d’amore. Se la globalizzazione delle necessità degli uomini è una chiamata a condividere situazioni e difficoltà, per noi questa sfida si concretizza in quei gesti che contribuiscono a cancellare lo stigma della malattia mentale e a soccorrere coloro che sono lontani dalla loro casa: gli immigrati. Camminiamo uniti – sorelle, collaboratori, altre persone – ognuno con la specificità della sua identità, ma vivendo tutti interiormente l’ospitalità legata al quotidiano, alla vita di ogni giorno… In tal modo testimoniamo che il Regno di Dio è una mensa aperta a tutti e, attraverso questa esperienza, chiamiamo altri seguaci. Venite e vedrete! Vi abbraccio fraternamente. María Camino Agós Superiora Generale









    Dinan, 31.5.2007 Ilustrísimo y Reverendísimo Sr.Obispo, Excmos. Señores Alcaldes de Dinan y Lehon, Reverendísimo Superior general de la Orden Hospitalaria de San Juan de Dios, Reverendísima Superiora general de las Hermanas Agustinas-Hospitalarias de la Inmaculada Concepción, Hermanas y Hermanos Hospitalarios, miembros de las Asociaciones y amigos todos. Nos hemos reunido en este extraordinario marco de la capilla del hospital San Juan de Dios de Dinán para clausurar el 125 aniversario de fundación de la Congregación de Hermanas Hospitalarias del Sagrado Corazón de Jesús, en un momento en el que se dan dos coincidencias significativas:

    Una, la celebración del VII Encuentro de las Provincias de Europa de la Congregación, para profundizar en la dimensión universal y multicultural de las relaciones fraternas; algo que caracteriza, cada vez más, la composición de nuestras comunidades y que quisiéramos mostrarlo al mundo como testimonio del amor que Dios tiene a toda la humanidad. Este encuentro europeo, que acabamos de celebrar en la Abadía de San Jacut de la Mer, concurre también con la conmemoración del 50 aniversario del Tratado de Roma, que inició una etapa importante para la unión de los pueblos de Europa. . La segunda coincidencia se refiere a los Hermanos de San Juan de Dios que están celebrando en esta casa el Capítulo de la Provincia de Francia, lo cual ha permitido que un grupo representativo de la Orden, con el Superior General a la cabeza, esté presente en este acto de clausura. La masiva afluencia de Hermanas y Hermanos no es mera casualidad; yo lo interpreto como una llamada del Espíritu a vivir con fidelidad el común carisma de la hospitalidad del que tanto nos habla este lugar. . En esta circunstancia tampoco puedo dejar de citar a Nuestra Señora del Sagrado Corazón de Jesús, Patrona principal de la Congregación; una advocación que nació precisamente en Francia, en Issoudun, hace ahora 150 años, con el P. Jules Chevalier; a Ella san Benito Menni le confiaba los asuntos más difíciles y delicados que afectaban a la Congregación y, siendo contemporáneo del P. Chevalier, mantuvo relación con él. Si la apertura de este año jubilar 2006-2007, en Ciempozuelos (Madrid) se justificaba por ser el lugar en el que la Congregación nació y donde descansan los tres principales protagonistas de su historia, san Benito Menni, María Josefa Recio y María Angustias Jiménez; la clausura en Dinan se explica porque aquí san Benito Menni acabó sus años cargados de santidad. Aunque él se firmaba en muchas de sus cartas con apelativos despectivos como “indigno religioso, que no merece la honra de llevar la Cruz de Jesús”. “Pobre, que no merece ser llamado Siervo de Dios”, etc.,para nosotras, sus hijas, fue una persona extraordinariamente dotada en virtud y capacidades humanas que siempre las puso al servicio de Dios y al bien de la humanidad doliente. La Iglesia le proclamó beato en el año 1985 siendo canonizado el 25 de noviembre de 1999, por el Papa Juan Pablo II.La historia, con sus sorpresas, le confinó a este hospital, en el que vivió un año y donde murió rodeado de los cuidados y del afecto de sus Hermanos de comunidad, pero alejado de sus hijas, las Hermanas Hospitalarias, y desarraigado del que había sido su escenario de vida, España, durante casi cincuenta años.

    La Congregación de Hermanas Hospitalarias es don del Espíritu que impulsó en San Benito Menni, María Josefa Recio y María Angustias Giménez, el carisma de la caridad hospitalaria en favor de un sector muy concreto, la Psiquiatría y de las personas afectadas por discapacidad psíquica o motora. La actualización y verificación de este carisma se produce en la realidad temporal, de ahí su carácter dinámico de acuerdo a las circunstancias de tiempos y lugares, privilegiando un estamento: las personas más necesitadas[1]. Celebrar 125 años de vida significa recordar y agradecer a todos los que han hecho posible la actualización de este carisma: Hermanas Hospitalarias que nos han precedido y de laicos que, con ellas, han contribuido al desarrollo de la misión hospitalaria. Es también un momento para evocar el compromiso de las 1.188 hermanas que hoy formamos la Congregación y el trabajo de los 8.000 laicos que, en colaboración, llevan adelante la misión hospitalaria en 25 naciones en Europa, América, África y Asia, porque la hospitalidad no conoce límites, no sabe decir basta, vuela de una parte a otra por toda la redondez de la tierra[2]; y porque el amor al prójimo es una consecuencia derivada de la propia fe que se actualiza en obras concretas en favor de nuestros hermanos[3], sin distinción de raza, credo, ideología o clase social[4]. Celebrar 125 años nos anima a vivir el presente que Dios ha puesto en nuestras manos, con mayor pasión, si cabe, utilizando todas las posibilidades que tenemos de hacer el bien a nuestros hermanos enfermos con competencia profesional y con ese “algo más” del que tenemos necesidad los seres humanos: humanidad, atención del corazón[5]. Celebrar 125 años de vida es un desafío que nos impulsa hacia el futuro; un futuro que hoy entrevemos con acordes de integración de todos los que formamos la comunidad hospitalaria, laicos y religiosas, para que el ejercicio de la misión hospitalaria perviva con el rigor técnico que requiere y con los valores carismáticos que nos legaron nuestros fundadores. Celebrar, es agradecer a todos ustedes por el cariño y amistad que nos muestran con su presencia en este acto, celebrar es decirles gracias porque ustedes también nos apoyan y sostienen la misión en el día a día, con múltiples formas de colaboración. MUCHAS GRACIAS! Con este acto DECLARO CLAUSURADO EL CIENTO VEINTICINCO ANIVERSARIO DE FUNDACIÓN DE LA CONGREGACIÓN. María Camino Agós Superiora General


    [1] Constituciones, 61 [2] San Benito Menni [3] cf Gal 5, 6 [4] Constituciones de las Hermanas Hospitalarias, 31 [5] Benedicto XVI, Deus caritas est, 31





    CIEMPOZULOS - CASA MADRE


    Nuestra Señora del Sagrado Corazón de Jesús (Patrona della Congregazione)

    La Congregazione delle Sorelle Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù, è stato fondato in Ciempozuelos (Madrid-España), nel 1881 dal Padre San Benito Menni, sacerdote dell’Ordine dei Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio (Fatebenefratelli) congiuntamente con con María Josefa Recio y María Angustias Giménez, scelte da Dio per occuparsi delle persone che soffrono di turbe mentali abinando due criteri fondamentali:  carità e scienza.  Nasce come risposta a una situazione di grave abbandono in quest’area della salute e dall’esclusione sociale  dei malati mentali dell’epoca.

    Vedi donne dell’ hospitalitas


    Quieres compartir nuestra experiencia hospitalaria???


    Te atreves a vivir nuestra experiencia?…Siguenos


    Nuestras Experiencias


    http://www.casareal.es/noticias/news/20070315_Inauguracion_Pabellon_Fundacion_Instituto_San_Jose-ides-idweb.html LA CONSOLIDACIÓN COMO UN GRAN CENTRO PSIQUIÁTRICO

    Dado el número de pacientes que dependiendo de las Diputaciones se encontraban en otros manicomios, desde su misma fundación el Hospital Aita Menni debió hacer un gran esfuerzo para aumentar su capacidad. De este modo, toda la primera época de su historia está marcada por las obras continuas de remodelación y construcción de nuevos pabellones.

    En 1900 se adquirieron los caseríos Elezgarai, Ugalde y Errotaetxe, así como diversos terrenos. De este modo, el hospital podría ampliar sus instalaciones o bien podría beneficiarse de las explotaciones ganaderas y agrícolas de los mencionados caseríos para el abastecimiento de hermanas y pacientes.

    Ese mismo año, se construyó el Pabellón del Sagrado Corazón de Jesús, destinado a atender enfermas pensionistas particulares.

    Pabellón del Sagrado Corazón en 1900

    Pabellón del Sagrado Corazón en la acutalidad

    Entre los años 1904 y 1910 se edificó el Pabellón de San Benito para enfermas pensionadas por las Diputaciones Provinciales. Constaba de dos naves paralelas unidas en uno de sus extremos por una galería y en el otro por un edificio de tres pisos. Disponía de sala de estar, comedores, cocina, enfermería de somáticas, dormitorios y una sección de baños y de limpieza.

    Las obras continuaron prácticamente de manera ininterrumpida a uno y otro lado de la carretera que va de Mondragón a Aramaiona y en 1921 se construyó un túnel por debajo de ella, de manera que el paso desde los pabellones de un lado a los del otro no requiriera cruzar la carretera.

    Acceso al túnel

    En 1923 se edificó el Pabellón de San José actualmente destinado a pacientes de larga estancia.

    Pabellón de San José en 1923

    Pabellón de San José

    Ese mismo año se construyó otro pabellón que constituiría la Clausura de las Hermanas. Con una capacidad para más de 130 personas, disponía de cocina para enfermas pensionistas, cocina para toda la casa, ropería, costureros, despensa, etc. La construcción de los pabellones de San José y Clausura requirieron el embocinamiento del río en una longitud de 60 metros y el derribo de antiguos lavaderos y galerías de enlace, así como del caserío Errotaetxe.

    En 1924 quedó terminada la Clausura y se levantó un nuevo pabellón para enfermas de beneficencia, el de San Juan de Dios.

    En 1927, el Excmo. Sr. Obispo de Vitoria, Dr. D. Leopoldo Eijo y Garay, bendijo, consagró e inauguró la Iglesia de la Casa de Salud, en un acto al que asistieron las autoridades locales y provinciales. El proyecto fue obra del arquitecto Sr. Urcola y la primera piedra la bendijo y puso el Cardenal Arzobispo de Toledo, Dr. Reig.

    La primera época del Hospital Aita Menni estuvo marcada por las obras constantes de ampliación y remodelación de instalaciones. Las sucesivas ampliaciones de capacidad quedan reflejadas en el aumento constante del número de pacientes atendidas.

    Vista general en 1930

    Durante esta primera época se dotó a los diferentes pabellones de agua potable y caliente para usos higiénicos, sanitarios e hidroterápicos y se instaló el alumbrado eléctrico en sustitución de los quinqués de petróleo.

    Los pabellones que se fueron construyendo tenían anejos espaciosos jardines en los que se plantaron árboles para permitir a las enfermas ingresadas “disfrutar de la libertad compatible con su estado”.

    La atención psiquiátrica a finales del siglo XIX El Real Decreto de 1885 refleja la concepción que la sociedad de la época tiene del enfermo mental como una especie de ser extraño y temible, poseído o endemoniado, de cuya presencia hay que proteger al cuerpo social por medio de la reclusión El ingreso manicomial constituye en aquel tiempo la atribución por parte de la sociedad de la condición de loco a un individuo. Por ello, se establecen importantes trabas legales para evitar ingresos improcedentes, aunque una vez producido éste, las expectativas de salida de los manicomios eran casi nulas.

    De acuerdo con la Ley de Beneficencia de 1849, el Estado tenía la obligación de proporcionar atención sanitaria a sus ciudadanos, si bien las Diputaciones fueron asumiendo esta responsabilidad en el campo de la salud mental iniciando la construcción de manicomios, hasta que un decreto de 19 de abril de 1887 estableció que la obligación de atender a los dementes era imputable a la Diputación de cada provincia.

    A pesar de las disposiciones legales vigentes, en los últimos años del siglo XIX no existían recursos asistenciales para los enfermos mentales quienes no recibían atención sanitaria y se encontraban desatendidos por las calles o encerrados en sombríos calabozos en los que transcurrían sus días. Los manicomios de la época eran verdaderos pudrideros de locos en los que el ambiente reinante, lejos de favorecer la buena evolución de los pacientes, contribuía a su descompensación y a su desorganización.

    Ante la ausencia de hospitales psiquiátricos en el País Vasco, los enfermos eran ingresados fundamentalmente en los Manicomios de Valladolid y Zaragoza, lo que implicaba un importante desplazamiento y en muchos casos, una definitiva desconexión de la comunidad originaria.

    LA REFORMA PSIQUIÁTRICA DE 1931

    En 1931 tuvo lugar una reforma legal que liberalizaba el ingreso y salida del enfermo mental en las instituciones psiquiátricas y dictaba normas para la construcción de establecimientos hospitalarios, planificaba clínicas abiertas en hospitales generales y trazaba las primeras líneas de la asistencia psiquiátrica hospitalaria. Además, supuso la toma de conciencia por parte de la Administración Pública de las responsabilidades asistenciales que tenía con toda la población, no sólo con los indigentes. Paulatinamente se fueron extendiendo en la sociedad la Seguridad Social y el Seguro Obligatorio de Enfermedad que se crearon siguiendo el modelo italiano. Sin embargo, la asistencia psiquiátrica permaneció fuera de este circuito sanitario, manteniéndose en el ámbito de actuación de las secciones de Beneficencia de las diferentes Diputaciones. No obstante, éstas pusieron en marcha una forma particular de seguro de enfermedad que hicieron extensible a toda la asistencia ofrecida en sus instituciones sanitarias, entre ellas la asistencia psiquiátrica. Todo ciudadano que lo solicitara podía recibir cobertura económica para consulta u hospitalización, teniendo que abonar una parte en la medida de su capacidad económica, de manera que cuando la familia no poseía recursos, la Diputación asumía el coste total de la hospitalización. Además, como consecuencia de la Guerra Civil el poder adquisitivo de las pensiones sufrió una caída importante, lo cual supuso el paso progresivo de muchas pacientes de la condición de pensionistas a la de beneficencia de las diferentes Diputaciones.

    El Hospital Aita Menni mantenía relaciones institucionales con las Diputaciones de Gipuzkoa, Bizkaia, Araba y Burgos, desde donde provenían los pacientes que se atendían.

    La Diputación de Gipuzkoa mantuvo invariablemente a las enfermas que dependían de ella en el Hospital Aita Menni, pero a partir de 1932, como consecuencia de la apertura de otros recursos asistenciales para situaciones agudas, el hospital se transformó en centro para la recuperación y residencia de enfermas mentales crónicas donde eran ingresadas las enfermas crónicas dependientes de dicha Diputación.

    Por su parte, la Diputación de Bizkaia contaba con el manicomio de Bermeo por lo que la presencia de enfermas procedentes de este territorio histórico no fue muy significativa en los primeros años. De todos modos, la afluencia de enfermas fue creciendo a partir de estas fechas hasta alcanzar una proporción muy elevada en el censo global de pacientes.

    La Diputación de Araba contaba con un hospital psiquiátrico propio por lo que la presencia de enfermas alavesas ha sido siempre mínima. La Diputación de Burgos derivaba sus pacientes desde 1898 y lo continuaría haciendo hasta que en 1977 trasladara a sus últimas enfermas al recién creado manicomio de Oña.

    LA INTRODUCCIÓN DE LOS PSICOFÁRMACOS

    En la segunda mitad de los años 40 se descubrió un potente antihistamínico que mostró propiedades sedantes sobre el sistema nervioso central. Se trataba de la prometazina (Fenergan®). A partir de las expectativas que abrió este descubrimiento para el tratamiento de las enfermedades mentales, se desarrollaron nuevas investigaciones que desembocaron en el descubrimiento de la clorpromazina (Largactil®) en diciembre de 1950. La revolución de la psicofarmacología había comenzado.

    A partir de ese momento, los avances en este terreno se sucedieron a un ritmo vertiginoso: en 1952 se aisló la reserpina a partir de la raíz de la Rauwolfia serpentina; en 1955 se sintetizó el clordiazepóxido, abriendo el camino de los ansiolíticos benzodiazepínicos; en 1956 se descubrió el efecto antidepresivo de la iproniazida, precursor de los inhibidores de la monoaminooxidasa; en 1957 se produjo el descubrimiento del primer antidepresivo tricíclico, la imipramina.

    Aunque el marco legal vigente en esta época seguía siendo el establecido por el Real Decreto de 1931, estos descubrimientos tuvieron una gran importancia en la atención psiquiátrica en general y en el Hospital Aita Menni en particular puesto que, a partir de la introducción progresiva de estos fármacos, muchos enfermos pudieron evolucionar favorablemente, lo que dio lugar a que el censo de pacientes comenzara a disminuir por primera vez en la historia del hospital. Como consecuencia, en estos años los trabajos materiales fueron dirigidos principalmente a tareas de mantenimiento y acomodación de subestructuras a necesidades variables.

    EL NUEVO HOSPITAL AITA MENNI

    Con la llegada de la democracia, la asistencia a los enfermos mentales salió del ámbito del Ministerio de la Gobernación para entrar dentro de la asistencia sanitaria general y por tanto, entre las competencias del Ministerio de Sanidad (reforma del Código Civil de 1983). En la Ley General de Sanidad de 1986 se recogía la planificación de los servicios de asistencia psiquiátrica poniendo especial énfasis en el desarrollo de la asistencia extrahospitalaria a través de servicios comunitarios como consultorios, hospitales de día, centros laborales protegidos para minusvalías psíquicas u hogares asistidos en la comunidad. Por otra parte, se creaban unidades psiquiátricas para la atención de casos agudos en los hospitales generales así como unidades de rehabilitación en régimen de media estancia en los hospitales psiquiátricos y establecimientos residenciales de larga estancia.

    Por otra parte, en la Comunidad Autónoma Vasca se elaboró un Plan de Asistencia Psiquiátrica y Salud Mental a partir del cual se fueron creando los diferentes dispositivos asistenciales haciendo especial hincapié en la red de centros de salud mental y en las unidades psiquiátricas de corta estancia en los hospitales generales. Simultáneamente, en 1983 se creó el Servicio Vasco de Salud – Osakidetza para la gestión de los servicios sanitarios de la comunidad autónoma, aunque hasta 1985 las competencias en salud mental permanecieron bajo la responsabilidad de las Diputaciones Forales. A partir de entonces, el Hospital Aita Menni concertó las estancias de sus pacientes con esta institución dependiente del Departamento de Sanidad del Gobierno Vasco.

    En este contexto, el Hospital Aita Menni se renovó para convertirse en un instrumento moderno de terapia y rehabilitación de las funciones psíquicas y sociales deterioradas por la enfermedad mental, orientando su actividad a las pacientes que requerían estancias prolongadas en el hospital. Para ello, se consideró muy importante proceder a la renovación de las instalaciones con una reorganización global.

    Ante la función concreta que el Hospital Aita Menni debía cumplir en el marco asistencial vigente, se construyó un nuevo espacio hospitalario y residencial cuyas obras comenzaron en 1981.

    Vista general del Hospital Aita Menni en 1981, poco antes de iniciarse las obras de las nuevas instalaciones

    LA DIVERSIFICACIÓN DE SERVICIOS

    La Comunidad Hospitalaria Coincidiendo con la celebración en 1988 del Año del Colaborador en las instituciones de las Hermanas Hospitalarias, se inicia en el Hospital Aita Menni un proceso de integración de los profesionales que en él trabajan dando lugar a la Comunidad Hospitalaria en la que hermanas y colaboradores desarrollan conjuntamente su labor y en cuyo centro se sitúa al paciente y sus familiares. Esta integración es expresión de la voluntad de la Congregación de las Hermanas Hospitalarias y se plantea como una necesidad consecuente a la incorporación de un gran número de nuevos profesionales de cara a acometer los nuevos proyectos asistenciales y se materializa en una participación creciente de los colaboradores en la planificación del futuro y en la toma de las decisiones que afectan a la vida del centro.

    El mayor nivel de complejidad que el hospital alcanza en los últimos años y la incorporación de disciplinas específicas para determinados dispositivos han provocado la estructuración de diferentes equipos asistenciales que, manteniendo la filosofía del trabajo multidisciplinar en cada servicio, van alcanzando cotas de autonomía crecientes, aunque manteniéndose la necesaria coordinación entre todos ellos. Esta progresiva especialización conlleva no sólo la adecuación arquitectónica de los equipamientos sino también un avance en el desarrollo de la tecnología aplicada y en el esfuerzo dedicado a la investigación científica. Pag. Web:www.hospitalariasargentina.org Web: www.hospitalarias.org

    Leave a Reply

    You must be logged in to post a comment.