GIOVANNI DI DIO: LA PAZZIA

ERA UNA NOTTE DI LUNA PIENA – Angelo Nocent

ERA UNA NOTTE DI LUNA PIENA

Un tempo, CALENDIMAGGIO mi ricordava il triennio delle scuole medie. Era una preziosa ANTOLOGIA per un primo approccio con la letteratura. Oggi il termine che sa di risveglio primaverile, mi richiama MARIA, antologia per diventare santi.. Vorrei soffermarmi sull’argomento ma richiederebbe spazio, perciò partiamo subito dal PRIMO MAGGIO per parlare di una storia dimenticata che comincia proprio così: C’era una volta… nel nostro paese, anni ’50, un sacerdote di nome Don Giovanni BISSA. Faceva il parroco. Di lui si tramanda che fosse un vulcano in perenne eruzione, di iniziative non solo pastorali ma anche sociali. Come Gesù, è passato facendo del bene a tutti. Ma gli stava particolarmente a cuore una cosa: la SANTITA’“, ossia la vocazione comune a cui è chiamato ogni cristiano.

Qualcuno forse ricorderà che un tempo, prima di entrare nel bar dell’Oratorio c’era una stampa d’epoca, in una cornice argentata, raffigurante SAN RICCARDO PAMPURI. Per me, proveniente da Peschiera Borromeo, dove è sorta la prima chiesa lombarda a lui dedicata, è stato come ritrovare in questo paese un amico di vecchia data. Ma quando fu necessario imbiancare i locali, il quadro venne rimosso e mai rimesso, tanto che nessuno sa più dove sia finito. Ma…nel Febbraio 2024, il nuovo parroco don Mario BOTTI, fresco di nomina, ha trovato il modo di riservare in chiesa un posticino alla icona di questo santo, giovane e contemporaneo, nel segno della continuità. Cresciuto nell’Azione Cattolica (33 anni di sì a Dio), il Pampuri ha tanto da insegnare alla nuova “UP–Unità Pastorale BETANIA”, proprio ora che intende riscoprire e promuovere la ministerialità nella Chiesa (Ef 4,11-13). E questo medico malaticcio, che ha conosciuto il patire, può dare una mano anche a chi ha problemi di salute fisica e spirituale.

Questa volta però non si tratta di una stampa. Il ritratto è opera del prof.FERDINANDO MICHELINI, architetto e pittore milanese, uno dei miracolati dal santo. Sopravvissuto allo sterminio di Lavensburgher, quando è tornato da quel lagher infernale pesava 38 Kg, uno straccio, non un uomo. La detenzione gli aveva procurato serie conseguenze grastro-intestinali che lo hanno afflitto per anni, fino a quella notte in cui è stato costretto a sottoporsi ad intervento chirurgico d’urgenza nella vicina clinica San Giuseppe di Milano. Addome aperto e ricucito. Operazione non riuscita. Decesso previsto dai medici operatori nella notte stessa. Lo sbalordimento dell’equipe medica quando il mattino seguente, invece di un cadavere, si è ritrovata davanti ad un arzillo Michelini, seduto sul letto a disegnare. Erano andati a visitarlo per fargli coraggio e lo riscontrano semplicemente miracolato, per l’invocata intercessione del Servo di Dio, complice anche una sua vecchia giacca, posata sopra le coperte dell’infermo. Ancor più stupefacenti gli anni post guarigione del laico Michelini che metterà tutte le sue energie e competenze professionali a disposizione dell’Africa, gratuitamente. Dirà: “era il minimo che potessi fare”.

Il corpo del dott. ERMINIO FILIPPO PAMPURI, noto in tutto il mondo ormai come SAN RICCARDO, non ha subìto la corruzione del sepolcro. Ora è venerato nella parrocchiale di Trivolzio (PV), suo paese natale, meta di ininterrotti pellegrinaggi. Nei suoi appunti spirituali si trova un proposito coltivato fin dai banchi del liceo e dell’università di Pavia, attivo ed esemplare nell’allora “Circolo Severino Boezio”, con un preciso ideale: “Abbi sempre grandi desideri, cioè desiderio di GRANDE SANTITA‘, di fare opere grandi – mira sempre più in alto che puoi – per riuscire a colpire giusto. Come i mercanti che domandano di più per riuscire a prendere il giusto prezzo”. Di sicuro il treno di Don Bissa, evangelizzatore per vocazione, viaggiava sul medesimo binario e cercava di farvi salire su questo treno più gente possibile, a cominciare dai giovani che gli stavano particolarmente a cuore.

Ma veniamo al PRIMO MAGGIO. Pio XII istituì nel 1955 la festa di «san Giuseppe artigiano» per dare un protettore ai lavoratori e un senso cristiano alla «festa del lavoro». Epperò, fra i santi del giorno elencati nel Martirologio, si legge: “A Milano, san RICCARDO (Erminio Filippo) PAMPURI, che dapprima esercitò nel mondo la professione di medico ed, entrato nell’Ordine di San Giovanni di Dio, dopo due anni riposò in pace nel Signore. Maggio naturalmente, per tradizione, è anche sentito come il MESE DI MARIA. Riccardo è un santo mariano, perciò eucaristico, come san Giovanni Paolo II che lo ha proclamato santo.Un piccolo aneddoto. Nel pomeriggio del 18 aprile 1930, Venerdì Santo, i superiori, sollecitati dai familiari, a disagio per gli spostamenti con le ferrovie, prendono la decisione di trasportare Fra Riccardo da Brescia, Ospedale Sant’Orsola, sua residenza, a Milano, Casa di Cura San Giuseppe, dove dai primi del ’900 avevano attivato una sezione per i colpiti da tubercolosi, malattia allora invalidante e alla lunga mortale.

La pleurite che lo ha colpito al fronte nella battaglia di Caporetto è degenerata. Consultati i migliori specialistici, alla fine, nessuna terapia si è dimostrata veramente efficace. Consapevole del suo stato, lui non si lamenta né si illude: minimizza e accetta le attenzioni premurose per non essere scortese. Acceso in volto per lo strapazzo e qualche linea di febbre, varca il portone e, mentre entra in clinica, la radio, data la religiosità del giorno, sta trasmettendo l’Ave Maria di Gounoud. La sua sembra quasi un’entrata trionfale. Gli viene assegnata la stanza n. 54. Per l’assistenza i familiari si avvicendano a turno. Rita, la sorella che con lui aveva trascorso gli anni migliori presso la Condotta Medica di Morimondo, lo veglia nelle ore notturne. Zia Maria che lo ha adottato, è presa da sconforto: Oh Nan, se la Madonna di Lourdes ti fa guarire, ci perdo tutte le mie sostanze e non m’importa di restare con niente. Lui la interrompe: “Non dire cose fuori posto. Se il Signore mi lascia, sto qui volentieri; se mi toglie, vado volentieri.

Tra alti e bassi si giunge al 29 aprile. La situazione precipita. Riccardo riceve l’UNZIONE dei malati e il SANTO VIATICO. Subentra in tutti una grande serenità d’animo. La febbre lo assopisce. Ad ogni risveglio chiede se è già Maggio, quasi avesse un segreto APPUNTAMENTO da rispettare. E proprio all’aprirsi del mese mariano, tanto agognato, chiude la sua beve giornata terrena a soli 33 anni. Ho verificato: era di MERCOLEDI ed era UNA NOTTE DI LUNA PIENA.

In un attimo si sparge la voce che il DOTTORINO SANTO, un tempo il FAC TOTUM della sua parrocchia, E’ MORTO. Il 4 Maggio al camposanto di Trivolzio, lo accompagna una folla sterminata proveniente anche dai paesi limitrofi e oltre. Nei giorni seguenti, chi passa dal cimitero va a deporre un fiore, come per dire grazie!”. E c’è chi dalla tomba preleva un pugno di terra da portarsi a casa. Matura la decisione di traslare la salma in chiesa e viene posta vicino al fonte battesimale.

Passano gli anni. Ad un certo momento entra in scena un personaggio influente: DON GIUSSANI. In internet (vedi Alberto Savorana) per sapere come è nata la sua devozione pro san Riccardo, passato come una meteora, lasciandosi dietro un fascio di scintille in un campo di stoppie: “tamquam scintillae in arundimento. Se oggi il roveto continua ad ardere e non si consuma è perché lì c’ è Dio: l’unico FUOCO che non ha bisogno di essere riattizzato. L’aveva promesso: ”Attirerò tutti a ame Gv 12,20). Angelo Nocent

MAGGIO: PER MARIA A GESU’

Maggio è tradizionalmente il mese dedicato alla Madonna. Dal Medio Evo a oggi, dalle statue incoronate di fiori al magistero dei Papi, l’origine e le forme di una devozione popolare molto sentita

Il mese di maggio è il periodo dell’anno che più di ogni altro abbiniamo alla Madonna. Un tempo in cui si moltiplicano i Rosari, sono frequenti i pellegrinaggi ai santuari, si sente più forte il bisogno di preghiere speciali alla Vergine. Una necessità avvertita con particolare urgenza nel tempo, drammatico, che stiamo vivendo. L’ha sottolineato più volte il Papa che già nella “Lettera” inviata a tutti i fedeli il 25 aprile di tre anni fa evidenziava l’importanza di rivolgersi a Maria nei momenti di difficoltà. Un invito caldo e affettuoso a riscoprire la bellezza di pregare il Rosario a casa. Lo si può fare insieme o personalmente, diceva, ma senza mai perdere di vista l’unico ingrediente davvero indispensabile: la semplicità. Contemplare il volto di Cristo con il cuore di Maria, aggiungeva papa Francesco, “ci renderà ancora più uniti come famiglia spirituale e ci aiuterà a superare questa prova”.

Il re saggio e la nascita del Rosario

In particolare la storia ci porta al Medio Evo, ai filosofi di Chartres nel 1100 e ancora di più al XIII secolo, quando Alfonso X detto il saggio, re di Castiglia e Leon, in “Las Cantigas de Santa Maria” celebrava Maria come: «Rosa delle rose, fiore dei fiori, donna fra le donne, unica signora, luce dei santi e dei cieli via (…)». Di lì a poco il beato domenicano Enrico Suso di Costanza mistico tedesco vissuto tra il 1295 e il 1366 nel Libretto dell’eterna sapienza si rivolgeva così alla Madonna: «Sii benedetta tu aurora nascente, sopra tutte le creature, e benedetto sia il prato fiorito di rose rosse del tuo bei viso, ornato con il fiore rosso rubino dell’Eterna Sapienza!». Ma il Medio Evo vede anche la nascita del Rosario, il cui richiamo ai fiori è evidente sin dal nome. Siccome alla amata si offrono ghirlande di rose, alla Madonna si regalano ghirlande di Ave Maria.

Le prime pratiche devozionali, legate in qualche modo al mese di maggio risalgono però al XVI secolo. In particolare a Roma san Filippo Neri, insegnava ai suoi giovani a circondare di fiori l’immagine della Madre, a cantare le sue lodi, a offrire atti di mortificazione in suo onore. Un altro balzo in avanti e siamo nel 1677, quando il noviziato di Fiesole, fondò una sorta di confraternita denominata “Comunella”. Riferisce la cronaca dell’archivio di San Domenico che «essendo giunte le feste di maggio e sentendo noi il giorno avanti molti secolari che incominciava a cantar maggio e fare festa alle creature da loro amate, stabilimmo di volerlo cantare anche noi alla Santissima Vergine Maria…». Si cominciò con il Calendimaggio, cioè il primo giorno del mese, cui a breve si aggiunsero le domeniche e infine tutti gli altri giorni. Erano per lo più riti popolari semplici, nutriti di preghiera in cui si cantavano le litanie, e s’incoronavano di fiori le statue mariane. Parallelamente si moltiplicavano le pubblicazioni. Alla natura, regina pagana della primavera, iniziava a contrapporsi, per così dire, la regina del cielo. E come per un contagio virtuoso quella devozione cresceva in ogni angolo della penisola, da Mantova a Napoli.


O Maria, Tu risplendi sempre nel nostro cammino come segno di salvezza e di speranza. Noi ci affidiamo a Te, Salute dei malati, che presso la croce sei stata associata al dolore di Gesù, mantenendo ferma la tua fede. Tu, Salvezza del popolo romano, sai di che cosa abbiamo bisogno e siamo certi che provvederai perché, come a Cana di Galilea, possa tornare la gioia e la festa dopo questo momento di prova. Aiutaci, Madre del Divino Amore, a conformarci al volere del Padre e a fare ciò che ci dirà Gesù, che ha preso su di sé le nostre sofferenze e si è caricato dei nostri dolori per condurci, attraverso la croce, alla gioia della risurrezione. Amen. Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta.


L’indicazione del gesuita Dionisi

L’indicazione di maggio come mese di Maria lo dobbiamo però a un padre gesuita: Annibale Dionisi. Un religioso di estrazione nobile, nato a Verona nel 1679 e morto nel 1754 dopo una vita, a detta dei confratelli, contrassegnata dalla pazienza, dalla povertà, dalla dolcezza. Nel 1725 Dionisi pubblica a Parma con lo pseudonimo di Mariano Partenio “Il mese di Maria o sia il mese di maggio consacrato a Maria con l’esercizio di vari fiori di virtù proposti a’ veri devoti di lei”. Tra le novità del testo l’invito a vivere, a praticare la devozione mariana nei luoghi quotidiani, nell’ordinario, non necessariamente in chiesa «per santificare quel luogo e regolare le nostre azioni come fatte sotto gli occhi purissimi della Santissima Vergine». In ogni caso lo schema da seguire, possiamo definirlo così, è semplice: preghiera (preferibilmente il Rosario) davanti all’immagine della Vergine, considerazione vale a dire meditazione sui misteri eterni, fioretto o ossequio, giaculatoria. Negli stessi anni, per lo sviluppo della devozione mariana sono importanti anche le testimonianze dell’altro gesuita padre Alfonso Muzzarelli che nel 1785 pubblica “Il mese di Maria o sia di Maggio” e di don Giuseppe Peligni.

Da Grignion de Montfort all’enciclica di Paolo VI

Il resto è storia recente. La devozione mariana passa per la proclamazione del Dogma dell’Immacolata concezione (1854) cresce grazie all’amore smisurato per la Vergine di santi come don Bosco, si alimenta del sapiente magistero dei Papi. Nell’enciclica Mense Maio datata 29 aprile 1965, Paolo VI indica maggio come «il mese in cui, nei templi e fra le pareti domestiche, più fervido e più affettuoso dal cuore dei cristiani sale a Maria l’omaggio della loro preghiera e della loro venerazione. Ed è anche il mese nel quale più larghi e abbondanti dal suo trono affluiscono a noi i doni della divina misericordia». Nessun fraintendimento però sul ruolo giocato dalla Vergine nell’economia della salvezza, «giacché Maria – scrive ancora papa Montini – è pur sempre strada che conduce a Cristo. Ogni incontro con lei non può non risolversi in un incontro con Cristo stesso». Un ruolo, una presenza, sottolineato da tutti i santi, specie da quelli maggiormente devoti alla Madonna, senza che questo diminuisca l’amore per la Madre, la sua venerazione. Nel “Trattato della vera devozione a Maria” san Luigi Maria Grignon de Montfort scrive: «Dio Padre riunì tutte le acque e le chiamò mària (mare); riunì tutte le grazie e le chiamò Maria»


«Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio».

Nella presente situazione drammatica, carica di sofferenze e di angosce che attanagliano il mondo intero, ricorriamo a Te, Madre di Dio e Madre nostra, e cerchiamo rifugio sotto la tua protezione. O Vergine Maria, volgi a noi i tuoi occhi misericordiosi in questa pandemia del coronavirus, e conforta quanti sono smarriti e piangenti per i loro cari morti, sepolti a volte in un modo che ferisce l’anima. Sostieni quanti sono angosciati per le persone ammalate alle quali, per impedire il contagio, non possono stare vicini. Infondi fiducia in chi è in ansia per il futuro incerto e per le conseguenze sull’economia e sul lavoro.

Madre di Dio e Madre nostra, implora per noi da Dio, Padre di misericordia, che questa dura prova finisca e che ritorni un orizzonte di speranza e di pace. Come a Cana, intervieni presso il tuo Figlio Divino, chiedendogli di confortare le famiglie dei malati e delle vittime e di aprire il loro cuore alla fiducia.

Proteggi i medici, gli infermieri, il personale sanitario, i volontari che in questo periodo di emergenza sono in prima linea e mettono la loro vita a rischio per salvare altre vite.

Accompagna la loro eroica fatica e dona loro forza, bontà e salute. Sii accanto a coloro che notte e giorno assistono i malati e ai sacerdoti che, con sollecitudine pastorale e impegno evangelico, cercano di aiutare e sostenere tutti.

Vergine Santa, illumina le menti degli uomini e delle donne di scienza, perché trovino giuste soluzioni per vincere questo virus. Assisti i Responsabili delle Nazioni, perché operino con saggezza, sollecitudine e generosità, soccorrendo quanti mancano del necessario per vivere, programmando soluzioni sociali ed economiche con lungimiranza e con spirito di solidarietà.

Maria Santissima, tocca le coscienze perché le ingenti somme usate per accrescere e perfezionare gli armamenti siano invece destinate a promuovere adeguati studi per prevenire simili catastrofi in futuro. Madre amatissima, fa’ crescere nel mondo il senso di appartenenza ad un’unica grande famiglia, nella consapevolezza del legame che tutti unisce, perché con spirito fraterno e solidale veniamo in aiuto alle tante povertà e situazioni di miseria. Incoraggia la fermezza nella fede, la perseveranza nel servire, la costanza nel pregare. O Maria, Consolatrice degli afflitti, abbraccia tutti i tuoi figli tribolati e ottieni che Dio intervenga con la sua mano onnipotente a liberarci da questa terribile epidemia, cosicché la vita possa riprendere in serenità il suo corso normale. Ci affidiamo a Te, che risplendi sul nostro cammino come segno di salvezza e di speranza, o clemente, o pia, o dolce Vergine Maria. Amen.


Giovanni Paolo II il Papa di Maria

Maria è, naturalmente, molto presente nel magistero dei Papi. Basti pensare a san Giovanni Paolo II il cui motto: “Totus tuus” richiamava esplicitamente il legame con la Vergine. Wojtyla è stato beatificato il 1° maggio 2011. Nell’omelia, quel giorno Benedetto XVI disse: «Tutti siamo lieti che la beatificazione di Giovanni Paolo II avvenga nel primo giorno del mese mariano, sotto lo sguardo materno di Colei che, con la sua fede, sostenne la fede degli Apostoli, e continuamente sostiene la fede dei loro successori, specialmente di quelli che sono chiamati a sedere sulla cattedra di Pietro.

Maria non compare nei racconti della risurrezione di Cristo, ma la sua presenza è come nascosta ovunque:

- lei è la Madre, a cui Gesù ha affidato ciascuno dei discepoli e l’intera comunità.

- In particolare, notiamo che la presenza effettiva e materna di Maria viene registrata da san Giovanni e da san Luca nei contesti che precedono quelli del Vangelo odierno e della prima Lettura: nel racconto della morte di Gesù, dove Maria compare ai piedi della croce (cfr Gv 19,25);

– e all’inizio degli Atti degli apostoli, che la presentano in mezzo ai discepoli riuniti in preghiera nel cenacolo (cfr At 1,14)».

SAN PAMPURI. IL VOLTO DEI SANTI OGNI GIORNO- Paola Bergamini

SAN PAMPURI. IL VOLTO DEI SANTI OGNI GIORNO

Si apre domani l’Anno giubilare dedicato al frate medico di Trivolzio nel trentennale della canonizzazione. «Un santo della nostra terra, uno di noi», per don Giussani, a cui era molto caro. Ecco chi era, in un articolo di “Tracce” di qualche anno faPaola Bergamini30.04.2019Erminio Pampuri nacque a Trivolzio, alle porte di Milano, nel 1897. Per sei anni fu medico condotto a Morimondo. Entrò nell’ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio (Fatebenefratelli) nel 1927, con il nome di Riccardo. Morì tre anni dopo. È stato canonizzato da Giovanni Paolo II il 1° novembre 1989 con queste parole: «È una figura straordinaria vicina a noi nel tempo, ma più ancora ai nostri problemi ed alla nostra sensibilità. La sua vita breve, ma intensa, è uno sprone per tutto il popolo di Dio, ma specialmente per i giovani, per i medici, per i religiosi».

Ne raccontiamo la vita, in questo colloquio immaginario tra persone che gli furono vicine:

- la sorella Longina, suora missionaria in Egitto;

- gli zii Carlo e Maria Campari che lo allevarono;

- un compagno di studi in Università;

- la sorella Margherita;

- don Riccardo Beretta, sua guida spirituale;

- padre Zaccaria Castelletti, provinciale dell’ordine del Fatebenefratelli;

- il nipote Alessandro Pampuri.

Il dialogo è costruito utilizzando alcune testimonianze raccolte per la causa di beatificazione e canonizzazione. 

«Abbi grandi desideri, cioè desiderio di grande santità, di fare opere grandi; mira sempre più in alto che puoi per riuscire a colpire giusto: ma poiché non sempre sarai chiamato ad azioni gloriose, fa anche le cose piccole, minime, con grande amore». «… far sempre la volontà del Signore nell’esatto adempimento dei propri doveri, e in una lotta perseverante… questo dovrebbe veramente essere il mio programma. E noi ci sforzeremo di servirlo sempre non con timore servile dei castighi, ma per amore, con un amore sempre più grande che ci farà tornare sempre più lievi le sue croci e più soave il suo giogo».

«Aveva 30 anni quando mio fratello Riccardo mi scrisse queste poche righe, a me suora missionaria in Egitto. Era il 28 ottobre 1928. Due anni dopo sarebbe morto.

SAMNTO

San Riccardo Pampuri, medico del Fatebenefratelli. Te lo ricordi zia?».

San Riccardo Pampuri
San Riccardo Pampuri
«Certo. Il mio Erminio, questo era il suo nome prima di prendere i voti. Ricordo quando tuo padre lo portò a casa nostra, a Trivolzio. Tua madre era da poco morta di tubercolosi, lui era il decimo di undici figli. Io e Carlo, fratelli della mamma, lo accogliemmo in casa nostra come un figlio. Era un bambino tranquillo, bravo negli studi. Una consolazione per noi. Eh, Carlo?».

 

«Altroché! Ero orgoglioso di lui. Soprattutto quando mi disse che voleva seguire le mie orme. Anche lui medico. Anche lui all’Università di Pavia. Se non fosse stato per la parentesi bellica – Prima Guerra mondiale – forse si sarebbe laureato in due anni…».

«Io lo conobbi proprio in università. Per me fu un vero compagno di studi. Pur estraniandosi dalle varie congreghe era sempre con e per noi. Faceva parte del circolo San Severino Boezio, associazione fondata nel 1898 dal vescovo locale, monsignor Riboldi, per la formazione morale degli studenti “quasi a dimostrazione solenne che era ancora possibile l’unione della scienza con la fede e la pratica della morale cattolica”. E vi assicuro che non erano tempi facili quelli.

Tra i giovani studenti di allora vi era chi ostentava una vita dissoluta e sfrenata. L’ambiente intellettuale era ancora dominato da un agnosticismo religioso e, nelle concezioni biologiche poste a base dei nostri studi medici, da un meccanicismo sostenuto in buona fede da menti assai colte di scienze profane e digiune di cultura religiosa.

I circoli universitari cattolici ebbero gran merito nel preparare quel miglioramento dell’ambiente e nel preservare singoli giovani dal contagio dell’agnosticismo e dell’irreligiosità. Vi erano altresì molti giovani esemplari per rettitudine e dignità. Erminio era uno di questi. Ho in mente un fatto preciso. Lo rivedo, durante una sollevazione studentesca, accostarsi ai cadaveri di due studenti uccisi, unico ad osare di farlo. Pregò su di loro, ritirandosi poi indisturbato. I dimostranti che erano ad una vicina finestra lo rispettarono, mentre spararono immediatamente ad un altro che tentò di avvicinarsi. Non fu solo una prova di coraggio».

La parrocchia dei Santi Cornelio e Cipriano a Trivolzio

«Se vogliamo parlare di coraggio, mio nipote la prova la diede durante il servizio militare. Lui non ne voleva mai parlare. Forse perché da quel fatto la sua salute fu compromessa. Comunque… Era la ritirata di Caporetto, gli ufficiali medici della sua compagnia avevano abbandonato tutto il materiale sanitario ed erano fuggiti con i soldati. Erminio, non volendo che medicinali tanto preziosi andassero perduti, li caricò su un carretto trainato da una mucca e, completamente solo, sfidando il nemico sotto una pioggia battente, camminò per 24 ore verso la sua compagnia che raggiunse quando ormai era dato per disperso. Gli costò una pleurite grave da cui non guarì mai completamente. Ne sai qualcosa tu Margherita che, da buona sorella, ti trasferisti con lui, dopo la laurea, a Morimondo dove per sei anni esercitò la professione di medico condotto. Dal 1921 al 1927». 

«Già. Che anni! In quel paesino sperduto nelle campagne della Bassa milanese. Non aveva un attimo di sosta, anzi non si dava un attimo di sosta. Potevano chiamarlo in qualsiasi ora del giorno o della notte. Era l’uomo della carità. E prima di tutto della carità spirituale, perché agli ammalati, oltre a curarli, cercava di dire una buona parola e di dare buone letture.

Curava i corpi per giungere a curare le miserie dell’anima. Aveva istituito una mutua per la quale gli iscritti pagavano due lire all’anno ed egli scalzando questo misero compenso li visitava in qualsiasi momento.

Siccome poi la mutua non forniva le specialità, le forniva e pagava di sua tasca. Quando poi non pagava i conti dei suoi ammalati dal panettiere, dal macellaio… Col risultato che a metà del mese non avevamo più soldi. Lui, il medico, non aveva più soldi e doveva chiederli in prestito.

Longina, dall’Egitto, gli aveva scritto di pensare al futuro, alla vecchiaia, agli imprevisti. E lui cosa rispose? Che investiva in un fondo sicuro con degli utili altissimi. Scoprii dopo che i suoi denari li “investiva” nelle missioni. Ma per lui non era sufficiente svolgere bene la sua professione.

Era diventato il centro del paese. Per riunire i giovani fondò il circolo dell’Azione Cattolica. Ogni anno organizzava gli esercizi spirituali a cui partecipavano non solo giovani, ma anche adulti. Mise in piedi anche un corpo musicale. Per l’acquisto degli strumenti andò personalmente a chiedere offerte di cascina in cascina e poi dava del suo. Fece fiorire attorno a sé una collana di opere di apostolato. Ogni giorno non mancava mai di andare a Messa, di fare una visita, anche fugace, al Santissimo Sacramento. Questo era ciò che lo muoveva: la fede. Era una fede profonda la sua, irradiata dalla luce della speranza cristiana. Se fu grande l’amore per gli ammalati, per i poveri, per i peccatori era perché la sua fede, il suo amore per Dio gli facevano trovare il riflesso divino su quei volti sfigurati dal dolore, dall’indigenza, dal peccato. Ecco perchè ogni volta ch’egli doveva incontrarsi con i poveri cercava luce e grazia al Crocefisso, sicché spesso lo si udiva ripetere: “Tutto per Voi, solo per Voi“.

Gli ammalati volevano il “dottorino santo”: egli irradiava Iddio. Ma, ben inteso, il suo era un comportamento normale: non indugiava in manifestazioni di pietà o di preghiera che sapessero di ostentazione. Eppure tutti guardavano a lui. Fu in quegli anni che prese i voti di Terziario francescano. Io intuivo che però per lui non era sufficiente. Ne sa qualcosa don Riccardo Beretta che lo seguì nella maturazione della sua vocazione spirituale».

DON RICCARDO BERETTA
«Sì. Io lo conobbi attraverso l’Azione Cattolica. Capii che lui si sentiva attratto più verso l’apostolato sacerdotale che alla vita religiosa. Mi disse che per lo stato precario della sua salute aveva già dovuto subire due ripulse: dai minori Francescani e dai Gesuiti. Ne parlai con il padre provinciale dell’Ordine ospitaliero dei Fatebenefratelli, padre Zaccaria Castelletti, che dopo aver avuto un colloquio con lui mi disse: “Dovesse rimanere anche un sol giorno membro effettivo dell’Ordine nostro sia egli il benvenuto. In cielo ci sarà poi un angelo di protezione“».

«È vero, dissi quelle parole. Dopo la grande bufera – il Modernismo – scatenatasi sulla gioventù nel l’immediato dopo guerra con lunghe tenaci vibrazioni di spirito ribelle e dentro e fuori il seno della famiglia, intuivo che la presenza di quel giovane medico avrebbe portato una nota di grande equilibrio morale in anime trepide e vacillanti. Il suo sguardo mite, dolce, ma capace di attirare a sé, di avvincere: era appunto quanto occorreva tra i nostri novizi».

 

«Non disse niente della sua scelta, neanche a me che ero la zia, la mamma che lo aveva tirato su. Nemmeno a sua sorella Margherita. Nemmeno ai compaesani. Un giorno prese e se ne andò. Io lo accompagnai al convento del l’Ordine ospitaliero, senza sapere niente. Padre Norberto mi disse: “Allora il dottore si ferma con me”. Cominciai a piangere e a gridare: “Per carità, Erminio non mi abbandonare”. E lui con grande calma e fermezza di spirito mi ripeteva: ”Devo seguire la chiamata di Dio; voglio farmi santo” e se ne andò con il maestro al Postulandato. Dopo quindici giorni, erano le dieci, ritornai per persuaderlo a tornare a casa. Lo feci chiamare e lui tramite suor Cherubina mi disse: “Dica alla zia che io devo seguire la chiamata di Dio. Me la saluti tanto”. Non mi arresi. Almeno vederlo. Lo aspettai nel cortile fino alle 13 per vederlo passare. Ma lui, apposta per non incontrarmi, fece il giro da dietro. Solo per intercessione del padre Maestro riuscii a parlargli. Da quel colloquio capii che quella era la sua vocazione».

«Il 21 ottobre 1927 fu canonicamente vestito. Gli imposi il nome di fra Riccardo. Voglio sottolineare che il nostro ordine unitamente ai voti di povertà, castità ed obbedienza ha il voto della ospitalità, cioè l’assistenza degli infermi ricoverati nei nostri ospedali e in quelli ad essi affidati. Ecco, frate Riccardo compì appieno questo voto. Non solo verso i malati, ma verso tutti coloro che avvicinava. Era il primo a maneggiare la scopa, il primo a vuotare i vasi e le sputacchiere. Con la stessa semplicità e naturalezza con la quale compiva questi uffici, quando mancava il direttore medico o il Primario, all’invito del Superiore indossava la vestaglia bianca e iniziava la visita medica. Quando si accorgeva che qualche confratello sfuggiva a lavori che destavano ripugnanza o comunque capiva che li faceva di malavoglia, diceva: “Sono le piccole umiliazioni, sono le cose che ripugnano che dobbiamo cercare noi religiosi, se non facciamo queste cose, quando esercitiamo un po’ di umiltà? Le fanno i borghesi queste cose, tanto più le dobbiamo fare noi”.

Per fra Riccardo la vita religiosa era il mezzo per realizzare appieno il suo ideale di medico che era tutt’uno col suo ideale di religioso. La carità verso il prossimo per lui non era che emanazione di quella verso Dio. Quando la scienza doveva dichiararsi vinta… senza mezzi termini diceva all’ammalato quanto conveniva per il bene dell’anima. Curare i corpi per giungere a curare le miserie dell’anima. La malattia si inserisce nella nostra vita spirituale e ci offre l’occasione di perfezionamento. Questo soprattutto fra Riccardo incarnò su di sé, quando la malattia, che da tanti anni lo affliggeva, lo portò alla morte. Rimase con noi solo tre anni. Nel 1929 le sue condizioni si aggravarono ulteriormente. Su insistenza dei parenti, da Brescia fu trasferito a Milano. La sua ultima missione fu verso i suoi antichi compagni di università. Fece chiamare alcuni di loro che sapeva lontani da Dio. Allorché l’amico invitato giungeva, licenziate le persone che stavano in quel momento nella cella, da solo a solo si tratteneva con lui. Anche il più ateo usciva con le pupille inondate di lacrime. Il 1° maggio 1930 spirò. Nella Gloria di Dio». 

«Un’ultima cosa voglio dirla io, su mio zio Erminio, anche se sono quello che meno lo ha conosciuto. Ricordo quando andavo in vacanza a Trivolzio e mi capitava di stare con lui. Parlava di Dio e della Madonna con un accento tale che veniva dal cuore, come se parlasse di suo padre e di sua madre, di una persona conosciuta. Io lo guardavo sbigottito, perché per me Dio era una grande cosa, ma lontana da tutto quello che potevo vedere o immaginare. Invece per lui era una realtà ben sentita, di cui non poteva fare a meno».

(da Tracce n.2/1995)

 

Un anno con san Pampuri, il “dottor carità”

Giorgio Paolucci sabato 9 novembre 2019 (AVVENIRE)

Medico dei corpi e delle anime. Santo nell’ordinarietà della vita quotidiana. Missionario nello spazio di pochi chilometri, in quella Bassa lombarda dove si è dipanata gran parte di un’esistenza tanto breve quanto intensa. Così viene ricordato san Riccardo Pampuri, di cui dal primo maggio scorso si sta celebrando l’Anno giubilare proposto dal vescovo di Pavia, Corrado Sanguineti: lo scorso primo novembre è stato celebrato il trentesimo anniversario della canonizzazione; il 1° maggio 2020 sarà il novantesimo anniversario della morte. «Abbi grandi desideri, mira sempre più in alto che puoi per riuscire a colpire giusto; ma poiché non sempre sarai chiamato ad azioni gloriose, fa’ anche le cose piccole, minime, con grande amore».

In queste parole, scritte alla sorella missionaria in Egitto, è condensato il suo carisma e il fascino che la sua figura continua a esercitare su tante persone, in Italia e nel mondo, dove la sua fama continua a diffondersi e da dove in questi mesi arrivano migliaia di pellegrini per venerarlo nella chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano di Trivolzio che custodisce le sue spoglie.

Erminio Pampuri nasce a Trivolzio (Pavia) nel 1897, penultimo di undici figli. Medico condotto per sei anni nella vicina Morimondo, nel 1927 entra nell’ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio, il Fatebenefratelli, assumendo il nome di Riccardo. Muore tre anni dopo, e nel 1989 viene proclamato santo da Giovanni Paolo II che lo descrive come «una figura straordinaria vicina a noi nel tempo, ma più ancora ai nostri problemi e alla nostra sensibilità. La sua vita, breve ma intensa, è uno sprone per tutto il popolo di Dio, ma specialmente per i giovani, per i medici, per i religiosi, a vivere coraggiosamente la fede cristiana nell’umiltà e sempre nell’amore gioioso per i fratelli bisognosi».

A Morimondo il “dottor Carità” è sempre disponibile alle necessità della popolazione, di giorno come di notte, con una dedizione verso tutti che lascia il segno.

«Il nostro dottore è un santo – ricorda uno della parrocchia, citato nella causa di canonizzazione –. Sapesse come vuole bene agli ammalati, quanta carità fa ai poveri! Quando viene nelle nostre case, pare che venga un angelo».

E un vicino di casa lo descrive come «una persona caritatevole: quando, entrando nella casa di un ammalato, lo vedeva bisognoso e in povertà, allora egli dava le medicine o i danari per comperarle. A parecchi pagava il libro del prestinaio, cosicché abitualmente quand’era il venti del mese egli aveva esaurito il suo stipendio e allora molte volte si rivolgeva a me a chiedermi in prestito qualche cosa».

Istituisce una mutua per la quale gli iscritti pagano solo due lire all’anno, ma spesso li visita gratuitamente. E visto che la mutua non paga le specialità, provvede lui di tasca sua. Diventa presto un punto di riferimento per il paese. Per aggregare i giovani fonda un circolo dell’Azione Cattolica, ogni anno organizza gli esercizi spirituali a cui partecipano anche tanti adulti, promuove una banda musicale.

Il carattere mite non gli impedisce di esprimere con nettezza le sue opinioni: a quell’epoca i medici, per prassi, devono iscriversi al Sindacato nazionale fascista dei medici condotti, ma lui volendo rimarcare la sua estraneità a un regime oppressivo si dimette scrivendo una lettera in cui dice: «Ritenendo io di poter essere patriota anche militando in altro partito più corrispondente ai miei principi morali e politici, né volendo per qualsiasi interesse materiale rinunciare alla mia libertà al riguardo, ho ritenuto doveroso presentare le mie dimissioni dal Snfmc».

Vive la missione come una dimensione ordinaria della professione medica, avendo sempre a cuore la salute finisca e quella spirituale dei suoi malati. Continua a esercitare anche dopo l’ingresso nei Fatebenefratelli, ma le sue condizioni di salute, minate dalla pleurite rimediata in guerra, peggiorano velocemente. L’ultima missione è verso gli ex compagni di università: fa chiamare alcuni di loro che sapeva lontani da Dio e si intrattiene con loro. Da quei colloqui molti escono con le lacrime agli occhi. Muore a 32 anni stringendo tra le mani il crocifisso, il grande amore della sua vita.

I TRE DELL’ AVE MARIA – Angelo Nocent

I TRE DELL’AVE MARIA – Angelo Nocent

Anche nel farwest degli arcani disegni di Dio esistono i PIONIERI, spiriti liberi forti e generosi che si mettono come fari a Sua disposizione per portarne a compimento  il sogno eterno del REGNO.

Uno si chiama Erminio (per gli intimi Nanin), l’altro, milanese di Porta Romana, di nome fa Fernando e il terzo, ultimo della nidiata, Luigi (che per per gli amici diventerà il GIUSS).

Tutti, in un modo o nell’altro, hanno avuto a che fare con la Madonna.

Il Nanin, ormai religioso professo nell’Ordine dei Fatebenefratelli, risiede a Brescia, ospedale Sant’Orsola. Gli è stato affidato l’ambulatorio dentistico che per via delle nuove leggi richiede che il dentista sia medico. E lui è medico chirurgo laureato a pieni voti. Non ha mai tolto un dente ma l’obbedienza lo vuole lì e in quel luogo troverà il modo di sopperire ai limiti deontologici. Ricorda di aver sostenuto all’università di Pavia un esame e fa cercare tra i suoi libri il trattato per rinfrescare la memoria.

Prendendo parte al Congresso Eucaristico Nazionale svoltosi a Genova aveva scritto: “Mio Gesù, mi hai chiamato a Genova CREDENTE, fammi ritornare APOSTOLO. AMARTI E FARTI AMARE”.

Nell’agosto 1929 una infiammazione polmonare con febbre lo costringe a rimanere inattivo per tre mesi. Viene affidato alle cure della famiglia e dello zio medico a Torrino ma per la febbre intermittente, illustri clinici che lo visitano suggeriscono di provare un clima migliore. Viene inviato al convento-ospedale di Gorizia, ma si assiste a un progressivo peggiora, mento e si prospetta la fine ormai è vicina.

Nell’aprile del 1930 viene trasferito in lettiga da Brescia al “ San Giuseppe” di Milano per una maggior comodità dei dei familiari di assisterlo.

- “Che giorno è oggi?” (chiede al Fratello Ferdinando che lo ha accompagnato.

- Il 18 – risponde-; perché me lo chiedi?

- Allora dovrò aspettare ancora. La Madonna verrà a prendermi nel mese a lei consacrato.

Durante la notte chiede alla zia Maria:

- Quanto manca al 1 Maggio?

Trascorre la notte stringendo tra le mani due Crocifissi e all’aprirsi del mese mariano chiude la sua breve

giornata terrena a soli 33 anni.

Il 4 Maggio al camposanto di Trivolzio, suo paese natale lo accompagna un chilometro di folla. Tutti sanno che “E’ MORTO IL DOTTORE SANTO!”

Di LUIGI, il GIUSS, non mi dilungo perché la sua devozione a Maria è arcinota. Quel giorno al Santuario della Beata Vergine di Caravaggio, 3 giugno 1982, sui gradini sotto l’ambone da dove commentava il Vangelo dell’Annunciazione, c’ero anch’io, recatomi per curiosità. “Tutte le volte che ci troviamo a pregare la Madonna, provo un brivido di emozione.L’angelo, presentatosi a Maria, dice: «Ti saluto, o piena di grazia». E Maria, visitando Elisabetta: «…tutte le generazioni mi chiameranno beata…» (Lc 1,28-30). È un’ emozione perché, venendo qui, ora stiamo realizzando la sua profezia”.

Del terzo invece, il FERNANDO MICHELINI architetto e pittore, pochi sanno che dopo la sua guarigione miracolosa per intercessione del Pampuri, volato in Africa, oltre ad ospedali, scuole, mense, ha realizzato …

Posted on Febbraio 18th, 2009 di Angelo

E’ MORTO FERDINANDO MICHELINI

un miracolato da San Riccardo Pampuri

Nella mattinata di lunedì 27 ottobre 2009, presso la Casa di

riposo San Carlo Borromeo dei Fatebenefratelli, a Solbiate

Comasco, è deceduto il professor Ferdinando Michelini

aggregato all’Ordine ospedaliero.

Nato a Milano 91 anni fa (1918), Michelini prima delle seconda guerra mondiale si diploma a Brera, perfeziona gli studi a Parigi e alle Belle Arti di Roma. Dopo la deportazione in Germania, rientrato in Italia, si laurea in architettura.

È già un pittore di fama mondiale. A metà degli anni 50 gli viene diagnosticato un tumore. Michelini si affida alle preghiere del medico Riccardo Pampuri. La Sua guarigione è fra i miracoli che lo hanno poi elevato agli onori degli altari.

Dopo la prodigiosa guarigione, ha speso gran parte della sua esistenza prodigandosi nel progettare e realizzare opere a beneficio delle persone ammalate e bisognose, soprattutto in terra di missione.

Encomiabili la sua disponibilità e il suo spirito di servizio, mediante i quali esprimeva la viva e sincera gratitudine per la guarigione ottenuta da San Riccardo.

Il rito delle esequie è stato celebrato il, 30 ottobre, presso la chiesa della Parrocchia San Zenone di Omate, frazione di Agrate Brianza (Milano).

La sua è una santità popolare, serena carica di stupore.

– Una tomba da visitare

– Un benefattore dell’umanità,  persona  da non dimenticare. ( A. Nocent)

MIRACOLO A MILANO

Ebbe salva la vita per intercessione di San Riccardo Pampuri. Ha ringraziato costruendo ospedali e affrescando chiese.

Storia di Ferdinano Michelini

Di Lucio Brunelli

Questa è la vera storia di Michelini Fernando da Milano, professione ingegnere, architetto e pittore, la cui vita è stata cambiata da un miracolo. Uno di quei rari miracoli che hanno superato l’esame della scienza medica e sono stati approvati ufficialmente dalla Chiesa cattolica.

“La cosa più incredibile dei miracoli è che accadono”, diceva lo scrittore inglese Gilbert Leith Chesterton. Al nostro artista il miracolo accadde il 15 settembre 1959. Dopo la sua guarigione prodigiosa Michelini ha vissuto per trent’anni in Africa e in Palestina, mettendo la sua professione al servizio dei missionari e del patriarcato latino di Gerusalemme. Ha costruito ospedali, affrescato chiese. Gratis, naturalmente. “Il modo in cui ho ringraziato il Signore per il dono ricevuto”, sorride alzando le spalle. Come fosse la cosa più naturale del mondo.

Oggi Michelini ha 78 anni ed è tornato nella sua Milano. Trascorre una vecchiaia serena, dipingendo quadri di soggetto religioso. Siamo andati a trovarlo nello studio di Via Carducci, a due passi dalla Clinica San Giuseppe, dei Fatebenefratelli, dove avvenne la straordinaria guarigione. E dove, nel lontano 1 MAGGIO 1930, morì Riccardo Pampuri, il santo medico della Bassa Milanese (Trivolzio) da cui ottenne la grazia.

Bussando alla sua porta, uno si domanda con un po’ di disagio che faccia può avere un miracolato. E pensa di trovarsi di fronte un essere strano, come un mistico extraterrestre. Invece compare un signore normalissimo: alto, arzillo, i capelli lunghi e un po’ disordinati come si addice ad un artista. Allegramente entusiasta dell’avventura vissuta, ma ben piantato con i piedi per terra.

Ecco il racconto della sua vita, come è rimasto impresso nel nostro registratore.

“Sono nato a Milano, nella zona di Porta Romana, il 30 marzo 1917. Fin da ragazzo fui attirato dalla pittura. Frequentai l’Accademia di Belle arti di Brera. In seguito mi iscrissi anche alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Ma dovetti interrompere gli studi quando scoppiò la seconda guerra mondiale e fui chiamato alle armi. Il giorno dell’armistizio, l’8 settembre 1943, mi trovavo in Francia, nelle truppe di occupazione a Vichy.

I tedeschi ci fecero subito prigionieri e finii in campo di concentramento in Germania, a Ravensburger. Furono due anni di inferno. Pensi, il lager di Ravensburger era talmente sperduto che non figurava nemmeno nelle liste in mano agli alleati. Quando i russi vennero a liberarci, nell’aprile 1945, i sopravvissuti erano appena un centinaio. Le dico solo una cosa: prima della guerra pesavo 86 chili, quando uscii dal lagher ero sceso a 38 chili. Uno straccio. Fu in quegli anni che mi ammalai allo stomaco.

Per una coincidenza fortuita, tornato a Milano, mi feci curare alla clinica San Giuseppe, dei Fatebenefratelli, l’ospedale dove il Riccardo Pampuri aveva svolto la sua missione negli ultimi anni della sua vita, fino alla morte. Ma a quel tempo non sapevo granché della sua vita, ne sentii parlare, ma non ero un devoto.

Tornato alla vita normale, ripresi a dipingere.

Ho esposto i miei quadri in molte città dell’Europa. Viaggiavo molto. Per alcuni anni ho anche insegnato alla scuola Leone XIII gestita dai gesuiti di Milano. Realizzai dei quadri a soggetto religioso anche per la congregazione dei Fatebenefratelli, ma si trattava di un rapporto professionale.

Nell’agosto 1959 ebbi la prima grave manifestazione della malattia. Dolori violenti, vomito biliare con sangue.

Fui ricoverato all’ospedale Ciceri-Agnesi di Milano. La diagnosi: ulcera duodenale perforata. Ma rifiutai l’intervento chirurgico. Dopo alcune cure mediche, venni dimesso. Il 15 settembre il male riesplose.

Mi trovavo nello studio quando stramazzai a terra, in preda a dolori insopportabili. Il mio allievo Cesare e il portiere mi soccorsero e mi trasportarono di corsa al San Giuseppe.

Dopo i primi esami i medici decisero che si doveva intervenire chirurgicamente al più presto.

Prima di perdere i sensi, mentre mi portavano nella sala operatoria vidi un’immagine di RiccardoPampuri, che non era ancora stato fatto santo dalla Chiesa. La causa di canonizzazione era già stata introdotta nel 1949 dal cardinale Schuster, ma i decreti per la beatificazione sono del 1981. Quell’immagine di san Riccardo è l’ultima cosa che ricordo prima di finire sotto i ferri.

Quando mi aprirono, i medici trovarono una situazione disperata. Peritonite acuta diffusa, completa occlusione intestinale.

Ci fu una grave complicazione infraoperatoria. Nel tentativo di separare alcune anse intestinali che si erano agglutinate,

il tessuto si ruppe. E le pareti intestinali erano così malandate che non fu possibile suturarle.  Il dottor Marini, uno dei periti della Consulta medica vaticana che si è occupato del mio caso, ha riassunto così la situazione:

“L’impossibilità di scoprire e di suturare la perforazione, causa prima della peritonite, L’impossibilità di suturare la breccia accidentalmente aperta su un’ansa dell’ileo, e tantomeno resecare l’intera ansa lesionata, per le gravi condizioni del malato, lo fanno ritenere prossimo alla morte sicura, sia il chirurgo che i suoi assistenti” (cfr. Dacra Congregatio pro causis sanctorum, p. n.699, 13 gennaio 1981).

Di fatto i medici dissero ai miei parenti che la prognosi era infausta, che difficilmente avrei superato la notte. Insomma, mi consideravano spacciato. Così i medici non cedettero ai loro occhi quando, la mattina seguente, mi ritrovarono ben sveglio e pimpante sul letto. I dolori erano scomparsi.

Nei documenti per la causa di beatificazione del Pampuri sono riportate tutte le testimonianze dei sanitari. Ad esempio questa del dottor Terno, il chirurgo: “Al mattino seguente, entrando nella stanza del malato, notai che stava in atteggiamento di preghiera semi seduto sul letto; io per

incoraggiarlo gli dissi: “preghiamo perché avvenga il miracolo”.

Il paziente mi strinse la mano e con voce energica mi disse:

“Il miracolo è già avvenuto”. Facendomi rimanere fortemente sorpreso della vitalità che rivelava la sua voce.

Procedetti all’esame dell’addome e con grande sorpresa notai che era completamente scomparso il meteorismo intestinale, che l’addome era perfettamente trattabile e indolente in tutti i quadranti—“(ibidem).

Ricordo il gran parlare dei medici attorno al mio letto, si scambiavano lastre, cartelle cliniche…Non riuscivano a capacitarsi.

Un altro medico dell’ospedale San Giuseppe, il dottor Savarè, ha dichiarato al Tribunale diocesano di Milano: “Nella mia esperienza ininterrotta di 32 anni in sala chirurgica, non mi è mai avvenuto di osservare la guarigione di un malato nelle condizioni che ho sopra descritto, e questa mia esperienza è avvalorata da quanto risulta dai dati della patologia chirurgica. Ritengo pertanto che la guarigione non sia spiegabile con le leggi conosciute dalla

scienza medica” (ibidem).

Il perito della Consulta medica annessa alla Congregazione per le cause dei santi, dopo aver studiato l’intera documentazione e tutte le testimonianze, giunsero alle stesse conclusioni. Una guarigione inspiegabile sulla base delle attuali cognizioni medico-scientifiche.

Solo nel 1981, dopo scrupoloso esame, la Chiesa ha riconosciuto che il miracolo poteva essere attribuito all’intercessione del Servo di Dio Riccardo Pampuri. Io ne fui moralmente certo fin dall’inizio. L’immagine del Pampuri fu l’ultima cosa che vidi prima di entrare nella camera operatoria e la prima che mi apparve quando riaprii gli occhi. Invocai il suo soccorso.Anche un religioso in servizio presso l’ospedale, mio conoscente, chiese in modo incessante la grazia a san Riccardo. E per rafforzare la richiesta posò sul mio letto, dopo l’intervento, una giacca appartenuta al santo.

Il buon Dio prestò ascolto alla intercessione del Pampuri.

I trent’anni successivi al miracolo li ho trascorsi in Africa e in Israele, a costruire ospedali e chiese, al servizio dei missionari. Ma non è che mi venne la vocazione alla vita religiosa, non ho mai pensato di farmi missionario.

Fu una serie di circostanze fortuite che mi portò laggiù. I Fatebenefratelli erano presenti in Togo; avevano deciso di costruire un ospedale ad Afagnan. Sapevano che mi intendevo di architettura. Mi chiesero un progetto. Accettai: era il minimo che potessi fare…

Poi mi chiesero di seguire i lavori. E mi trasferii in Togo. Il 28 marzo fu posta la prima pietra dell’ospedale e il 5 luglio il complesso era inaugurato a tempo di record: 160 letti, sette medici, una settantina di infermiere.

Dopo il Togo fu la volta del Benin. Un altro ospedale. E quante vite ha contribuito a salvare!

Poi cominciarono a chiedermi progetti di chiese. Ne ho costruite in tutto una sessantina, spostandomi in Alto Volta, Dahomey, Costa d’Avorio. E una volta che le chiese erano finite, non potevano rimanere spoglie. Così mi venne chiesto di affrescarle. E naturalmente accettai. Dipingere è la cosa che amo di più.

L’arte religiosa è eminentemente didattica. Tende a rappresentare una verità. In altri tempi si cercò di abolire l’immagine, ma fu un errore. Il popolo ne ha bisogno. I muri delle chiese sono la Bibbia dei poveri. Per chi non sa leggere è il modo più facile di apprendere la vita del Signore e condividere la fede della Chiesa.

Io sono un semplice pittore non un artista. Gli artisti oggi sono dei semidei. Personalmente mi considero un pittore come quelli del tempo antico, romei raminghi, (pellegrini cristiani) che giravano l’ Europa dipingendo dovunque, tanto le cattedrali come le Madonne sulle case dei contadini, sapendo che le loro opere facevano pregare la gente.

Ho lavorato una decina di anni anche in Terrasanta, al servizio del Patriarcato latino di Gerusalemme. Ho restaurato e dipinte decine di chiese e chiesette in Israele, nei territori arabi occupati, anche in Giordania. Naturalmente non ho mai chiesto una lira.

In Africa mi ero portato una tenda di campeggio. Ma era impraticabile per il caldo. Così mi costruivo una capanna con le piante di palma. I missionari sono sempre stati ospitali. E’ stata un’esperienza che non scorderò mai. Specialmente in Africa. Tempo fa dipinsi tutto l’interno di un grande battistero a Tsevié. La gente del posto seguì il lavoro con entusiasmo ed alcuni vennero a dirmi che volevano farsi battezzare in quel luogo. Il giorno dell’inaugurazione si ebbero duecento battesimi di adulti.

A San Riccardo voglio bene, ovvio. Ho conosciuto un suo nipote, ancora vivo. Mi ha portato in una parrocchia, vicino casa mia, a Milano, dove il Pampuri andava a pregare. Da solo. Mi ha mostrato il punto esatto in cui si inginocchiava. Il parroco nemmeno lo sapeva. Mi sono fatto raccontare tutto della vita del Pampuri. Era una persona a cui Dio concesse il dono della mitezza e della modestia.

Passò la vita a far del bene alla povera gente, senza darlo a vedere. E anche dopo morto, continua a fare del bene. Ho raffigurato i momenti salienti della sua vita, ne è uscito un libretto che è stato stampato in tante lingue. Quello a cui sono più affezionato è scritto in arabo. In Palestina lo hanno

letto tanti ragazzi. Erano incuriositi. Volevano saperne di più. E mi ascoltavano con gli occhi sgranati quando raccontavo

loro la vita del Pampuri e di come ebbi salva la vita, tanti anni prima, per merito suo…”.

Le apparizioni della Madonna in terra d’Africa

Le prime apparizioni della Madonna in terra africana riconosciute dalla chiesa si registrano a Kibeho, un paese nel sud del Rwanda. Il 28 novembre 1981 la Vergine appare, per la prima volta, ad Alphonsine Mumureke, presentandosi come Nyina wa Jambo (Madre del Verbo). Alcuni mesi dopo si mostra anche ad alcuni compagni di Scuola.

L’avvenimento provoca in Rwanda un’intensa emozione. Le folle, anche da molto lontano, si riversano a Kibeho, mosse dalla curiosità e dalla aspettativa di Miracoli, e si radunano

attorno al podio sul quale è seduta la veggente, per accogliere dalle sue labbra il messaggio celeste e dalle sue mani l’acqua che la Vergine, dietro sua richiesta, benedice.

Per anni, una commissione teologica e una medica studiano attentamente la personalità dei veggenti (sei ragazze e un ragazzo di 15 anni, Segetashya, che non è neppure catecumeno quando Gesù in persona gli appare; (sarà poi battezzato con il nome di Emmanuel), senza notare in loro alcunché di anormale. Anche i messaggi che i veggenti sono incaricati di trasmettere non esulano dall’ordinaria vita di un cristiano: parlano di penitenza, conversione del cuore, spirito di fede, preghiera, carità fraterna, disponibilità, umiltà, fiducia in Dio, vanità del mondo e dignità della persona umana.

L’apparizione del 19 agosto 1982 ha un tono singolare. I veggenti raccontano di aver visto immagini terrificanti: fiumi di sangue, persone che si ammazzavano tra di loro, cadaveri abbandonati insepolti, un albero in fiamme, un abisso spalancato, un mostro spaventoso e tante teste decapitate. Le 20mila persone presenti sono prese da un senso di paura, se non di panico e tristezza.

Dodici anni dopo, avviene il genocidio. Anche a Kibeho, migliaia di persone sono assassinate. I molti che cercano rifugio nella chiesa vengono massacrati; l’edificio è incendiato. Nel 1996, un campo di rifugiati, installato nei pressi di Kibeho, è attaccato dall’esercito del Fronte patriottico rwandese, al potere a Kigali: migliaia i morti.

Nel 2001, la chiesa del Rwanda, uscita indebolita e divisa dalla terribile prova del genocidio, riconosce l’autenticità delle apparizioni. Mons. Augustin Misago, vescovo di Gikongoro, l’inquisitore dei primi anni, precisa che il riconoscimento delle apparizioni non  è articolo di fede; il credente è libero di crederci o meno.

Il santuario, consacrato nel 2003 dal card. Crescenzio Sepe, è dedicato alla Madonna del dolore.

Un’icona miracolosa nel Togo

Nel 1973, per iniziativa del comboniano Francesco Grotto, la chiesa parrocchiale di Togoville (Togo) è trasformata in santuario, dedicato a Nostra Signora del Lago, Madre della misericordia.

L’architetto italiano Fernando Michelini (miracolato da San Riccardo, Pampuri, medico  collaboratore dei Fatebenefratelli) dona all’amico comboniano un’icona miracolosa della Madonna, che l’arcivescovo di Lomé “intronizza” solennemente a nome di tutta la chiesa togolese.

Da subito, l’icona comincia a compiere meraviglie. Si racconta che un gruppo di pellegrini, in grave difficoltà mentre attraversava il Lago Togo per recarsi al santuario, si sia trovato misteriosamente sulla riva, sebbene il guidatore

della piroga avesse perso la pertica.

Nel villaggio circola un altro aneddoto che assicura di un fatto avvenuto molti anni prima dell’arrivo dell’icona: durante un lavacro purificatorio presso un sacerdote del vodù locale,

una donna consacrata al feticcio e impossibilitata ad avere figli ebbe la visione di una dama bianca, con un bimbo tra le braccia. Qualche tempo dopo, la donna concepì.

Si racconta anche che, nel novembre 1983, in occasione dei festeggiamenti per il decimo anniversario della intronizzazione dell’icona, uno sciame d’api, “in forma di ostia, bianca e rotonda”, si sia posato proprio sopra la Madonna. Nella tradizione togolose, le api sono segno di benedizione. Parlare di miracolo farebbe sorridere noi occidentali. Eppure, anche i grandi sacerdoti del vodù di Togoville si sono recati più volte a venerare l’immagine della Vergine, forse perché assimilano la devozione alla Madonna alla venerazione per la dea del lago, Mama Kponu.

Sempre in Togo, 1998: corre voce che la Vergine appaia nella piazza della chiesa parrocchiale di Tsévié, a 30 km da Lomé.

I veggenti sono giovani, tra cui una rifugiata rwandese. La notizia travalica subito le frontiere e i pellegrini arrivano da Costa d’Avorio, Benin e Ghana. Le apparizioni si sono ripetute, ma la chiesa non le ha mai riconosciute. I fedeli, però, continuano a recarsi a Tsévié per pregare la Vergine.

Apparizione a Nsimalen, in Camerun Il 13 maggio 1986, a Nsimalen, a 25 km da Yaoundé (Camerun), alcuni ragazzini

stanno giocando nel cortile di una scuola.

A un certo punto, sulla cima di un albero vedono una “forma bianca” che richiama fortemente la figura della Madonna venerata nella chiesa parrocchiale. La vedono anche alcuni adulti, che la “identificano subito: si tratta senz’altro della Vergine Maria!”. La voce si sparge fino alla capitale e oltre. La gente accorre: per cinque intere giornate quella strana forma bianca resterà perfettamente visibile. E subito si parla di miracoli.

Una bambina di 9 anni, muta dalla nascita, riacquista improvvisamente la parola e si mette a gridare: «Maria, Maria!».  Un catechista di Nsimalen recupera la vista.
Una notte, il villaggio è invaso da una luce ininterrotta che consente di leggere un libro o ricamare un vestito senza bisogno di lampada. C’è chi vede il sole trasformato in una lucente palla verde dai bordi trasparenti, e chi giura di aver visto la luna ovale e, su di essa, una donna seduta con il bimbo in braccio.Il clero scuote la testa. Suor Marie Praxède, una suora che vive da anni a Nsimalen, non comprende la mancanza di entusiasmo dei responsabili della chiesa. Il parroco le dice che a Lourdes la Madonna è apparsa solo a Bernadette.

E lei: «Ma qui siamo in Africa, e la Vergine comprende la nostra mentalità. Perché pretendere che appaia sempre allo stesso modo? Perché noi africani non potremmo avere la nostra Vergine? Voi preti, compreso l’arcivescovo, siete troppo europei e non capite».

Una devozione mariana che si è inculturata in Africa

Le apparizioni di Kibeho sono una “buona notizia” per l’Africa e la sua chiesa: la religiosità cristiana si starebbe africanizzando. Questo riequilibra le deviazioni causate dall’Occidente, che con la secolarizzazione sistematica e la dimenticanza dell’essenziale (valgono solo la scienza e la tecnica) ha spesso sedotto l’Africa. Perché meravigliarsi se, dopo un secolo di cristianesimo, le devozioni cristiane assumessero in Africa carne africana e cominciassero a segnare profondamente la psicologia dei credenti? Gli africani hanno sempre avuto visioni di spiriti e di antenati. Per tanti fedeli, la Madonna o un altro santo sono diventati personaggi familiari, che fanno parte del loro universo quotidiano. Almeno su questo punto, sì è operata una reale inculturazione. Per provarlo, non sono necessarie le apparizioni. Bastano i Santuari. Ce ne sono in ogni angolo del continente:

- Poponguine (Senegal),

- Kita (Mali),

- Lagos e Kona (Nigeria),

- Yagma (Burkina Faso),

- Dassa-Zoumé (Benin),

- Yamoussoukro (Costa d’Avorio),

- Nairobi e Subukia (Kenya),

- Kampala(Uganda),

- Soweto (Sudafrica),

- Namacha (Mozambico),

- Muxima (Angola)…

A partire dal 1970, l’avvenimento del rinnovamento carismatico ha segnato un cambiamento importante nella vita delle comunità africane, restituendo diritto di cittadinanza a

espressioni religiose radicate nella tradizione e da essa valorizzate, ma che il cristianesimo ha sempre tenute con cura da parte (la trance, ad esempio, considerata “estasi” in Europa, è stata giudicata “possessione demoniaca” in Africa).

Oggi, se uno partecipa a un incontro di preghiera degli amanti del Rinnovamento nello Spirito, vede tante persone che cadono in trance durante la processione del SS.mo Sacramento. Simili fenomeni non potrebbero rappresentare, tra l’altro, una protesta contro una liturgia che non dà spazio all’ispirazione o all’emozione collettiva?

Emest Kombo, vescovo di Owando (Congo) deceduto l’ottobre scorso, diceva: «Il giorno in cui non ci sarà più trance, sarà grave: vorrà dire che qualcosa è venuto a mancare».

I santi “abitano”, anche solo per un momento, i loro devoti, proprio come il vodù “abita” i suoi adepti. La gente ci crede, e non serve dire che Cristo ci ha promesso il suo Spirito, non sua madre o l’angelo Michele.

Radicare il Vangelo nella cultura africana è un compito impegnativo e di lunga durata. E Maria di Nazareth, figlia di Israele e Serva del Signore, diventa il paradigma anche del

fedele cristiano africano. E non dubito che saprà, anche in Africa, situare bene il posto che Lei occupa nella storia della salvezza.

Foto: Santuario di Kibeho in Rwanda

L’ARTISTA FERNANDO MICHELINI

Messaggio postato giovedì 19 febbraio 2009, alle ore 04.41 da Angelo Nocent

E’ una meravigliosa scoperta quella che mi è stata data di fare questa mattina [19 Febbraio 2009], dopo un risveglio così anticipato: ore 3,30, quasi un richiamo, una spinta che mi ha costretto ad alzarmi.

Facevo le medie, cinquant’anni fa, quando l’ho conosciuto per la prima volta nel collegio fatebenefratelli di Brescia. Amante anch’io della pittura, gli sono stato vicino con grande curiosità e interesse quando dipingeva le scene per il nostro teatro di piccoli attori in erba, chiamati dalla pedagogia del tempo a misurarci con la commedia e la farsa.

Nella nostra Cappella, la pala centrale da lui dipinta, raffigurava Maria che ci accoglieva sotto il manto. E sulle pareti laterali,aveva dipinto gigantesche immagini di santi che sembravano statue. Son tornato cinquant’anni dopo ed ho trovato che quel luogo sacro era ormai sconsacrato, la pala dell’altare demolita e le altre icone coperte dalla mano di uno sprovveduto imbianchino, commissionato da un iconoclasta e stupido mandante che gli ha dato l ‘ordine di coprirle come durante la peste. Solo che non ha utilizzato la calce, ma una vernice, impossibile da eliminare.

Conservo incorniciato, un piccolo quadro a matita da lui donatomi.Raffigurante un carcerato in catene. Ed ho anche un Padre Misericordioso che abbraccia il figliol prodigo. Conservo inoltre, riprodotti su carta da geometri, un grande crocifisso ed una maternità di Maria, simile a quella qui riportata ad olio. Un bel giorno la mia mamma (classe 13 Giugno 1918), appassionata di disegno dalle elementari, ha dipinto gli occhi e la bocca appena accennati, ad entrambe le immagini. A parer suo, si trattava di un peccato di omissione, di una incomprensibile dimenticanza.

Michelini era un uomo d’oro, sgobbone, avvezzo al Sacrificio. Il suo genio era pari alla sua modestia. Conversare con lui, piuttosto sordastro dopo il campo di concentramento, era piacevolissimo: ti caricava la batteria dell’anima con l’entusiasmo che sprigionava da tutta la sua bella persona, in tutto quello che faceva. Non avresti mai smesso di fargli perdere tempo con infinite curiose domande, disponibile com’era con tutti e gratificato da un semplice complimento sulla sua arte.

Quando, più avanti negli anni, abbiamo dato vita ad un giornaletto, OPZIONI ‘70, utilizzando un ciclostilato a petrolio, le formidabili vignette le avevamo affidate a lui che si prestava con entusiasmo a condividere i nostri sogni provocatori.

Si può dire che è sempre vissuto in povertà, protetto dalla Provvidenza, come gli uccelli del cielo o i fiori del campo.

Mai avrei pensato di scrivere di lui, un giorno, sul web. Avverto ora la sua presenza d’intercessore in Cielo, con il san Riccardo Pampuri che un giorno lo ha miracolato alla grande, dopo un intervento chirurgico non riuscito. Infatti, operato dal Dott. Terno, all’Ospedale San Giuseppe di Milano, era stato trasferito dalla camera operatoria con verdetto di morte assolutamente certa, nelle successive ore della notte.

Grazie, Prof. Michelini, per essere passato ovunque facendo del bene, nel più assoluto nascondimento, al suo piccolo grande ammiratore.

La sua è una santità popolare, serena, carica di stupore.

1. Una tomba da visitare

2. – Un benefattore dell’umanità,

3. – Persona da non dimenticare.

Messaggio postato giovedì 19 febbraio 2009, alle ore 04.41

Per Fra Dario Vermi Postulatore Odine Ospedaliero Fatebenenefratelli  – postulazione@ohsjd.org

FRA BONIFACIO BONILLO, O.H. 1899 – 1978

DARIO VERMI O.H. Postulatore Generale

FBF_rivista_ottobre_dicembre2023.pdf (hubspotusercontent-na1.net)

A 165 chilometri da Madrid si trova la città di Cuenca, nelle cui vicinanze è situato il villaggio di Cañaveruelas, dove è iniziata l’avventura terrena di Fra Bonifacio. Il piccolo paese prende il nome dall’abbondanza di canneti lungo il fiume Garibay nome di derivazio ne araba che significa “le rocce”. I suoi abitanti hanno sempre coltivato cereali e, oggi, anche girasoli e sono fortemente legati alle usanze e alle tradizioni religiose, così come il culto dei morti. In questo luogo, al numero 4 di via El Mesón, dal matrimonio tra Manuel Bonillo e Higinia Fernández, nacque Bonifacio, all’una di notte del 14 maggio 1899. Fu battezzato tre giorni dopo, come registrato nel libro parrocchiale di Nostra Signora della Pace. Il piccolo fu la gioia dell’umile famiglia, cui era rima sta la sola figlia Juana, perché l’altra figlia Fernanda era morta in tenera età. Anche Bonifacio da bambi no si ammalò e, secondo il suo stesso racconto, la madre lo offrì alla Madonna per farlo guarire. Bonifacio guarito dalla sua malattia crebbe sano, irrequieto e allegro, sempre pronto ad aiutare gli al tri, nonostante la sua condizione familiare fosse indigente; infatti, i genitori possedevano solo una piccola casa dove nacque il Servo di Dio.

Bonifacio guarito dalla sua malattia crebbe sano, irrequieto e allegro, sempre pronto ad aiutare gli al tri, nonostante la sua condizione familiare fosse indigente; infatti, i genitori possedevano solo un piccolo orto, con il quale la famiglia riusciva a stento a vivere, non avendo alcun’altra fonte di reddito. Fece la prima comunione nella solennità del Corpus Domini del 1908. La sua infanzia fu serena, fino alla morte del padre, avvenuta il 7 gennaio 1909. Poiché era l’unico maschio della famiglia, dovette coniugare lo studio con il lavoro, provvedendo alla madre e alla sorella. Allo stesso tempo intratteneva una sana amicizia con i ragazzi del villaggio e, come raccontava Juliana Alcañíz, che “è stata una vicina di casa per tutta la vita”, era sempre disponibile a portare il suo aiuto a chiunque si trovasse nel bisogno. Non si risparmiava neppure nella fucina del cognato, svolgendo il lavoro di fabbro. All’età di 22 anni si innamorò di una bella ragazza del paese, Lorenza, con la quale si fidanzò per due anni, ma a causa delle difficoltà economiche che avrebbero dovuto affrontare in futuro, comprese che la loro relazione era senza prospettive. Rimase nel suo villaggio fino al 1923 e, poiché era figlio di madre vedova, venne esonerato dal servizio militare.

Con alcuni amici del suo villaggio si recava nella vicina città di Arganda del Rey per lavorare presso le vigne durante la vendemmia. Ma anche questi lavori stagionali avevano un termine. Così con Félix, un amico del gruppo, si recò prima a Madrid in cerca di una qualche attività, ma senza successo, e poi a Saragozza dove fu ancora un fallimento. A questo punto più che mai deciso disse all’amico: “Vado a Barcellona per trovare lavoro affidandomi alla fortu na”. Il giovane Bonifacio intraprese questo viaggio da solo, mentre l’amico Félix preferì rimanere con la famiglia nel villaggio natio.

Interno della chiesa di Nostra Signore della Pace. IL CENTRO DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE A Barcellona era in piena attività il Centro dell’Im macolata Concezione dei Fatebenefratelli che era stato fondato il 26 febbraio 1882 e inaugurato nel 1908. All’inizio c’erano solo tre confratelli, sei bam bini malati e un numero molto ridotto di collabo ratori. I bambini accolti, in età compresa tra i 5 e i 16 anni, che arrivarono ad essere 250, presentavano diverse patologie: invalidi, tignosi, ciechi, scrofolosi, e per loro nel 1924 si introdusse la balneoterapia marittima nel Sanatorio di Calafell, un’altra opera gestita dai religiosi dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio.

Il Nostro, mentre si trovava a Barcellona, senza alcuna speranza di lavoro, leggendo il giornale scoprì che i Fratelli di San Giovanni di Dio del Centro dell’Immacolata avevano bisogno di un fattorino; e così Bonifacio recatosi al luogo indicato ottenne l’incarico. I religiosi, che si distinguevano per l’amo re verso i poveri e i bisognosi ed erano sempre at tenti alla vita spirituale dei bambini malati. Entusiasta per ciò che stava vivendo, scrisse alla madre, alla sorella e all’amico Félix raccontan do loro la bella testimonianza di fede dei Fratelli. Dopo qualche mese, comunicò loro che si sentiva chiamato alla vita religiosa secondo lo stile di San Giovanni di Dio, e così chiese di entrare nell’Ordine Ospedaliero. Per questa ragione i religiosi chiesero 7 6 informazioni su Bonifacio gendosi al Comune di Cañaveruelas; nonostante l’opposizione di Jorge Baquero, padre della sua ex fidanzata e sindaco del paese, i consiglieri comunali inviarono un certificato di buona condotta in quanto ritenevano Bonifacio la persona migliore di Cañaveruelas e non volevano essere ingrati nei suoi confronti. Ciò fece sì che i Fra telli lo accettassero nella loro missione.

LA SITUAZIONE IN SPAGNA 

Nel 1899 quando nacque Bonifacio, Maria Cristina, seconda moglie del re Alfonso XII, governava la Spagna che aveva perso parte del suo immenso impero: Cuba, Porto Rico, le Filippine. Due grandi forze politiche dominavano la Spagna: i partiti dei con servatori e dei liberali. Si susseguivano crisi di gover no, con continui cambi di ministri e divergenze di opinione tra i partiti stessi. Nonostante le difficoltà si poteva registrare una crescita economica, la dif fusione dell’illuminazione elettrica che aveva sosti tuito il gas nelle città, una rivoluzione nei trasporti, lo sviluppo dell’industria automobilistica, dell’indu stria chimica e degli armamenti, come pure dell’in dustria tessile e dell’agricoltura. In Spagna c’erano circa diciannove milioni di abitanti. Tale fu il clima sociale e civile nel quale visse Bonifacio, che nonostante un’infanzia povera, semplice e manchevole di una formazione scolastica, fu comunque un ragazzo gioioso. Questi cresceva sopperendo alla scarsa istruzione ricevuta con la sua 8 brillante intelligenza e con la sua innata capacità di comprendere e di convincere gli altri. In questo contesto si svolgeva anche la grande opera dei Fratelli di San Giovanni di Dio. Ma chi era questo Santo che aveva tanto colpito il giovane Bonifacio durante il suo soggiorno a Bar cellona?

L’INFLUSSO DI SAN GIOVANNI DI DIO

Giovanni di Dio nacque a Montemor o Novo (Portogallo) nel 1495. Figlio di genitori cristiani, all’età di otto anni partì da casa per Oropesa (Toledo) e vi rimase, per circa vent’anni, con la famiglia di Francisco Gil (Mayoral), come responsabile del gregge e dei campi di D. Francisco Álvarez di Toledo. Dopo qualche tempo, ritenendolo bravo, vollero dargli in sposa la figlia del sindaco, ma lui si arruolò come soldato per combattere contro i francesi; così si recò a Fuenterrabía. Al servizio dell’imperatore Carlo V proseguì fino a Pavia, poi partecipò alla difesa di Vienna contro i Turchi con le armate di Don Giovanni d’Austria. Soddi sfatto del servizio prestato, ma anche stanco, tornò a La Coruña e da lì nella casa paterna in Portogallo, ma si rattristò nell’apprendere che sua madre era già morta e che suo padre era entrato in un convento francescano dove morì santamente. Tornato in Spa gna passando per Siviglia, continuò a fare il pastore, poi si recò a Ceuta, dove lavorò come muratore. 9 Le sue peregrinazioni non erano finite, fece ritor no nuovamente in Spagna, passando per Gibilterra, dove vendeva libri religiosi, profani e romanzi. Era il 1538. Viaggiò in altre città, finché, carico di libri, si recò a Gaucín (Malaga). In questo momento della sua travagliata vita il Santo fece un incontro che fu decisivo per la sua vocazione. La tradizione tramanda che avendo visto un bambino malvestito e scalzo lo caricò sulle spal le. Giunto nei pressi di una fontana prese dell’acqua per il piccolo assetato e voltatosi indietro lo trovò raggiante con una melagrana in mano che gli dice va: “Giovanni di Dio, Granada sarà la tua croce”.

Era il Bambino Gesù e in quell’attimo scomparve dalla sua vista. Di fatto da quell’istante gli fu chiara la destina zione del suo viaggio: Granada. Quando arrivò in città, all’ingresso, in via Elvira, vicino all’omonima porta, iniziò a vendere libri. Il 20 gennaio 1539, Giovanni d’Avila predicò nell’eremo dei Martiri e Giovanni di Dio andò ad ascoltarlo. Sentendolo, rimase sconvolto e termi nata la predica uscì di là come fuori di sé, chie dendo ad alta voce pietà e misericordia a Dio e implorando perdono per i suoi peccati. Tornato al negozio, regalò i libri religiosi, distrusse quelli pro fani e distribuì il denaro guadagnato a coloro che passavano. Preso per pazzo, fu internato all’Ospedale Reale, dove fu maltrattato, come era consuetudine all’e poca, e dove lui stesso si prese cura degli altri rico 10 verati. È qui che si forgiò l’avventura della sua vita e che gli ispirò: “Se solo potessi avere un giorno un ospedale dove poter curare questi malati come meri tano!”. Dopo qualche tempo, dimesso dall’ospedale, partì e si recò a Baeza, dove Giovanni d’Avila gli diede dei consigli e poi proseguì in pellegrinaggio al Monastero di Guadalupe. Da allora la Vergine Maria sarebbe stata la sua protettrice e in quel luogo san to avrebbe trovato aiuto e formazione negli studi “infermieristici”, per realizzare la sua futura missione. Tornò a Granada, sentendosi pronto ad aiutare i poveri e i malati che incontrava per strada, assisten doli durante il giorno e uscendo anche di notte per chiedere l’elemosina al grido: “Fratelli, fate del bene a voi stessi facendo l’elemosina ai poveri”.

Il Santo iniziò da solo il servizio nel suo ospedale. Il sacerdote Francisco de Castro, suo primo e miglior biografo, scrive: “Dopo aver mangiato e pregato per i benefattori, egli si dedicava a lavare i piatti e le scodelle, lavare le pentole, spazzare e pulire la casa, e a prendere l’acqua con due brocche dalla colonna, con grande fatica, perché, essendosi appena ricordato di essere stato pazzo, e avendolo visto così maltrattato, non voleva che qualcuno venisse in sua compagnia ad aiutarlo; e così portava avanti il lavoro da solo, finché non vennero a sapere chi fosse.”.
In seguito, alcuni convalescenti lo aiutarono in questi compiti, finché i primi discepoli si unirono a lui. Chiedeva l’elemosina nel silenzio della notte. Prendeva due brocche, legate con uno spago, le appendeva a un braccio, mentre sulle spalle portava un grande cesto, e in questo modo camminava per le strade di Granada portando spesso sulle spalle dei poveri infermi che raccoglieva per strada. Al seguito del Maestro d’Avila, Giovanni di Dio camminava per Cordova, come egli stesso ci racconta: “quando mi trovavo a Cordova, camminando per la città, trovai alcuni poveri che erano così mal curati che mi si spezzò il cuore e li aiutai come meglio potevo”. Viveva donando tutto se stesso portando sollievo ai malati, assistendo i poveri e prendendosi cura dei più bisognosi. A Granada, nel luglio del 1549, scoppiò un incendio nell’Ospedale Reale, al grido dei poveri infermi, egli si gettò nelle fiamme per sal varli tutti. Chi lo vedeva non ricordava più il pazzo, ma lo acclamava come un santo. Un giorno mentre cercava di salvare un ragazzo che stava annegando nel fiume Genil, contrasse una polmonite e fu co stretto a letto. Giovanni di Dio a malincuore accettò di essere portato nella dimora della nobile famiglia dei “Los Pisa”, a lui molto affezionata, e vi rimase die ci giorni. Il giorno della morte fu trovato in ginoc chio nella sua stanza, abbracciato al crocifisso e con lo sguardo rivolto al cielo. I presenti pensarono che fosse in preghiera, ma la sua anima innamorata di Dio era già in viaggio verso il Padre. L’8 marzo 1550 sarà per sempre ricordato come il giorno in cui la misericordia è entrata in cielo vestita da Giovanni di Dio. Non era strano. Era così che ave va vissuto: prostrato e tenendo tra le braccia i “Cristi viventi” che aveva incontrato durante la sua vita. Per la sua fama di santità, ancora oggi molti seguono il suo percorso di ospitalità in tutto il mondo. 12 Fra Bonifacio Bonillo.

INGRESSO NELL’ORDINE OSPEDALIERO

Bonifacio arrivato il 12 agosto 1924 alla stazione di Ciempozuelos, si incamminò verso il Sana torio Psichiatrico di San José, gestito dai Fratelli di San Giovanni di Dio, dove sarebbe iniziata l’avventura della sua vita. E qui cominciò la sua fase formativa. Nella preghiera trovò la forza di non arrendersi e di non guardare a ciò che aveva la sciato: madre, sorella, fidanzata, amici, città, ma confortato dall’Eucaristia quotidiana, dalla recita del rosario, dalla meditazione della Parola di Dio, dalla devozione mariana e da un’adeguata vita sacramentale, fece a poco a poco passi decisi, aiutato dal clima di vicinanza e di fiducia che trovò tra i suoi compagni e nei religiosi. L’assistenza ai malati, ai quali dedicò i suoi servizi, divenne fin dal primo momento il suo carisma. Parte del suo tempo era dedicato anche alla formazione con apposite lezioni di cultura generale e con studi dei fondamenti dell’Ordine Ospedaliero. La carità è la forma concreta di ospitalità per alleviare le sofferenze di tanti malati, poveri e bisogno si. E in questo i formandi avevano come specchio il santo fondatore dell’Ordine Ospedaliero, alla sua sequela sempre più la loro vita poteva identificarsi con Cristo.

Al termine del postulantato, l’8 dicembre 1924, si trasferì nel noviziato del Centro San José de Carabanchel Alto vicino a Madrid. Indossato l’abito 14 ospedaliero, la comunità accolse con gioia i nuovi confratelli, abbracciandoli fraternamente. Fra Bonifacio iniziò il suo noviziato con grande entusiasmo e buona volontà di realizzare la propria vocazione: re quisiti essenziali per consacrarsi a Dio. Le prove che avrebbe dovuto affrontare d’ora in poi non avrebbero avuto importanza. La conoscenza della Regola e delle Costituzioni, la progressiva maturazione dei suoi ideali, la purificazione delle sue motivazioni, un’attenta pratica dell’ospitalità e la formazione a una scelta libera e responsabile facilitarono molto il discernimento della sua vocazione e lo aiutarono a prepararsi, a offrirsi al Signore e alla Chiesa attraverso la profes sione religiosa. Fondazione San José di Carabanchel Alto (Madrid), dove Fra Bonifacio iniziò il noviziato nel 1924. 15 Durante il noviziato visse lo spirito di sacrificio e di penitenza con zelo e adesione spirituale. Ai novizi veniva ricordato quello che San Giovanni di Dio di ceva a questo proposito: “Non c’è contemplazione più alta che quella di contemplare la passione di Cristo” e che “non trovo miglior rimedio e incoraggiamento che guardare Gesù crocifisso”. Da questa scuola tras se gli insegnamenti per alimentare e consolidare la spiritualità ospedaliera affinando la sua sensibilità misericordiosa verso i malati, i poveri ed i bambini che amava con amore di padre. Lo accompagnava la devozione mariana, propo sta nell’imitazione delle virtù della Vergine, che fin dalla tenera età la madre gli aveva insegnato, e lo confortava la recita quotidiana del rosario sempre a imitazione di San Giovanni di Dio, di cui si legge in una delle sue lettere: “Vi dico che mi sono trovato molto bene con la recita del rosario, spero in Dio che lo reciterò finché potrò e Dio lo vorrà”. Fra Bonifacio imparò a esercitarsi nelle virtù proprie dei voti re ligiosi che stava per professare. Per tal fine il motto della sua vita fu sempre: “imparare a vivere in modo semplice, povero e laborioso”. “Sono vestito come si deve, perché sono un povero mendicante”, dirà in seguito alla gente di Cordova che gli chiedeva perché non cambiava il suo vec chio abito e le sue scarpe logore. Il voto di ospita lità, caratteristica specifica dei Fatebenefratelli, era particolarmente praticato in noviziato per addestra re i candidati alla futura missione che li attendeva. Fra Bonifacio imparava ciò che disse San Giovanni di Dio: “La carità è la madre di tutte le virtù”, e come 16 esortava coloro che la praticavano, perché “dove non c’è carità non c’è Dio, anche se Dio è ovunque”. Il Ser vo di Dio sperimentava l’abnegazione e il sacrificio che esigeva l’ospitalità, apprendendo quanto aveva richiesto Giovanni di Dio a un giovane che voleva imitarlo e seguirlo: “Se sapessi con certezza che qui trarreste vantaggio per la vostra anima e per quella di tutti, vi ordinerei subito di venire, ma ho paura che succeda il contrario; mi parrebbe meglio perciò che trascorriate qualche giorno in mezzo ai guai, fino a che siate molto ben assuefatto alle fatiche e all’alternarsi di giornate as sai nere o molto buone; e d’altro canto mi pare che se doveste finire col perdervi, sarebbe molto meglio tornarvene, comunque di tutto questo Dio sa quale è il meglio per voi” . “…mi sembra che procediate come una pietra vagante e come una nave senza remo; perciò, sarà bene che andiate a macerare le vostre carni e a soffrire vita dura per amore di Dio, rendendogli grazie per il bene e per il male”. “Ricordate nostro Signore Gesù Cristo e la sua bene detta Passione, che ha restituito il bene per il male che gli era stato fatto. Così dovete fare anche voi quando venite nella casa di Dio”. “Se venite qui, dovrete soffrire molto, tutto per amo re di Dio, e dovrete obbedire molto e lavorare molto più duramente di quanto abbiate lavorato, e perdere il sonno per curare i poveri e i malati, e tutto per amore di Dio

“Pensate che sia giunto il momento di scegliere una strada. Se dovete venire qui, fate quello che vi sembra meglio. Ma ricordate che se venite, dovete venire per offrire qualche frutto a Dio, lavorando davvero, non per poltrire, perché al figlio più amato vengono date fatiche maggiori”. “Ora, fate quello che vi sembra meglio, perché non so se il Signore sarà contento di farvi venire in questa casa appena lo desideriamo, o se vuole che soffriate lì. Fate ciò che Dio vi ispira e vedete quale sarà il servizio migliore”. “Per questo non ho altro da dirvi, se non che Dio vi salverà e vi custodirà e vi indirizzerà al suo servizio, così come tutti gli uomini. Non smetto di pregare per voi e per tutti”. “Come ultima osservazione vi dico: vivete con Dio, ascoltate sempre la Messa, confessatevi spesso, se possibile, e non dormite nessuna notte in peccato mortale”. “Amate il Signore nostro Gesù Cristo al di sopra di ogni cosa al mondo, perché quanto più lo amate, tan to più Egli vi ama. Rimanete con Dio e andate con lui”. Incoraggiato da questi desideri, Fra Bonifacio si sentì rassicurato, confortato, e fissò gli occhi e il cuore solo su Dio: “Voglio solo trovare e seguire la volontà di Dio”.

PROFESSIONE DEI VOTI

Al termine del noviziato, il 3 giugno 1926, il Servo di Dio emise la professione dei voti temporanei nella chiesa dell’ospedale psichiatrico San José de Carabanchel Alto. I suoi parenti assistettero alla cerimonia, così come una rappresentanza degli oltre cento bambini e ragazzi affetti da epilessia assistiti nel Centro. Durante la celebrazione eucaristica egli emise i voti temporanei di povertà, castità, obbedienza e ospitalità, e promise di osservare la Regola e le Costituzioni dell’Ordine Ospedaliero. Durante i tre anni di professione semplice, si mise a disposizione dei superiori svolgendo con diligenza e passione i compiti a lui affidati. Tornò a Ciempozuelos, dove per sei mesi lavorò con i confratelli direttamente con i malati di mente. Grazie al suo carattere e alla sua dote di sapersi porre in relazione con gli altri, ed in seguito all’impel lente necessità di beni materiali per i Centri dell’Or Comunità di Ciempozuelos 1925. 19 dine, fu dispensato dalle fasi successive della forma zione e fu incaricato di lavorare come questuante presso il Centro San Giovanni di Dio di Santurce (Bil bao) dal 20 dicembre 1926 fino al 15 ottobre 1927, anno in cui fece ritorno a Madrid. Nella capitale spagnola continuò nel suo compito di elemosiniere f ino al 1931 presso il Centro San Rafael per bambini affetti da poliomielite e tubercolosi ossea.
L’OSPEDALE SAN RAFAEL A MADRID
L’attività ospedaliera dei religiosi al San Rafael iniziò nel 1892 a Pinto (Madrid), trasferitasi poi nel 1900 a Paseo de las Acacias, 6; e infine nel 1912, nel magnifico ospedale di San Rafael nella parte alta dell’Hipódromo (Chamartín), dove si trova oggi. Facendo seguito al desiderio dei Fratelli di vedere migliorata la loro opera caritativa e sociale, il Centro fu ampliato nel 1929 con un altro nuovo padiglione, con una capacità di accogliere oltre trecento bambi ni, per il cui mantenimento si “contava sulla preziosa collaborazione degli instancabili religiosi questuanti”. Il Centro fu inaugurato da re Alfonso XIII, accompa gnato dalla regina Vittoria. Il 3 giugno di quello stesso anno Fra Bonifacio emise la professione solenne nella chiesa del Cen tro San José de Carabanchel Alto, a lui già ben nota, consacrandosi definitivamente a Dio per il servizio dei poveri e malati. Fra Bonifacio chiedeva l’elemosina per le strade di Madrid già da due anni: “Si arrivava a mezzogiorno 20 in strada Los Tres Peces (nel quartiere Lavapiés), pren devamo il tram dall’Hipódromo, per una moneta, e andavamo da La Bombilla”. In seguito, quando gli fu chiesto di parlare della sua salute nel 1973, così dis se: “Avevo male all’udito, alla vista e ai piedi, ma presto recuperai tutti e tre. Il periodo peggiore per i miei piedi fu quando mendicavo a Madrid. Bisognava salire mol te scale, perché non c’erano ancora gli ascensori”. Quando era ancora a Madrid, nel 1931, erano di vampati una serie di incendi in chiese e case religio se, e colonne di fumo si vedevano dai tetti del Centro San José. In quell’occasione, trenta soldati del reggi mento di cavalleria, al comando di un tenente, arriva rono di notte per difendere le strutture da eventuali tentativi di assalto o di incendio doloso. I Fratelli que stuanti, tra cui Fra Bonifacio, pur vestendo i panni di laici, andavano ogni giorno a raccogliere le sottoscri zioni manifestando grande coraggio e uno spirito di Professione solenne, 3 giugno 1929 nella chiesa della Fondazione San José di Carabanchel Alto. 21 sacrificio che li esaltava, e per questo venivano accolti da quasi tutti i benefattori con vera ammirazione e ri spetto vedendo la loro carità disinteressata ed eroica, nonostante le gravi difficoltà e le gravi minacce. La storia successiva è così descritta dal dottor Al varez Sierra: “Poi vennero gli anni della Repubblica, la guerra di liberazione. Durante la guerra civile spagno la i religiosi del Centro furono perseguitati e furono loro ridotte le attività. Tra i frati martirizzati c’era fra Eutimio Aramendía, che era il capo infermiere di que sta Casa. L’edificio fu utilizzato come prigione femminile e successivamente come ospedale militare”.
A GRANADA DA SAN GIOVANNI DI DIO
Dal 1931 al 1934 soggiornò prima a Barcellona, poi a Ciempozuelos, Santurce e Madrid, ed in ogni centro lasciò un buon ricordo di sé. In seguito, Fra Bonifacio fu trasferito a Granada, dove lavorò anche come economo del Centro San Rafael. Fu un periodo intenso dedicato al duro lavoro, perché l’ospedale e la missione di strada lo tenevano molto occupato. Da questa esperienza maturò la convinzione che tutta la sua vita sarebbe stata consacrata nell’ospita lità, ben consapevole che nell’opera di Dio non si falli sce mai. Concentrò tutti i suoi sforzi nel lavorare sodo, nella ricerca del regno di Dio tra i malati e i bambini poveri, e continuando a identificarsi con Gesù attra verso la preghiera, la vita fraterna e il suo apostolato di elemosiniere, come un vero povero di Dio.

CORDOVA UNA CLINICA ACCOGLIENTE
Nel novembre 1934, i Fatebenefratelli, avendo trovato un terreno ideale per il futuro dell’ospitalità infantile, riuscirono faticosamente ad acquistarlo e il 2 gennaio 1935, alla presenza di Adrián Touceda, primo Superiore della Casa, e dei confratelli Crescencio Olivares, Juan Grande, Federico Argüello e Juan Bautista Velázquez, firmarono gli atti per la vendita della proprietà chiamata “Huerta de San Pablo”, realizzando così il progetto della nuova costruzione. Crearono l’Asociación Unión de Damas Pro-Hgary Clínica San Rafael per la fondazione e il sostegno caritatevole per la cura dei bambini poveri e Clinica San Rafael, Cordova. 23 disabili. Nonostante le difficoltà iniziali per pagare gli operai, riuscirono a realizzare l’opera. I lavori pro cedettero bene e i bambini trovarono un luogo ac cogliente e adatto per le loro necessità. La nascente comunità arrivò a Cordova il 12 agosto 1935, e Fra Bonifacio Bonillo iniziò subito la sua opera di que stuante per i bambini. Fra Bonifacio nel 1935. QUESTUANTE A CORDOVA Il 20 ottobre 1935 fu inaugurato ufficialmente la Clinica San Rafael, importante opera per l’Ordine e anche per la città Cordova, alla presenza del Vicario Provinciale, Fra Guillermo Llop, il futuro Beato Marti re, che apprezzò molto gli sforzi fatti per la realizza zione dell’ospedale.  Fra Bonifacio passava di porta in porta domandando elemosine, otteneva sottoscrizioni, e bussando alle porte delle aziende e dei negozi chiede va senza esitazione, perché il bisogno era grande. E poiché tutto era insufficiente, iniziò a recarsi nei villaggi e nelle fattorie della provincia, pronunciando sempre la stessa espressione: “C’è qualcosa per i miei poveri figli?”. Il compito sembrava facile, ma quando ogni sera rientrava a casa lo coglieva lo sconforto di non aver appagato le esigenze di tanti bambini. Per questo decise di visitare altre terre in diverse province come mendicante, e così tese la mano verso i benefattori viaggiando per Jaén, Granada, Ciudad Real, Clinica San Rafael in Cordova nel 1948, al tempo di Fra Bonifacio.

Non sempre era soddisfatto, per ché dopo la guerra civile spagnola erano molte le difficoltà: scarsi raccolti e povertà, razionamento del cibo e salari bassi. Pian piano il Servo di Dio conquistava la simpatia di molte persone che riconoscevano la sua dedizione agli altri. Al momento del raccolto, visitava tutte le fattorie e raccoglieva: grano, ceci, olio, olive, uva, vino, mandorle, tacchini, galli, tutto tornava utile. Vedendo la bontà d’animo del religioso, gli dicevano: “se riesci a catturare quell’animale, puoi portarlo con te”. E lui lo rincorreva, con il suo abito, senza risparmiarsi finché non lo prendeva. Comunità di Cordova 1948. È CONOSCIUTO COME “FRA GARBANZO” (FRA CECE) I religiosi moltiplicano gli sforzi. Sempre più bambini vengono trattati per le deformità congenite, per il morbo di Pott, per la tubercolosi ossea e per tutti i tipi di chirurgia ortopedica e generale. Una volta, mentre raccoglieva l’elemosina in una fattoria, il proprietario gli diede una grossa pecora e un sacco di ceci. C’era anche una suora che aveva ricevuto la stessa carità dal proprietario. Mentre sta vano per andarsene, alcuni uomini armati si avvicinarono a lui:– Che bello, abbiamo qui un frate e una suora.– È vero, questo merita di essere festeggiato con un buon pasto!– E un terzo disse: “Che bella idea hai avuto!” Così catturarono i due religiosi e il proprietario della fattoria, macellarono l’animale e mangiarono a sazietà. Dopo essersi stuzzicati e divertiti, si dissero: “Perché non ci divertiamo un po’ con questi due santi?” Presero due asini e misero Fra Bonifacio su uno e la suora sull’altro. Legati piedi e mani, li misero in groppa agli asini. E così, in una posizione ridicola, li fecero girare in continuazione, prendendoli in giro volgarmente. Durante questo malsano gioco, Fra Bonifacio riconobbe uno dei tre personaggi: era il padre di un bambino che era stato operato per una certa malattia alla Clinica qualche tempo prima. Così r volgendosi a lui, disse: “Se questo mi fosse stato fatto quando c’era tuo figlio, sarebbe morto di fame: le pecore che hai appena mangiato e i ceci non li hai presi a me, ma ai poveri bambini malati che sono nella Clinica”. Al sentire questo finalmente l’uomo rientrò in sé, fece cessare le beffe e disse agli altri: “Date il sacco di ceci a “Fra Garbanzo”. Così, da quel momento in poi, cominciarono a chiamarlo con quel nome, senza che questo gli creas se imbarazzo. Se doveva ringraziare per un’elemosi na, scrivere o inviare un saluto si firmava Fra Garban zo. Anche quando in seguito ricevette la decorazione del governo spagnolo e il titolo di Excelentísimo Sr., disse: “Sarò sempre Fra Garbanzo fino alla morte”. Fra Bonifacio dopo la questua quotidiana. L’ARTE DI ESSERE ELEMOSINIERE La semplicità, l’umiltà, la prudenza, l’amore per il la voro e la dedizione al prossimo furono sempre il suo tratto distintivo. Il suo aspetto bonario, la sua simpatia, la sua capacità di convincere gli altri, la sua astuzia e la sua fede in Dio fecero di lui un elemosiniere capace di non tornare mai a mani vuote alla Clinica. Per la sua raccolta aveva preso l’abitudine a fre quentare i locali del centro cittadino e lì incontrava anche coloro che andavano all’elegante e maestoso Savarín, all’Avorio o al Mercantil. Fra Bonifacio si se deva a mezzogiorno, tenendo gli occhi ben aperti e non mangiando nulla, aspettando l’occasione per incontrare i signori e i contadini che potevano aiuta re i suoi bambini. A volte, questi, gli sfuggivano, ma sapeva dove andare a cercarli. E trovati gli elargiva no doni generosi ed in seguito li raggiungeva nelle loro fattorie o nei loro magazzini per raccogliere ciò che era utile per i tanti bambini malati. Conosceva bene il suo campo di lavoro per le elemosine. Sapeva tutto dei benefattori. Se qualcuno vendeva una fattoria o comprava qualcosa di impor tante, sapeva come dirgli: “Che bella vendita hai fatto, perché non mi dai qualcosa per i miei figli?” Allo stesso modo, se avevano avuto un buon raccolto. Andava a trovare i toreri dopo le corride. Se c’era qualche for tunato con la lotteria o altri tipi di gioco, non perde va l’occasione per incontrarli e per congratularsi con Il Servo di Dio in attesa di incontrare i suoi benefattori. 30 loro e poi chiedeva una parte per i suoi bambini. Per questo aveva una buona conoscenza degli ambienti in cui si muoveva e del territorio circostante. Frequentava tutte le battute di caccia sapendo ottenere parte della cacciagione e alleggerire i por tafogli dei cacciatori. Accettava ogni tipo di elemo sina, anche la più improbabile, che poi vendeva o scambiava. Non mostrava mai stanchezza o svogliatezza. Si armava di santa pazienza, imparando l’arte di aspet tare che “il frutto maturi”. Quando lo invitavano a non affaticarsi troppo ri spondeva: “Sono un povero mendicante, faccio quello che devo fare, altri stanno peggio di me”. I Fratelli della sua comunità lo ammiravano; Fra Federico Argüello diceva: “Sono sicuro che passava tutta la notte a pensare come ottenere elemosine migliori, perché nessuno poteva resistergli”. Utilizzava una vecchia Land Rover per raggiungere le campagne cordovane e per caricare tutto quello che gli davano, perché non poteva andarsene a mani vuote. Per molte ragioni, era chiaro che Fra Bonifacio era un buon mendicante al servizio dei bisognosi. È stato un grande samaritano del XX secolo perché la sua coscienza si era formata così da rendere la sua persona tutta solidale con i bisognosi che incontrava lungo la strada. Ed in linea con il Vangelo della misericordia seppe risvegliare i cuori duri e distanti, rendendoli grandi nel servizio agli altri attraverso la sua totale dedizione a Dio.

NON AVEVA BARRIERE NEL “CHIEDERE PER AMORE DI DIO”

Era conosciuto in ogni luogo della provincia di Cordova, poiché le sue visite a questi villaggi erano frequenti, soprattutto durante la stagione della rac colta dei vari prodotti della campagna. Inutile dire che Fra Bonifacio incontrava anche persone rilut tanti e indifferenti. Ma la sua arguzia, la sua bontà riuscivano a vincere sulle resistenze. Una volta, in una strada del Centro di Cordova, fermò un uomo a bordo di un’auto nuova di zecca e gli chiese l’elemosina, ma questi replicò non molto garbatamente di non avere offerte. Il religioso dopo averci pensato un po’ gli disse: “Non sai che la tua auto sembra un’oliva? L’uomo attonito rispose: “Vi dico che non lo so, perché il colore non è lo stesso dell’oliva”. Il religioso a lui: “Beh, l’oliva ha dentro un nocciolo duro, così è l’autista dell’auto” . Il signore scoppiò in una fragorosa risata e alla fine gli elargì una buona offerta. Per attenuare il calore dell’estate cordovana si rese necessario posizionare una struttura metallica sulla terrazza-solarium dei bambini e acquistare una tenda da sole. Fra Bonifacio commentava con i con fratelli della Comunità: “Quando potremo comprare una tenda per la terrazza?”. Per l’acquisto erano necessarie 80.000 pesetas, e per i religiosi era impossibile affrontare una tal spesa. Ma si sa: a Dio tutto è possibile. La Divina Provvidenza non avrebbe fallito. Ecco che l’evento di una corrida fu decisivo. Infatti, l’impresario dell’arena soddisfatto dei pro venti raggiunti donò una buona parte del ricavato al governatore civile a favore delle organizzazioni caritatevoli; si accordarono per devolvere parte del premio alla clinica, che lo destinò all’acquisto della tenda, mentre Fra Bonifacio si impegnò e ottenne l’altra metà del denaro mancante. Così facendo si riuscì a portare a termine il lavoro e a posizionare la tenda con grande gioia e festa per tutti i bam bini. Terrazzo della Clinica San Rafel, Cordova. 33 Così, forti della costanza e del sacrificio di Fra Bonifacio, i confratelli cercarono di migliorarsi ogni giorno e l’ospedale pediatrico continuò a svolgere la sua nobile missione di assistenza e cura dei bam bini malati. Al giubileo d’argento del Centro partecipò tutta la città e riconobbe il bene fatto dai Fratelli di San Giovanni di Dio per il loro lavoro con i bambini. La carità cordovana, promossa dai Fatebenefratelli, unita alla fervente preghiera al servizio dei bam bini con limitazioni fisiche e alla testimonianza del loro spirito di ospitalità venne riconosciuta da tutta l’opinione pubblica e dai media. In quell’occasione fu messa in risalto la figura di Fra Bonifacio e della sua opera di elemosina, per il suo instancabile e am mirevole lavoro. Tra aranci e ulivi la carità cresceva sulle montagne di El Brillante. Fra Bonifacio elargiva sorrisi ed affetto paterno ai suoi bambini. Tutti i malati venivano trattati con massimo af fetto, ma più di una volta, quando il malato era un bambino – nel frattempo l’ospedale aveva già ini ziato a ricoverare pazienti adulti – Fra Bonifacio in vitava i suoi compagni con queste parole: “Trattate molto bene il bambino X, perché è povero”. Era felice nel vederli sorridenti, rilassati e divertiti.

ASTA DI BENEFICENZA
Ogni Natale alla radio durante “l’asta di beneficenza” la sua voce risuonava in tutte le case di Cordova. Questo accadeva perché Fra Bonifacio era considera to come uno di famiglia e tutti si sentivano più vicini ai bambini della clinica. L’emittente locale “Radio Cordova” si offriva di colla borare con il suo staff avvisando il pubblico che Fra Bo nifacio avrebbe visitato negozi e aziende. Anche duran te le vacanze di Natale Fra Bonifacio rimaneva alla radio, perché i bambini volevano parlare con lui al telefono. L’asta divenne popolare poiché Fra Bonifacio aveva una predilezione per alcuni animali (pecore, maiali, tacchini, cani, piccioni, pernici e anche alcuni asini), e anno dopo anno era la gente stessa che portava al Servo di Dio quanto aveva bisogno senza che lui chiedesse. Durante la trasmissione radiofonica si invitava Fra Bonifacio ad intonare un canto, a recitare una poesia composta da lui stesso, improvvisando rime divertenti e spiritose, che erano poi oggetto di offerte e davano risultati. I programmi si inoltravano fino a notte fonda e all’annuncio che Fra Bonifacio avrebbe cantato, le telefonate aumentavano, la gente si commuoveva per l’emozione, ognuno contribuiva come poteva. Era tutto molto semplice. Fra Bonifacio sapeva tutto de gli abitanti di Cordova, grazie alla sua memoria prodigiosa e ai continui contatti che manteneva con loro. Per il Servo di Dio questo era anche il suo campo di apostolato e la sua missione. Organizzò tre festival di corride per raccogliere fondi e diverse feste popolari, sempre a beneficio dei bambini ricoverati perché tutto gli sembrava troppo poco. 35 LA POPOLARITÀ DI FRA BONIFACIO Poche persone a Cordova erano cosi note come lui. Era di statura normale, tarchiato, di corporatura robusta. Si presentava con il suo famoso saturno (cappello dei religiosi), le sue vecchie scarpe “con sumate”, la valigetta portafoglio in mano, la sua enorme simpatia e un ampio sorriso che illuminava il suo volto bonario. Ma si riconosceva anche per la sua grande fede in Dio, il suo discorso sempre evan gelico, la sua costante preghiera, e una grande so miglianza al papa “regnante”, per cui lo chiamavano un “altro Giovanni XXIII”. Era già più che conosciuto e riconosciuto nei Circoli Mercantili o Labrador, nei bar di Savarín, Dunia o Toledo, perché in tutti questi luoghi chiedeva l’elemosina. È vero che più di uno non ricambiava con alcu na elemosina, ma molti altri, guidati dalla bontà del loro cuore, gli mettevano in mano il loro portafoglio affinché potesse prendere la quantità di denaro che riteneva opportuna, sapendo che tratteneva solo il necessario e che ogni spicciolo andava a finire in elemosina. E poiché chiedeva a chi avesse e dava a chi aveva bisogno, era ammirato da tutti.

Se Fra Bonifacio usava la simpatia come stratagemma per ottenere qualcosa, era sempre perché desiderava che il benefattore donasse con gioia e fosse felice di sapere che la sua elemosina andava a buon fine. Lo chiedeva con grazia e con dolcezza. Se andava a incontrare i cacciatori nel luogo dove si raccoglieva la selvaggina uccisa, attendeva seduto ad aspettare 36 sulla porta; se di notte gli veniva detto che molte per sone avrebbero assistito a uno spettacolo teatrale o musicale, senza invito si presentava e si faceva trova re lì senza disturbare. E “qualcosa riceveva sempre”. In effetti, erano in molti ad avergli fatto delle “soffiate” su dove poteva andare, perché c’era sempre “un posto dove raschiare”. Sapeva come chiedere, perché era convinto che chiedere significava dare. “Fate del bene a voi stessi dando ai poveri per amore di Dio”. Quando Fra Bonifacio seppe che il famoso torero di Palma del Río, Manuel Benítez Pérez detto “El Cor dobés”, dava una festa per celebrare i suoi bei tempi, vi si recò e felice di vederlo comparire, prese la sua borsa Fra Bonifacio con il famoso Torero “El Cordobés”. 37 portafoglio, che portava sottobraccio, la alzò per brindare e salutandoli a gran voce disse: “Paesani del Cordobés, Manolete e del Guerra, vediamo se siete generosi e mi lasciate una buona offerta”. Gli applausi furono fragorosi e alla fine del “paseíllo” raccolse abbastanza denaro da sentirsi felice di tornare alla clinica. Juan Muñoz Cascos, autore del libro biografico “El Hermano Bonifacio, Excelentísimo Sr. Limosnero”, scritto con grande affetto per il nostro Servo di Dio, nel capitolo XXIV racconta di aver indagato sulla persona di Fra Bonifacio rivolgendo una domanda precisa a diverse persone di livello sociale differen te: “Qual è la sua opinione su Fra Bonifacio? La riposta fu unanime: “Era un santo; non chiedeva mai nulla per sé stesso, ma tutto per i suoi bambini; non si lamentava mai di nulla; sarebbe difficile per l’Ordine Ospedaliero avere di nuovo un altro frate questuante come lui; sapeva a chi doveva chiedere e come farlo”. E la risposta di Juan Jurado Ruiz, un sacerdote virtuoso che conosceva il servo di Dio fin dal suo Ospedale San Giovanni di Dio di Cordova. arrivo a Cordova, fu chiara e decisa: “In Fra Bonifacio spiccano: l’amore e la dedizione senza limiti per i bi sognosi, fino a dimenticare se stesso per donarsi agli altri; un’umiltà commovente, che non dava mai im portanza all’enorme merito che aveva il suo lavoro di elemosiniere e il suo spirito profondamente religioso, proclamato in molte occasioni durante la sua lunga vita come Fratello di San Giovanni di Dio”. LA CROCE DI BENEMERENZA Poco incline alle celebrazioni e alle decorazioni, nella sua vita quotidiana il Servo di Dio trovava vera gioia nello stare vicino ai benefattori e ai collabora tori. Era felice e a suo agio anche con la gente sem plice della campagna. Conoscendo ogni angolo di tutti i villaggi e le fattorie di Cordova, poteva svolge re meglio il suo lavoro di questuante. Non si limitava a chiedere l’elemosina; quando sapeva che un bambino era malato, lo visitava, gli dimostrava affetto e faceva quello che poteva per la famiglia, in modo da farlo ricoverare nella Clinica San Rafael, motivo per cui era ammirato e rispetta to da tutti. In questo modo realizzava il suo motto: essere semplice, povero e lavoratore, essere l’ultimo e il servitore di tutti; certo che chi lavorava per i po veri, lavorava per Dio. Dopo aver percorso per quasi quarant’anni le strade delle città, i campi e i villaggi di Cordova, con i piedi stanchi e le mani aperte da tanta mendicità, 39 38 qualcuno si ricordò di rendere omaggio al celebre “mendicante di Cordova”, perché il suo lavoro, pur essendo umile e sacrificato, non passava inosserva to. Fra Bonifacio era sulla bocca di tutti e per questo si volle premiare tanto amore e carità disinteressati per i più poveri. Così le autorità cordovane, facendo eco al senti mento popolare, chiesero al governo spagnolo di conferirgli la Croce della Carità, un riconoscimento che veniva dato solo a persone che avevano fatto molto bene al prossimo e che erano un esempio vi vente per gli altri. In questo modo, il governo rico nobbe pubblicamente i suoi meriti e lo ringraziò a nome di tutto il popolo spagnolo. Il riconoscimento gli fu assegnato ad aprile 1972, ma la cerimonia di premiazione fu fissata per il 10 di Fra Bonifacio è decorato con la Gran Croce di benemerenza, 10 dicembre 1972. cembre dello stesso anno. Quel giorno la cerimonia iniziò con una messa concelebrata da dodici sacer doti, presieduta dal vescovo della diocesi di Cordova, Mons. Cirarda, il quale tenne un’omelia piena di affetto per Fra Bonifacio. Al termine dell’Eucaristia, più di due mila persone si erano già radunate fuori dalla chiesa. – L’ex sindaco di Cordova sottolineò nelle sue parole la figura di Fra Bonifacio, il quale, nonostante si creassero situazioni d’imbarazzo, non rinunciava alla sua missione per il bene dei bambini.– Il dottor Calzadilla, direttore medico della clini ca fin dalle sue origini nel 1935, illustrò brevemente la storia del Centro dalla sua fondazione.– P. Jacinto del Cerro, dell’Ordine dei Fatebenefra telli, recitò una bella poesia, seguita da alcune pa Fra Bonifacio in compagnia di Mons. Cirarda, vescovo di Cordova. 41 40 role del Superiore di Cordova, Fra Antonio Barreno, che sottolineò la dedizione di Fra Bonifacio. Dopo la lettura dell’ordinanza di concessione della “Gran Cruz de Beneficencia”, il Governatore Ci vile, D. Manuel Hernández, pronunciò parole com moventi: “All’affetto di Cordova per Fra Bonifacio, il Governo lo sostiene con merito e gratitudine”. Il Su periore Provinciale Sebastián Fernández espresse la sua gratitudine per l’onorificenza conferita a un degno membro dell’Ordine Ospedaliero. Fra Bonifacio concluse, commosso, ringraziando il Governo e tutti i presenti per la calorosa parteci pazione alla cerimonia e per la targa posta “come giusto tributo e affetto fraterno per la sua instancabile carità e dedizione ai bisognosi”. Va detto che, a turno, nelle settimane preceden ti erano arrivate donazioni da parte di benefattori, grandi e piccoli, così che l’umile elemosiniere po teva sentire il “suono” del dono per le necessità dei bambini del Centro. Sappiamo che in seguito, quan do il Provinciale fu informato da un membro della sua comunità che Fra Bonifacio era pronto a “sacrifi care la medaglia” per i poveri, indicò che in virtù del la santa obbedienza doveva essere adeguatamente custodita. 42 SENTIVA PROFONDAMENTE LA SUA VOCAZIONE RELIGIOSA DI OSPEDALIERO Ormai anziano, Fra Bonifacio era assistito da un giovane religioso che faceva l’infermiere nella comu nità cordovese. Il Servo di Dio essendo robusto aveva spesso problemi ai piedi, così a volte questo religioso lo aiutava a pulirsi e a mettersi le scarpe. Il frate però aveva deciso di abbandonare la sua vocazione reli giosa a causa di una donna che gli aveva proposto di sposarlo. E quando si congedò dal buon Fra Boni facio, quest’ultimo, con tristezza e lacrime agli occhi, gli disse: “È deplorevole che tu faccia questo con la tua vocazione religiosa. Anch’io quando ero a Madrid, in qualità di religioso, venni avvicinato con proposte dello stesso tipo, eppure non mi passò mai per la testa di far lo. Ma se Dio lo vuole, Dio sia lodato”. Gli ci volle molto tempo per dimenticare la perdita di questo religioso. Fra Bonifacio non solo dimostrò la sua incrolla bile vocazione, ma la sua testimonianza fu decisiva per attirare nuove vocazioni e per la formazione di nuovi sacerdoti e religiosi. Fra Félix Quintas, che trascorse due anni in comu nità con lui a Cordova, racconta, che quando il Servo di Dio tornava dopo mezzogiorno dall’elemosina di porta in porta, mangiava con la comunità o a un se 43 condo tavolo, e si riposava un po’. Nel pomeriggio era solito pulire i vasi da notte dei bambini ricove rati. Lo faceva quotidianamente come un servizio ospedaliero obbligatorio che si era imposto; era sempre vicino ai bambini, con i quali condivideva aneddoti e scherzi. Faceva questo per consolarli e alleviare loro la nostalgia di casa. Tornando a casa dopo la questua, gli piaceva fer marsi nella stanza dei bambini e, se ne vedeva uno triste, gli chiedeva: “Perché sei triste?” Io non sono mai triste, perché prima che arrivi quel momento, mi racconto una barzelletta e rido”. E il sorriso sboccia va di nuovo sul bambino costretto a letto. Un bacio sulla fronte e diceva: “Pregate Gesù Bambino, perché sia sempre con voi”. Coglieva sempre l’occasione per fare un riferimento al cielo CELEBRAZIONE DEL 50° DI PROFESSIONE RELIGIOSA Religioso capace e socievole, abnegato e sem plice, all’età di 77 anni, il 24 ottobre 1976, celebrò il 50° anniversario della sua professione religiosa, che i confratelli della comunità e la Provincia religiosa festeggiarono con grande partecipazione. Infatti, per tutti i confratelli, secondo le parole del Supe riore Antonio Barreno, Fra Bonifacio aveva qualcosa di più di un normale religioso. Per i confratelli era la memoria vivente di ciò che era stato San Giovanni di Dio. 44 Monsignor Cirarda, celebrò l’Eucarestia e rivol se parole accorate e toccanti al festeggiato e a Fra Antonio Manso, di Cordova, che celebrava il suo 25° anniversario di professione. Concelebrarono anche dieci sacerdoti e animò la santa Messa il coro della scuola apostolica di Cordova. Il Vicario Provinciale, Fra Sebastián Fernández, ricevette il rinnovo dei voti alla presenza di una folta rappresentanza di confra telli delle altre Province di Spagna. La chiesa era gremita, come non mai, e alla fine Fra Bonifacio ricevette i doni dei benefattori, delle comunità rappresentate, del personale del Centro e l’applauso di innumerevoli amici, oltre a quello dei “suoi bambini”, felici di vedere che “Fra Boni” era an cora vivo e attivo e che tutti gli volevano bene. Fra Bonifacio celebra il 50° di Professione religiosa, 1976. 45 ACCIDENTALE CADUTA E ARRIVO AL TRAGUARDO Era il 1978. Il 20 maggio, un giorno come un altro, si preparava ad uscire per la questua. Fra Angel Fonse ca, incaricato dal Superiore ad aiutare il Servo di Dio ormai ottantenne e logorato dal duro lavoro, sentì un forte botto provenire dal bagno, mentre Fra Bonifacio era sotto la doccia. Si affrettò a tornare indietro, si era infatti allontanato per prendere un asciugamano che non si trovava al suo posto, e dovette chiedere l’aiuto di altri due Fratelli. Lo aiutarono ad alzarsi e si resero conto del forte dolore che avvertiva alla spalla destra. Venne fasciato nell’infermeria ed il sospetto di una rottura fu confermata dalle radiografie: frattura del collo dell’omero, e conseguente ingessatura. Fra Bonifacio insisteva per andare a fare il suo lavo ro di mendicante. All’autista Pedro, che non lo vedeva in buone condizioni e lo sconsigliava, rispose: “Devo chiedere l’elemosina tutti i giorni, come fa un povero”. Per questo diceva a coloro che gli stavano ingessan do il braccio: “Lasciate la mia mano libera di chiedere l’elemosina”, e continuava: “Mi basta la mia loquacità”. I confratelli raccontano che non si lamentava mai e con pazienza diceva loro: “Sto perdendo tempo, quello che devo fare è lavorare”, e “quello che man gio non me lo merito”. Un mese dopo era di nuovo in strada, ma questa volta si rese conto che non era più come prima. Tornato a casa, poiché non si sentiva bene, fu portato in reparto e messo a letto. I medici che lo visitarono furono chiari nella loro diagnosi: si trattava di una trombosi cerebrale. Ma questa volta si riprese grazie alle sue forze. 46 Qualche giorno dopo ricominciò la sua attività di questuante per “i suoi figli” attraverso il telefono. Molti benefattori si interessarono a lui e gli lasciaro no la propria donazione, che lui a sua volta conse gnava al Superiore. Si spense lentamente. Nei momenti di lucidità, ebbe a dire. “Ieri sera pensavo di morire, ma ho sentito tanta dolcezza e pace che non ho dubbi che il Signore stia preparando un felice passaggio verso di lui”. E n trò in coma, ma riprese conoscenza ed era ancora in grado di dire a Fra Angel: “Se non siamo uomini di preghiera, la nostra vita va a rotoli”, come aveva detto molte volte durante la sua vita. “Ho già compiuto la mia missione, che Dio mi chiami quando vuole”. DESTINATO AL CIELO Verso le tre del pomeriggio dell’11 settembre 1978, Fra Bonifacio Bonillo morì serenamente nell’O spedale San Giovanni di Dio di Cordova. La notizia si diffuse in tutta la città. Anche la comunità e i bambini piansero e pregarono molto per lui. Non avrebbe più chiesto l’elemosina. Coloro che lavoravano presso la stazione radio e la redazione giornalistica, i benefat tori e tutti gli abitanti di Cordova sfilarono davanti alla salma di Fra Bonifacio. I fratelli giunsero da tutte le case dell’Andalusia e da Madrid. Mons. Infantes Flori do, presiedendo l’Eucaristia, disse nell’omelia: “Era un uomo semplice che offriva la sua vita, il suo buon umore e il suo sorriso come testimonianza della sua dedizione agli altri. Non escludeva nessuno e non distingueva le persone in base alla loro classe sociale. Per lui tutti era no uguali e si rivolgeva a tutti chiedendo per i suoi figli”. 47 Dopo il funerale i suoi resti mortali furono trasfe riti nel cimitero di San Rafael, nella città di Cordova, e collocati nella cappella dei Fratelli di San Giovanni di Dio, nel cortile principale del cimitero. Tomba dei Religiosi dove venne sepolto il Servo di Dio.

TORNA IN OSPEDALE Dopo la morte, la sua fama di santità continuò a crescere, così come l’Opera sociale, a lui dedicata, proseguì a svolgere la propria missione di servizio ai più bisognosi di Cordova e ad intensificare l’attività ogni anno a causa delle difficili condizioni di molte famiglie prive dei beni di prima necessità. Finché ci sarà qualcuno nel bisogno, i Fratelli di San Giovanni di Dio, fedeli seguaci del Santo della Carità e impegnati continuatori del servizio che Fra Bonifacio ha sempre voluto prodigare oltre l’impos sibile, manterranno attivo il servizio sociale, con lo spirito di solidarietà e generosità di tutti gli abitanti di Cordova che ancor oggi continuano con genero sità a donare quanto necessario. Traslazione delle spoglie mortali di Fra Bonifacio per il centenario della nascita, 1899-1999. 49 48 Nel 1999, in occasione del centenario della na scita dell’amato Fra Bonifacio, dopo aver ottenuto le necessarie autorizzazioni, si decise di riesumare i resti che erano stati deposti nel cimitero di San Rafael dopo la sua morte. Nel mese di marzo del 1999 vennero sottoposti a un accurato studio ana tomopatologico e debitamente conservati furono traslati nella cappella dell’ospedale San Giovanni di Dio, dove attendono la resurrezione e la desiderata glorificazione. Da allora molte persone continuano il loro pellegrinaggio per chiedere favori e grazie al Signore per intercessione del Servo di Dio. Il nostro Fra Bonifacio continua a sperare che, quando lo visitiamo e lo preghiamo, ci ricordiamo dei poveri e dei sofferenti, soprattutto dei bambini, per i quali ha sempre fatto tutto per amore di Dio. Tomba del Servo di Dio nella Chiesa dell’Ospedale San Giovanni di Dio a Cordova, dopo la traslazione nel 1999. LETTERA DEL VESCOVO CIRARDA Quando Mons. Cirarda era vescovo a Cordova, nel 1972 partecipò alla cerimonia di conferimento della “Gran Cruz de Beneficencia”, vivendo momenti di vera vicinanza cordiale e fraterna con Fra Boni facio. In occasione del centenario della nascita del Servo di Dio, nel 1999, il vescovo si scusò di non po ter partecipare a causa di altri impegni, ma scrisse una bellissima lettera al Superiore della Comunità di Cordova. “Le sono grato per la sua gentilezza per avermi invi tato ad onorare il caro Fra Bonifacio a Cordova il pros simo 20 maggio. Ho un ricordo molto bello della bontà di questo Fratello. Ho avuto molti contatti con lui nei giorni, ormai lontani, del mio servizio episcopale in quella Chiesa di Cordova, per me indimenticabile. E ricordo con commozione le tante virtù del suddetto Fratello, l’amore con cui si prendeva cura dei malati, soprattut to dei bambini, e il coraggio con cui osava tutto per servirli, al di là di quanto la prudenza umana potesse consigliare. Il suo spirito mi è sempre sembrato “una controfigura”, come si dice nel lessico cinematografico, dello spirito di San Giovanni di Dio, la cui vita e il cui esempio lo avevano sedotto a imitare Cristo, seguen do le orme di quel “pazzo d’amore” che stupì Granada. Onorando Fra Bonifacio, Cordova onora sé stessa, adempiendo a un dovere di gratitudine nei confronti di un così buon servitore di Dio e dei poveri, che era 51 50 considerato “folle d’amore” e “Fratello” di tutti a Cor dova. Avrei voluto essere con voi il 20, per ricambiare l’o nore che mi avete fatto invitandomi. Ma non posso. Sono in pensione e molto anziano. Ma sono in buona salute e mi muovo molto a causa dei continui impe gni apostolici. Come le ho detto al telefono, per tutto il mese di maggio sono impegnato nel lavoro pastorale in Catalogna, Navarra e Vitoria. Mi unisco spiritualmente a voi nel ricordare Fra Bonifacio. E le sarei grato, se fosse così gentile, al mo mento opportuno, di rendere nota la mia vicinanza a tutto il popolo di Cordova nel giusto omaggio che gli renderà. Un saluto e una benedizione a tutti i Fratelli”.  José M. Cirarda–––––– Per la bontà del suo contenuto, riportiamo qui anche un’altra lettera di Monsignor Cirarda, al quale Juan Muñoz Cascos, autore del libro “Excelentísimo Señor Limosnero”, aveva inviato una copia. Di segui to la risposta da Pamplona 4 marzo 1985: “Mio caro amico: Lei si è fatto onore omaggiando l’Eccellentissimo Signor Limosnero, Fra Bonifacio, de dicandogli un libro ampio e ben documentato, che mi sembra colga lo spirito di quell’uomo di Dio, insigne benefattore di Cordova, nato in Castilla la Nueva, ma cordovano nel cuore fin dal suo arrivo in quella città del Califfato. 52 L’ho conosciuto da vicino durante gli anni in cui ero vescovo di Cordova. Ho avuto molti rapporti con lui. Ho ammirato le sue grandi virtù umane e religiose. Sono testimone di come si sia sempre prodigato af f inché la Clinica di San Giovanni di Dio raggiungesse l’eccellenza nei suoi servizi, che la caratterizzano. Per questo motivo, sono stato molto contento di poter partecipare in due diverse occasioni a due omaggi che gli sono stati tributati durante i miei giorni a Cordova. Ho letto con interesse il lavoro che gli avete dedica to. Spero che serva a due scopi:– affinché non si dimentichi la figura di quell’uomo buono, con il temperamento di un santo, inciso in lui, che nell’antica Cordova diede frutti esemplari di carità e di giustizia sociale; e – perché il ricordo della sua figura sia di stimolo af f inché la sua opera rimanga, perché non manchino generosi cordovesi che continuino a percorrere la strada che lui ha tracciato con la sua ammirevole dedizione caritatevole. Le, sono molto grato per avermi inviato il libro e per l’affettuosa dedica che ha voluto farmi. Prego Dio che ci siano molti cordovesi, che amino ricordare personaggi degni di merito, che spesso per la nostra fragilità ed egoismo cadono nell’oblio. Che tu possa avermi sempre come tuo affettuoso amico. Che tu sia benedetto.  José Mª Cirarda, arCivesCovo PREGHIERA DI INTERCESSIONE Signore Gesù Cristo, conforto dei deboli e degli oppressi, che hai annunciato il tuo Vangelo della Misericordia, attraverso la testimonianza e le opere di carità di Fra Bonifacio, fedele imitatore di San Giovanni di Dio, fa che otteniamo per sua intercessione le grazie che ti chiediamo e in particolare quella di (dire la grazia che si desidera ottenere), perché seguendo il suo esempio possiamo amarti al di sopra di tutte le cose del mondo e possiamo sempre servirti nei nostri fratelli e sorelle più bisognosi e malati. Signore nostro Dio, ottienici le grazie che ti abbiamo chiesto per la tua maggiore gloria e il tuo onore. Per Cristo nostro Signore. Amen. (Padre nostro, Ave Maria e Gloria) Con l’approvazione ecclesiastica Secondo i decreti di Urbano VIII 54 ITINERARIO DELLA VITA DI FRA BONIFACIO 1. Cañaveruelas. Bonifacio Bonillo nacque il 14 maggio 1899. Rima sto orfano all’età di dieci anni si dedicò a lavorare nel piccolo orto di proprietà per trarre sostentamento alla famiglia. Fu un giovane gentile e allegro con tutti. 2. Barcellona. Nel 1923, poiché era stato esonerato dal servizio militare, in quanto figlio di madre vedova, si mise alla ricerca di lavoro e dopo aver girovagato senza fortuna per Madrid e Saragozza, arrivò a Barcello na dove trovò un impiego come fattorino presso il “Centro de la Inmaculada”, gestito dai Fratelli di San Giovanni di Dio, che si occupava di bambini poveri. 3. Ciempozuelos. Entrò come postulante a Ciempozuelos (Madrid), nel Sanatorio psichiatrico di “San José”, dove i reli giosi accoglievano e curavano più di 1.300 malati di mente. Fu la prova vocazionale decisiva, che lo con fermò nella sua chiamata all’ospitalità. 4. Carabanchel Alto. In questo luogo, vicino a Madrid, fece il novizia to (1924-1926) e la professione semplice dei voti di 55 povertà, castità, obbedienza e ospitalità (1926). Tra scorse il suo tempo in ospedale con un centinaio di ragazzi epilettici ricoverati presso l’istituto “San José”. 5. Santurce. Nel 1926 a Santurce (Bilbao), nell’ospedale San Giovanni di Dio, ricevette il suo primo incarico come inserviente dell’ospedale per dieci intensi mesi. 6. Madrid. Nel Centro “San Rafael”, per i bambini affetti da po liomielite, svolse il suo lavoro più faticoso come eco nomo per quattro anni (1927-31), e dimostrò la sua grande vocazione per il servizio ospedaliero, metten do alla prova la sua forza d’animo e la sua virtù. 7. Granada. Dal 1931 al 1935 trascorse un periodo a Granada dedicandosi alla questua per la città e alla cura dei bambini poveri e paralitici. 8. Cordova. Con il suo arrivo a Cordova, nel 1935, crebbe il nuovo Centro “San Rafael”, dove si dedicò con umile disponibilità alla questua, percorrendo città e vil laggi per 43 anni, sviluppando le sue virtù cristiane, facendosi fratello di tutti, soprattutto dei più poveri e malati, consumando la propria vita per i “suoi po veri figli”. Nel 1972 il Governo Spagnolo gli conferì 56 la Gran Croce di benemerenza per il suo impegno di carità verso il prossimo. Morì in fama di santità l’11 settembre 1978 nell’ospedale San Giovanni di Dio di Cordova. Il 18 dicembre 2022 nella Diocesi di Cordova inizia la Causa di beatificazione e canonizzazione del Servo di Dio. 57 58

Indice Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 3 Il centro dell’Immacolata Concezione . . . . . . . . . . . . . 7 La situazione in Spagna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8 L’influsso di San Giovanni di Dio. . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 Ingresso nell’Ordine Ospedaliero . . . . . . . . . . . . . . . . 14 Professione dei voti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 L’ospedale San Rafael a Madrid . . . . . . . . . . . . . . . . . 20 A Granada da San Giovanni di Dio . . . . . . . . . . . . . . . 22 Cordova una clinica accogliente . . . . . . . . . . . . . . . . . 23 Questuante a Cordova . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24 È conosciuto come “Fra Garbanzo” . . . . . . . . . . . . . . 27 L’arte di essere elemosiniere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 Non aveva barriere nel “chiedere per amore di Dio” . . 32 Asta di beneficenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 La popolarità di Fra Bonifacio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36 La croce di benemerenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 Sentiva profondamente la sua vocazione religiosa di ospedaliero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43 Celebrazione del 50° di Professione religiosa . . . . . . 44 Accidentale caduta e arrivo al traguardo . . . . . . . . . 46 Destinato al cielo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47 Torna in ospedale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49 Lettere del vescovo Cirarda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 Preghiera di intercessione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54 Itinerario della vita di Fra Bonifacio . . . . . . . . . . . . . . 55

AMBULATORIO SAN RICCARDO PAMPURI

AMBULATORIO SAN RICCARDO DOTT. PAMPURI
Attivato sabato, 25 febbraio 2006

SAN RICCARDO DOTT. PAMPURI  (Riceve senza appuntamento)

NO TICKET

Dottore, ho un dolore qui:

PER DARE AL DOLORE LE PAROLE CHE ESIGE

“Pregate sempre: chiedete a Dio il suo aiuto in ogni occasione e in tutti i modi, guidati dallo Spirito Santo.
Perciò state svegli e non stancatevi mai di pregare per tutto il popolo di Dio e anche per me.
Pregate perché Dio mi faccia trovare parole decise con cui far conoscere la verità del suo messaggio.
Benché sia in prigione, io sono ambasciatore del Vangelo.
Pregate perché io possa parlare coraggiosamente, come è mio dovere “ (Efesini 6,18-20)

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Lo Spirito Santo viene in aiuto della nostra debolezza, perché noi non sappiamo neppure come dobbiamo pregare, mentre lo Spirito stesso prega per noi con sospiri che non si possono spiegare a parole.

E Dio che conosce i nostri cuori, conosce anche le intenzioni dello Spirito che prega per i credenti come Dio vuole” (Romani 8, 26-27)

MARIA la sua infermiera

“Donna, se’ tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia ed a te non ricorre, / sua disïanza vuol volar sanz’ali.” (Dante Alighieri, Paradiso, canto 33)

“Alla vita dei santi non appartinene solo la loro biografia terrena, ma anche il loro vivere ed operare dopo la morte.

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Nei santi diventa ovvio: chi va verso Dio non si allontana dagli uomini ma si rende invece ad essi veramente vicino”. (Deus caritas est n.42 – Benedetto XVI).

«Noi siamo in un tale degrado universale che non esiste più niente di ricettivo del cristianesimo se non la bruta realtà creaturale.
.
Perciò è il momento degli inizi del cristianesimo, è il momento in cui il cristianesimo sorge, è il momento della resurrezione del cristianesimo.
.
E la resurrezione del cristianesimo ha un grande unico strumento. Che cosa? Il miracolo.

È il tempo del miracolo. Bisogna dire alla gente di invocare i santi perché sono stati fatti per questo». (Don Giussani)

«Crediamo nella comunione di tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la loro purificazione e dei beati del cielo, i quali tutti insieme formano una sola Chiesa;

noi crediamo che in questa comunione l’amore misericordioso di Dio e dei suoi santi ascolta costantemente le nostre preghiere, secondo la parola di Gesù “Chiedete e riceverete”». (Paolo VI) .

UNA LUCE NELLA NOTTE
TI ASPETTAVANO!

Dal Vangelo secondo Giovanni 19,25-27
In quell’ora, stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala.
Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio! ”
Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!».
E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.

Credi davvero che Maria Santissima, la Vergine dei poveri, la Madre sempre ospitale, sia qui con te adesso?
Credi davvero che Lei sia qui assieme a Riccardo per accoglierti a braccia aperte?
Non la vedi?
Beh! Noi non possiamo vederLa per eccesso di luce, ma Lei è qui per mettertì Gesù in braccio, nel cuore. Salvarti dalle acque travolgenti.
Ti chiede solo di non opporre resistenza all’invito. Lei vuole e può vivere con te questo momento, può aiutarti a rispondere a Dio, anzi più ancora: aiutarti ad ascoltare la Sua parola.

Certo che non è sola in questa casa: c’è anche lui, il suo Riccardo Pampuri, il medico che Lei mette a tua disposizione per una diagnosi accurata e una terapia efficace.

Rasserénati: sei in buone mani. (31 Maggio 2008 )

CHI SEI?
Una persona amata, attesa!

Non temere, lasciati guardare negl’occhi dai Suoi dolcissimi occhi e ritroverai te stessa/o.

Mettiti vicino al Fuoco. Lasciati riscaldare dallo Spirito.
Riscopri le parole del Vangelo ancora accese, incandescenti.
I discepoli di Emmaus erano avviliti.
Ma le parole del CROCIFISSO-RISORTO hanno dissipato le nebbie: “Non ci bruciava forse il cuore alle sue parole?” [Lc. 24,32]).
“Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il Figlio dell’uomo perché te ne curi? ” Salmo 8

Adesso ascolta un po’ di Bach: ti farà bene all’anima.
videoLa Pasion segun San Mateo de JS Bach

HAI UN PESO SUL CUORE?

Fai ciò che Lui ti dirà.
Comincia da qui:

Visitazione della Beata Vergine Maria
video: Visitazione della Beata Vergine Maria

Incontrando Maria ha sussultato anche in te il Bambino che hai dentro?
Sappi che non lo cercheresti se non l’avessi già trovato.

Credo, ma aumenta la mia fede.

Rabbunì – Maestro!

MontezzemoloSignore, scava nella mia anima,
fai posto alla Tua Parola.
Claudia Koll-Il sorriso contagioso 0604_30″Ho visto il Signore!”.
(vedi Marco 6,3-11; Luca 24,8-11)

Maria [di Magdala] era rimasta a piangere vicino alla tomba.
A un tratto, chinandosi verso il sepolcro, vide due angeli vestiti di bianco. Stavano seduti dove prima c’era il corpo di Gesù, uno dalla parte della testa e uno dalla parte dei piedi.

Gli angeli le dissero: – Donna, perché piangi?
Maria rispose: – Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno messo. Mentre parlava si voltò e vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era lui.
Gesù le disse: – Perché piangi? Chi cerchi? Maria pensò che fosse il giardiniere e gli disse: – Signore, se tu l’hai portato via dimmi dove l’hai messo, e io andrò a prenderlo.
Gesù le disse: – Maria! Lei subito si voltò e gli disse: – Rabbunì! (che in ebraico vuoi dire: Maestro!).
- Lasciami, perché io non sono ancora tornato al Padre.
- Va’ e di’ ai miei fratelli che io torno al Padre mio e vostro, al Dio mio e vostro. Allora Maria di Màgdala andò dai discepoli e disse: “Ho visto il Signore!”. Poi riferì tutto quel che Gesù le aveva detto. (Gv 20, 11-18)

Claudia Koll : “Il messaggio che porto è quello della fiducia in Dio.
Un Dio che è amore, che è infinitamente buono, dolcissimo.
La vita acquista un senso diverso se lo si incontra.
Quindi bisogna fare di tutto per conoscerlo.
Se si conosce Gesù, lo si ama con forza e più lo si ama
più lui si fa conoscere”. (Claudia Koll).

Gesù, Maria, sono un’anima desolata!
Fatemi rifiorire la fede, la speranza, l’amore, la vita…
Gesù, fammi riassaporare la Pasqua!

DIAMOCI APPUNTAMENTO!

“Se due o tre si riuniscono per invocare il mio nome, io sono in mezzo a loro”.(Matteo 18, 18-20)

OGNI SERA
dalle 21 alle 21.30

SOS

Silenziosi Oranti Solidali
Melograno in fiore – Formato 800px-Melograno-fiore
Affinché si realizzino i disegni di Dio
in noi e nella Chiesa.

San Riccardo Pampuri 1179235202285Anche oggi il Signore pronuncia il tuo nome…
Anche a te oggi dice di non temere…
Ti chiama, oggi, per darti una speranza, da portare, da testimoniare nei luoghi del tuo vivere quotidiano…
Io, Riccardo, sono soltanto il Suo messaggero: “Guardate a Lui e sarete luminosi”. (Salmo 33)
SHEMÀ ISRAEL – Ascolta, Israele!

San Riccardo Cuore

Questo è il cuore di San Riccardo Pampuri.

Alla sorella, Suor Longina, missionaria a Il Cairo, scriveva:

O mia buona sorella, quanta miseria e quanta stoltezza in questo mio povero cuore, e quanta grettezza!
Non basta a commuoverlo nemmeno l’amore infinito di un Dio che si fa uomo, bambino, per lui, per cancellare il cumulo delle sue iniquità, a prezzo di ante pene, di tanti tormenti, di tutto il suo Divin Dangue” (23 NOv. 1925).

E l’anno successivo:

“Prega, o sorella carissima, perché il Signore sciola una volta per sempre il mio gelido cuore al calore ardentissimo della carità infinita che trabocca per noi poveri peccatori dal Cuore SS. di Gesù Crocifisso” (“9 Mar. 1926)

…Ma intanto i miracoli del Santo di Trivolzio RICCARDO PAMPURI si sus­seguono…

  • Ammalati gravi guariscono.
  • Bambini che non sembrava potessero nascere, nascono.
  • Tanti, tantissimi riacquistano la fede,
  • altri trovano la propria strada,
  • una chiamata, una vocazione….
  • In ogni parte del mondo. Anche a Cuba, da dove è arrivata la toccante testimonianza di un papà e del figlioletto di undici anni.
  • Fatti che accadono senza clamori, senza titoli sulle prime pagine.
  • Anche la vita di san Riccardo non aveva avuto titoli sulle prime pagine.
  • Una vita che è stata uno spettacolo di fede, come uno spettacolo di fede è quanto accade ogni giorno nella quiete di questo piccolo borgo della bassa…
  • o più semplicemente in casa, davanti al VIDEO, nel segreto della coscienza misteriosamente provocata e travolta da un desiderio di liberazione…

INCONTRO CON PAPA FRANCESCO ALL’UNIVERSITA’ SOPHIA DI TOKYO Pubblicato il 28 novembre 2019 da angelonocent

INCONTRO CON PAPA FRANCESCO ALL’UNIVERSITA’ SOPHIA DI TOKYO
Pubblicato il 28 novembre 2019 da angelonocent

Incontro all’Università Sophia di Tokyo con padre Juan Haidar, gesuita argentino di Santa Fé, allievo di Bergoglio dal 1985 al 1991 nella casa di formazione di Buenos Aires. Quando Bergoglio fu eletto Papa, padre Haidar segue l’evento in tv dal Giappone. “Ho provato una grandissima gioia”, ricorda. “Ma anche paura. Ho pensato subito che le persone avrebbero fatto fatica a capirlo, lo avrebbero criticato. Perché per capire Bergoglio bisogna avere occhi buoni”.

“A volte noi non crediamo nei giovani. Li vediamo sempre attaccati allo smartphone, distratti, poco interessati, quasi indifferenti. Bergoglio invece crede nelle persone. È convinto che Dio lavora in ogni cuore. Non è mai pessimista di fronte alla realtà. Mai”. È questa capacità di vedere il sole sempre, anche nella oscurità della notte, l’insegnamento più importante che padre Juan Haidar ha ricevuto da Papa Francesco.

Il gesuita, argentino di Santa Fé, insegna oggi filosofia all’Università Sophia di Tokyo. Lo incontriamo lì, indaffarato con poster e fogli in mano, tra i corridoi dell’ateneo dove tra pochi giorni arriverà il Santo Padre. Padre Haidar aveva solo 20 anni quando Bergoglio era Superiore della casa di formazione dei gesuiti a Buenos Aires. L’ha conosciuto così, negli anni che vanno dal 1985 al 1991, in un periodo in cui Bergoglio aveva già vissuto le atrocità del regime militare in Argentina e il vento di rinnovamento portato dal Concilio Vaticano II nella Chiesa. I giovani appena entrati nella casa di formazione, lo guardavano con interesse forse proprio per questo.

Per padre Haidar, Bergoglio era il “modello di gesuita”.“Se mi chiedi perché sono diventato gesuita, è anche perché ho visto in lui una scelta di vita che mi attraeva. Era una vita piena, che non scartava nulla, fatta di preghiera, di studio, di cura delle persone. E a me questa vita piaceva”.

Padre Haidar capisce subito che con Bergoglio poteva parlare di tutto. Aveva solo 20 anni ed aveva un bisogno immenso di confrontarsi con qualcuno anche sulle cose più private, sui fatti di tutti i giorni. Era come “un padre” per lui. Il ricordo si sposta subito sull’attenzione che Bergoglio aveva per i poveri. Era convinto che “erano le persone più vicine a Dio”. Ai giovani gesuiti, diceva di studiare con gli insegnanti dal lunedì al venerdì. Ma poi il sabato e la domenica dovevamo andare nei barrios e mettersi alla scuola dei poveri. Prendeva sul serio le parole del Vangelo: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”.

“Io però non provenivo da una famiglia povera e queste parole per me erano difficili da capire”, racconta padre Haider. “Mi chiedevo: ma cosa possono insegnarmi queste persone. È gente ubriaca, persa, ignorante. Ne parlavo spesso con Bergoglio. E lui mi diceva che se non partivo da queste persone, non potevo diventare un uomo di Dio.

Mi parlava anche della saggezza dei poveri: conoscono Dio molto meglio di te e di tanti teologi”.

Padre Haidar intravede in Bergoglio anche un modello di pedagogia che lo segnerà in futuro. “Quando gli parlavo, lui era veramente interessato a quello che gli stavo confidando. Non rispondeva con frasi fatte o concetti generali. Mai iniziava la frase dicendo, “come Karl Reiner scriveva…”. No, aveva una parola sempre originale, personale, adatta a te. L’unica cosa a cui teneva, era che noi crescessimo. Voleva che diventassimo persone migliori di quelle che eravamo. Era un continuo stimolo per noi studenti. Quello che ricordo è che con lui stavi bene, perché ti rispettava, ti illuminava”.

Poi la vita va avanti. Padre Haidar viene mandato in Giappone e Bergoglio diventa vescovo.“Quando è diventato vescovo ha continuato a vivere una vita povera perché non aveva bisogno niente. Aveva Dio, aveva le persone, aveva i poveri”.

Succede l’incredibile: il 13 marzo 2013, Bergoglio si affaccia dalla loggia centrale della Basilica Vaticana. Era diventato Papa. Padre Haidar segue l’evento in tv dal Giappone. “Ho provato una grandissima gioia ma anche paura”, ricorda. “Ho pensato subito che le persone avrebbero fatto fatica a capirlo, lo avrebbero criticato. Perché per capire Bergoglio bisogna avere degli occhi buoni”.

Anche quando era vescovo, padre Haider andava a cercare che cosa dicevano di lui sui giornali. “Bergoglio non è mai stato un politico. Però vuole cambiare la società. Lo fa in modo diverso, in modo evangelico, come Gesù. Ma per capirlo, bisogna avere occhi buoni”.

Quella di padre Haidar è quasi una premonizione. Papa Francesco in questi 6 anni di pontificato è stato spesso oggetto di critiche, talvolta di veri e propri attacchi. “Quando l’ho visto affacciarsi per la prima volta in piazza San Pietro, sembrava emozionato”, confida il gesuita. “Con il tempo è diventato se stesso, completamente libero, con una grande forza. Sono convinto di due cose. La prima è che i cardinali che oggi lo criticano, lo hanno scelto. L’altra è che anche Gesù è stato criticato. Per questo il Papa dice che le critiche non lo colpiscono. A noi ha insegnato a non avere mai paura di parlare con tutti, anche e soprattutto con chi ti critica. Ciò non vuol dire non avere un pensiero forte. Significa essere aperti a tutti”.

Padre Haidar è costantemente in contatto con Papa Francesco. Gli basta scrivere una mail che lui gli risponde subito. Spesso il Papa gli chiede come stanno le persone di comune conoscenza. Non perde mai il ricordo di nessuno. Lo è andato a trovare a Roma, nella casa di Santa Marta. Hanno celebrato insieme la messa e dopo la colazione, il Papa gli ha chiesto: “hai tempo per parlare un po’?”.

“Gli ho risposto che sì, certo che avevo tempo. Così siamo andati nella sua stanza e abbiamo parlato tantissimo. Ricordo che era un mercoledì, c’era udienza ed ero preoccupato che il Papa facesse tardi”. Quello che oggi a padre Haidar manca di più di Bergoglio è proprio quella libertà di parlargli sempre. In Argentina, stavano spesso insieme. Facevano lunghe passeggiate.

“Non so com’è oggi la sua vita. So che il Papa ha bisogno di stare con le persone, di parlare con loro, di interessarsi dei loro problemi, anche delle storie più semplici”.

Ora riceverlo a Sophia è “una grande emozione”.

Ci ha chiesto di non fare nulla, nessun discorso, nessuna canzone. Solo stare insieme e celebrare la messa. Anche per l’incontro con i giovani, ci ha detto che viene soprattutto per ascoltare gli studenti”. Alla fine dell’intervista, padre Haidar registra un video messaggio che tramite il Sir invia a Papa Francesco:

Caro Jorge, ti stiamo aspettando qui in Giappone con tanta gioia. Stiamo lavorando molto per preparare questa visita, ma siamo tutti molto contenti. Preparati bene, perché molte persone ti sta aspettando, soprattutto i giovani, tanto che non sappiamo dove metterli. Mi chiedono perché c’è soprattutto da parte dei giovani così tanta attesa. Io credo perché vedono in te un segno di speranza, un leader apprezzato nel mondo, una persona che predica il Vangelo ed è un discepolo di Gesù. Ti aspettiamo!”.

Qualcosa di più oltre l’ordine e l’efficienza
Francesco, nel suo discorso, ricorda che in Giappone, dove tanti martiri hanno dato “testimonianza della loro fede”, la presenza dei cristiani si sente nonostante siano una minoranza. In questo Paese, aggiunge il Papa, si percepisce “nonostante l’efficienza e l’ordine” caratteristici della società giapponese, che “si desidera e si cerca qualcosa di più”: “un desiderio profondo di creare una società sempre più umana, compassionevole e misericordiosa”. È necessario, sottolinea il Pontefice, che i centri di studio “mantengano la loro autonomia e libertà”. “In una società così competitiva e tecnologicamente orientata, questa Università – spiega il Santo Padre – dovrebbe essere non solo un centro di formazione intellettuale, ma anche un luogo in cui una società migliore e un futuro più ricco di speranza possono prendere forma”.

Scegliere il meglio

Altri temi toccati da Francesco sono la tutela della casa comune e l’identità internazionale dell’Università. Nello spirito dell’Enciclica Laudato Si’, osserva il Papa, l’amore per la natura “così tipico delle culture asiatiche”, qui dovrebbe “esprimersi in una preoccupazione intelligente e anticipatrice per la protezione della terra”. Francesco ricorda poi che l’Università Sophia, fin dalla sua fondazione, è stata arricchita “dalla presenza di professori provenienti da diversi Paesi”, a volte anche da Stati “in conflitto tra loro”. “Tutti – sottolinea – erano uniti dal desiderio di dare il meglio ai giovani del Giappone”.

Nessuno studente di questa università dovrebbe laurearsi senza aver imparato come scegliere, responsabilmente e liberamente, ciò che in coscienza sa essere il meglio. Possiate, in ogni situazione, anche in quelle più complesse, interessarvi a ciò che nella vostra condotta è giusto e umano, onesto e responsabile, come decisi difensori dei vulnerabili, e possiate esser conosciuti per quell’integrità che è tanto necessaria in questi momenti, nei quali le parole e le azioni sono spesso false o fuorvianti.

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Sono le nuove generazioni il futuro della Chiesa e del mondo. “La Chiesa universale – spiega il Papa – guarda con speranza e interesse ai giovani di tutto il mondo”:

La vostra Università nel suo insieme è chiamata a concentrarsi sui giovani, che non solo devono essere destinatari di un’educazione qualificata, ma anche partecipare a tale educazione, offrendo le loro idee e condividendo la loro visione e le speranze per il futuro. Possa la vostra Università essere conosciuta per questo modello di confronto e per l’arricchimento e la vitalità che esso produce.

Camminare con i poveri
In un tempo e in una società, profondamente lacerati dagli effetti della cultura dello scarto, Francesco esorta inoltre a “camminare con i poveri e gli emarginati del nostro mondo”. L’Università, sottolinea il Papa, dovrà essere “sempre aperta a creare un arcipelago in grado di mettere in relazione ciò che socialmente e culturalmente può essere concepito come separato”:

Gli emarginati saranno coinvolti e inseriti in modo creativo nel curriculum universitario, cercando di creare le condizioni perché ciò si traduca nella promozione di uno stile educativo capace di ridurre le fratture e le distanze. Lo studio universitario di qualità, piuttosto che essere considerato un privilegio di pochi, va accompagnato dalla consapevolezza di essere servitori della giustizia e del bene comune; servizio da attuare nell’area che ognuno è chiamato a sviluppare. Una causa che ci riguarda tutti; il consiglio di Pietro a Paolo è valido ancor oggi: non dimentichiamoci dei poveri.

Il Santo Padre esorta inoltre i giovani, i professori e tutto il personale dell’Università a “cercare, trovare e diffondere la Sapienza divina” e ad “offrire gioia e speranza alla società di oggi”. Le parole del discorso del Papa sono anche piene di gratitudine a “tutto il popolo giapponese” per l’accoglienza ricevuta durante la visita in Giappone. Poco dopo, con il trasferimento all’aeroporto e la partenza da Tokyo, si conclude il 32.mo viaggio apostolico di Francesco.

2019 – PAPA FRANCESCO IN GIAPPONE – Angelo Nocent

2019 – PAPA FRANCESCO IN GIAPPONE – Angelo Nocent
Pubblicato il 24 novembre 2019 da angelonocent

GIAPPONE-VATICANO Papa in Giappone: L’omaggio ai martiri di Nagasaki e a quelli di oggi

Papa Francesco visita e prega davanti al Memoriale dei martiri sulla collina di Nishizaki. Un luogo che racconta “l’oscurità della morte e del martirio”, ma “annuncia anche la luce della risurrezione”. I martiri giapponesi ispiratori della vocazione missionaria del papa. “Far ardere continuamente lo zelo evangelizzatore”. Appello per la libertà religiosa in Asia e nel mondo.

Nagasaki (AsiaNews) – La visita al Monumento dei martiri di Nagasaki – che ricorda la crocifissione di Paolo Miki e altri 25 compagni, fra cui tre bambini – inaugura la prima piena giornata del viaggio di papa Francesco in Giappone. Essa è l’occasione per parlare dei martiri del passato, ma anche dei martiri di oggi e per fare un appello alla libertà religiosa, un diritto che in Asia viene conculcato nella maggioranza dei Paesi.

All’arrivo sulla collina di Nishizaki in tarda mattinata, il pontefice è stato accolto dal direttore, p. Domenico Vitali, che nei giorni scorsi ha spiegato ad AsiaNews il valore del Monumento e del museo ad esso collegato. Una famiglia gli ha offerto dei fiori che il papa ha deposto davanti al Memoriale. Un discendente dei martiri gli consegna una candela che Francesco accende come segno di “luce”: “Sì, qui – ha detto poi – c’è l’oscurità della morte e del martirio, ma si annuncia anche la luce della risurrezione, dove il sangue dei martiri diventa seme della vita nuova che Cristo vuole donare a tutti noi”.

Dal punto di vista personale, questo è forse il punto culminante del viaggio del papa che da giovane gesuita voleva essere missionario proprio nel Paese del Sol levante. Egli lo ricorda nel suo saluto: “Vengo a questo monumento dedicato ai martiri per incontrarmi con questi uomini e donne santi, e voglio farlo con la piccolezza di quel giovane gesuita che veniva ‘dai confini della terra’ e trovò una profonda fonte di ispirazione e di rinnovamento nella storia dei primi missionari e martiri giapponesi. Non dimentichiamo l’amore del loro sacrificio! Che non resti una gloriosa reliquia di gesta passate, ben conservata e onorata in un museo, ma sia memoria e fuoco vivo dell’anima d ogni apostolato in questa terra, capace di rinnovare e far ardere continuamente lo zelo evangelizzatore”.

Francesco ricorda anche la visita allo stesso luogo compiuta dal suo predecessore: “Giovanni Paolo II vide questo luogo non solo come il monte dei martiri, ma come un vero Monte delle Beatitudini, dove possiamo percepire la testimonianza di uomini ricolmi di Spirito Santo, liberi dall’egoismo, dalle comodità e dall’orgoglio (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 65). Perché qui la luce del Vangelo ha brillato nell’amore che trionfava sulla persecuzione e sulla spada. Questo luogo è prima di tutto un monumento che annuncia la Pasqua, poiché proclama che l’ultima parola – nonostante tutte le prove contrarie – non appartiene alla morte, ma alla vita. Non siamo chiamati alla morte, ma a una Vita in pienezza; loro lo hanno annunciato”.

Il pensiero va poi ai martiri del nostro tempo. Il papa non cita nessuna nazione, ma vicino al Giappone vi sono i cristiani della Corea del Nord e quelli della Cina che rientrano nella sua definizione, e più lontano i molti perseguitati dal fondamentalismo. “Fratelli – dice – in questo luogo ci uniamo anche ai cristiani che in tante parti del mondo oggi soffrono e vivono il martirio a causa della fede. Martiri del secolo XXI, che ci interpellano con la loro testimonianza affinché prendiamo, con coraggio, la via delle Beatitudini. Preghiamo per loro e con loro, e alziamo la voce perché la libertà religiosa sia garantita a tutti e in ogni angolo del pianeta; e alziamo la voce anche contro ogni manipolazione delle religioni, operata «dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini» (Documento sulla fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019)”.

Dopo aver recitato l’Angelus, e prima di partire per celebrare la messa nello Stadio di Baseball, al Papa viene offerta un’immagine del beato Giuliano Nakaura, un giovane nobile giapponese che prese parte alla storica missione diplomatica a Roma nel 1585 e che, divenuto sacerdote gesuita, morì martire durante le persecuzioni contro i cristiani. Egli fa parte dei 188 martiri giapponesi beatificati a Nagasaki nel 2008.

Da AsiaNew.it

GIORGIO LA PIRA UOMO D’ALTRI TEMPI – Angelo Nocent

GIORGIO LA PIRA UN POLITICO D’ALTRI TEMPI

Angelo Nocent

Pubblicato il 5 novembre 2019 da angelonocent

Ho attraversato varie volte i sotterranei del pensiero: ho bussato a molte porte, come un povero mendicante, per avere pane di sapere, ho rifatto mille strade, mille mondi, ho amato mille cose: sono stato troppo vagabondo in questo errare senza posa alla ricerca di un po’ di pace per l’anima mia: io ho sempre avuto in me sete di ascesi, sete di profondo annullamento del mio essere che si ricollega a Dio”.
Se queste parole non fossero state scritte da Giorgio La Pira (1904-1977) stenteremmo a crederle appartenenti a un politico!

GIORGIO LA PIRA
A chi gli obiettava che non era giusto utilizzare i fondi del Comune per fare la carità rispondeva: “Non è carità. E’ giustizia!”

Siciliano di origine (nasce a Pozzallo, in provincia di Ragusa, il 9 gennaio del 1904), La Pira ricoprì prestigiose cariche istituzionali (sottosegretario al Ministero del Lavoro, sindaco di Firenze per tre volte, membro della Camera dei Deputati). A sei anni dalla morte gli vennero riconosciute le virtù eroiche e la fama di santità che portarono l’arcivescovo di Firenze, Silvano Piovanelli, a presentare, nel 1983, la richiesta per introdurre la causa di beatificazione.

POSTE ITALIANE – “L’OBIETTIVO DEVE ESSERE PER OGNI UOMO IL RISPETTO DEL SUO VALORE, PER CIASCUNA CREATURA LA POSSIBILITA’ DELLA MOLTIPLICAZIONE DEI PROPRI TALENTI. E SPERIAMO CHE IL SIGNORE CI AIUTI”. HO UN SOLO ALLEATO: LA GIUSTIZIA FRATERNA QUALE IL VANGELO LA PRESENTA. CIO’ SIGNIFICA LAVORO PER CHI NE MANCA, CASA PER CHI NE E’ PRIVO, ASSISTENZA PER CHI NE NECESSITA, LIBERTA’ SPIRITUALE E POLITICA PER TUTTI. LA NOSTRA VOCAZIONE SOCIALE.

Non era strano incontrarlo per le strade di Firenze con le tasche dell’impermeabile piene di fogliettini che la povera gente gli consegnava per chiedergli di essere aiutata. A chi gli obiettava che non era giusto utilizzare i fondi del Comune per fare la carità, La Pira rispondeva: “Non è carità. E’ giustizia!”. Ancor prima di ricoprire le cariche dello Stato utilizzava il suo stipendio di docente universitario per alleviare le difficoltà economiche di qualche povero sventurato e una volta, a chi lo aveva fermato per chiedere un aiuto, rispose: “E tu il 29 del mese vieni? Dovevi venire il 27 (giorno in cui si ritirava la paga). Ormai ho dato via tutto!”.

Tanti sono gli episodi che raccontano l’onestà e il senso dello Stato vissuti dall’illustre Sindaco di Firenze, sempre ancorato agli ideali di fede cristiana. Durante una delle sue visite istituzionali in Russia sentendo il rammarico del suo segretario nel vedere le poche chiese deserte, frequentate solo da alcune vecchiette con una candelina in mano, rispose: “Tu dovresti dedicarti alla teologia delle vecchine. Vedi, se queste vecchine non tenessero accesa la fiammella della fede in Cristo, dove troverebbero le nuove generazioni russe il fuoco per accendere l’incendio cristiano che inevitabilmente verrà?”.

Per comprendere – anche dal punto di vista internazionale – la caratura di questo straordinario politico italiano, basterà rileggere ciò che il 29 giugno 1955 il quotidiano francese Le Monde scrisse di lui: “Giorgio La Pira: chi non conosce oggi questo piccolo uomo vivace e dolce, questo ‘cristiano da choc’, che si è lanciato nella vita pubblica senza nulla concedere alla potenza del denaro, né perdere nulla del suo temperamento d’asceta? Il fatto è tanto raro che sembra un miracolo. Totalmente povero, una camera d’ospedale per casa, votato al celibato, La Pira attraversa gli onori senza vederli. Coltiva due grandi amori: l’amore per gli operai e per gli Ordini contemplativi con i quali intrattiene rapporti costanti”.

Terminata la seconda guerra mondiale, La Pira – insieme a Moro e Togliatti, e ad altri nomi illustri – fu nominato membro della commissione che avrebbe dovuto formulare i principi fondamentali della Costituzione italiana. La Pira si preparò a questo particolare momento storico per l’Italia con grandissima e scrupolosa serietà che lo portò a studiare per mesi quasi tutte le Costituzioni presenti nel mondo. Il lavoro svolto da Giorgio La Pira, in quella particolare circostanza, si rivelò fondamentale per i tantissimi aspetti e le novità che avrebbero cambiato il corso della storia italiana, e anche per la stipula dei rapporti tra Stato e Chiesa. “Solo su un punto – racconta padre Antonio Maria Sicari in una biografia di La Pira – si ritrovò isolato, quando, in sede di votazione, propose di sua spontanea iniziativa che l’intestazione della Costituzione italiana si aprisse ‘nel nome di Dio’. Reagirono per primi, preoccupatissimi, i suoi stessi amici: ‘Vuoi far mettere ai voti Dio, col rischio di far emergere che in questa Assemblea Dio è in minoranza?’. Allora col pianto nel cuore, La Pira si alzò a spiegare il suo intento: ‘Cercavo una convergenza, non una divergenza’, disse. Poi ritirò l’emendamento. Finì il suo intervento appassionato mentre tutti restavano in assoluto silenzio, concludendo con un lento, largo segno di Croce. E tutta l’Assemblea, silenziosamente, si alzò in piedi in segno di rispetto”.

Per papa Giovanni Paolo II, Giorgio La Pira era una figura esemplare di laico cristiano: “Fedele al Magistero della Chiesa, ebbe il senso della laicità autentica e della giusta autonomia dei fedeli nell’ambito delle realtà secolari. Intese la funzione pubblica come servizio al bene comune, sottratto ai condizionamenti del potere ed alla ricerca del prestigio o dell’interesse personale”.
Ci chiediamo, con struggente rammarico: che cosa sarebbe oggi la politica italiana e l’Italia stessa se l’esempio di questo “santo politico” avesse fatto scuola? (Michelangelo Nasca).

Giorgio La Pira

RICCARDO PAMPURI IL SANTO FRAGILE – Angelo Nocent

RICCARDO PAMPURI IL SANTO FRAGILE – Angelo Nocent
Pubblicato il 3 novembre 2019 da angelonocent

LA FORZA DELLA FRAGILITA’
Chi si è occupato di San Riccardo Pampuri in questi anni lo ha definito in tanti modi ma con una percezone comune. Vale per tutte il “SANTO SEMPLICE” di Laura Cioni. Nella prefazione di Luigi Giussani si legge che “la figura di san Riccardo Pampuri, recentemente riscoperta dalla devozione popolare, offre un esempio di santità nell’epoca contemporanea. Vissuto nella prima metà del 1900, il Dottor Erminio Pampuri si dedicò interamente ai propri pazienti, si interessò all’evangelizzazione nelle forme dell’apostolato laicale, compì la sua vocazione con il nome di fra Riccardo, come religioso tra i Fatebenefratelli, voluti da san Giovanni di Dio quattro secoli prima. Personalità tenace e mite, egli maturò il senso della sua esistenza nell’obbedienza alle circostanze che gli furono date da vivere, servendo il proprio popolo nella vita civile e coltivando la pietà nei modi della sua epoca. La sua esistenza, priva di ogni evento che possa essere giudicato eccezionale, mostra in modo luminoso quanto la presenza di Cristo agisca sugli uomini di ogni tempo. L’eroismo semplice della sua vita quotidiana, se da un lato lo accomuna a tanti grandi santi della tradizione cattolica, dall’altro lo rende adatto a indicare una forma di vita cristiana praticabile oggi”.
Recentemente anche il vescovo di Pavia Corrado Sanguineti nell’omelia per la festa del santo si è riferito a questa biografia. Tutto vero. Ma a forza di tornarci sopra, oggi mi sentirei di riassumere Fra Riccardo in due parole: il SANTO FRAGILE. Anche se mi rendo conti che la santità sfuggono alle semplificazioni. Riccardo è un UOMO DI VETRO che ha mostrato la sua fragilità a tutti coloro che lo hanno incontrato. Già i suoi paesani riferendosi al loro medico condotto, lo definivano “il dottorino santo“, dove il fiuto popolare in quel “dottorino” faceva emerge la sua identificazione: una fragilità ammirevole, un pregio come fosse un cristallo di Boemia, la forza che lo ha aiutato a vivere.
Quanto segue vorrebbe spiegarne il motivo di questa sua FRAGILITA’ sulla quale i biografi non hanno mai dato molta rilevanza. Epperò, vorrei evidenziare che non siamo in presenza di un nano ma di un gigante che potrebbe, anzi, ha fatto sua l’esperienza di San Paolo: “Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10)

A dar man forte mi viene in aiuto il noto psichiatra italiano Vittorino Andreoli che ha riportato al centro della scena e della riflessione collettiva il tema della fragilità, una parola che era diventata desueta. La sua tesi è che se la debolezza è da curare, la fragilità è da interpretare come caratteristica principe della condizione umana, che nulla ha a che fare con la patologia. La fragilità, infatti, non è un sintomo ma una dote, perché contiene in sé il bisogno che l’uomo ha dell’altro. La persona fragile tende a unirsi a un’altra persona fragile, e due fragilità insieme aiutano a vivere, perché costituiscono l’origine dell’amore. L’uomo fragile, sostiene Andreoli, è l’uomo per eccellenza, perché fa dei propri limiti una ricchezza. Infatti, laddove la forza impone, respinge e reprime, la fragilità accoglie, incoraggia e comprende. E mette in circolo quanto di più umano abbiamo da offrire. Bene: fra i tanti che gli hanno voluto bene e si sono presi cura di lui orfano di enrtrambi i genitori, a cominciare dagli zii, l’altra Persona che ha incontrato ERMINIO PAMPURI ha un nome divino: GESU’.
La filologia ci dice che Gesù è l’adattamento italiano del nome aramaico יֵשׁוּעַ (Yeshu’a), passato in greco biblico come Ἰησοῦς (Iēsoûs) e in latino biblico come Iesus; si tratta di una tarda traduzione aramaica del nome ebraico יְהוֹשֻׁעַ (Yehoshu’a), ovvero Giosuè, che ha il significato di “YHWH è salvezza”, “YHWH salva”. Dunque ha scelto di mettersi in buone mani.
CIMITERO

La parola « cimitero » deriva dal greco κοιμητήριον (koimetérion, « luogo di riposo »: il verbo κοιμιν (« koimân ») significa « fare addormentare »), attraverso il tardo latino cimiterium.

Non conosco il cimitero dove riposano i genitori di Erminio, ma, in fondo in fondo, – non dico quelli monumentali delle città – i cimiteri dei nostri paesi si assomigliano tutti: un’entrata scarna: un cancello, un arco, una scritta del tipo In pace Christi requiescant, oppure Resurrecturis, sui muri una tintura bianca o paglierina, un lungo viale di ghiaia bianca, ombreggiato da altissimi cipressi, stradine trasversali, lapidi di ogni età e ceto, cappelle di famiglia, una Croce dominante, un silenzio di tomba, rotto di tanto in tanto dagli scavatori di nuove fosse o dal salmodiare per nuova sepoltura.

Quando hanno seppellito mia madre, ottantaduenne, io alla vigilia dei sessanta, nei giorni successivi, girovagando inosservato lungo i perimetri della muraglia, in cerca sulle lapidi di visi noti e cari alla memoria, mi son messo a raccogliere sassi, quelli più grossi, usciti di fresco dagli scavi e, man mano, uno, due alla volta li portavo sulla sua tomba e li collocavo intorno al cumulo di terra, perimetrando le quattro spanne che il Comune concede in usufrutto ad ogni deceduto.

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Canposanto
La tomba provvisoria, fatta con le mie mani, in attesa dell’assestamento del terreno, sembrava tenuta insieme da una corona del rosario.

I grani di sasso partivano dalla Croce di legno posta al centro, proprio sopra il capo di lei che la Croce l’ ha sempre avuta in testa, e facevano un giro rettangolare lungo quanto una persona avvolta nel sonno della morte, per ricongiungersi alla Croce.

Piccolo gesto di pietà filiale il mio che ha provocato un breve suo risveglio per sussurrarmi, da là sotto, parole arcane venute presto in superficie.

Sì, un brusio lieve ed accorato che solo io potevo percepire, per ricordarmi che in Dio si nasce e, per tornare a Lui, si muore. Dopo, silenzio muto.

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Un attimo per metabolizzare quel messaggio di presenza viva di cui le sono grato e subito dal cuore uno sgorgare fluido di versi e di preghiera che ho scritto sulla nuda terra e che riporto qua con commozione:

“Di te giacconi qui, sotto le pietre,

Madre, solo le stanche spoglie.

Ma la tua vita è ormai

eternamente in Dio

Arrivederci, mamma.

che finalmente vedi.

E, nell’attesa dell’evento,

di quel prodigio di risurrezione

di questa nostra carne deperita,

prega per noi ed intercedi. Amen”.

Ho riportato la mia esperienza di uomo adulto semplicemente per dire che certe vicende, dolorose anche per gli adulti, se si fanno da bambini, non si possono cancellare dalla memoria come un brutto sogno da dimenticare in fretta. Perché un segno lo lasciano. E duraturo.

Non so se ed in quale Camposanto esiste traccia della tomba dei genitori di Erminio Filippo, papà Innocente Pampuri e mamma Angela Camparidi. Non posso credere però che da quel 25 Marzo 1900, festa dell’Annunciazione, e per tanti anni ancora, mamma Angelina dal Cielo non abbia parlato al cuore dei suoi bambini, per un miracolo che Dio è lieto di concedere ai papà e alle mamme di tutto il mondo. Diversamente, cosa ci si andrebbe a fare al cimitero, per parlare con un « cinere muto » o per rimestar nelle ferite?

Immagino le tante volte che il piccolo Erminio, a piedi con zia Maria o con la domestica Carolina e in calesse quando veniva anche lo zio Carlo, un bel mazzo di fiori freschi appena colti, avrà fatto il tratto di strada che da Torrino, dove abitavano, conduce al cimitero.

E lo vedo andarci da solo, ormai più grande, quando il cuore si rassegna ma non dimentica ed ha bisogno di starsene lì, in solitudine, inosservato, a dialogare.

Scorgo i cipressi che svettano da lontano e sembrano toccare il cielo. Odo il rumore dei passi del piccolo Erminio che affondano nella ghiaia del viale, mano nella mano, quasi trascinato verso la tomba di famiglia dove riposano, lei per prima, madre di undici figli, morta di tisi quando Emilio aveva solo tre anni, e poi lui, morto in un incidente stradale quando il bambino ne aveva dieci.

Quegl’occhi belli d’ innocenza, attenti e spalancati più del solito, straziano il cuore dei visitatori che lo conoscono e penano per lui che posa di tomba in tomba il mesto sguardo, fin che dei suoi non trova il lungo del riposo e dell’attesa e incroci i loro sguardi nelle foto. Un bacio, una carezza, un Requiem intonato ad alta voce, mentre tutti si segnano.

Tre anni appena, la zia Maria gli prende la docile manina e gliela porta sulla fronte. Con voce tremula lo segna, prima di dare inizio al rito che si ripete in ogni cimitero: erbacce da strappare, andare a prender acqua alla fontana, rimuovere i fiori appassiti e ricomporre il mazzo floreale di taglio fresco di giardino.

E lui, piccino, attratto più dalla fiammella del lume ad olio, ricaricato e acceso per durare un giorno.

E loro che lo lascian fare, sperando di evitare le domande imbarazzanti. Che vengono lo stesso dopo le preghiere e i tanti baci impressi sulle foto:

“ Zia, perché?…Perché?…E dove sono? “, le chiede il bambino ingenuo dalle pure labbra. Scava senza pietà su quei destini, interroga, rovista nella mente della sua tutrice…Come potrebbe il cuore darsi pace senza una ragione?

Poi le risposte imbarazzate degl’accompagnatori, dure a venir fuori senza strozzarsi in gola e inumidire gl’occhi.

La zia Maria per prender tempo, cerca nella borsetta il fazzoletto bianco merlettato; si asciuga il naso, gl’occhi e poi si fa coraggio: “Nanin, sono andati in Paradiso…Gesù li ha presi e li ha portati via con sé…”
– E perché? E fino a quando? E dopo…?

CAMPOSANTO O DEL DOLORE INNOCENTE

Non si tratta di un luogo di terra ma di una dimensione dello spirito che ci si porta dietro ovunque. Ecco: è qui che avviene, di volta in volta, il grande impatto col dolore. Le scarpe non s’impolverano nella ghiaia perché le lapidi, come icone, riaffiorano nella mente che va in processione tra i filari di dormienti, li passa in rassegna, per poi fermarsi e sostare davanti alla zolla che più coinvolge il cuore e che racchiude un prodigio che è già ma non ancora:

« Se il seme di frumento non finisce sottoterra e non muore, non porta frutto. Se muore, invece, porta molto frutto. Ve l’assicuro. 25Chi ama la propria vita la perderà. Chi è pronto a perdere la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io ci saranno anche quelli che mi servono. E chi serve me sarà onorato dal Padre ». (Gv 12, 24-26)

E’ da questo luogo geografico che Erminio entra in confidenza con l’altra dimensione. E’ qui che inizia la presa di coscienza del miracolo della Grazia che lo accompagnerà per tutti gl’anni, fino al giorno del ricongiungimento in Paradiso.

Voce del Maestro interiore, dello Spirito, dapprima confusa, indefinita e poi sempre più chiara col passar degl’anni, che gli sussurra le sole parole convincenti : Gesù non è quel “cattivo” che ruba i genitori ai bambini proprio quando hanno più bisogno di carezze che di pane.

Poveretti i grandi; si perdono davanti al dolore innocente, balbettano e non convincono nessuno, men che meno se stessi.

Ho voluto soffermarmi perché le biografie sorvolano sul fatto, come se non si trattasse di un tragico evento ma di una semplice disgrazia, punto e basta.

Mi piacerebbe chiederlo a Giovanni Paolo II che ha fatto la medesima dolorosa esperienza, se per caso quei ripetuti lutti in famiglia non gli abbiano segnato per sempre la vita.

Mi è più facile interrogare un ragazzo di nove anni più grande del Pampuri: il poeta Giuseppe Ungaretti (1888), combattente anche lui sul Carso, quando a Villavicentina e dintorni anche il nostro prestava servizio militare in sanità.

Quando Erminio era liceale, Ungaretti non era ancora entrato nei libri di letteratura. Lui che non ha potuto trovare sollievo nelle liriche del poeta, ha però trovato conforto e sostegno nelle pagine più robuste delle Divine Scritture.

A noi fa bene accostare entrambi i personaggi che esprimono sensibilità diverse in un comune destino di marcata sofferenza.

I lutti di due guerre, la seconda appena conclusa, hanno influito enormemente sullo spirito del poeta, che s’è fatto sempre più cupo e addolorato. E’ utile sentire questa voce che distoglie l’attenzione dalla ricerca della dimensione metafisica e si cala nuovamente nella tragica realtà della vita di tutti i giorni, angosciato dalla perdita del fratello e successivamente anche del figlio.

Egli assiste impotente allo sfascio e alla distruzione dello Stato Fascista nel cui grembo per molti anni si è sentito al sicuro, ed è costretto a prendere atto dell’orrore della sistematica deportazione in Germania di connazionali ebrei e dissidenti. Questi eventi lo sconvolgono. Perso il ruolo di poeta “ufficiale” all’interno delle istituzioni e sospeso dalla cattedra universitaria, Ungaretti viene colpito da un primo infarto. Come già era successo durante il precedente conflitto mondiale, il poeta si cala nel dramma – quello suo personale per la perdita del figlio e quello del popolo italiano – e riversa nel terzo libro di poesie tutto il dolore che percepisce dentro e intorno a sé.

Egli, come pochi, sa interpretare la tragedia della vita, anche per la sua sua indole: «Le mie poesie sono ciò che saranno tutte le mie poesie che verranno dopo, cioè poesie che hanno un fondamento in uno stato psicologico strettamente dipendente dalla mia biografia; non conosco sognare poetico che non sia fondato sulla mia esperienza diretta» (Da Vita di un uomo p. 511). E come afferma in un’intervista televisiva: Il Dolore fu scritto piangendo. «Il dolore è il libro che di più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi parrebbe d’essere impudico. Quel dolore non finirà più di straziarmi» (Vita di un uomo p. 543). Pubblicata nel 1947, la terza raccolta di Giuseppe Ungaretti, attraverso questa serie di liriche strazianti, ci è dato di cogliere il vero dolore del poeta.

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Pubblicata nel 1947, la terza raccolta di Giuseppe Ungaretti, attraverso questa serie di liriche strazianti, ci è dato di cogliere il vero dolore del poeta.

Da Giorno per giorno

Da Roma occupata.

È stato scritto che questa è la poesia più accorta e più religiosa, nella quale al dolore personale Ungaretti trasfonde l’angoscia del popolo romano per l’umiliante ferita delle deportazioni, dove si fa più drammatica e tesa la sua confessione di fede. Ecco i bellissimi versi di questa tensione sacrale:

Che si rafforza ulteriormente nella terza parte della lirica:

Il giudizio critico di Attilio Cannella:

Da I ricordi

La poesia più paradossale ed ermetica è Non Gridate più, in cui il poeta invoca di rispettare i morti e di cessare la guerra.

« La forza degli imperativi non è quella del comando », ha scritto Guido Baldi.E’ invece un pregare vibrante e dolente che appartiene anche a Fra Riccardo. Egli non va in convento a battere in ritirata ma trascinandosi dietro il carro delle immagini della guerra, della miseria contadina della sua gente, dei valori della solidarietà e della pietà dei suoi di casa e della comunità ecclesiale.

Egli non ha la voce possente e persuasiva di poeta per gridare al mondo di superare odi e divisioni di parte di cui è insanguinata la vita politica e civile dell’Italia, indirizzata verso un secondo conflitto mondiale, senza aver appreso la precedente. Suo fratello è uno dei tanti, tantissimi caduti, cui è stato chiesto un sacrificio davvero inutile.

Ma la vita continua e va difesa, salvata. E Fra Riccardo lo fa raccogliendosi nel silenzio di un Convento-Ospedale. Tra un letto di corsia e l’altro o nella penombra della chiesa, ascolta le voci di ieri ed i nuovi lamenti. Epperò il suo orecchio ormai è sempre più teso a cogliere “l’impercettibile sussurro”, quel lieve mormorio come di vento, che è la voce dello Spirito. E si fa condurre per mano e sostenere nella faticosa salita di agnello mansueto, candidato all’immolazione amorosa, per un misterioso disegno di Dio.

Angelo Montonati, nell’ammettere che quella di Erminio è stata un’adolescenza difficile per la successione dei lutti in famiglia, scrive che non serve scomodare Freud. Benissimo. Allora, poiché il Dr. Pampuri non è stato chiamato a scrivere la teologia del dolore innocente, ma a viverla nella sua carne, non certo nella forma di motuleso ma in quella non certo meno atroce di corpo straziato dalla tisi e, prima ancora di cuore trafitto dalla spada dei lutti, perché non scomodare un altro coetaneo del Pampuri, di soli cinque anni più giovane di lui?

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Intendo dire Don CARLO GNOCCHI (25/10/1902-28/02/1956).

Parlando di lui, Antonio Sicari scrive: “Nessuno può pretendere di spiegare a un bambino innocente perché soffre, ma è triste che nessuno gli spieghi per Chi soffrire e con Chi soffrire”.

E Don Gnocchi, che ha fatto la guerra in prima linea con gli alpini e che sul fronte insanguinato e popolato di infiniti lutti ha maturato l’idea di dedicare la vita al dolore innocente, ha passato i suoi giorni a spiegarlo. Ora, chi meglio di lui può aiutarci a districare questa ingarbugliata matassa ?

Egli in questo campo è stato precursore e maestro: “La pedagogia del dolore tende innanzitutto a insegnare ai bimbi che il dolore non si deve tenerlo per sé, ma bisogna farne dono agli altri e il dolore ha un grande potere sul cuore di Dio, di cui bisogna avvalersi a vantaggio di molti”.

Lui chiedeva ai mutilatini di offrire il dolore per la conversione del babbo, per un missionario lontano, per la fine di una guerra, per un delinquente, per le intenzioni del Papa.

Era dell’idea che nella Messa le nostre sofferenze vanno presentate a Gesù e mescolate con le Sue come le gocce d’acqua nel vino.

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Fra Riccardo che potrà dire sul letto di morte: “L’ho amato tanto e tanto lo amo“, è un’anticipata conferma delle tesi di Don Gnocchi. Con la perdita di mamma e babbo, egli ha ricevuto la visita-adozione del “Dulcis hospes animae, dulce refrigerium”, di quell’ ”Ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo” che lo è per chi non vi frappone il rancore.

Egli non ha esitato ad aprire a Colui che sta alla porta e bussa ed è iniziata la Cena che ormai s’è fatta dimora stabile nell’Ottavo giorno senza tramonto: « Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta io verrò da lui cenerò con lui ed egli con me » (Ap. ,20-22).

Va dato merito alla sua famiglia adottiva ed anche alla sorella, suor Maria Longina, che le ha fatto anche da mamma prima di partire per la missione al Cairo e ancor da là, con la corrispondenza, se Erminio ne è uscito senza grossi traumi. Non ci è dato disapere come ha sublimato questo suo dolore segreto, ma è indubbio che ha saputo valorizzarlo.

Indubbiamente non ha capito subito perché si deve soffrire ma il « per Chi soffrire e con Chi soffrire » lo ha imparato molto presto, per un dono che viene dall’alto. In fondo questa era l’inaspettata sua vera vocazione.

Se si pone ben attenzione a questo ragazzo, si scopre che, come Teresa , è il frate della debolezza, accolto in convento nonostante la nota sua gracile salute. Chi lo ha ammesso, ha profeticamente intuìto che egli aveva qualcosa d’importante da dire e da dare ai suoi fratelli e al mondo intero.

Proviamo a fissarlo ora in questa foto da religioso postulante:

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Il dolore è scritto sul suo viso scarno, emaciato. Una pleurite presa sul fronte del Piave, lentamente lo consuma come una candela, fino ad annientarlo.

Cos’ha da dire al mondo un ragazzo « stroncato« , riuscito a metà, seppur con una laurea di successo in medicina e chirurgia (110 e lode) ?

Cos’ha da dire un serio professionista, medico condotto, ma che si ritrova, di fatto, impotente e crocifisso da una pleurite buscata per un’impresa di generosità al fronte, che poi degenera e non gli darà tregua, fino a schiantarlo a 33 anni?

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Gli è che Fra Riccardo, quest’arancia matura e succosa, pronta per essere spremuta, ha posto la sua vita sotto il segno della Croce e per questo è diventato sapiente. Di una sapienza che non ha finito di sprigionarsi ancora, là, sulla sua tomba a Trivolzio di Pavia.

Nei primi giorni della nuova vita scriveva: «Mi appoggerò al Suo SS. Cuore, mi metterò sotto la sicura protezione delle ali del suo infinito amore ed Egli mi prenderà per mano… e mi condurrà sicuro oltre ogni scoglio nel porto della salute» (23 agosto 1927).

Il Camposanto, con il suo simbolico linguaggio, fin da bambino lo ha instradato sulla Gerusalemme-Gerico, a fare l’esperienza di entrambi i ruoli: di samaritano e dello sventurato che misteriosi ladroni lo hanno reso per anni « un morto che cammina ».

IL PROVOCATORE

Quella del Pampuri è una morte annunciata che risuona come una provocazione profetica per il suo ed il nostro tempo. Sul Catechismo dei Giovani (CEI) si legge: « Non è infatti il patire, che Gesù ha cercato camminando incontro alla sua morte, ma l’obbedienza a Dio, la verità e l’amore per l’uomo. Se questa ricerca lo ha condotto al Calvario, non è in esso che egli riconosce il termine del suo cammino. La croce per Gesù è soltanto il prezzo della fedeltà e dell’amore » (p.149).

Il Card. Martini commenta: « Se poi l’obbedienza è il nome che assume la propria risposta alla vocazione del Padre, come la croce nella luce della Pasqua ci chiama alla comunione dell’obbedienza di Cristo, così la sofferenza può presentarsi – lo dico con tremore – come una vocazione, cui Egli chiama ».

Nel caso del Pampuri, non è più il caso di tremare: la chiamata c’è stata e la risposta immediata e generosa: eccomi!

Alle lacrime degli innocenti nessuno di noi sa dare consolazione. Fra Riccardo è stato chiamato a parlare con la vita per i sofferenti di questo mondo che si era scrupolosamente preparato a servire al meglio. Il suo quarto voto di ospitalità ha trovato il suo pieno significato, fino a tramutarsi in carisma, proprio prendendo parte alle sofferenze che intendeva combattere e debellare, diventando così un annunciatore credibile della compassione divina. Ciò gli permette di esortarci anche oggi alla compassione umana.

Chi ha lacrime da versare, trova in lui un contenitore. Oggi, il suo ruolo di frate dell’ hospitalitas è di presentarle al trono di Dio.

Elevato agli onori degli altari, posto al centro, ci fa capire che il centro non è la sua persona, ma CRISTO, che egli solo rappresenta. Viene a dirci, come lo stesso Papa Giovanni Paolo II che lo ha proclamato santo, « mi glorio della mia debolezza« . (2 Cor 12,10)

Nessuno di noi è chiamato a costruire qualcosa per se stesso, non siamo noi a costruire la Chiesa universale: la forza viene da un’altra parte. A noi, l’esortazione dell’Apostolo che fra Riccardo ha preso alla lettera: « Per conto mio mi prodigherò volentieri, anzi consumerò me stesso per le vostre anime. » (2 Cor 12,14)

Se fosse andata diversamente, l’astio verso Dio avrebbe potuto cambiargli l’esistenza e, forse, non saremmo qui a parlarne.

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Da quelle ripetute visite di Erminio al Camposanto, come per incanto, è maturato un Santo per il Campo di Dio-la Chiesa: Fra Riccardo Pampuri.

PAMPURI RICCARDO & ABRAMO – Angelo Nocent

PAMPURI & ABRAMO – Angelo Nocent

ABRAMO Genesi 12

https://youtu.be/MXzmVtf-ARQ

https://youtu.be/RVWNEuC3To8

RIT. Esci dalla tua terra e và, dove ti mostrerò. (2 Volte)
Abramo non andare, non partire,
non lasciare la tua casa,
cosa speri di trovar?
La strada è sempre quella,
ma la gente è differente, ti è nemica,
dove speri di arrivar?
Quello che lasci tu lo conosci,
il tuo Signore cosa ti dà?
– Un popolo, la terra, la promessa –
Parola di Jahvè. RIT.

La rete sulla spiaggia abbandonata
l’han lasciata i pescatori,
son partiti con Gesù.
La folla che osannava se n’è andata
ma il silenzio una domanda
sembra ai dodici portar:
Quello che lasci tu lo conosci,
il tuo Signore cosa ti dà?
– Il centuplo quaggiù e l’eternità –
Parola di Gesù. RIT.

Partire non è tutto
certamente, c’è chi parte e non dà niente,
cerca solo libertà.
Partire con la fede nel Signore,
con l’amore aperto a tutti,
può cambiar l’umanità.
Quello che lasci tu lo conosci,
quello che porti vale di più.
– Andate e predicate il mio Vangelo –
Parola di Gesù. RIT.

VOCAZIONE è la proposta autorevole di una meta e di un cammino per arrivare alla libertà.

Un giorno alcuni GRECI chiesero a Filippo (uno dei dodici apostoli): “Signore, vorremmo vedere Gesù” (Gv12,20-28). Ancora oggi chi vuol vedere Gesù deve interrogare i suoi discepoli, Accanto a quelli di sempre, io ho scelto un dei nostri giorni, giovane, medico, frate e popolare. Aveva familiarità con i Vangeli e si ricordava bene di quell’ INVERNO di Gesù presente a Gerusalemme per la festa della riconsacrazione del Tempio. Mentre passeggiava nel portico di Salomone la folla degli Ebre lo circondarono e gli disse: “Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il MESSIA dillo apertamente”. Gesù rispose: “Ve l’ho detto e voi non credete. Le opere che faccioper incarico del Padre mio testimoniano a mio avore. Ma voi non credete perché non appartenete al mio gregge. Le mie pecore ASCOLTANO LA MIA VOCE e io LE CONOSCO, ed esse MI SEGUONO”(Gv 10,22-27).
Il destino del VANGELO dipende dai discepoli: “Là dove sono io, sarà anche il mio servo”. Il senso evangelico è molto chiaro: vivere è dare la vita, o in altre parole, LA VITA SI HA NELLA MISURA IN CUI LA SI DONA.

Il Pampuri ha in mente come si è mosso Gesù.

1Il Signore disse ad Abram: ‘Lascia la tua terra, la tua tribù, la famiglia di tuo padre, e va’ nella terra che IO ti indicherò.

2 Farò di te un popolo numeroso, una grande nazione.
Il tuo nome diventerà famoso. Ti benedirò. Sarai fonte di benedizione.

3 Farò del bene a chi te ne farà. Maledirò chi ti farà del male. Per mezzo tuo io benedirò tutti i popoli della terra’.

4-5 Abram partì dalla località di Carran, secondo l’ordine del Signore. Aveva settantacinque anni. Partirono con lui la moglie Sarai e il nipote Lot, figlio di suo fratello. Portarono tutti i beni che avevano acquistato e gli schiavi comperati in Carran. Si diressero verso la terra di Canaan. (Gen 12, 1-5).

L’ho già confessato e scritto che, ventenne, il Pampuri non era il mio “tipo” ideale, il santo a cui ispirarmi. Col tempo però mi son reso conto che non l’avevo capito. E adesso, per un inspiegabile IMPULSO, mi sento in obbligo di parlare e scrivere di lui

Residente a Trivolzio (Pavia) nella “Bassa milanese”,
orfano in tenera età, adottato dagli zii materni che abitavano a Torrino di Trivolzio, diventa il begnamino della famiglia CAMPARI, zia MARIA, nubile e zio CARLO, medico celibe.

L’ordine di partire per DESTINAZIONE IGNOTA che scoprirà cammin facendo, è analoga a quella di Abramo: “Lascia la tua terra, la tua tribù, la famiglia di tuo padre, e va’ nella terra che io ti indicherò” (Gen1). Il Dott.. Erminio Filippo (Fra Riccardo) PAMPURI, lasciati i borghi agricoli della Pianura Padana, è mandato – breve sosta a Milano – nella fiorente città di BRESCIA, per ragioni storiche definita la “Leonessa d’Italia” .

Il primo biografo Giuseppe Gornati ci dice che “La sua permanenza nella Casa di San Giuseppe in Milano fu brevissima.Quella per il PROBANDATO (postulantato) e il NOVIZIATO era allora a BRESCIA nel convento di Sant’Orsola, cosicché parti IMMEDIATAMENTE dalla metropoli lombarda.
S’iniziava così l’epoca più MONOTONA e, al tempo stesso, più NUOVA per ogni giovane che viene a CONTATTO con gli usi della VITA CONVENTUALE.

Essa rappresenta uno SCONVOLGIMENTO degli ORARI abituali e un MUTAMENTO RADICALE del tenore della vita esteriore. E’ il periodo CRUCIALE in cui insorge la TENTAZIONE contro la RINUNCIA ALLA PROPRIA VOLONTA’.
Pel Pampuri, tuttavia, nulla v’era di nuovo, essendo già TANTO ASSUEFATTO all’ordine sin da quando attendeva come medico alla CONDOTTA DI MORIMONDO, sempre feconda di SORPRESE e di SACRIFICI, e già SPERIMENTATO nella RINUNCIA alla propria LIBERTA’, poiché conosceva da tempo come sia QUESTO il pinto che rende ESEMPLARE il religioso.

Non ebbe, quindi, RIMPIANTI di sorta nell’adattarsi alla regolarità che LIVELLA le persone insieme conviventi; ANZI era proprio questo il punto che maggiormente GLI PIACEVA.

I mesi del probandato trascorsero veloci nel nuovo ambiente. Nel mese di ottobre ne informava la sorella: “Il 21 u.s. Ho fatto la VESTIZIONE CANONICA e comincio l’anno di NOVIZIATO col nuovo nome di FRA RICCARDO. Come vedi, abito nuovo. Nome nuovo per indicare IL DOVERE DI UNA VITA NUOVA”.

COME ABRAMO anche il PAMPURI PARTI’ per destinazione ignota. Non aveva famiglia da portarsi dietro, né beni, perché ciò di cui usufruiva era il patrimonio dello zio adottivo.

Senza averlo mai PROCLAMATO, il PAMPURI ne ha fatto una ragione di vita: FARE FELICI GLI INFELICI.
A partire dai luoghi natali, dall’ambulatorio di Morimondo da MEDICO CONDOTTO. E gli anneddoti non mancano. Perché ne aveva fatto una ragione di vita che è BELLA SOLO SE LA SI DONA. E lui al Dio di Abramo, Isacco e Giacbbe, al Signore GESU’, ha sempre detto di SI’. Con fatica, ma GIOIOSAMENTE. Lui, “adulto prima del tempo” per le disgrazie e sofferenze sopportate con serenità. Perché vedeva tutto in POSITIVO e sapeva ambientarsi in qualsiasi situazione.Spettacolo finale, LA VITA DA FRATE nel CONVENTO-OSPEDALE Sant’Orsola di Brescia.

Assiduo lettore delle Lettere di San Paolo, aveva interiorizzato la Prima Corinti: “Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione.Mi presentai a voi debole, pieno di timore e di preoccupazione. E la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza. Vi ho predicato e insegnato senza abili discorsi di sapienza umana. Era la forza dello Spirito a convincervi. Perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (1Cor 2,3-5).

In ogni CASA dove il Pampuri ha dimorato per un periodo più o meno lungo, ha RICEVUTO e LASCIATO un SEGNO. In ogni CASA Dio lo ha SFIORATO, TOCCATO. A tre anni, quando era ancora in braccio a mamma Angela, ultimo della nidiata, lo ha UNRIACATO di gioia e di tenerezza. Lo ha TOCCATO anche quando la TISI glie l’ha UCCISA e portata via sul pù bello, APRENDOGLI la misteriosa e provvida porta dell’ADOZIONE. Ma CASA non è solo luogo: è luogo teologico, dove accadono gli eventi decisivi della vita, dai muri all’ interiorità di chi vi abita. La CASA E’ METAFORA DELLA VITA. Tanto che l’ultimo dei comandamenti recita letteralmente così: “NON DESIDERARE LA CASA DEL TUO PROSSIMO” (Es. 2o.17) . Dove per casa s’intende LA TOTALITA’, la globalità del vivere, l’insieme delle persone e delle cose in cui ognuno investe i suoi sentimenti d’i dentità e appartenenza. La più grande metafora di CASA è MARIA per le sue caratterisiche di “casa di Dio” e luogo di accoglienza del feriale e del carnale, polifonia dell’esistenza e degli affetti.

Dove è stato MANDATO, il Pampuri ha IMPIANTATO questa dimensione spirituale senza scrivere trattati ma vivendo il quotidiano con semplicità e nauralezza, come una dilignte MASSAIA, termine un tempo di largo uso in ambiente contadino, detto di donna che come occupazione esclusiva o principale, cura l’andamento della propria casa,capace non solo nelle faccende di casa ma anche nella cura e nell’amministrazione della famiglia. E CAROLINA BERSAN, la domestica dei Campari, a cettata come una della famiglia perchè più che una fedele “COLF”. Lei che accudiva di giorno il piccolo Erminio (Miliotto) e di sera gli faceva dire le preghiere, gli fu maestra esemplare. Già frate, fece in tempo ad assisterla nelle ultime ore. Così ne parla lui stesso in una lettera alla sorella: “Il 27scorso (1928) è passata a miglior vita, a Torrino, la carissima Carolina ed il Signore nella sua infinita bontà mi ha concesso la grazia grande di assisterla nelle sue ultime ore di vita…Dopo poche ore dal mio arrivo a Torrino, dopo avermi conosciuto, parlato e datami la sua materna benedizione, è spirata. Il 29 ho potuto partecipare anche ai suoi funerali. Oh, che more serena, invidiabile e santa! Morì santamente, come santamente è sempre vissuta, e nella sua morte, come in tutta la sua vita, ci diede un grande, indimenticabile esempio di Fede tanto viva come umile e semplice e di perfetto ABBANDONO alla volontà del Signore: quando mi BENEDISSE, due sole ore prima di morire, mi sembrava che mi benedicesse già dal Cielo: quanta maestà traspariva da quella vita illibata che stava per raccogliere il frutto di tantaa sua virtù! Gli zii che l’hanno assistita come si può assistere una madre amatissima, ne hanno avuto un grande dolore, raddolcito però dal conforto della loro vivida fede”. (3 Marzo 1928).

Il SANTO è un PROVOCATORE, a sua volta PROVOCATO da quel Seduttore irresistibile che è GESU’ DI NAZARET: “È in te la sorgente della vita,
alla tua luce vediamo la luce”.(Sal 35,10).
“Alla tua luce vediamo la luce” era particolarmente legato il Rosmini che considerava il verso come la sigla della sua filosofia e della ricerca conscitiva di ogni uomo. Lo è stato anche per il Pampuri. Luogo ideale dell’incontro per vedere le stelle, per udire il silenzio con tratti di leggera brezza è IL DESERTO. Luogo che il Pampuri ha iniziato a frequentare già dal liceo “Ugo foscolo” di Pavia. Perché è qui che comincia a incontrare se stesso, a vivere il FACCIA FACCIA con Dio, a disporsi all’ASCOLTO, ad aprirsi agli altri, a consolidare le basi della sua formazione spirituale. Grazie all’ Unico Necessario, la Divina Presenza, l’uomo di fede viene riscattato dalla sua aridità, salvato dalla sua sterilità, si ritrova trasformato in giardino dell’ Eden, pronto a fiorire. Come il grembo della giovane Maria Nazaret, anch’egli diviene terra feconda: “Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Osea 2,16). Come a dire che ogni AVVENTURA SPIRITUALE passa necessariamente attraverso la prova della provvisorietà, la prova della precarietà. Perché il deserto è il luogo dove la REALTA’ viene sfrondata dell’apparenza, spogliata dell’effimero e ridotta all’essenziale, all’indispensabile:
OSEA 2
16Perciò, ecco, la attirerò a me,
la condurrò nel deserto
e parlerò al suo cuore.
17Le renderò le sue vigne
e trasformerò la valle di Acòr
in porta di speranza.
Là canterà
come nei giorni della sua giovinezza,
come quando uscì dal paese d’Egitto.
21Ti farò mia sposa per sempre,
ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto,
nella benevolenza e nell’amore,
22ti fidanzerò con me nella fedeltà
e tu conoscerai il Signore.

Il DESERTO affascina e spaventa. Chi vi entra, anche se il programma è arduo, esigente NON DEVE TEMERE perché non sarà mai lasciato solo perché qualcuno lo conosce, non lo perde di vista e lo segue con trepidazione Gli israeliti nel deserto erano guidati da una nube di giorno e da una colonna di fuoco la notte. (Es, 13, 21.22). La nube è segno della presenza di Iahvé e svolge il ruolo di guida per il popolo in cammino.
E’ NUBE e FUOCO allo stesso tempo. LUCE e TENEBRE. MANIFESTA la presenza di Dio, il suo intervento, e lo “VELA” allo stesso tempo. RIVELA e NASCONDE. Una presenza CERTA ma NASCOSTA, segreta.
Per il Pampuri come per tutti noi il deserto non è un luogo geografico ma l’esistenza quotidiana che si srotola lungo la pista monotona delle occupazioni abituali, in mezzo alle solite cose, in un’atmosfera dai toni grigi. Ciò che in definitiva conta è RESPIRARE CRISTO.

Ricorrente nelle lettere del Pampuri alla sorella missionaria al Cairo è l’argomento “tiepidezza, sventatezza, disordine, pigrizia…” che, a suo dire, sarebbero il punto debole della sua via interiore. Visto da fuori, con la carica entusiastica che dimostra in ogni cosa che fa, non si direbbe ma…Ma lui forse recepisce il monito dell’apostolo Paolo ai Romani:“Se uno è in Cristo è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (Rm 14,7ss). A noi vien facile sorvolare. Ma la lettera non è stata scritta per la ristretta cerchia dei dotti ma per per tutto il popolo dei “santi e amati da Dio che era in Roma”, costituito in stragrande maggioranza da persone semplici e illetterate. Lui che si sente interpellato, destinatario della lettera, e da bravo medico diagnosta qual è, si rende conto che i sintomi parlano chiaro: deve ulteriormente svuotarsi, farsi piccolo e obbedire al Vangelo (Rm1,5), “potenza di Dio per chiunque crede”.
E’ la fase in cui il discepolo prende consapevolezza di essere coinvolto, preso misteriosamente dentro il vortice della Trinità: il donarsi e riceve a vicenda del Padre e del Figlio, dal cui giubilante abbraccio scaturisce lo Spirito, parte una scintilla di questo fuoco d’amore che raggiunge il credente, secondo la promessa: “Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto ed essi sanno che tu mi hai mandato. Io ti ho fatto conoscere a loro e ti farò conoscere ancora; così l’amore che hai per me sarà in loro, e anch’io sarò in loro” (Gv 17,25-26).

Mentre si dava ai fratelli come medico sempre a disposizione, RICCARDO si rendeva conto che doveva darsi a Gesù sulla via della croce e dell’obbedienza. Solo uscendo da se stesso avrebbe potuto andare avanti con tutto il desiderio di appartenergli. Così accresce sempre più in lui lo spirito di PICCOLEZZA PER AMORE che è grazia, dono del Natale.
“Quanto fortemente dovrebbe ravvivarsi l’amore nostro riconoscente verso il Divino Redentore che, nella sua infinita bontà e misericordia ha voluto ABBASSATSI, UMILIARSI, fino alla nostra miseria, per INNALZARCI fino a Lui” (! Dic. 1922)

Prega adunque il Banbino Gesù che mi conceda la grazia di saper ASCOLTARE con vera UMILTA’, quella UMILTA’ che può solo farmi comprendere TUTTA LA REALTA’ DELLA MIA MISERIA e ottenermi dal Signore la grazia di potervi rimediare nel miglior modo”. (Alla sorella – 10 Dic.1925)

Preghiera d’abbandono
Lasciami, Signore,
seguire ciecamente i tuoi sentieri,
non voglio cercare di capire le tue vie:
sono figlia tua.
Tu sei il Padre della Sapienza
e sei anche mio Padre,
e mi guidi nella notte:
portami fino a te.
Signore, sia fatta la tua volontà:
“Sono pronta”,
anche se in questo mondo
non appaghi nessuno dei miei desideri.
Tu sei il Signore del tempo,
il momento ti appartiene,
il tuo eterno presente lo voglio fare mio,
realizza ciò che
nella tua sapienza prevedi:
se mi chiami all’offerta nel silenzio,
aiutami a rispondere,
fa che chiuda gli occhi
su tutto ciò che sono,
perchè morta a me stessa,
non viva che per te.
Edith Stein

San Riccardo Pampuri: un santo medico per il popolo

San Riccardo, hai camminato un tempo per le strade della nostra terra, hai pregato nel silenzio delle nostre chiese, hai servito con amore e intelligenza gli ammalati nelle nostre case, sei stato accogliente verso ogni persona che ti ha cercato. Oggi, come un tempo i tuoi malati, anch’io ti cerco e mi rivolgo a te perché tu mi aiuti a guarire nel corpo e nello spirito e mi ottenga dal Signore la tua stessa fede”.
di Simone Baroncia
Questa è la preghiera che ogni fedele che visita la parrocchia dei santi Cipriano e Cornelio martiri, dove è conservato il corpo di san Riccardo Pampuri, recita per ottenere una ‘grazia’. Erminio Filippo Pampuri, nella vita religiosa, frà Riccardo, nacque (decimo di undici figli) il 2 agosto 1897 a Trivolzio (Pavia) da Innocenzo e Angela Campari, e fu battezzato il giorno seguente. Orfano di madre a tre anni, venne accolto dagli zii materni a Torrino, frazione di Trivolzio.
Nel 1907 gli morì a Milano il padre. Compiute le scuole elementari in due paesi vicini, e la prima ginnasiale a Milano, fu alunno interno nel Collegio Sant’Agostino di Pavia. Dopo gli studi liceali, si iscrisse alla facoltà di medicina nell’Università di Pavia, laureandosi con il massimo dei voti, il 6 luglio 1921. Nel 1927 entrò a Brescia nel noviziato dei Fatebenefratelli e vi emise la professione religiosa il 24 ottobre 1928. Gli venne affidato il gabinetto dentistico. Purtroppo nella primavera del 1929 la sua salute peggiorò per la tubercolosi. Il 18 aprile 1930 fu trasferito nell’Ospedale del Fatebenefratelli di Milano dove morì il primo maggio. Proclamato beato da Giovanni Paolo II il 4 ottobre 1981, è stato canonizzato nella festività di Tutti i Santi, 1° novembre 1989.
Il miracolo che lo ha reso Santo riguarda la guarigione di un bambino di 10 anni, Manuel Cifuentes Rodenas, che rischiava di perdere un occhio, perché il piccolo si era ferito gravemente con un ramo di mandorlo, mentre era nell’orto col papà. Riportato a casa, il bambino soffriva e nessuna medicina sembrava dargli sollievo. In quel frangente, il padre del bambino si ricordò di aver trovato, tempo prima, un’immaginetta di Fra’ Riccardo Pampuri e decise di invocare la sua intercessione, come Santo e come medico. Pose, dunque, l’immaginetta sotto la benda che copriva l’occhio di Manuel, senza nemmeno sapere che Pampuri era stato proclamato beato, solo qualche mese prima, il 4 ottobre del 1981. Manuel guarì completamente.

Al parroco, don Paolo Serralessandri, abbiamo chiesto di spiegarci perché egli è un santo popolare: “San Riccardo, al secolo Erminio Filippo, è popolare non nell’accezione di famoso, ma in quella di proveniente dal popolo. Il popolo cristiano educato alla fede nella appartenenza alla Chiesa cattolica.
Pampuri fin da bambino, poi come studente, in guerra, come medico condotto, come religioso tra i Fatebenefratelli è sempre stato in mezzo al popolo segno potente,nella quotidianità, del volto misericordioso di Gesù. E il popolo ha considerato sempre san Riccardo come uno di loro, un Santo certo ma a cui poter rivolgersi con fiducia e insieme familiare confidenza. Tanto che si può dire che è  diventato Santo per la stima e la considerazione che di lui aveva il popolo”.
Quali sono le qualità ‘terapeutiche’ della preghiera?
“La preghiera guarisce soprattutto dalla presunzione che abbiamo di poter essere noi il signore della nostra vita e  dalla paura di essere soli,determinati dalle nostre fragilità. Ci fa invece invocare Colui dal quale la nostra vita dipende e del cui amore la nostra vita consiste. E’ una invocazione che diventa giudizio,presa di coscienza della verità della nostra vita”.
Nella chiesa è sepolto san Riccardo Pampuri: perchè è importante pregare  i santi?
“Nella nostra chiesa è custodito in una urna,visibile ai pellegrini,il corpo di San Riccardo. E’ importante pregare i santi per la comunione che ci lega a loro,in virtù della quale come segno di amicizia possono farsi carico delle nostre domande al Signore. E poi perché la preghiera ci avvicina a loro per imparare da loro ad affrontare con più serenità la vita e a vivere il rapporto con Dio”.
Le malattie o calamità possono considerarsi ‘castigo di Dio’?
“No. Sicuramente Dio non castiga nessuno. Le calamità possono invece diventare opportunità perché guardiamo alla nostra vita e ci chiediamo per cosa valga la pena vivere e cosa sia più essenziale e determinante per il nostro bene”.
Il 1^ maggio dello scorso anno si è aperto il giubileo ‘pampuriano’, che si chiude il prossimo 1^ maggio: in questo periodo di coronavirus in quale modo poterlo vivere?
“Il Giubileo continua sicuramente fino al 1 maggio anche in questa condizione semplicemente pregando San Riccardo. Era già previsto che gli ammalati potessero ottenere l’ indulgenza plenaria pregando da casa o dai luoghi di cura. Comunque molti attraverso i vari mezzi di comunicazione si fanno presenti con le loro domande e le loro richieste di grazie. Credo che sia una Grazia che il giubileo sia coinciso con questo periodo di sofferenza dove ci può soccorrere e aiutare l’esempio e la intercessione di san Riccardo”.

Medici in dittico: San Riccardo e Alessandro Pampuri

Medici in dittico, Riccardo e Alessandro Pampuri

DI CRISTIAN BONOMI
Alessandro Pampuri e San Riccardo Pampuri, nipote e zio, medici entrambi tra scienza e carità: la memoria dei famigliari non schiaccia le loro figure sulla sola virtù della dedizione professionale; emergono dai racconti quotidianità, domestiche ironie e la gioia di essere stanchi nell’esercizio della propria missione

Il dott. Alessandro Pampuri visita i ragazzi ospiti della Colonia elioterapica “San Benedetto” di Trezzo sull’Adda; con lui l’assidua infermiera Natalina Villa

Al civico milanese 34 di via Montenero il dott. Alessandro Pampuri nasce il 22 maggio 1914 dalla sarta Celestina Dies e da Ferdinando, grande invalido della Prima Guerra Mondiale versato nel commercio di vini.

Oltre ai fratelli Giovanni (poi maestro elementare) e Virginio (geometra), alla tavola dei Pampuri siede l’anziana «Nonnetta»: analfabeta, proprio lei segue Sandro nei compiti di lettura che la scuola gli assegna. La riuscita dell’alunno è tale che il suo maestro lo candida a una borsa di studio per frequentare in Pavia scuole medie e liceo classico «Ugo Foscolo» presso il collegio Sant’Agostino.
Qui studente, Sandro trascorre le vacanze estive a Torrino (PV), dove possiedono larga tenuta i prozii paterni Campari: tutori, costoro, di Erminio Pampuri (Santo nel 1989 col nome religioso di Riccardo), fratello minore del padre Ferdinando.

Medico ispirato e ispiratore, lo zio Riccardo carteggia col nipote Sandro, spronandolo negli studi che condurranno anche lui al giuramento di Ippocrate.

Tuttavia, le memorie domestiche non schiacciano i due Pampuri sulla sola virtù della dedizione professionale: emerge dai racconti la gioia di essere stanchi nell’eroico esercizio della propria missione; quasi una iucunditas.
Riccardo chiede così allo zio benestante Campari il denaro per sottoscrivere un promettente investimento ma, quando il tutore gliene domanda l’esito, il giovane rivela come si tratti di beneficenza: «la banca del cielo». Allievo eccellente nelle matematiche, Sandro Pampuri ironizza di aver preferito l’iscrizione alla facoltà di Medicina solo perché la coda a quella di Ingegneria era troppo lunga; con lui, l’amico Mario Valente, poi ortopedico.
La famiglia di Sandro conserva il papiro rilasciatogli dai goliardi all’ateneo di Milano, dove si laurea con 110 il 17 giugno 1940.

Fino al 1944, quando un riscontrato astigmatismo gli preclude la carriera di chirurgo, Pampuri è assistente provvisorio del primario Giuseppe Solaro presso l’ospedale di Busto Arsizio; congeda uno studio sull’ulcera duodenale da pancreas accessorio.
Frequenta inoltre la scuola di allievi ufficiali ma ne viene riformato. Concorre felicemente all’assegnazione di 81 condotte mediche, scegliendo quella di Trezzo, dove risulta già interinale dal 18 marzo 1944. Accorre qui al capezzale di Maria Redaelli Colombo che, prima della morte, promuove le nozze tra il dottore e la propria figlia Giuditta Colombo, nata nel 1924 al villino del Castello Visconteo.
La mattina del matrimonio, il 17 gennaio 1946, Pampuri assolve le consuete visite a domicilio prima di sposare la giovane, vestita in colori malva. Sopra il rione Valverde, la negoziante Ersilia Fumagalli Lancrò gli chiede se intenda muovere i passi verso l’altare in quelle scarpe di cuoio logoro; e, a risposta affermativa, gliene dona un paio scuro.
Gli sposi dividono con la famiglia Dalla Porta l’attuale comando di Polizia Municipale, allora proprietà Colombo «Shanghai»; almeno finché, dopo Maria Celeste (1946) e Daniela (1948), non nasce Giovanna (1951) cui segue Cristina Pampuri (1957).
Alessandro edifica allora la casa di via Galli, sotto il cui portico il padre Ferdinando intaglia animali nel legno. Con la fidata infermiera Natalina Villa, Sandro tiene per oltre quarant’anni ambulatorio su via Roma, all’attuale Gelsia Point; rincasato, verso sera, ausculta in regime di vista privata. Qui sulla soglia sta una scatola da scarpe e, sulla scatola, una fessura per le libere offerte: «Ti no!» ingiunge ai contadini più poveri, che gli riservano grate uova o un pollo per Natale. Considerava i malati «non clienti ma fratelli sofferenti», disse ai suoi funerali l’amico Padre David Maria Turoldo nel 1990. In effetti, Pampuri raggiunge con religiosa insonnia i pazienti che lo convochino di notte e non ne dorme mai una intera; durante l’epidemia di influenza asiatica, viene ricoverato all’ospedale di Vimercate per ittero da stress.
Ai giostrai che allaccino le utenze in casa sua, allestendo sul vicino slargo, Sandro interpone l’unica condizione di visitarne i figli e regalare loro biancheria nuova.

Di Alessandro Pampuri, Situla d’Oro alla memoria nel 1997, scriviamo al presente e senza riferire la data di morte perché il suo vivo esempio prosegua oltre quella soglia.
Dal trimestrale La città di Trezzo sull’Adda – Notizie, 2018, IV

Ringrazio Laura Businaro, Claudio Mazza e la famiglia Pampuri.
Alessandro Pampuri Campari di torrino, Celestina Dies, collegio sant’agostino pavia, colonia san benedetto, david maria turoldo, dott. pampuri, emilio pampuri, erminio pampuri, giuseppe solaro, luceo ugo foscolo pavia, mario valente, medici trezzo, natalina villa, riccardo pampuri, san pampuri, san riccardo, situla d’oro, Trezzo sull’Adda.

SONO MANUEL IL MIRACOLATO DAL PAMPURI

Cari amici, sono Manuel, l’uomo miracolato trent’anni fa da san Riccardo Pampuri

Tempi.it pubblica la lettera che Manuel Cifuentes ha inviato ad alcuni amici in occasione dell’anniversario del “milagro”.

«San Riccardo Pampuri è il nostro riferimento nel cammino che ci conduce a Gesù, e alla region dei cieli». Ecco tutta la storia di come un frate medico della Bassa milanese è arrivato ad “operare” su un ragazzino che viveva nellasierra spagnola.

Era una mattina di trent’anni fa, in un paesino della sierra spagnola di Albacete, Alcadozo, un ragazzino di dieci anni, Manuel Cifuentes, stava aiutando suo padre a lavorare nell’orto di casa. Inavvertitamente andò a sbattere contro un ramo di mandorlo, che si conficcò nell’occhio sinistro. La ferita sembrava lieve, ma il padre decise di portare il ragazzo dal medico condotto, che, a sua volta, dopo aver bendato l’occhio ferito, lo inviò da uno specialista nel capoluogo Albacete. Il dottor Juan Ramon Perez confermò la gravità della ferita prescrisse medicinali, prospettando un delicato intervento chirurgico. Tornato a casa, il dolore aumentò a tal punto da impedire l’uso della pomata prescritta.
Fu allora che il padre di Manuel, Cecilio, si ricordò di avere un’immaginetta di un santo italiano, un certo Riccardo Pampuri, del quale la famiglia Cifuentes non conosceva la storia, ed era ignara del fatto che, all’epoca, Pampuri non fosse stato ancora proclamato santo, ma solo beato da Giovanni Paolo II, qualche mese prima, il 4 ottobre 1981. Seguendo la propria fede, con la quale invitava spesso il figlio a pregare perché «Gesù ascolta chi lo invoca attraverso i suoi santi», papà Cecilio decise di inserire l’immaginetta tra l’occhio e la benda.
Dopo una notte tribolata arrivò il sonno. Fu solo la mattina presto, all’ora del risveglio che Cecilio si accorse del “milagro”: l’occhio di Manuel non presentava più segni di ferite.
Il 1° novembre 1989, la famiglia Cifuentes era in ginocchio davanti a papa Wojtyla in piazza San Pietro, nel giorno della proclamazione alla santità di Riccardo Pampuri. Naturalmente il “milagro” della guarigione dell’occhio era stato confermato nell’aprile 1988, dalla Consulta Medica presso la Congregazione per le cause dei Santi, con questa conclusione: «Guarigione estremamente rapida, completa e duratura, non spiegabile in base alle conoscenze mediche».
Un altro miracolo del dottor Erminio Pampuri, fra Riccardo dei Benefratelli, un uomo nato in terra lombarda, a Trivolzio, a pochi chilometri da Pavia, il 2 agosto 1897, un periodo giovanile pieno di interessi, legati da un grande sentimento di umanità e di carità cristiana, che lo pervasero per tutta la sua vita: nel laurearsi in Medicina, nel compiere un atto di eroismo durante la Prima Guerra Mondiale, quando, medico nell’esercito, trasportò sotto una pioggia incessante, nella disfatta di Caporetto, i soldati feriti, minando per sempre la sua salute, con una pleurite che lo condizionò per il resto della sua esistenza.
Una storia densa di amore per i malati che lo rese testimone della fede cristiana nella Bassa milanese; la testimonianza di chi si spende, attraverso la concretezza della professione medica, accogliendo i malati, non solo curando il corpo, ma sostenendo lo spirito, con l’autorevolezza della sua vocazione francescana. Pamupri morì per le complicazioni della pleurite, che non l’abbandonò mai, il 1° maggio 1930.
Già pochi anni dopo la sua morte, si ebbero notizie di guarigioni dovute alle intercessioni rivoltegli, tanto che il 1° aprile 1949 fu aperto dall’arcivescovo di Milano, il cardinale Ildefonso Schuster, il processo di canonizzazione. E mentre si facevano sempre più frequenti i pellegrinaggi alla sua tomba, nel piccolo cimitero del paese natale di Trivolzio avvenivano le due guarigioni più significative: a Gorizia, nel 1952, e a Milano nel 1959, entrambe mentre i malati erano degenti negli ospedali gestiti dai Benefratelli.
Oggi san Riccardo Pampuri è custodito e venerato nella chiesa parrocchiale di Cornelio e Cipriano a Trivolzio; è meta incessante di pellegrini ed è uno dei santi più invocati da chi vive l’esperienza educativa del movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione.
Infatti, don Luigi Giussani non smise mai di invitare alla sua intercessione, chiedendo ai tanti amici del movimento di pregare ogni giorno con un “Gloria” il santo di Trivolzio. A San Riccardo Pampuri è intitolata la clinica per malati terminali ad Asuncion, in Paraguay, che Padre Aldo Trento gestisce dal 2004.
Da qualche tempo, sul web è presente una pagina Facebook intitolata agli “Amici di San Riccardo”, e proprio il responsabile di questa iniziativa ha voluto incontrare, nell’estate scorsa, Manuel Cifuentes, raggiungendolo nella sua casa di Alcadozo. Ha trovato una famiglia ancora piena di stupore per ciò che è accaduto loro: Manuel lavora in una casa di riposo, il padre è stato nominato da poco diacono della piccola chiesa del paese. Da questa chiesa, ogni 1° maggio, parte una processione molto curata, con la statua di san Riccardo e una reliquia donata dal Fatebenefratelli.
Proprio sulla pagina Facebook, in occasione dei trent’anni esatti dal “milagro”, Manuel ha spedito un saluto, che il responsabile della stessa pagina web ha autorizzato a pubblicare sul sito tempi.it: «Cari amici di san Riccardo, sono Manuel, di Alcadoz. Vorrei mandare un saluto, prima di tutto, per augurarvi un felice e prospero 2012, pieno di pace, benessere e salute. Grazie al nostro amico Ste posso comunicare con voi e unirmi al vostro cammino di fede, assieme al nostro caro amico san Riccardo Pampuri. È il nostro riferimento nel cammino che ci conduce a Gesù, e alla region dei cieli. Questa è la nostra meta di cristiani, e Gesù non avrebbe voluto che camminassimo da soli, per conto nostro. Invece dobbiamo marciare in comunione, come un popolo unito, e quale miglior popolo di uno fatto da fratelli e amici? Essere cristiano vuol dire essere amici di Gesù. E questo credo che sia per tutti una certezza. Spero che la nostra amicizia serva a unire fili che possano resistere alla distanza, per mantenerci uniti, come cristiani. Potete contare su di me, e scrivermi quando lo desideriate. Un saluto e un forte abbraccio, dal vostro amico e fratello Manuel».

PAMPURI – UNA VITA SECONDO LO SPIRITO – Angelo Nocent

UNA VITA SECONDO LO SPIRITO

Fino a sette anni Erminio è casa, chiesa e scuola, come tutti i coetanei. Ma il 10
Luglio 1904, data che viene solo riportata ma non sottolineata dai cronisti, è un
giorno decisivo per il ragazzo perché è chiamato a sottoscrivere il progetto di Dio che ne ipoteca in qualche modo il futuro di uomo e di cristiano: si tratta della Cresima.
Nei paesi, quando si celebrano le cresime, è un giorno di festa molto atteso perché non capita ogni anno. Viene il Vescovo e le chiese si adornano di fiori e drappi; nelle famiglie si cercano i padrini, si pensa al vestito nuovo ed i candidati sognano anche il regalo… ( Oltre al vestito bianco con i primi calzoni lunghi, il mio, cinquant’anni fa, è stato un orologio da quattro sodi, ma pur sempre un orologio).
Certo, la sostanza di questo esultare per la confermazione è assai più profonda.
Se la regola di vita del cristiano è anzitutto il dono dello Spirito, si comprende quanto sia importante questo sacramento, in cui il sigillo del Consolatore rende il credente capace di testimoniare in pienezza il dono di Dio nelle diverse situazioni della vita.
I cresimandi, ad un certo momento della Messa solenne, ad uno ad uno si sentono chiamare per nome dal Vescovo in abiti pontificali, con la mitria sul capo, il pastorale nella sinistra, l’anello nell’ anulare destro, mentre passa in rassegna il mini esercito di bambini e bambine vestiti di bianco, con una fascia distintiva sul braccio sinistro.
Erminio, ricevi il sigillo dello Spirito Santo che ti è dato in dono”, si sente dire dal Vescovo mentre gli unge la fronte con il sacro crisma. Forse né lui né i suoi compagni hanno la prontezza di rispondere “Amen” alla formula sacramentale pronunciata solennemente in latino. Ma l’effetto c’è ed è immediato.
Segue il leggero schiaffo sulla guancia, da tutti atteso con emozione, con il “pax
tecum”, mentre l’ “et cum spiritu tuo” di risposta esce solo dalla bocca del parroco che sta di fianco al Vescovo.
Non sempre da tutti viene recepito, ma la cresima è un grande evento che dovrebbe sconvolgere l’esistenza del cristiano. La Bibbia paragona lo Spirito Santo al soffio di vita, al vento, che non si vede, ma trascina ogni cosa al suo passaggio, al fuoco, impalpabile, ma efficace, all’acqua, sfuggevole, preziosa e feconda.
Il dono dello Spirito Santo effuso in pienezza nel sacramento della Cresima rafforza i doni dello Spirito Santo già ricevuti nel Battesimo. Sant’Ambrogio aveva scritto: “Hai ricevuto il sigillo spirituale, lo spirito di sapienza e di intelletto, spirito di consiglio e di virtù, spirito di conoscenza e di pietà, spirito del santo timore: conserva quanto hai ricevuto. Ti ha segnato Dio Padre, ti ha confermato Cristo Signore e lo Spirito come pegno si è dato al cuore del tuo cuore” (Sui misteri, 7,42)
Resi docili alle ispirazioni divine, si diventa capaci di produrre con maggiore larghezza e profondità i frutti dello Spirito Santo, elencati da S. Paolo (Gal 5, 22-23), che sono: l’amore, la gioia, la pace, la pazienza, la longanimità, la bontà, la benevolenza, la mitezza, la continenza, la castità.
Attraverso questi passaggi si capisce al volo perché ad Erminio sono bastati trentatre anni per diventare santo. Sono miracoli della Grazia Santificante.
Che cos’è? La grazia di Cristo è il dono gratuito che Dio ci fa della sua vita, infusa nella nostra anima dallo Spirito Santo per guarirla dal peccato e santificarla.
Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo”. ( 2Cor 5,17-18 )
Il gesto dell’imposizione delle mani si collega alla benedizione con cui i patriarchi trasmettevano ai loro figli le promesse di Dio mediante le imposizioni delle mani, e al gesto con cui Gesù benediceva i bambini. Il significato profondo è la pienezza di grazia che viene data al cristiano posto sotto la protezione di Dio che prende possesso di lui. Naturalmente tutto ciò avviene dopo aver rinnovato le promesse battesimali perché la cresima è proprio il sacramento della confermazione del battesimo, due tappe inseparabili di una stessa santificazione. E’ inoltre il sacramento della comunione ecclesiale.
Cose troppo grosse per una testolina di sette anni? Non è detto. Anzi, a guardare dai risultati, si direbbe proprio di no .
Se nel linguaggio di allora il cresimato diventa soldato di Cristo, il giorno della
cresima è la data dell’arruolamento nel suo esercito. Anche se noi oggi usiamo una terminologia meno militare per esprimere il mistero del sacramento, segno che realizza ciò che promette, la sostanza dell’investitura è la stessa: “Effonderò il mio spirito sopra ogni uomo” (Gl 3,1).
Dunque il cresimato è un uomo i-spirato. Tanto per divagare, un suggestivo episodio accaduto ad un missionario francescano, padre Cormac: un giorno comincia la primissima istruzione di un indiano della tribù dei navajos, analfabeta, che chiede il battesimo. Non aveva ancor detto tre parole del “Padre nostro” che il vecchio indiano lo interrompe e recita d’un fiato tutta quella preghiera, nella sua lingua e senza errori. Il missionario rimane stupito e gli chiede: “Chi ti ha insegnato questa bella preghiera?“. E il vecchio: “Ascolto il vento che parla!“; Ogni domenica i navajos, radunati attorno a una radiolina nelle riserve dell’Arizona, ascoltavano, nel più grande silenzio, “il vento che parla”.
“Il vento che parla”: meravigliosa immagine dell’inafferrabile Spirito Santo. A
coloro che lo ascoltano egli insegna il “Padre nostro” perché li rende pienamente figli di Dio, dall’interno, come dice san Paolo: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio… E voi avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, papà! Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8,14-16).

Lo Spirito è una persona senza volto. Gesù lo paragona al vento: “Il vento soffia
dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va” (Gv 3,8). Lo Spirito è il vento che parla. Come il vento, così gli altri simboli dello Spirito - l’acqua, il fuoco, l’aria, il respiro – non comportano figura: evocano soprattutto
l’irruzione di una presenza, una espansione profonda. Lo Spirito di Dio è uragano, tempesta, potenza irresistibile, amore inarginabile. È il vento impetuoso che aleggiava sulle acque nel primo giorno della creazione; è il soffio che scende sulla vergine Maria nel primo giorno della redenzione: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo” (Lc 1,35).
Su Gesù appena battezzato scende lo Spirito (Mt 3,16). È lo Spirito che lo conduce nel deserto per essere tentato dal diavolo, dove supera vittoriosamente ogni specie di tentazione (Mt 4,1). Gesù inizia la sua predicazione applicando a sé il passo di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me” (Is 61,1; Lc 4,18).
Lo Spirito di Dio è forza e potenza d’amore perché Dio è amore. Leggiamo nel libro degli Atti degli apostoli: “Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo” (At 10,38).
Gesù comunicherà questa potenza d’amore irresistibile a tutto il suo popolo: ”Avrete forza dallo Spirito Santo” (At 1,8). E lo Spirito produrrà in tutti uno straripamento di carismi profetici e creerà dei cuori fedeli a Dio e amorevoli verso il prossimo.
Leggiamo nei profeti: “Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli schiavi e sulle schiave, in quei giorni, effonderò il mio spirito” (Gl 3,1-2);
Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi…; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio” (Ez 36,26-28).
Il fra Riccardo Pampuri santo è la fase finale di questo lento processo ascensionale, fatto di sogni e visioni, maturato e consumato nell’affettuoso rapporto con “l’Abbà” , ossia del bambino con il suo Papà, che vuol dire un andare a dismisura oltre l’esperienza dell’amore umano.
Giovanni Paolo II insiste nel dire che la vita cristiana e la vita consacrata in particolare, sono in intima relazione con l’opera dello Spirito Santo e scrive : “E’ Lui che, lungo i millenni, attrae sempre nuove persone a percepire il fascino di una scelta tanto impegnativa [...], è Lui che forma e plasma l’anima dei chiamati, configurandoli a Cristo “ (Vita consacrata, n.19). Detto da un papa che ha fatto la stessa amara esperienza di perdere i genitori in tenera età come il Pampuri, come non credergli che l’adozione a figli di Dio passa attraverso Colui al quale diamo svariati appellativi: il Paraclito, l’Avvocato, il Compagno di viaggio, il Consolatore “che ci consola in ogni nostra tribolazione”?
E’ utile prendere visione della lettera datata 24 marzo 1927. Festa dell’Annunciazione, Erminio scrive alla sorella missionaria in Egitto, Suor Longina, invitandola a fare una novena allo Spirito Santo “ perché abbia ad aprire anche a me la meta , come agli apostoli e illumini e infiammi di quel suo fuoco di carità divina che Gesù è venuto a portare sulla terra e che vorrebbe ardere in ogni cuore”.
Il risultato non si fa attendere: poiché lo Spirito Santo, chiamato, obbedisce sempre, richiesta prontamnente esaudita. Per un cuore che intende dilatarsi a dismisura, scogli inesistenti: a meno di un mese, il 27 Maggio, Don Riccardo Beretta propone e ottiene dal Superiore della Provincia Lombardo-Veneta, P. Zaccaria Castelletti, suo compagno di seminario ed amico, che il Dr. Erminio Pampuri, pur cagionevole di salute, venga ammesso nell’Ordine dei Fatebenefratelli. La risposta, indubbiamente ispirata, sa pure di profezia: “Dovesse rimanere anche un solo giorno membro effettivo dell’Ordine nostro, sia il benvenuto. Egli, dopo esserci stato in terra di edificazione, ci sarà poi in cielo angelo di protezione”.

FRA SERAFINO ACERNOZZI – 60mo di vita religiosa

Festa in Famiglia Ospedaliera: 60 anni di vita religiosa di Fra Acernozzi

“Non vogliate dimenticare l’Ospitalità”, così Fra Serafino Acernozzi intitola la sua riflessione in occasione dei suoi 60 anni di vita religiosa.

«Il mio 60 esimo anno di Professione religiosa nell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio – Fatebenefratelli – cade proprio in questo anno 2022 (4 novembre 1962) nel quale ricorrono anche i 450 anni dalla prima approvazione, da parte di San Pio V, dei Fatebenefratelli come Istituto Religioso: mi rendeva lieto che nell’assistere i malati, vi riconoscevano Gesù, misticamente presente in essi.» introduce Fra Serafino. «E ripensando la mia chiamata alla vita religiosa, provo una grande gioia. Il Signore, tanto buono e grande nell’amore, quasi a mia insaputa mi ha preso per mano e mi ha accompagnato lungo il cammino della vita, fin dalla mia tenera età. La mia Mamma in particolare, mi raccomandava spesso di pregare per conoscere la Via da intraprendere per essere felice.» ci confida.

Il contatto con l’Ordine Fatebenefratelli
«Già da ragazzo iscritto all’Azione Cattolica Ragazzi mi avevano colpito i religiosi Fatebenefratelli, che gestivano l’Ospedale Fissiraga di Lodi ed erano una presenza secolare molto amata dalla popolazione lodigiana fino dal 1700. I Religiosi hanno lasciato l’opera a fine luglio 1957, e proprio in quell’Ospedale era morta la mia carissima mamma ed altri parenti.»
«Nel sottoscritto era rimasta impressa la figura di questi religiosi vestiti di nero con sopra l’abito una elegante vestaglia bianca. Poi nel 1950 si è celebrato nella città di Lodi (MI) i quattro secoli della morte di San Giovanni di Dio nonché fondatore dei cosiddetti “Fatebenefratelli” ed è stato un avvenimento diocesano con cerimonie religiose nella grande Chiesa di San Francesco d’Assisi, tenuta dai PP. Barnabiti, e vicina all’Ospedale Fissiraga, e da lì è partita una lunga processione, con la statua del santo Fondatore, fino alla Cattedrale di Lodi alla presenza del Vescovo Diocesano Mons.Pietro Calchi Novati e dal Vescovo Principe di Gorizia, dove i Fatebenefratelli erano presenti già dal 1656.»
A quella processione oltre ai Seminaristi del Seminario Diocesano, sacerdoti, religiosi, religiose, Associazioni Cattoliche, aveva partecipato anche il sottoscritto, come ragazzo dell’Azione Cattolica insieme ad altri ragazzi e giovani delle Scuole della città; così a me è rimasta in mente quella manifestazione la santità eroica di San Giovanni di Dio.» ci racconta Fra Acernozzi.

Le Figure di ispirazione
«Infine all’età di 18 anni entrai nell’Ordine Ospedaliero come Postulante a Cernusco sul Naviglio (MI) e nel cammino della mia lunga vita religiosa sono venuto a conoscenza della santità di San Benedetto Menni (1841-1914) che ha vissuto per anni nella Comunità al Fissiraga di Lodi, e ha frequentato come studente il Seminario Vescovile per divenire sacerdote, e rifondatore dell’Ordine in Spagna e Fondatore della Congregazione delle Suore Ospedaliere del S. Cuore di Gesù. In seguito ha ricoperto anche l’incarico di Padre Generale dell’Ordine Ospedaliero. Mi è stata di esempio anche la Figura di San Riccardo Pampuri, un medico cristiano esemplare e religioso dell’Ordine Ospedaliero Fatebenefratelli, ossia un Santo contemporaneo lombardo.» ci spiega Fra Serafino.
«Nella fase della mia vita religiosa nell’Ordine Ospedaliero ho conosciuto figure di spicco ed ho avuto la grazia di vivere in Comunità assieme, potrei dire, a Padre Mosè Bonardi, che fu un Superiore Generale e Provinciale, molto attivo e dinamico, ed a Fra Pierluigi Marchesi, divenuto anch’egli Padre Generale dell’Ordine e che ebbe parole illuminanti sulla pastorale ospedaliera: di per sé l’Ospedale è un luogo chiuso, eppure riguarda tutti ed è la prima frontiera dell’umanità.»
«Voglio ricordare a voi giovani di guardare alla vita religiosa ospedaliera missionaria. Il sottoscritto vi dice quello che ha vissuto nelle nostre missioni: Tanguiètà (Benin), ad Afagnan (Togo) ed a Nazareth (Israele) la Nostra Terra Santa per un totale di 32 anni tra l’Africa Occidentale e il Medio Oriente e ho voluto vivere il versetto del Vangelo di Mt 25,40: “Tutto quello che avete fatto a uno di questi piccoli l’avete fatto a me”.» racconta.
«Cari giovani Confratelli non abbiate paura, sappiate che anche fare del bene non mi è stato facile, però ho sempre visto quanto abbia creduto alla Provvidenza di Dio, e la Provvidenza non è mai mancata, soprattutto quando si trattava di aiutare i più poveri.» dice, riferendosi ai giovani.
«Infine grazie a tutti: Padri Superiori, Confratelli, Ospiti, Amici, Conoscenti e Parenti per la vostra presenza. Sappiate che voglio continuare a sognare che il nostro Ordine Ospedaliero continui a sognare, come sognava San Giovanni di Dio, di portare avanti questa missione per gli ammalati, per i poveri e i bisognosi.
Grazie per l’ascolto ed essere qui presenti.»

Fra Serafino Acernozzi,o.h.

SAN RICCARDO PAMPURI – VERGINITÀ VIGILATA – ANGELO nOCENT

SAN RICCARDO PAMPURI
VERGINITÀ VIGILATA

La verginità riferita a fra Riccardo è quella per il Regno. Su di essa sono stati scritti trattati; fiumi d’inchiostro scorrono sia per esaltarla come un diamante che per banalizzarla come “trovata” di cattivo gusto, imposta per sottomettere i “gracili di spirito”. Per tanta gente la verginità consacrata è un “colpo di testa” di persone frustrate, deluse oppure suggestionate, illuse da provetti adescatori che plagiano psicologie fragili per rinnovare l’organico dell’esercito ecclesiastico. Per chi la sceglie, si tratta invece di un “colpo di vento”. Allora di male in peggio? No.
Ma lo spiegherò dopo.

Appartengo alla generazione di coloro che in materia ne hanno sentite di cotte e di crude e ne hanno anche viste di tutti i colori!
Quand’ero bambino, fanciullo di Azione Cattolica prima “fiamma bianca”, poi “fiamma verde”, in fine “fiamma rossa” e per giunta primo premio diocesano (Gorizia), viaggio a Roma con altri cinquemila ragazzi in camicia color crema, calzoncini corti blu e basco di panno azzurro, per vedere Papa Pio XII, le Basiliche, le Catacombe…in occasione dell’ anno santo 1950, fino a quattordici, quindic’anni non ricordo di avere incontrato sul mio cammino sacerdoti impegnati in discorsi di purezza, castità e tanto meno di verginità. Forse il perché l’ho capito in età matura: nel paese dove sono nato e dintorni c’era in circolazione più d’un chiamato con la coda di paglia e quindi si evitava…
Successivamente, in un contesto collegiale, l’argomento veniva sollevato già dal primo mattino con la meditazione. Qualunque fosse il tema della meditazione, la morale della favolai finiva sempre lì, nel punto critico. L’esame di coscienza della sera riprendeva l’argomento da dove era stato lasciato, con una puntigliosa domanda rivolta ad alta voce in cappella a qualcuno in preda al panico per il timore di far scena muta. Più d’uno, a cominciare da me, potendo scegliere, avrebbe optato per una schioppettata. In camerata poi, luogo popolato dai demoni dell’impurità, s’era instaurato un clima di vigilanza e di all’erta. In ginocchio sul pavimento, appena dopo le preghiere recitate in cappella, s’invocava il S. Luigi, “di angelici costumi adorno”, sorvegliante permanente del dormitorio. Poi c’era sempre di turno un Prefetto, suo zelante sosia che, spente le luci principali, gironzolava su e giù per il corridoio con la corona in mano a dar man forte alla “resistenza”.
Non ho esagerato. Sono cose accadute e nessuno mai s’è sognato di ribellarsi se non più avanti, dopo i vent’anni. Ciò nonostante, eccoci qua, tutti grandi (grossi) e vegeti. Nessuno è morto allora per via della fissazione (nevrosi) e a qualche inconveniente ognuno a provato a metterci una pezza in seguito. Del resto, i nostri giovani, non frustrati dall’ossessione della castità, li ritroviamo demoralizzati, abbattuti, delusi, sfiduciati, depressi e prematuramente impotenti, per le sante buone ragioni del nuovo metodo educativo che di tutte queste sofferenze vorrebbe preservarli.
Sarebbe utile poter cogliere la dinamica interiore che ha mosso il Pampuri a prendere la direzione alta, perché ne verrebbe un messaggio ed un esempio di vita vissuta sia per i ragazzi che per gl’uomini del nostro tempo. E, – come dice un barzellettiere – quando dico uomini, naturalmente intendo abbracciare anche tutte le donne.

Il termine biblico ruah ordinariamente tradotto con spirito, ha proprio questo significato, naturalmente molto più esteso: è l’instaurarsi di un clima atmosferico necessario per la vita che il vento provoca refrigerando o portando pioggia. Si tratta di una vitalità prorompente e imprevedibile, fisica e psichica, che coinvolge l’intera persona. La sua mancanza provoca clima soffocante, vita difficile, paralisi progressiva.
Come ogni consacrato, votato a Dio, anche fra Riccardo è un uomo fecondo che non contempla soltanto il Divino e sublima il suo io, le sue repulsioni. Uomo di Dio per gli uomini, la sua donazione verginale in un Ordine ospedaliero che ha il carisma del mandato evangelico dell’ “andate…guarite…annunciate…”(Mt 4, 23-25), assume un preciso significato concreto nel fare di ogni giorno:
sfiorare la carne delle persone che incontra, la carne malata,
inserirvi il germe vitale del Dio che guarisce,
perché in essa germogli il Suo progetto nel tempo della malattia.
Verginità e ospitalità, quindi, verginità che feconda il dolore passando attraverso la kenosis della povertà e dell’obbedienza. Quattro voti per un unico obiettivo: colui che si è fatto Dono (verginità=amore puro di Dio) per tutti gli uomini, chiede a sua volta di essere donato.
Riccardo negl’anni successivi alla laurea ha avvertito prepotentemente la spinta ad uscire da se stesso per non rimanere soffocato dall’abbraccio dell’io. Si è sforzato di aprire e di muoversi in direzione dell’ altro e, stando alle testimonianze, ci riusciva anche bene. Epperò intuiva che gli mancava qualcosa che un giorno arriverà inaspettato: il famoso colpo di vento che finalmente gli provocherà un cambio di stagione, di atmosfera, di vita. Aperto al dono dello Spirito, è attratto e percepisce il fascino di una scelta tanto impegnativa qual è quella della vita consacrata.

Ai nostri giorni Giovanni Paolo II scriverà in “Vita Consacrata”: “ Chi può essere se non Lui a suscitare il desiderio di una risposta piena. E’ lui che forma e plasma l’animo dei chiamati, configurandoli a Cristo casto, povero e obbediente e spingendoli a far propria la sua missione. Lasciandosi guidare dallo Spirito in un incessante cammino di purificazione, essi diventano, giorno dopo giorno, persone cristiformi, prolungamento nella storia di una speciale presenza
del Signore risorto.
Ogni verginità, compresa quella per il Regno, è come la salute: rischia di essere veramente apprezzata solo quando la si perde.
Se essa è sinonimo di innocenza bambina, prima o poi con la crescita si trasforma in nervosismi, desiderio d’incontri e d’esperienze, conflittualità domestica;
quando è valore da portare in dono alla persona amata, maschio o femmina che sia, si trasforma in senso di colpa se è perduta per puro gioco o calcolo egoistico, o in deprezzamento di ciò che si è perso (poco e niente);
se verginità è luogo di fecondazione divina per una testimonianza in prospettiva escatologica di “cieli nuovi e terra nuova”, è frustrazione dolorosa per chi se ne priva in un contesto di debolezza, che porta molto spesso in un pendio per nuovi dolorosi ribaltoni.
In tutti i casi, ogni sconfitta è fonte nuova di cadute, il cuore perde vigilanza ed atrofizza, lo sventurato, debole e confuso, più che chiedere aiuto, s’inabissa.
Il “fa che non soccombiamo nella tentazione” che dobbiamo chiedere ogni giorno nel “Padre nostro“ assieme al pane quotidiano, se non riguarda lei soltanto, quella verginità che ogni battezzato, celibe, nubile o coniugato deve gelosamente custodire, senza richiesta quotidiana d’intervento dall’alto, muore.
Ora stiamo vivendo una stagione nuova in cui il tema della verginità, secondo quanto scrive mons. Franco Brovelli, Vicario episcopale per la formazione permanente del clero della diocesi di Milano, “sembra scomodo e pare più oggetto che dà voce al disagio che non alla riflessione. Anche questa, peraltro, spesso sceglie percorsi di tipo teorico, volti a dare ragione di una scelta non più scontata. Si è molto attenuato, infatti, un consenso “culturale” sulla verginità: questa forma di vita non appare più immediatamente significativa. Di essa permane frequentemente solo il senso di una rinuncia, e non appare più invece il significato di una donazione, di un bene al quale ci si lega, di una speranza che si tiene viva per sé e per tutti.
Oggi chi fa questa scelta deve mostrare la sua plausibilità non tanto e non solo in sede teorica, ma molto più mostrando una forma pratica di vita buona e felice.
Non sarà ovviamente una forma di vita facile – e d’altra parte il Signore ai suoi discepoli ha indicato la via della beatitudine e insieme della persecuzione, non del successo e della ovvietà -, ma non sarà neppure priva di una sua bellezza e plausibilità.
Indubbiamente nella verginità abita uno scarto, una tensione che non a tutti è dato di comprendere (cfr Mt 19,10-12) Occorre proprio sostenere questa scelta nella sua forma pratica, nelle sue condizioni di vita, perché in essa appaia una buona notizia, una speranza che alimenta la vita di tutti”. (Un dono per la Chiesa –LA FIACCOLA, Ago/Set.2003.)

La situazione ai tempi del Pampuri era certamente più simile a quella che ho descritto che non all’attuale. Stringi stringi però, l’educazione del cuore ha le sue regole. E’ resa possibile e facilitata se vi sono i presupposti:
la direzione spirituale, (sono raggiunto dalla Profezia);
la confessione e comunione frequenti, (lo Spirito agisce in me);
l’Evangelo che si fa Parola viva, ascolto, preghiera, provocazione (m’introduce nel movimento dell’Amore Trinitario);
la lettura di vite collaudate che sono i santi, campioni della fede (attingo ai tesori della Chiesa).
Non sono ammesse scorciatoie. Diversamente, ai primi scossoni, la costruzione cade.

Dagli scritti del Pampuri trapelano queste indicazioni pedagogiche che, al di là della formulazione linguistica o dello stile letterario, sottintendono i punti fermi di sempre. Nel 1926, scrivendo ad un amico, per farlo uscire dal grave e tanto pericoloso stato d’animo in cui si era venuto a trovare, lo pregava con tutto il cuore di accogliere alcuni suggerimenti, il primo dei quali sembra riassunto e vigorosamente lanciato da Papa Woitila nell’ormai famoso : “non abbiate paura…
aprite le porte a Cristo!”. Alle esortazioni che seguono ho dato un’impostazione grafica diversa solo per evidenziare meglio il testo:
1. “…non aver paura di conoscere la verità, noi dobbiamo sempre cercarla la verità con ardore e con sincerità, poiché dove è la verità è anche il nostro sommo bene, poiché ivi è Dio il quale disse: Ego sum veritas.
2. Ritorna quindi a leggere gli Evangeli, il Catechismo, l’Imitazione di Cristo, così semplici e così ripieni della sapienza divina; leggili e meditali, e prega soprattutto con la preghiera che Iddio stesso ci ha insegnato, col Pater noster, e la luce della verità, diradatesi le nebbie delle passioni, ritornerà a risplendere alla tua mente in tutta la sua bellezza.
3. Con l’aiuto di Dio e la intercessione della nostra Madre celeste, dalla cui misericordiosa bontà tutto possiamo ottenere, certamente il tuo animo buono e generoso saprà trovare la forza per vincere e la lonza e il lione dantesco, ed uscir fuori dalla selva oscura, nella quale fortunatamente non ti sei ancora di molto inoltrato.Uscire coraggiosamente e prontamente, senza perdere la speranza dell’altezza, di quell’altezza alla quale noi tutti siamo chiamati dalla bontà di Dio ed alla quale tutti possiamo giungere col suo aiuto onnipotente per i meriti infiniti di Gesù Cristo nostro Redentore”.
4. Rivedi nel S.Evangelo la paterna bontà di Gesù che chiama a sé coloro che sono oppressi e travagliati, per confortarli e renderli felici, che ci mette in guardia dai falsi profeti, dalle massime perverse del mondo corrotto e corrompitore, pieno di scandali, di ipocrisia, di perversità: che ci mette in guardia contro gli sterpi, le erbe selvatiche, le quali cresciute rigogliosamente possono soffocare la buona semente pur caduta sopra un buon terreno e germogliata e cresciuta bene da principio.
5. Rivedi Gesù tanto buono coi poveri, coi peccatori, cogli afflitti, con tutti gli umili ed i bisognosiche pieni di fiducia ricorrevano a Lui, invocando le sue grazie, le sue benedizioni.
6. Rivedilo in balia di quegli autentici rappresentanti di quello spirito del mondo,
Della cupidigia di Giuda,
Della sacrilega superbia degli scribi e farisei,
Della vile prudenza di Pilato,
Del lussurioso Erode
A tutti fatto ludibrio, Lui, il Giusto, il Santo, la
Purezza personificata,
- Da tutticostoro schernito, condannato.
- E tutto questo per la nostra avarizia,
Per la nostra superbia,
-Per la nostra lussuria,
-Per le nostre vili e vergognose passioni,
-Per scontarne la pena terribile, per liberarci da tale orribile catena,
Dalla schiavitù di satana,
Della carne,
Del mondo.

Se fino ad ora ha invitato l’amico a una lectio divina, nel testo che segue possiamo leggervi lo spirito del penitente che si accosta al sacramento della confessione. Verginità vigilata non vuol dire solo castità; il termine va oltre il significato riduttivo che lo relega nella sfera del femminile, per estendersi al cuore umano in tutte le sue implicanze.
Per uscire dalle proprie miserie il laico Dr. Pampuri è consapevole che non esiste altra via per l’uomo se non quella di affidarsi ad un amore più grande, sorgente di quella fede che fa muovere le montagne e rende possibile ciò che ad occhi umani appare irragionevole. I sacramenti sono le strade da battere. Quello della riconciliazione è un percorso privilegiato. L’affetto che traspare nel resto della lettera, è simile di quello dell’Apostolo Paolo per Tito:
“ Sì, o amico carissimo, il mondo ci illude, ci inganna, ci tradisce, ci avvelena questa vita eccitando e scatenando le nostre passioni, che insaziabili (“E dopo il pasto han più fame che pria”, non è vero?) non possono renderci che infelici, e ci fa perdere la vita eterna, ci conduce alla ETERNA dannazione.
Iddio ci chiama alla verità, alla luce, alla vita, al bene, alla felicità in questa vita nella sua pace, nell’abbandono alla sua misericordiosa provvidenza, ed alla beatitudine eterne, e la sua parola non inganna, ce ne sono garanti l’esempio dei santi, i continui miracoli anche contemporanei.
Il giogo del mondo è duro, tirannico,quello di Dio soave, “Jugum meum suave est”, “Servire Deo regnare est”: esiteremo ancora noi a scegliere?

“Il nostro cuore, o Signore, è stato creato per Te, e sarà sempre inquieto finchè non potrà riposare in Te”(S:Agostino).
Abbandoniamoci fidenti con umiltà di cuore e purezza di intenzione nelle braccia della infinita misericordia di Dio. “In Te, Domine, speravi, non confundar in aeternum”.

A qualcuno potrà sembrare un noioso predicozzo d’altri tempi. Ma a rileggere, disarmati, l’analisi che il nostro medico fa dell’animo umano, emerge chiaramente come la fonte di un affidamento totale della persona a Dio, anche nelle imprese che appaiono più disperate od inutili, quelle che nessuno vuole accettare perché troppo gravose. Sia proprio Lui, il Signore Gesù. C’è proprio molto da confutare a un giovanotto che ha voluto mettere al centro della sua vita la Parola di Dio?
Per tornare al discorso iniziale sulla verginità, bisogna fare una precisazione: si può vivere senza un esercizio della sessualità, ma non senza una vita affettiva e delle relazioni di spessore. Un consacrato, uno che accosta quotidianamente i letti del dolore umano, non può vivere la verginità come assenza di relazioni, ma come viverle. Una persona acida è come una perla senza luce. A tal proposito il citato Vicario Episcopale Brovelli scrive che “Fuori da un radicale discepolato del Signore non si capisce una scelta che rimane un’eccezione rispetto alla destinazione dell’uomo per la donna e viceversa. Eccezione che non separa il vergine da chi testimonia l’amore di Dio nella forma della relazione uomo-donna, ma che ne richiama il fondamento. Le due vocazioni rimangono insieme un segno verso l’assoluto affettivo che solo Dio può rappresentare”. Su questo “assoluto affettivo” del Pampuri si è pronunciata la Congregazione dei Santi che gli ha trovato le carte perfettamente in regola per accedere alla gloria degli altari.
Personalmente mi fa rabbia sia quando il Pampuri lo si butta sul San Luigi, sinonimo spregevole di collo torto, senza…spina dorsale; parimenti quando si riscontra in lui una timidezza di natura misogina. Questi giudizi appartengono solo a coloro che di verginità non ci capiscono un’acca, né l’apprezzano e tanto meno la condividono.
Per pura curiosità, si dia un’occhiata alla liturgia del 21 Giugno, memoria del santo gesuita. Gl’occhi possono solo sbalordire per tanta meraviglia di luci, suoni e di colori. Il vestito sembra fatto su misura per il nostro San Riccardo, chiamato a indossare la perenne giovinezza del Vangelo quasi quattro secoli dopo.
La liturgia di San Luigi Gonzaga (+ 1568-1591) si apre con il salmo 23, 4.3: ”Chi ha mani innocenti e cuore puro salirà sul monte del Signore e starà nel suo santo luogo”.
Al di là dei nobili natali, tra le righe della sua biografia non è difficile intravedere i tratti essenziali ed una certa somiglianza con quella del suo erede spirituale Riccardo:
“Luigi, primogenito del marchese di Mantova, nacque a Castiglione delle Stiviere. Era un ragazzo vivace, impaziente, senza complessi, amava il gioco e si divertiva. La madre, Marta Tana di Chieri, gli insegnò da piccolo a orientare decisamente la sua vita a Dio. E con la sua tenacia vi riuscì.
Ricevuta la prima volta l’Eucaristia da san Carlo Borromeo, coltivò una forte unione con Gesù.
La grazia fece di lui un santo di grande dominio di sé, interamente votato alla carità. Il suo segreto di eroismo è la preghiera; già a 12 anni aveva deciso di
dedicare 5 ore al giorno alla meditazione.
Per gradi si sentì attratto alla vita religiosa. Col coraggio delle sue convinzioni, vinse l’opposizione del padre, rinunciò alla primogenitura, e a 16 anni entrò nella Compagnia di Gesù, avendo a maestro spirituale san Roberto Bellarmino.
Lui, che riusciva bene negli affari, si diede assai più allo studio, alla preghiera, alla carità. Mirò anche alle missioni e al martirio. L’occasione non gli mancò ma diversa da quella sognata: scoppiata la peste, Luigi si prodigò talmente che la contrasse e morì anche lui.
Catechista coi ragazzi, premuroso con i poveri e i malati, fattosi tutto a tutti, vivendo la propria fede in Cristo, Luigi si rivelò soprattutto un giovane «generoso», trascinatore di giovani, sia ieri che oggi “.

Se San Luigi è questo, – dico io – ben vengano i “colli torti” con il giglio in mano! Mi viene da dire che, per comprendere i Pampuri andrebbe RI-VALUTA la figura del Gonzaga, alla quale sovente viene accostato ma di cui la maggior parte delle persone conose poco o nulla ed in modo distorto.
Nella «Lettera alla madre» san Luigi Gonzaga canta senza fine le grazie del Signore (Acta SS., giugno, 5, 878).
Di pensieri analoghi sono colme anche le lettere del Pampuri, indirizzate alla sorella, madre spirituale di quest’orfano eccezionale che un giorno potrebbe essere proclamato a pieno titolo patrono di coloro che hanno perso o mai conosciuto i genitori.
“Io invoco su di te, mia signora, il dono dello Spirito santo e consolazioni senza fine. Quando mi hanno portato la tua lettera, mi trovavo ancora in questa regione di morti. Ma facciamoci animo e puntiamo le nostre aspirazioni verso il cielo, dove loderemo Dio eterno nella terra dei viventi. Per parte mia avrei desiderato di trovarmici da tempo e, sinceramente, speravo di partire per esso già prima d’ora.
La carità consiste, come dice san Paolo, nel «rallegrarsi con quelli che sono nella gioia e nel piangere con quelli che sono nel pianto». Perciò, madre illustrissima, devi gioire grandemente perché, per merito tuo, Dio mi indica la vera felicità e mi libera dal timore di perderlo. Ti confiderò, o illustrissima signora, che meditando la bontà divina, mare senza fondo e senza confini, la mia mente si smarrisce. Non
riesco a capacitarmi come il Signore guardi alla mia piccola e breve fatica e mi premi con il riposo eterno e dal cielo mi inviti a quella felicità che io fino ad ora ho
cercato con negligenza e offra a me, che assai poche lacrime ho sparso per esso, quel tesoro che è il coronamento di grandi fatiche e pianto.
O illustrissima signora, guardati dall’offendere l’infinita bontà divina, piangendo come morto chi vive al cospetto di Dio e che con la sua intercessione può venire incontro alle tue necessità molto più che in questa vita.
La separazione non sarà lunga. Ci rivedremo in cielo e insieme uniti all’autore della nostra salvezza godremo gioie immortali, lodandolo con tutta la capacità dell’anima e cantando senza fine le sue grazie. Egli ci toglie quello che prima ci aveva dato solo per riporlo in un luogo più sicuro e inviolabile e per ornarci di quei beni che noi stessi sceglieremmo.
Ho detto queste cose solo per obbedire al mio ardente desiderio che tu, o illustrissima signora, e tutta la famiglia, consideriate la mia partenza come un evento gioioso. E tu continua ad assistermi con la tua materna benedizione, mentre sono in mare verso il porto di tutte le mie speranze.
Ho preferito scrivertiperché niente mi è rimasto con cui manifestarti in modo più chiaro l’amore ed il rispetto che, come figlio, devo alla mia madre”.

La liturgia della Parola, con la lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi rivela il già di Luigi e Riccardo ed il non ancora di noi, in corsa verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere in Cristo Gesù.
“Fratelli, tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste
cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede.
E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.(Fil 3, 8-14)

Il salmo 15 sintetizza il sentimento interiore degli atleti di Dio:
Sei tu, Signore,
l’unico mio bene.
Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto a Dio: «Sei tu il mio Signore,
senza di te non ho alcun bene» .
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio cuore mi istruisce.
Io pongo sempre innanzi a me il Signore,
sta alla mia destra, non posso vacillare.
Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena nella tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.”.

Nel canto al Vangelo i poveri di Dio che hanno venduto tutti i loro averi, con l’Alleluia testimoniano il Dio fedele alla promessa: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. Contro ogni apparenza, essi sono proprio coloro che hanno saputo fare ottimi investimenti:
“In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va,
pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose;
trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra”. (Mt 13, 44-46)

L’antifona alla Comunione con i versetti 24 e 25 del Salmo 77 richiama la Pasqua dei santi, vissuti in perenne rendimento di grazie: ”Ha dato loro il pane delcielo:l’uomo ha mangiato il pane degli angeli”.
E’ strabiliante la somiglianza dei due giovani santi. Verginità-povertà-obbedienza sono un trinomio inscindibile che genera carità, ospitalità. Anche Riccardo, venduti tutti i suoi averi, ha fatto ottimi acquisti, dimostrando di essere non solo un bravo medico ma anche un avveduto uomo d’affari.
I testi della liturgia, uno più bello dell’altro, sottolineano l’identità genetica dei due, non fosse altro perché figli dello stesso Padre. Sono ragazzi che, in epoche diverse, coltivano gli stessi sogni: le missioni, il martirio, si votano alla carità, ai malati, ma si lasciano anche docilmente condurre per itinerari molto diversi da quelli sognati. In questo prodigarsi senza risparmio, muoiono entrambi in giovane età, il primo di peste, il nostro di tisi. Tutto questo per avere trovato un tesoro in un campo ed averlo comprato. Qualcuno potrebbe chiedersi: ma che razza di affare è mai questo?
“Uomini d’affari” scusate per l’appropriazione indebita della vostra qualifica da parte di due volgarissimi collezionisti d’insuccessi. Eppero, “Chi può capire,
capisca”.
Personalmente mi morsicherò le dita fin che campo al pensiero che, avendo un giorno di tanti anni fa comprato a poco prezzo una perla preziosa e inestimabile, me la sono fatta soffiare sotto il naso da una mano invisibile ed astuta che mi ha tratto in inganno con uno specchietto per allodole. Non ho ancora capito come sia potuto avvenire. Da allora ho sempre avuto paura a buttarmi in affari, preferendo vivere sobriamente di salario. Purtroppo nelle competizioni dello spirito non basta partecipare, occorre vincere. A meno che al premio di consolazione vengano ammesse anche le lumache. In tal caso si tratterebbe anche per me di un bel… colpo di fortuna!
Fortunatamente, lo Spirito di Dio non è circoscritto, soffia dove vuole, penetra dappertutto con sovrana libertà. Qualunque situazione umana, per quanto deteriorata, disperata, vive l’attrazione dello Spirito che continuamente muove il cuore o col rimorso o con la nostalgia o con la paura o con il coraggio e la speranza. Lo Spirito insomma soffia sulla nostra umanità peccatrice anzitutto come Spirito di amore perdonante per fare di noi persone che amano e perdonano i fratelli. Passate parola.
Al termine di questa riflessione, proprio perché alcune mie battute sulla pedagogia del tempo non vengano interpretate come un risentimento, mi è sembrato interessante evidenziare una felice coincidenza di sostanza e di metodo. Nella festa dell’Immacolata Concezione del 1897, anno di nascita di Erminio Pampuri, Giuseppe Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, nel giornale dell’anima, miniera preziosissima, sconosciuta ai più, “Della Santa Purità” così scriveva:
48. “Convinto, per grazia di Dio e della mia madre Maria, dell’inestimabile tesoro della santa purità e della necessità grandissima che io ne ho, per essere chiamato all’angelico ministero del sacerdozio, a conservare sempre terso questo specchio lucentissimo, in questi santi Esercizi ho formato, coll’approvazione del mio padre spirituale, ed ho proposto di eseguire scrupolosamente questi proponimenti, che io consacro alla Vergine dei vergini per le mani di quei tre angelici giovinetti, Luigi Gonzaga, Stanislao Kostka e Giovanni Berchmans, miei speciali protettori’, affinché ella, in vista de’ meriti di questi tre suoi carissimi gigli, me li voglia benedire ed accordarmi la grazia di tradurli in pratica.
49. 1.Anzitutto intimamente persuaso che la santa purità è grazia di Dio, senza la quale io sono capace solo di violarla, farò anche in questo affare la gran base dell’umiltà, diffidando di me stesso e ponendo ogni mia confidenza in Dio ed in Maria santissima. Laonde ogni giorno pregherò il Signore per la virtù della santa purità e massimamente mi raccomanderò a lui nella santa comunione, a lui che nell’Eucaristia mi appresta il «frumentum electorum et vinum germinans virgines» (Zc 9,17). (Traduzione: il grano darà vigore ai giovani e il vino nuovo alle fanciulle).
Della Regina dei vergini poi sarò tenerissimo; ed oltre ad altre preci che la mia devozione mi suggerirà, applicherò sempre l’ora di prima dell’ufficiolo, la
prima Ave Maria dell’Angelus, la prima posta del rosario per l’acquisto e conservazione della santa purità.
Terrò pure impegnato san Giuseppe, sposo castissimo di Maria, recitando a lui, due volte il dì, l’orazione «O virginum custos » e sarò devoto dei tre
santi giovani suddetti, la cui purità mi studierò di trasfondere in me stesso.
50. 2. Attenderò a mortificare severamente i miei sentimenti mantenendoli dentro i limiti della cristiana modestia; epperò farò digiunare specialmente gli occhi, detti da sant’Ambrogio reti insidiose e da sant’Antonio di Padova ladri dell’anima, schivando quanto più posso i concorsi di popolo per feste ecc.; e quando fossì costretto a intervenirvi, diportandomi in modo che nulla, che anche solo richiami il vizio contrario alla santa purità, ferisca i miei occhi, i quali perciò in tali occasioni si terranno sempre fissi al suolo.
51. 3. Somma modestia userò pure quando mi avvenga di passare per città o altri luoghi popolati, non guardando mai a manifesti, vignette, negozii
dove ci può essere indecenza, giusto il detto dell’Ecclesiastico: «Noli circumspicere in vicis civitatis, nec oberraveris in plateis illius» (Sir 9,7).
(Traduzione: non guardar qua e là per le vie della città, né andar vagando per le sue piazze). Ed anche nelle chiese, oltre ad una modestia edificante nelle sacre funzioni, non fisserò mai bellezze di qualunque sorta, come quadri, intagli, statue o altri oggetti d’arte, in cui sia, anche per poco,
violata la legge del decoro, massimamente in fatto di pitture.
52. 4. Con donne di qualunque condizione, siano pure parenti o sante, avrà un riguardo speciale, fuggendo dalla loro familiarità, compagnia o conversazione, come dal diavolo, massimamente trattandosi di giovani; né mai fisserò loro in vòlto, o in parte dove la modestia resti offesa, gli occhi, memore di ciò che insegna lo Spirito Santo: «Verginem ne conspicias, ne forte scandalizeris in decore illius» (Sir 9,5). (Traduzione: non guardare una vergine, perché tu non abbia a sdrucciolare a cagione della sua avvenenza). Mai non le toccherò per qualsivoglia motivo, mai non darò loro una minima confidenza o permetterò che esse mi tocchino, e quando per
necessità dovrò parlare con esse, mi studierò di usarmi del « sermo durus,brevis, prudens et rectus». (Traduzione: conversazione asciutta, breve,
prudente e retta).
52.5. Mai non terrò in mano, o sotto gli occhi, libri di frivolezze o figure che offendano il pudore, e quanti ne troverò, di questi oggetti pericolosi, tanti ne straccerò o darò alle fiamme, anche se fossero nelle mani dei miei compagni, a meno che dal ciò fare non derivino più gravi inconvenienti.
53.6. Oltre al dar io esempio di somma modestia nel parlare, procurerò in famiglia di allontanare dai discorsi argomenti poco convenienti alla santa purità, non mai permettendo che, in mia presenza massimamente, si parli di amoreggiamenti, si usino parole poco oneste e decenti da chicchessia, o si cantino canzoni amorose; sempre correggerò con carità di qualunque immodestia da altri usata, e se persisteranno mi allontanerò mostrandone il più vivo dispiacere. In seminario poi a questo riguardo sarò scrupoloso e tutt’occhi per allontanare genialità, simpatie fra i compagni e tutti quegli atti o parole, che, se nel mondo possono passare, sono ìndecenti per gli
ecclesiastici.
54.7. A tavola, e nel parlare e nel mangiare, non mi mostrerò ghiotto o intemperante; farò sempre qualche piccola mortificazione; e in quanto al bere vino starò più che moderato, poiché nel vino c’è lo stesso pericolo che nelle donne: «Vinum et mulieres apostatare faciunt sapientes» (Sir 19,2).
(Traduzione: il vino e le donne fanno sviare anche i saggi). 8. Userò eziandio una somma modestia con me stesso riguardo al mio corpo in qualunque occasione, e per qualunque atto degli occhi, delle mani, della mente, ecc., sì in pubblico che in privato. Ed acciò si tolga l’occasione ditali atti, quantunque incolpevoli, alla sera prima di addormentarmi, messami al collo la corona della beata Vergine, disporrò le mie braccia sul petto in forma di croce, nel quale stato procurerò di trovarmi la mattina.
55. 9. In tutto mi ricorderò sempre che io devo essere puro come un angelo, e mi diporterò in modo che da tutto me stesso, dai miei occhi, dalle mie parole, dai miei tratti, traspiri quella santa verecondia sì propria dei santi Luigi, Stanislao e Giovanni, verecondia che piace tanto, si attira la riverenza ed è l’espressione di un cuore, di un’anima casta, diletta da Dio.
55.10. Non mi scorderò mai che io non sono mai solo, anche quando losono: che mi vede Dio, Maria e l’angelo mio custode; che sempre sono chierico. E quando sarò sulle occasioni di offendere la santa purità, allora più che mai istantemente mi rivolgerò all’angelo custode, a Dio, a Maria, avendo familiarissima la giaculatoria: Maria Immacolata, aiutatemi. Allora penserò alla flagellazione di Gesù Cristo ed ai novissimi, memore di quanto dice lo Spirito Santo: «Memorare novissima tua et in aeternum non peccabis» (Sir 7,40). (Traduzione: in tutte le opere tue ricorda il tuo fine (morte-giudizio,inferno, paradiso) e non peccherai in eterno)”.

Se tanto mi dà tanto, si resta senza parole. In quel periodo e con quel clima, è sbocciata una miriade di santi. Con il nuovo metodo ce lo diranno i posteri. Una
domanda si pone: Cose superate? D’altri tempi? La risposta è meglio lasciarla al lettore, illuminato dallo Spirito del discernimento. Mi permetto solamente di dire che c’è molto da recuperare.

GIOVANNI DI DIO: FU VERA FOLLIA? – Angelo Nocent

SAN GIOVANNI DI DIO – FU VERA FOLLIA? – Angelo – Nocent

Nella “SINDROME DA MISERERE” il punto di partenza è il cuore dell’uomo

PREMESSA – Questa “ricerca” non è di oggi. Risale a qualche hanno fa. Era pensata per una qualche rivista interessata, alla quale avrei ceduto volentieri diritti, compensi ed esonerata da vincoli editoriali. MA NON L’HO TROVATA. Epperò è qui a disposizione.

Alla vigilia della festa del Santo, anno 2023, ho pensato di diseppellirla e metterla in circolazione. Può darsi che altri sappiano prenderne lo spunto per fare di più e meglio.

A Giovanni di Dio chiedo solo di venirmi a dare una mano nell’ora dei SUDORI FREDDI che non è molto lontana.

Di Angelo Nocent

Mentre scrivo, penso agli attuali ragazzi del nuovo Noviziato Europeo Fatebenefratelli di Brescia ed a coloro che si aggregheranno nel tempo. Sono passati ormai 473 anni dalla morte del Fondatore San Giovanni di Dio che tetimoni del suo tempo hanno visto in lui un amico del silenzio, tanto che evitva di pererdersi in chiacchere e non amava parlare se non di caritá e di cura dei malati. Mi domando come faccia a parlare ancora e ad essere tutt’ora capace di trasmettere fascino e suscitare discepoli.

La sola spiegazione: pazzo lui allora, pazzi gli scolari di oggi e di domani, incredibilmente ammagliati da un silente Amore Crocifisso, un tempo considerato anche lui fuori di testa perfino dai suoi familiari: “20Gesù tornò in casa, ma si radunò di nuovo tanta folla che lui e i suoi discepoli non riuscivano più nemmeno a mangiare.21Quando i suoi parenti vennero a sapere queste cose si mossero per andare a prenderlo, perché dicevano che era diventato pazzo”. (Marco 3,20-21).

Fra le tante disavventure in cui è incorso San Giovanni di Dio, c’è anche quella di essere stato diagnosticato post mortem affetto da SINDROME PSCHIZOFRENICA, per via di un fatto risalente alla caduta da cavallo durante la vita militare. Picchiando la testa, sarebbe rimasto tramortito per alcune ore, senza che qualcuno o aiutasse. Questo incidente spiegherebbe certi suoi comportamenti che gli procurarono un ricovero coatto nell’Ospedale Regio di Granata, settore PSICHIATRIA…

II bello è che, secondo la tradizione, sarebbe stato soccorso nientemeno che da notra signora la Vergine Maria.

LA CADUTA DA CAVALLO

Quando si parla di Giovanni Cidade (San Giovanni di Dio), un LAICO dalla vita TORMENTATA, che diventa “LA MERAVIGLIA DI GRANATA, “L’ONORE DEL SUO SECOLO”, “SANTO” per la Chiesa, il punto di riferimento è ed è sempre stato Francesco de Castro, suo primo biografo, considerato come la fonte più autentica. Lui stesso esordisce dicendosi chiamato a “risuscitare la verità che col passare del tempo è stata sepolta e messa in oblio…essendo mancato chi mettesse in scritto le cose essenziali della sua vita, ed essendo egli stato un UOMO SILENZIOSO, che POCHE VOLTE PARLAVA DI COSE CHE NON RIGUARDASSERO LA CARITA’ e il SOCCORSO DEI POVERI, non abbiamo notizia di molte cose che appartengono a questa storia, di molte cose, cioè, notevoli che gli accaddero dopo la vocazione avuta da Dio… Pertanto, ciò che si riporterà qui è ciò che si è potuto sapere con molta CERTEZZA e VERITA’ ”.

Di Francesco de Castro il Padre Gabriele Russotto si sente di scrivere: “Storico e narratore onesto, come e più di tanti storici e narratori moderni, il Castro merita la più assoluta credibilità”.

La premessa mi serve per introdurmi più serenamente nel Cap. VII che narra DELLA CONVERSIONE DI GIOVANNI DI DIO AL SIGNORE, argomento cruciale e delicato.

Questo il fatto narrato dal Castro: “Giunto ad età conveniente, costui (il conte di Oropesa) lo mandò in campagna insieme agli altri suoi servitori che guardavano il gregge. Ivi attendeva a prendere e portare l’approvvigionamento necessario con ogni diligenza, perché, essendogli venuti a mancare i genitori in così tenera età, procurò di compiacere e servire questo brav’uomo nella menzionata e come pastore tutto il tempo che stette in casa sua. Per questo i suoi padroni gli volevano molto bene, ed era amato da tutti.

Essendo ormai giovane di 22 anni, gli venne la volontà di andare in guerra, e si arruolò in una compagnia di fanteria d’un capitano di nome Giovanni Ferruz, che allora il conte di Oropesa inviava al servizio dell’Imperatore per soccorrere Fuenterrabía, che era stata occupata dal re di Francia.

Mosso Giovanni dal desiderio di vedere il mondo e godere di quella libertà che comunemente sogliono prendersi coloro che vanno in guerra correndo a briglia sciolta per il cammino largo (benché faticoso) dei vizi, incontrò in essa molti travagli e si vide in molti pericoli.

Trovandosi, infatti, in quella frontiera, un giorno a lui e ai suoi compagni venne a mancare l’approvvigionamento. Essendo egli giovane e molto volenteroso si offri per andare a cercare da mangiare presso certi casali o fattorie, che si trovavano un po’ distanti da loro. Per potere andare e tornare più presto, montò su una giumenta francese, che era stata presa ai nemici. Arrivato a circa due leghe da dove era partito, la giumenta, riconoscendo i luoghi nei quali di solito andava, cominciò a correre furiosamente per rientrare nella sua terra.

Siccome, però, non aveva per briglia che una cavezza, con la quale Giovanni la guidava, non fu possibile trattenerla, e corse tanto per le falde di un monte che lo scaraventò contro alcune rupi, dove rimase per oltre due ore, senza parola, buttando sangue dalla bocca e dalle narici, completamente privo dei sensi, come un morto, senza che vi fosse alcuno che potesse vederlo ed aiutarlo in tanto pericolo.

Ripresi i sensi, tormentato dal colpo ricevuto per la caduta e visto il rischio di incorrere in altro non minor pericolo di esser fatto, cioè, prigioniero dai nemici, si sollevò da terra come meglio poté, senza quasi poter parlare, si mise in ginocchio e, alzati gli occhi al cielo, invocò il nome di nostra Signora la Vergine Maria, della quale fu sempre devoto, cominciando a dire: «Madre di Dio, venite in mio aiuto e soccorso, pregate il vostro santo figlio che mi liberi dal pericolo in cui mi trovo e non permetta che venga preso dai miei nemici».

Poi, sforzandosi alquanto e preso in mano un palo ivi trovato, col quale si aiutava, si mise in cammino e piano piano giunse dove stavano i suoi compagni ad aspettarlo.

Avendolo visto così mal ridotto e credendo che lo avessero incontrato i nemici, gli chiesero che cosa fosse accaduto. Egli raccontò loro quanto gli era occorso con la giumenta, ed essi lo fecero mettere a letto e sudare, ponendogli molti panni addosso. Così di lì a pochi giorni, guarì e stette bene”.

LE VOCI DISCORDANTI

Quel volo contro le pietre del bordo della strada, dove rimase per due, tre, cinque…ore privo di sensi, privo di parola, di conoscenza, come morto, gli procurarono una commozione cerebrale? Una lieve frattura della scatola cranica? Probabilmente sì.

Qualcuno ha insinuato che la “pazzia” di San Giovanni di Dio, ossia le sue “stranezze” manifestate durante la conversione originino da questo infortunio. Nessuno è in grado di provarlo. Jean Caradec Cousson o.h. sostiene che il de Castro ha il pregio di riferire fedelmente i fatti ma l’abitudine a interpretarli a modo suo. Ad esempio, “per lui è evidente che Giovanni Cidade ha recitato la parte del folle. Ora, contro questa opinione illogica, si leva la descrizione così viva dello stesso de Castro che descrive Giovanni Cidade impegnato in atteggiamenti e attività esplosive, incoercibili e non dirette a calcolare come lo sarebbe necessariamente degli atti simulati: inoltre, conviene prendere alla lettera le parole di Giovanni che non mentiva: “Fratello mio, che Nostro Signore vi ricompensi per la carità che mi avete testimoniato in questa casa di Dio, per tutto il tempo che sono stato malato. Ora mi sento bene e in grado di lavorare; per amor di Dio, lasciatemi dunque uscire!”.

Caradec Cousson, autore di “GIOVANNI DI DIO dall’angoscia alla santità” – Città Nova, pag 61) conclude così il ragionamento: “In breve, la Vita di Giovanni di Dio secondo il suo contemporaneo de Castro, letta attentamente ed interpretata secondo i criteri scientifici moderni, come anche le testimonianze concordi dei notabili di Granata, del direttore dell’ospedale regio e del paziente stesso, ci permettono di dedurre molto verosimilmente che: “No, Giovanni di Dio non ha simulato la follia. Egli è stato malato, come lo esprime lui stesso in termini moderni e dignitosi: “He estado enfermo” .

Nelle note a piè di pagina si legge: “Per provare che Giovanni Cidade non ha simulato la follia, l’autore invoca la testimonianza dei notabili e del direttore dell’ospedale, ma non condivide affatto il loro punto di vista sullo stato reale del suo eroe.

Alcuni lettori del Capitolo V (apparso sul “Lien Hospitalier” del novembre 1972 sembrano però supporlo, nonostante l’esposizione di un’opinione diversa, forse un po’ diluita nel corso del capitolo. Per togliere ogni equivoco in merito, ecco, in termini concisi la convinzione dell’autore. “Giovanni Cidade, affetto da uno shock nervoso acuto e breve, di forma angosciosa, conserva, nonostante tutto, la propria lucidità, ma diventa preda momentanea di impulsi disordinati, irresistibili, accettati, d’altra parte, con soddisfazione, perché appagano i suoi profondi desideri di espiazione”.

Quest’opinione è confermata dai gesti e dalle parole di Giovanni Cidade, riferiti fedelmente da de Castro. Infatti, “dopo alcuni giorni di ospedale, Giovanni dichiara di essere uscito dall’angoscia” (Ya me siento sano y libre…del dolor y angustia…).

Sul ricovero di Giovanni di Dio come pazzo nell’ospedale di Granata è intervenuto nel lontano 1951 anche un certo DON GIOVANNI COLOMBO, futuro cardinale arcivescovo di Milano in questi termini: “Su quest’ultima notizia (il ricovero) temo che un sorrisetto malizioso sforerà le labbra degli uomini moderni, saputi e prevenuti.Era da aspettarselo; ecco un soggetto da clinica psichiatrica!”. Non intendo qui rispondere esaurientemente, ma solo indurli a una riflessione che li renda più dubbiosi della loro opinione, più prudenti nel giudicare ciò che forse non è facile capire, insomma, più profondi. Il nemico irriducibilmente feroce dell’amore di Dio è l’egoismo che s’abbarbica nei fondi e sottofondi della natura umana con mille indistricabili radici ripullulanti ad ogni taglio. Solo a prezzo di trivellanti sofferenze lo si può disbarbicare (sradicare).

A volte, specialmente quando i disegni di Dio richiedono una bonifica completa, o quasi, della natura, la volontà umana non basta, occorre che intervenga l’azione di Dio con le cosiddette prove passive. Ecco, allora, le tribolazioni straordinarie interne ed esterne, le umiliazioni più cocenti, le malattie fisiche e psichiche. Non è da meravigliarsi se in questo arduo lavoro di purificazione la natura possa risentire scosse che talora ne facciano perdere momentaneamente il normale equilibrio. Anche la santità, come la scienza ed ogni altra grandezza, ha i suoi rischi.

Può darsi che la follia di Giovanni Ciudad sia stata soltanto una simulazione ricercata di proposito, a scopo ascetico.

Può darsi che sia stata un’interpretazione volgare del fervore che lo trasportava ad atteggiamenti inconsueti, ad azioni singolari, giustificabili in quel clima d’esaltazione mistica che non raramente si riscontra nella spiritualità iberica.

E può darsi pure che in parte sia stata anche un reale morbo psichico: contraccolpo nervoso del logorio intenso a cui la grazia purificatrice sottoponeva quell’ardente natura e in pari tempo esperienza preziosa per le imprese che Dio lo chiamava a compiere.

Comunque, fu tale malattia che per troppi aspetti sconcerterà sempre le dotte diagnosi dello psichiatra. Basti pensare all’uomo nuovo e all’opera meravigliosa, che ne uscirono. Poiché fu proprio nella notte di quel morbo che spuntò nello spirito di San Giovanni di Dio la luce riorganizzatrice ed orientatrice delle sue aspirazioni eroiche, fin allora saltuarie e disperse in molteplici direzioni.

Uscito dall’ospedale, egli è deciso a seguire un’idea che ormai gli brilla chiara davanti: amare Dio nel prossimo, e il prossimo nella sua carne sofferente. Sarà ancora e sempre l’avventuriero del buon Dio, ma non più ramingo per le strade del mondo esteriore, bensì per le vie del mondo interiore della carità: mondo assai più vasto di quello fisico, più interessante, più irto di rischi e di sorprese, più ricco di tesori.

Cominciano così le nuove avventure del cavaliere innamorato che va a liberare i poveri dalla schiavitù del bisogno, che, abbattendo pareti d’ipocrisia e di vergogna, salva ragazze pericolanti e risolleva donne cadute nella cattiva vita, che esplora con ronde infaticabili di giorno e di notte i vicoli malfamati e la periferia della città per raccogliere e soccorrere bambini e vecchi, orfani e vedove, sventurati e malati.

San Giovanni di Dio non è stato uno speculatore teorico, ma un attuatore pratico. Non ci ha lasciato una dottrina sulla carità, ma un esempio affascinante. Egli è uno che sulla terra ha aumentato l’amore, non “con le labbra e le parole” ma “coi fatti e in realtà” (1 Gv 3,18).

Gli bastò un passo del Vangelo: “Qualunque cosa farete anche al più piccolo dei miei fratelli l’avrete fatto a me” (Mt 25,40).

Di questo passo gli è bastato il comandamento dell’Evangelista di cui portava il nome: “Noi sappiamo di essere passati da morte a vita perché amiamo i fratelli…Se uno pretende d’amar Dio e resta freddamente indifferente davanti al suo fratello, sappiamo che è un mentitore. Infatti, non amano il fratello che egli vede, come potrà amare Dio che non ha mai visto?” (1 Gv 3,13; 4, 19-20). Su queste lineari verità della rivelazione divina ha costruito tutto l’edificio della sua santità personale e della sua opera ospedaliera. Si persuase irremovibilmente di due cose.

1. La prima è che uno dei modi di permanenza di Gesù sulla terra sta nella sofferenza degli umili, degli abbandonati, dei poveri e dei malati: ogni corpo umano è carne del corpo mistico di Cristo, ogni piaga e ogni agonia umana è un prolungamento nei secoli delle piaghe e dell’agonia del Figlio di Dio.

2. La seconda è che la via dell’amore vero si trova nella concretezza del sensibile: non si giunge all’amore del Dio invisibile se non attraverso l’amore dell’uomo visibile, non si giunge a guarire le piaghe invisibili dell’anima dell’uomo se non attraverso l’amore alle piaghe visibili del suo corpo sofferente.

Nella luce di queste certezze egli dell’OSPEDALE fece un TEMPIO: il servizio degli ammalati divenne un OPUS DEI, una liturgia d’amore e di dolore con le sue rubriche minuziose indicanti la cura, la dieta, la visita, a ore fisse e a qualsiasi ora”.

Come si vede, anche questo punto di vista ha le sue interessanti suggestioni ma non “s-velano il travaglio interiore di quest’uomo, sconvolto da un panegirico su San Sebastiano, in un freddo inverno (qualcuno parla d’estate), all’Eremo dei Martiri di Granata, mescolato tra una folla amante della tradizione e richiamata dal nome famoso dell’oratore. Sembra che “le frecce divine” scagliate con veemenza abbiano preso di mira proprio lui, nudo come e fragile come il cristiano martire militare romano, sotto l’impero di Diocleziano.

La CHEMIOTERAPIA dello spirito è già in atto.

Nelle lunghe pause, Giovanni ha sfogliato i libri ascetici che vende e s’è fatto una modesta cultura. La vita ascetica è farcita di norme: non fare questo, non fare quello…Noi oggi diremmo che la norma morale è un “semaforo”. Epperò, dietro ogni comportamento deviante di chi non rispetta la segnaletica e passa con il “rosso”, c’è un uomo che non sempre ha coscienza del reato e magari neppure ha il senso del peccato.

In Giovanni “ribellione, disarmonia e smarrimento”, entrambi sono presenti e pulsano dentro di lui.

Per occhi attenti, colpisce sempre questa dimensione molto umana, di umana fragilità e spesso di umana inconsistenza, che si cela dietro ogni nostro comportamento deviante. E il “giudice” che gli si troverà davanti, il santo Giovanni d’Avila, ha la consapevolezza della “personalizzazione della colpa”.

Se i suoi sermoni attirano è perché il popolo percepisce che dietro il “giudice” del confessionale c’è l’uomo di Dio che in ogni comportamento deviante sa scorgervi la persona, la sua ribellione o il suo smarrimento. Il suo compito di fondo è di restituire la libertà alla persona che ha di fronte, sottraendola proprio alla ribellione, allo smarrimento, alla disarmonia interiore in cui per tanti e oscuri motivi si è imprigionato con le sue stesse mani.

Il messaggio contenuto nel panegirico è lacerante: Giovanni si sente come sul banco degli imputati, avverte che è giunto il momento, adesso, qui, ora, di uscire dall’ambiguità.

Alla “verità dell’oscuro”, farà seguire la terapia contenuta nel salmo 50: “crea in me”, “rendimi la gioia”. Ed il punto di partenza per comprendere la sindrome da Miserere che colpisce il quarantacinquenne avventuriero è di assimilare il Testo:

3 Pietà di me, o Dio, nel tuo grande amore; /nella tua misericordia cancella il mio errore.

4 Lavami da ogni mia colpa, / purificami dal mio peccato.

5 Sono colpevole e lo riconosco, / il mio peccato è sempre davanti a me.

6 Contro te, e te solo, ho peccato; / ho agito contro la tua volontà.

Quando condanni, tu sei giusto, / le tue sentenze sono limpide.

7 Fin dalla nascita sono nella colpa, / peccatore mi ha concepito mia madre.

8 Ma tu vuoi trovare dentro di me verità, / nel profondo del cuore mi insegni la

sapienza.

9 Purificami dal peccato e sarò puro, / lavami e sarò più bianco della neve.

10 Fa’ che io ritrovi la gioia della festa, / si rallegri quest’uomo che hai schiacciato.

11 Togli lo sguardo dai miei peccati, / cancella ogni mia colpa.

12 Crea in me, o Dio, un cuore puro; / dammi uno spirito rinnovato e saldo.

13 Non respingermi lontano da te, / non privarmi del tuo spirito santo.

14 Ridonami la gioia di chi è salvato, / mi sostenga il tuo spirito generoso.

15 Ai peccatori mostrerò le tue vie / e i malvagi torneranno a te.

16 Liberami dal castigo della morte, mio Dio, / e canterò la tua giustizia, mio Salvatore.

17 Signore, apri le mie labbra / e la mia bocca canterà la tua lode.

18 Se ti offro un sacrificio, tu non lo gradisci; / se ti presento un’offerta, tu non l’accogli.

19 Vero sacrificio è lo spirito pentito: / tu non respingi, o Dio, un cuore abbattuto e umiliato.

20 Dona il tuo amore e il tuo aiuto a Sion, / rialza le mura di Gerusalemme.

21 Allora gradirai i sacrifici prescritti, / le offerte interamente consumate: tori saranno immolati sul tuo altare.

A proposito del “Pietà di me o Dio nel tuo amore”, il Martini è illuminante: “La prima parola è racchiusa in un verbo ma, in realtà, è la radice. di un sostantivo. Quello che in italiano traduciamo con: «Pietà di me, o Dio », in ebraico è semplicemente: «Grazia, fammi grazia, riempimi della tua grazia». Si chiede dunque a Dio che sia per noi grazia, che prenda interesse a chi sta male, a chi si trova in difficoltà, che ci dia una mano. È l’esperienza di Maria che canta: «Signore, tu hai guardato alla povertà della tua serva e mi hai fatto grazia, mi hai riempito della tua grazia».

Ed un’altra osservazione ci è preziosa e ci sarà di aiuto: “Dio è dono gratuito, è l’essenza della gratuità. Quando noi diciamo che Dio non può aver alcun interesse a pensare a noi, ad occuparsi di noi, riveliamo di avere un’idea falsa di Dio. Abbiamo di Lui, per dirlo con una parola tecnica, un’idea farisaica, che cerca cioè di capire Dio partendo dalle categorie del calcolo. Dio gode nel poter donare qualcosa a chi ha bisogno di essere sostenuto, a chi non si sente nessuno, a chi si sente in basso. Egli vuole versare il suo valore in noi e non giudica il nostro”.

UNA PAROLA A PROPOSITO DEI SALMI

André Chouraqui fa una considerazione che merita di essere rilevata. Egli scrive che Noi nasciamo con questo libro nelle viscere. Un piccolo libro: centocinquanta canti, centocinquanta gradini eretti tra la morte e la vita; centocinquanta specchi delle nostre rivolte e delle nostre fedeltà, delle nostre agonie e delle nostre resurrezioni. Più che un libro, un essere vivente che parla – che vi parla – che soffre, che geme e che muore, che resuscita e canta, sulla soglia dell’eternità – e vi prende e vi porta con sé, voi e i secoli dei secoli dall’inizio alla fine”.

La sottolineatura è importante perché la vedremo posta in essere in Giovanni Cidade, alle prese con il suo dramma esistenziale. Pur non proferendo parola, il salmo 51 respira con lui, i battiti del cure scandiscono uno ad uno i ventuno stati d’animo che lo compongono. Tanto da assistere ad una reazione liberatoria che si verifica sì nella sua coscienza ma si manifesta anche esteriormente, tanto da essere notata, annotata e trasmessa a noi come un “fatto”, lì per lì irrazionale, ma chiaritosi nel tempo, pur con le diverse e talora opposte interpretazioni.

Dall’Avila, ministro della Parola, Giovanni riceve una chiara indicazione:

  • Non ci può essere riconciliazione di nessun genere senza conversione del cuore.
  • La conversione del cuore comprende delle tappe che non sono ad libitum: non è possibile saltarle o disattenderle.
  • E’ un itinerario che va acquisito e percorso perché è fatto a partire dal cuore dell’uomo.
  • Il cammino penitenziale personale ha ripercussioni sul mondo: Giovanni di Dio accelera in sé la riconciliazione umana e cosmica.

LA CONFESSIONE

Giovanni, prima ancora di recarsi dal confessore d’Avila, fa una confessione pubblica. Ma non è tanto un’autoaccusa: ho fatto questo, ho commesso quest’altro…ho fatto ciò che non dovevo fare, ho sbagliato…Il rischio dell’autocritica è proprio l’autogiustificazione che non necessita del perdono di Dio. Nel nostro caso c’è piuttosto un dialogo intimo, personale, filiale con Colui che lo ha cercato, atteso all’appuntamento, amato: “ho fatto ciò che ai tuoi occhi è male”. Non ho fatto male soltanto contro la tua legge ma quello che è male “ai tuoi occhi”.

Ovviamente Giovanni non procede con questa visione schematica ma sotto l’impulso della Parola (Spirito) che lo ha braccato, amorevolmente ferito come una lancia nella sua parte più vulnerabile: l’orgoglio. In ginocchio, sul pavimento gelido di una chiesa, il 20 gennaio 1539, capisce che è giunto il momento di “decidersi per Dio”. E fa la sua scelta, la sua solenne “professione religiosa”, non prevista, non programmata, con una liturgia non canonica.

La consacrazione è in questi termini: “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù”. E’ l’anticipazione dei quattro voti che professeranno i suoi discepoli.

Non veste un abito, non professa una regola, non appartiene a una famiglia monastica, non ha un Cardinale protettore. E’ uomo del Vangelo. Nudo, povero, libero obbediente alla Voce del “Maestro interiore” ed al suo “ministro” che gli a posto al fianco come guida: il sacerdote Giovanni d’Avila.

CAMMINO PENITENZIALE

Da questo momento inizia il suo cammino penitenziale.

Il “grazie” per queste riflessioni va detto al mio Arcivescovo, il Cardinale Carlo Maria Martini per il commento al Salmo 50 che fece tra il 1983-84, quando convocò in Duomo i giovani per ascoltare e per pregare con il loro Arcivescovo, dando vita a quella esperienza contagiosa organizzata dall’Azione Cattolica Ambrosiana, che va sotto il nome di SCUOLA DELLA PAROLA. Ricordo benissimo quei tempi perché si è trattato di uno dei momenti più forti e significativi della sua esperienza episcopale insieme ai giovani, che ha lasciato un segno duraturo. Non più giovane, – allora avevo 41 anni – necessitavo anch’io proprio di questa riconciliazione con me stesso e le sue riflessioni mi hanno segnato profondamente.

Da quelle sue meditazioni ho tratto due insegnamenti fondamentali:

1. La chiave di lettura della “conversione” di Giovanni di Dio, risultata “eccessiva” per i suoi contemporanei, tanto da farlo internare nel manicomio dell’Ospedale Regio di Granada.

  1. La linfa che potrà alimentare anche le generazioni future, paragonabili in ogni epoca a Davide, il peccatore pentito.

L’unico a vederci chiaro, sarà proprio San Giovanni d’Avila, con il quale Dio aveva predisposto l’incontro che avrebbe modificato definitivamente l’itinerario del suo penitente. Perché l’iniziativa, il punto di partenza di ogni cammino di conversione del cuore è sempre un’iniziativa divina: Dio, il leale, l’affidabile, il fedele, il buono, il tenero, il costante nell’attenzione e nell’amore, espressioni riassumibili in una: il Misericordioso è sempre il primo a dare la mano; il piatto della bilancia pende sempre dalla parte della Sua bontà”.

Le parole che c’introducono, sono semplici e brevi: “Pietà di me…”. La parola forte, il pugno nello stomaco è il termine “peccato. Nel testo ebraico il significato è più precisato, usa tre parole che andrebbero lette così:

cancella la mia ribellione,

lavami da ogni disarmonia,

mondami (tirami fuori da ogni mio smarrimento”.

Senza bisogno di scomodare psichiatri e psicologi, la vera risonanza magnetica che non mente è la Parola di Dio. Essa che ci dice per filo e per segno cos’è accaduto a Giovanni di Dio all’Eremo dei Martiri in quel lontano 1539.

Di suo egli ha messo solo quell’eccesso di esteriorizzazione mal interpretato che solo degli innamorati come lui, folgorati da una luce interiore accecante sarebbero stati in grado di comprendere. Tant’è che l’unico a non meravigliarsi sarà proprio il “provocatore” della situazione Giovanni d’Avila. Un miracolo della Grazia che ha dato vita non solo a una personale conversione ma ad una nuova famiglia religiosa e fatto di lui un “vir misericordiae” additato alla Chiesa universale. Da un evento personale, a un progressivo mutamento di mentalità ecclesiale che perdura.

Giovani di Dio all’Eremo non ha da presentare a Dio la sua fragilità: egli si percepisce come uomo peccatore. Epperò avverte che Dio è attivo su di lui: lo sta lavando, lo monda, sente che è in corso una purificazione, una dialisi potremmo dire; egli sta sperimentando una cosa inedita: che il Dio della sua vita è buono, è verità, è misericordia.

Anche se non trova le parole giuste come Davide, le sue sillabe, le lettere dell’alfabeto che farfuglia, vengono trasformate dallo Spirito che prega in lui: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Romani 8, 26-27).

Bello! Nella Lettera a Proba, Agostino scrive: «Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi. Dio infatti “pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime”(Salmo 55, 9), e il nostro gemito non rimane nascosto (cf. Salmo 37,10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uomini» (2).

Risuona il monito di Gesù. Quando pregate, non pensate di ottenere attraverso il vostro molto pregare, perché il Padre sa benissimo ciò di cui avete bisogno. Tuttavia Gesù stesso ci insegna a esprimere i nostri bisogni. Non tanto però – dice Agostino – con la moltiplicazione delle parole in quanto tale, bensì con una moltiplicazione che esprima il gemito del credente. Viene così introdotta la nozione di «gemito» che ritroviamo nella pagina di san Paolo.

In Giovanni di Dio accade proprio questo: la preghiera di richiesta di vita nuova parte dal cuore, non è superficiale, più che di parole, assomiglia a un gemito, un desiderio profondo. Gemere, infatti, significa anelare a qualcosa di cui si ha estremo bisogno; anche fisicamente il gemito è l’espressione di chi, mancando di aria, cerca di aspirarla.

Egli si appropria, per così dire, della sua povertà e miseria; riconosce il suo stato di uomo peccatore, ammette la sua incapacità ad armonizzare la sua vita morale, di dichiara bisognoso di perdono. Questo quarantacinquenne avverte che Dio vuole sincerità nel cuore e non esita ad accettare il poco, il niente che è.

Questa confessio vitae è corrispondente ai vv. 5-8 del salmo 50 ma sfugge, non è capita dalle persone che gli stanno attorno. Solo Giovanni d’Avila si rende conto del miracolo della Grazia che è in atto e non esita a riconoscerlo. Per gli altri è uno che merita solo commiserazione: un poverino uscito di senno. Ma egli, dopo l’elettrochoc provocato dalla Parola di Dio, a poco a poco, avverte che Dio è capace di fare in lui qualcosa di nuovo. Lui che ha sperimentato la sua insufficienza morale, non esita a riconoscere l’azione dello Spirito in atto e accetta di fare pace con se stesso: è la confessio fidei : “Lavami, e sarò più bianco della neve”.

La gioia, la letizia, non arrivano subito. Il “Ridonami la gioia di chi è salvato; mi sostenga il tuo spirito generoso.”(v.14), verrà. Ma lui ormai è stato collocato sul binario giusto e la potenza di Dio non tarderà a manifestarsi.

IL PASSATO E’ PASSATO

Dio, che gli ha fatto grazia di guardare in avanti, ora gli mette in cuore la confessio laudis. Ha sperimentato il soffio di vita, la forza di Dio? Qui riceve l’investitura: vai e annuncia quanto Dio ha fatto per te, sìì testimone della salvezza che hai ricevuto: “Ai peccatori mostrerò le tue vie e i malvagi torneranno a te”(v. 15).

D’ora innanzi dovrà essere un predicatore del Dio che salva: “Dona il tuo amore e il tuo aiuto a Sion, rialza le mura di Gerusalemme”.(v.20) E’ la missione che avrà nella Chiesa. A cominciare da Granada. La sua croce sarà la sua gioia, ora che è stato reso capace di annunziare le grandi opere di Dio. Il suo motto sarà “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù”.

E’ evidente che questo percorso di ri-conversione del cuore non si è esaurito nell’arco di una giornata. Sono state necessarie delle tappe che il nuovo Giovanni non ha potuto disattendere o saltare. Quanto più cercheremo di ripercorrere quel processo che abbiamo chiamato sindrome da Miserere, tanto più ci convinceremo che si è trattato sì di vera follia ma di quella contagiosa del Signore Crocifisso-Risorto. Non lo ha scritto proprio l’apostolo Paolo che “la parola della croce sembra una pazzia a quelli che vanno verso la perdizione”, mentre “per noi che Dio salva, è la potenza di Dio?” Paolo sa bene di non dire una cosa nuova e cita le Scritture dei padri: “Sta scritto infatti: ”Distruggerò la sapienza dei sapienti e squalificherò l‟intelligenza degli intelligenti” (1Cor 1, 18-19).

E poi aggiunge di suo: Dio ha deciso di salvare quelli che credono, mediante questo annuncio di salvezza che sembra una pazzia. Gli Ebrei infatti vorrebbero miracoli, e i non Ebrei si fidano solo della ragione.

Noi invece annunziamo Cristo crocifisso, e per gli Ebrei questo messaggio è offensivo, mentre per gli altri è assurdo.

Ma per quelli che Dio ha chiamati, siano essi Ebrei o no, Cristo è potenza e sapienza di Dio. Perché la pazzia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini.

Guardate tra voi, fratelli. Chi sono quelli che Dio ha chiamati? Vi sono forse tra voi, dal punto di vista umano, molti sapienti o molti potenti o molti personaggi importanti? No!

Dio ha scelto quelli che gli uomini considerano ignoranti, per coprire di vergogna i sapienti; ha scelto quelli che gli uomini considerano deboli, per distruggere quelli che si credono forti.

Dio ha scelto quelli che, nel mondo, non hanno importanza e sono disprezzati o considerati come se non esistessero, per distruggere quelli che pensano di valere qualcosa.

Così, nessuno potrà vantarsi davanti a Dio.

Dio però ha unito voi a Gesù Cristo: egli è per noi la sapienza che viene da Dio. E Gesù Cristo ci rende graditi a Dio, ci dà la possibilità di vivere per lui e ci libera dal peccato. Si compie così quel che dice la Bibbia: Chi vuol vantarsi si vanti per quel che ha fatto il Signore (idem 21-31).

La riflessione potrebbe estendersi ulteriormente ma ci porterebbe molto lontano, perché la Bibbia è un pozzo senza fondo. Vorrà dire che sarà per un’altra volta.

Si noti l’antica iconografia: Giovanni di Dio è ripetutamente riprodotto con il simbolo della somma follia: la Croce.

San Giovanni di Dio affascina non per le cose dette o scritte, che sono poche, ma per la la testimonianza. La sua esistenza, del resto come quella di ogni altro uomo, in qualunque sistema sociale ed economico si inquadri, è un evento attraversato, segnato dalla croce: dal dolore, dall’affanno, dalla sofferenza e dalla morte. Oggi come ieri, come domani.

FATEBENEFRATELLI”: E’ SOGNO AD OCCHI APERTI CHE PERDURAAngelo Nocent

Granada sarà la tua croce”. La leggenda del Gaucín” – Nonostante la mancanza di fonti storiche, una delle storie più significative ed evocative che cercano di spiegare l’arrivo di San Giovanni di Dio a Granada è la celebre leggenda del Gaucín.

Si tratta di questo: “il santo ebbe un incontro con un umile trovatello, mentre passeggiava presso il piccolo comune di Gaucín, in Spagna.

– Deciso a non abbandonarlo, Giovanni prese il bambino con sé sulle spalle e proseguì il cammino.

– Fermatosi per bere ad una fonte, Giovanni adagiò il bambino sotto un albero, il quale mostrò al santo un melograno spaccato, dal quale fuoriusciva una croce, e gli disse: “Granada sarà la tua croce”.

  • L’emblematica assonanza tra il nome della città e la leggenda del frutto costituisce ancora oggi per i Fatebenefratelli un lascito importante per la cultura dell’Ordine.”

Dunque: LEGGENDA o LASCITO ?

Mi rifiuto di sottoscrivere che quella di Gaucín sia leggenda, perché ritengo l’interpretazione fuorviante: non è VERO solo tutto ciò che è dimostrabile e documentabile.

Mi chiedo: ci si può innamorare di una leggenda a tal punto da farla sbarcare sui cinque continenti e moltiplicare esponenzialmente gli “illusi” o “infatuati” durante i successivi cinque secoli fino ad oggi?

Nessuno è autorizzato a definire “LEGGENDA” quella che vede per protagonista lo sbandato Giovanni di Dio. Perché c’è di mezzo il Maestro interiore, lo Spirito di Gesù che lo ha preso per mano e lo sta conducendo perché si realizzi il progetto che l’Eterno ha su quest’uomo, sbandato ma credente e pensante.

L’annunciazione dell’Angelo a Maria è leggenda? Nessuno osa pensarlo. Per noi è un “fatto”. Ed è anche sconvolgente. Noi testimoni solo degli effetti che ha provocato non riusciamo a credere che l’ effetto si ha senza causa.

Perciò, senza cadere nel miracolistico, mi sento di dire che tutta la nostra vita, compresa quella di Giovanni di Dio, è fatta di appelli, vocazioni, annunciazioni, che Dio rivolge in tutti i tempi, ad ogni ora del giorno ma anche della notte. Se in principio era il Verbo, ora Egli è un CONTEMPORANEO che abita fra noi. Ma se di messaggi, vocazioni, annunciazioni, sollecitazioni, inviti… è piena la nostra vita, senza l’illuminazione del Vangelo, il rischio è di non accorgercene.

Mi viene in mente Francesco d’Assisi. Nessuno definisce leggenda la sua esperienza: “In preghiera, davanti al Crocifisso di San Damiano, scoprì in modo più chiaro la via da seguire: il “Cristo povero e crocifisso”. Da lui ricevette un ordine ben preciso che si accinse a seguire con tutto se stesso: «Francesco, va’ ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina» (2 Cel. 3).

Francesco ebbe, per tutta la vita, la persuasione di essersi mosso sotto l’azione dello Spirito Santo fin dall’inizio della sua conversione. Tutto è dono e iniziativa del Signore:

«Il Signore concesse a me, frate Francesco»,

«Il Signore mi condusse tra i lebbrosi»,

«Il Signore mi dette tanta fede»,

«Il Signore mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo»

A fare attenzione, non è difficile avvertire che la nostra vita è piena di angeli, di messaggeri, di apparizioni. Ma è solo l’esperienza religiosa dei primi testimoni che può aiutarci a identificarli.

Il modo migliore di leggere il Vangelo è proprio quello di pensare che tutto quanto vi si trova, capita anche nella nostra vita. Ciò che è accaduto ai primi testimoni, succede anche ai nostri giorni.

Il modello ideale di lettura del Vangelo è Maria.

– Da che cosa ha riconosciuto l’angelo?

Come è giunta alla certezza che quel messaggio veniva da Dio?

Ognuno ha il diritto di chiedersi:

– da che cosa potrei riconoscere un angelo?

– Da che cosa riconoscere che un pensiero, un incontro, un avvenimento vengono da Dio?

E’ un problema vitale, lo stesso che dovette risolvere Maria. Lei come ha fatto?

– Anzitutto, non si è lasciata indurre a credere immediatamente.

– Ha riflettuto, si è interrogata, ha messo in questione questa vocazione straordinaria.

In presenza di una Parola di Dio, ci sono due attitudini pericolose:

– quella di rifiuto, del lasciar perdere perché non ci si vede chiaro;

– l’altra, di capirci tutto, dell’evidenza, della non meraviglia, dello scontato.

Ma il solo modo ragionevole è quello assunto da Maria: “Ella non capiva ciò che egli diceva, ma conservava tutte quelle cose e se le ripeteva nel cuore” (Luca 2,51).

– Tutto avviene nel tempo, col tempo, mettendovi del tempo, perché il discernimento dello Spirito non funzione come il caffè liofilizzato istantaneo.

– Poi Maria ha consultato le scritture. Tutti i testi di Luca come anche di Matteo, sono citazioni di profeti ed il Magnificat ci dice come Maria vedeva la sua vocazione: nella linea di tutti quei poveri, di tutte quelle fecondità che l’avevano preceduta.

Come si dirà più avanti, si diventa FATEBENEFRATELLI non tanto per scelta ma per ACCETTAZIONE di una chiamata dall’alto, nel consenso quotidiano di un destino che oltrepassa la nostra previsione e immaginazione. Anche Giovanni di Dio si è trovato coinvolto in un progetto talmente più grande di lui da sembrare folle il progetto e più folle il consenziente.

A chi accetta di inoltrarsi in questa avventura umana e divina è richiesto di muoversi nella logica della fede:

– ricettività e riflessione,

– gioia e timore,

– senso di Dio e buon senso umano.

Le grazie di Dio talvolta giungono come tegole sulla testa. Lasciarsi sconvolgere e pregare, leggere e riflettere le Scritture, conservare e ruminare dentro l’anima gli avvenimenti, è il solo modo ragionevole di procedere.

– Perché Dio interpella proprio me?

– Perché mi fa rivivere tutte le angosce dei poveri, dei perseguitati, delle sterili, degli esseri duramente abbandonati da Dio nel quale hanno messo la loro fiducia?

– Degli innocenti calpestati, accusati, respinti?

– Dei sofferenti senza via d’uscita, degli angosciati dalla vita?

Maria scopre che dietro c’è la fedeltà di Dio, il suo stare ai patti, il suo mantenere le promesse:

– “Ha accolto Israele, suo servo…

– la sua misericordia di generazione in generazione verso coloro che si fidano di Lui”.

L’angelo in carne ed ossa che Maria ha incontrato è Elisabetta, una donna anziana che aveva sofferto come lei e che l’ha incoraggiata a credere, lei così giovane è già così coinvolta nei destini di Dio.

Anche Giovanni di Dio quando riconosce la sua annunciazione canta il Magnifica a modo suo. Gli altri ridono, prendono le distanze dall’impazzito. Lui invece vede realizzarsi le promesse di Dio proprio là dove non aveva sperimentato che i suoi tormenti e disagi assieme a quelli di sventurati suoi simili internati e incatenati nel manicomio.

Come Maria e Giovanni di Dio, i discepoli, consacrati o laici, accettano di associarsi alle follie di Dio, ai suoi progetti grandiosi. Presi singolarmente, essi sono piccola cosa. Messi insieme, diventano trasportatori di ossigeno nel tessuto umano in preda all’anemia, a rischio di cancrena.

La loro determinazione al “servizio trasporto ossigeno” la imparano dalla MATER HOSPITALITATIS, nel senso del suo Magnificat:

1. “Cerco nel cuore le più belle parole per il mio Dio,

2. l’anima mia canta per il mio amato” (Lc 1,46).

3. “Perché ha fatto della mia vita un luogo di prodigi,

4. ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore” (Lc 1,47)

5. “Ha guardato me che non sono niente:

6. sperate con me, siate felici con me,

7. tutti che mi udite.

8. Cose più grandi di me stanno accadendo.

9. E’ Lui che può tutto, Lui solo, il santo!” (Lc 1, 48-49)

10. “ E’ lui che ha guardato, è lui che solleva,

11. è Lui che colma di beni, è lui…”

12. “Santo e misericordioso, santo e dolce,

13. con cuore di madre verso tutti, verso chiunque”

(Lc 1,50).

14. “Ha liberato la sua forza,

15. ha imprigionato i progetti dei forti” (Lc 1,51).

16. “Coloro che si fidano della forza sono senza troni.

17. Coloro che non contano nulla hanno il nido nella sua mano” ( Lc 1,52)

18. “Ha saziato la fame degli affamati di vita,

  1. ha lasciato a se stessi i ricchi:
  2. le loro mani sono vuote,
  3. i loro tesori sono aria” (Lc 1,53)

DISTRIBUTORI DI OSSIGENO

Essere FATEBENEFRATELLI vuol dire CANTARE IL MAGNIFICAT CON LA VITA, ossia portare e TRASFONDERE Vangelo, le gioiose notizie che tutti devono venir a sapere, ossia:

1. Che Dio ha attraversato i cieli,

2. Che l’emoglobina, ossia l’amore, scende dal cielo verso

la terra e non viceversa,

3. Che Lui ci conosce così bene che sarebbe capace di dirci

quanti capelli abbiamo in testa,

4. Che Dio ci conosce uno per uno, si ricorda il nostro

nome,

5. Che ci incoraggia a respirare meglio con il Suo respiro,

6. Che a sognare con Lui i sogni si avverano,

7. Che a vivere la Sua vita, non c’è nulla da perdere, anzi!

  1. Che Dio è totalmente a disposizione dell’uomo,
  2. Che Egli prova più gioia nel dare che nel ricevere.

Se i FATEBENEFRATELLI si fanno guidare da Maria percepiscono ciò che Lei per prima ha intuito dalle confidenze dello Spirito: che, rispetto al decalogo della Antica Alleanza, che era al centro della Tôrah, il Nuovo Decalogo non è più PRESCRITTIVO di comportamenti dell’uomo verso Dio e i fratelli, ma NARRATIVO, DESCRITTIVO di un Dio che è per l’uomo.

Decalogo che Luca illustra con meticolosità nella parabola del buon samaritano, dove in quella catena di verbi è evidente che il contare di Dio non si ferma a dieci ma sconfina alla grande quando s’impegna con l’uomo che incontra sulla Gerusalemme-Gerico del mondo (Lc 1o,25-37):

“…Invece un uomo della Samaria, che

1. era in viaggio,

2. gli passò accanto,

3. lo vide,

4. ne ebbe compassione

5. Gli andò vicino,

6. versò olio e vino sulle sue ferite

7. e gliele fasciò.

8. Poi lo caricò sul suo asino,

9. lo portò a una locanda

10. e fece tutto il possibile per aiutarlo.

11. Il giorno dopo tirò fuori due monete

12. le diede al padrone dell’albergo

13. e gli disse:”Abbi cura di lui

14. e se spenderai di più

15. pagherò io quando ritorno “

FATENBENEFRATELLI significa sottoscrivere il decalogo che è di ogni credente, anzi, riguarda ogni uomo che sogni il sogno di Dio: UNA TERRA FATTA DI PROSSIMI (di tanti globuli rossi TRASPORTATORI DI OSSIGENO).

Con gli occhi di Maria, già vedo germinare i glomeruli dal midollo osseo della Cina. Donne e uomini, dalle campagne alle città, dagli ospedali alle trascurate periferie, muoversi in direzione delle persone più “anemiche”. Ci confermano che i “pionieri o.h.” sono già in avanscoperta a trattare con le Autorità Cinesi. Ma, per un Paese così sterminato, dovranno seguire consistenti rinforzi, tutti ancora in incubazione. E con la Cina, la sterminata Africa…il Mondo…

La fortuna è che tutto il mondo (O  stupore immenso!) può contare sulla stessa Messa, sull’EUCARISTIA, SACRAMENTUM HOSPITALITATIS !

Chi incappa in un’annunciazione, trovi il coraggio di rispondere come Maria: “Fai di me ciò che tu vuoi”. Il dopo si sa a priori come finirà: non può essere che un GIOVANNI DI DIO CONTEMPORANEO con in testa la medesima profezia:

ha fatto della mia vita un luogo di prodigi,

ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore” (Lc 1,47).

 

PUNTO VERO DA DIFENDERE

Questo blog nasce solo ora ma il sogno di far conoscere al vasto pubblico uno dei più grandi campioni della carità quale è San Giovanni di Dio, il santo di Granada  che in Spagna è equiparabile per fama al nostro San Francesco d’Assisi, il sogno – dico – rimasto nel cassetto  dodici anni, potrebbe realizzarsi ora.

Benedetto XVI nella sua prima enciclica DEUS CARITAS EST cita espressamente alcune figure somme della carità cristiana: Francesco d´Assisi, Ignazio di Loyola, Giovanni di Dio, Camillo de Lellis, Vincenzo de´ Paoli, Luisa di Marillac, Giuseppe B. Cottolengo, Giovanni Bosco, Luigi Orione, Teresa di Calcutta.

Il Papa ne è convito: i santi «Rimangono modelli insigni di carità sociale per tutti gli uomini di buona volontà. I santi sono i veri portatori di luce all´interno della storia, perché sono uomini e donne di fede, di speranza e di amore» (40). Naturalmente, tra essi eccelle Maria, la donna che ama, serve, accoglie i discepoli di Gesù come suoi figli e continua dal cielo la sua opera di intercessione materna.

MELOGRANA e chicchiNel v° centenario della nascita

Scritti nel 1995, per tale ricorrenza, credo che i seguenti appunti mantengano ancora intatta la la loro attualità.

Cinque secoli fa, l’otto Marzo 1495, nasceva a Montemor o Novo, in Portogallo, Giovanni Cidade, l’attuale San Giovanni di Dio.

Qual è il modo possibile di lettura di una vita così insignificante, (se si esclude l’ultimo decennio) quale appare quella del Santo, e lo straordinario messaggio che si tramanda nei suoi figli spirituali?

Tralasciando [qui] la biografia, [Nei fratelli vedeva Gesù] resta, comunque, la straordinaria figura di un uomo qualsiasi, che ha fatto di tutto nella vita e che, improvvisamente, a quarantacinque anni, rompe i confini della nostra visione terrena e conquista di colpo un’altra dimensione. Tutte le volte che si scandagliano gli atteggiamenti di questo innamorato pazzo di Dio e dei suoi simili, si registra un primo atto di profonda umiltà, un atto che davvero lo prostrava fisicamente ai piedi della croce del Salvatore.

D’altra parte, l’efficacia di questo suo atteggiamento è confermata dal fatto che in nessun momento veniva sfiorato il pericolo di mettersi come esempio, di proporsi, di fare scuola. Al contrario, si deve aggiungere che, più andava avanti in quest’opera di totale dedizione a Dio e al prossimo, più si allargava e si arricchiva il suo spirito di umiltà. Prova ne sia che non si è mai sognato di fondare un ordine religioso, bensì di sopperire con tutti i mezzi alle necessità di coloro che incontrava sul suo cammino. (*) Bisogna ammettere che di strada ne ha fatta tanta e tutta a piedi, nel vero senso della parola.

Rileggere trent’anni dopo – come sto facendo – le lettere di chi ha affascinato la mia giovinezza, è come scoprire un tesoro dimenticato in un vecchio baule riposto in solaio. Tali, infatti, mi appaiono i suoi scritti, i pochi rimasti. [lettere di san giovanni di dio] Devo riconoscere che allora, pur attratto dal Santo, le sue lettere mi apparivano prolisse, datate, non più di tanto rivelatrici del suo animo. Erano i tempi avvincenti del Concilio Vaticano II e del vino nuovo in fermento nelle

nostre coscienze.

Dei vecchi libri di spiritualità si faceva volentieri senza e, nel tentativo di eliminare la bigiotteria poteva succedere di scartare involontariamente anche pietre preziose. Oggi, proprio grazie al Concilio, tralasciando le considerazioni stilistiche sulla prosa che risente inevitabilmente del tempo, esse mi appaiono rivelatrici di una spiritualità essenziale, robusta, capace di resistere ai mutamenti delle variabili storiche.

L’itinerario spirituale di uno dei più curiosi scherzi della Grazia manifestatisi nel XIV secolo e tutt’ora palese negli eredi spirituali, i Fatebenefratelli, è attuale perché la sua risposta alla chiamata assomiglia a quella di Abramo, nostro padre nella fede. Ma anche a quella di Paolo di Tarso. Ed è un peccato che nessuno abbia tentato una lettura della sua vita alla luce delle Scritture.

Il nostro Patriarca è un vero discepolo del Signore Gesù la cui esperienza umana andrebbe riletta non soltanto accostandola alla parabola del Buon Samaritano, come s’è fatto fin’ora. Tale è certamente il motivo dominante della sua conversione ma il suo poema sinfonico di carità è costellato di passaggi meno sottolineati ma altrettanto interessanti.

La sua è un’esistenza tempestata di divine chiamate fin dalla fanciullezza che, apparentemente, sfociano in vicoli ciechi. La conversione si manifesta in forme che il senso comune definisce follia, cioè malattia mentale. Quest’uomo fatto a suo modo, quasi inimitabile, frequenta case principesche e tuguri, l’arcivescovado ma anche il carcere, il manicomio e le case di prostituzione. E’ un persistente indebitato per Dio fin sul letto di morte, sempre in affanno per onorare gli impegni e farsi aprire nuovo credito, ogni volta con l’acqua alla gola e col rischio di insolvenza che puntualmente svanisce per mani caritatevoli di nobili soccorritori. Lascia debiti in eredità ai primi discepoli che resteranno contagiati nei secoli dalla stessa malattia. I primi discepoli? Nessuno può immaginarlo: si tratta di gente strappata alla galera, al facile guadagno, all’odio, alla vendetta e segnata, come lui, nel profondo, dal marchio indelebile della carità inarrestabile.

E’ uomo di grandi intuizioni e animato dal senso pratico, ma segue umilmente anche la direzione spirituale ed i consigli del Santo Giovanni d’Avila e mantiene costanti legami con il suo Vescovo. Nel suo ospedale l’altare è al centro della corsia. Il Vangelo è il metro di valutazione e di giudizio degli avvenimenti. Preghiera e penitenza sono le quotidiane sue armi di difesa interiore ed esterna. L’ospitalità, l’accoglienza, la condivisione sono pane quotidiano. I doni dello Spirito, la sua unica ricchezza.

Uno sforzo di lettura approfondita in tali direzioni, lo renderebbe ancor più attuale nel nostro contesto storico, per certi versi molto simile al suo.

Si pensi al terzo mondo che i paesi progrediti si ritrovano in casa, incapaci di risposte adeguate, un fiume in piena che nessuno riesce ad arginare.

O alla pestifera droga, destinata chissà fino a quando a mietere giovani vite, avvilite esistenze.

O ancora agli ospedali che sembrano aver proprio dimenticato la lezione profetica del Santo e riducono il malato a caso clinico e la struttura a deficit amministrativo da colmare.

La nostra sanità ed assistenza sociale occidentale, perenne mediatrice di interessi contrapposti e alla ricerca di consenso, avrebbe davvero bisogno della fantastica incoscienza di un San Giovanni di Dio. Infatti, ciò che accade sotto i nostri occhi smarriti non è che l’inevitabile risultato derivante dalla limitata prospettiva ottica di cui dispone l’uomo psichico, ossia l’uomo laicizzato e secolarizzato, rispetto alla vastità di orizzonti che si aprono all’uomo pneumatico ( 1 Cor. 2,14-15).

La dimensione spirituale e divina della persona, gratuito dono di Dio, abbraccia tutto ciò che nell’uomo è iscritto e all’uomo appartiene a partire non dalla sua psiche ma dai desideri dello Spirito secondo i disegni di Dio (Rom. 8,26-27). Nessun progresso scientifico o tecnico può mai sperare di giungere a scoprire le profondità divine dell’uomo. La sapienza laica di questo mondo (1 Cor.2,6) può al massimo concepire di liberare l’uomo mediante la umanizzazione del mondo, della società, delle sue strutture, delle relazioni sociali e internazionali, “ ma quel che nasce da carne è carne, e quel che nasce dallo Spirito è Spirito “ (Gv. 3,6). I risultati sono sotto gl’ occhi di tutti.

Si dirà che ognuno è figlio del suo tempo e che San Giovanni di Dio è un caso irripetibile. Ma forse no: la sua lezione è ripetibilissima. A patto di restare con lo sguardo assorto, in attesa di una rivelazione che appartiene soltanto allo Spirito e al cuore.

L’uomo d’oggi, il vecchio piccolo dio di se stesso che consuma l’esistenza in tragiche contraddizioni, talvolta si pone una domanda fondamentale e importante: è possibile riscattare attraverso i nostri atti terreni la lezione di Cristo? E se sì, in che modo dobbiamo regolarci? La tendenza a spegnere il fuoco interiore per accontentarsi di una religione intesa soltanto come ragione ed esaltazione dell’uomo è sempre in agguato. Il segreto del cristianesimo è questo: i discepoli di Cristo devono diventare non divini come Dio ma umani come Dio.

Giovanni di Dio è l’uomo che non ha alcuna illusione e presunzione di imitare Cristo. Egli sa, per esperienza interiore, di essere in Cristo Gesù (Fil.2,1,5. Il quarantacinquenne sradicato, proveniente da un paese insignificante del Portogallo, accostabile a un altro paese un tempo irrilevante, Betlemme, ha potuto mettere in atto un’esplosione nucleare di carità i cui effetti perdurano, semplicemente perché si è lasciato trascinare nell’umanità di Dio. Ecco descritta la miopia umana di allora e di ogni tempo che vede nella sua conversione i sintomi della follia di un esaltato schizofrenico, invece di magnificare Colui “che innalza i miseri”. Di qui l’estrema attualità della sua proposta di “dare per darsi”, il fascino di questa storia d’amore tra un uomo e il suo Dio e, nello stesso tempo l’evidenza della nostra tragica cecità .

Il rischio dei Fatebenefratelli oggi è di lasciare in piedi lo scenario delle grandi strutture ospedaliere mentre il palcoscenico si svuota delle voci significative e creative indispensabili.

Il punto vero da difendere è quello della sostanza e della continuità della fede. Sul resto permane un grande margine di confusione che può produrre rotture e devastazioni locali e storiche anche oggi come in passato. Giocare d’astuzia sui numeri del silenzio e delle troppo facili allusioni non paga. Sta in noi cercare il Vangelo. Epperò il confronto spirituale interiore tra il nuovo e la tradizione s’impone.

La misura dell’eterno, la conferma di una speranza che va ben oltre l’attualità e il contingente, sono ben presenti nel vecchio cristianesimo, quello di Giovanni di Dio, di cui si è tentati di cantare la morte e la sconfitta.

Nella sua tomba si conserva una luce di vita, un segno eterno di attesa che nessuna riforma umana, pur auspicabile, necessaria, urgente, riuscirà mai a sostituire. Giovanni si è presentato a Dio in tutta la sua fragilità di uomo ma anche in tutta la coscienza dell’ultima, della sola verità: Cristo, e Cristo crocifisso.

Strumenti essenziali d’ogni vera rivoluzione cristiana sono sempre due: carità e preghiera. Giovanni di Dio li ha usati per compiere il miracolo, per noi così ovvio, dell’ospedale moderno di cui, a buon diritto è ritenuto l’ideatore.

Ma di quale ospedale? Quello sotto i nostri occhi, più che un gioiello di famiglia, sembra un’eredità lapidata.

Angelo Nocent

angelonocent-150x150(*) Il dottor Fra Giuseppe Magliozzi, o.h., studioso di San Giovanni di Dio e memoria storica dell’Ordine, mi ha fatto un appunto che merita di essere tenuto presente: “Mi permetta una piccola osservazione alla sua affermazioneProva ne sia che non si è mai sognato di fondare un ordine religioso”. Si tratta di un’affermazione frequente in chi scrive sul Santo, ma in realtà, almeno negli ultimi tempi, egli divenne assolutamente cosciente d’aver fondato una nuova Famiglia Religiosa, tant’è vero che confidò, come annota il Castro, che “ci sarebbero stati fratelli del suo abito in tutto il mondo“…e noi nelle Filippine siamo l’ennesima conferma della sua profezia!” (Manila, 05.07.2007)

Voi non ci crederete ma, dopo aver scritto questa riflessione, rimasta tra le carte, è successo un miracolo: con l’incarico affidatomi di portarle a destinazione, son cominciate a piovere numerose LETTERE DAL CIELO e ancora adesso ogni tanto ne arriva qualcuna. Da bravo postino, ho provato a recapitarle ma per carenza d’indirizzo o perché respinte, mi son tornate tutte indietro. Così ora mi son deciso per un fermo posta e chi vi è interessato non ha che da frugare nella colonna di destra. Le lettere sono state classificate con un numero, in sequenza non cronologica perché prive di data, seguìte dalla sigla ldc (lettere dal cielo). Col tempo si spera di poter semplificare ulteriormente. Ma, tanto per cominciare, ecco la :

fra raimondoL’allora Priore Provinciale  della Provincia Lombardo-Veneta, Fra Raimondo Fabello (nella foto), sempre in concomitanza con il Quinto Centenario, ha presentato una biografia inedita sul Santo in questi termini:

Celebriamo quest’anno il Quinto Centenario della Nascita del nostro padre Fondatore ed è in questo anno giubilare che la presentazione di questo nuovo libro sulla vita di San Giovanni di Dio, scritto da Juan Félix Bellindo, scrittore giornalista spagnolo, tradotto da Giuseppe Pessa ed edito da Città Nuova, è per noi motivo di gioia e di sicuro arricchimento per l’Ordine e per tutta la Chiesa.

Il fatto che un giornalista, abituato ad interrogare la storia attraverso i suoi contemporanei, si sia interessato ad un uomo vissuto nel XVI secolo diventa anche motivo di riflessione e ci fa pensare che questo uomo non appartenga solo al passato ma sia di un’attualità straordinaria anche per gli uomini del nostro tempo e non solo per i religiosi.

Siamo riconoscenti all’autore che si è impegnato in una ricerca approfondita per ricostruire in modo nuovo e il più possibile fedele le esperienze del portoghese Giovanni Ciudad, poi Giovanni di Dio, da papa Alessandro VIII elevato alla gloria degli altari nel 1690.

Siamo tutti chiamati, credenti e non credenti, a creare una società nella quale venga eliminata la violenza, l’emarginazione, la competitività, la manipolazione e sia instaurata la giustizia, la solidarietà, il rispetto e la dignità di tutti nell’amore. Assumere gli atteggiamenti di San Giovanni di Dio significa lanciarsi nella vita senza paura, con coraggio, con speranza. Questa nuova biografia è sicuramente uno strumento di conoscenza, di studio e di approfondimento degli atteggiamenti che hanno caratterizzato la vita di Giovanni diDio e ne hanno determinato l’impegno totale verso i più bisognosi nell’imitazione di Cristo” . San Giovanni di Dio continua a vivere nel tempo; lo dimostrano oltre all’interesse che continua a suscitare nel mondo della cultura, le opere di noi successori che, attraverso il carisma dell’Ospitalità, rinnoviamo quotidianamente nel mondo della sanità la missione del fondatore.

San Giovanni di Dio ha iniziato la sua opera a Granada, praticamente sulla strada; senza mezzi è riuscito ad affascinare persone sensibili che con la loro generosità gli hanno permesso di aprire un luogo dove accogliere tutti i bisognosi.

Come i nostri predecessori, che seguirono le orme di Giovanni di Dio, noi Religiosi Fatebenefratelli, conosciuti dal 1571 nella Chiesa col nome di Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, siamo chiamati oggi sulla spinta della nuova evangelizzazione ad attingere alla ricchezza del nostro Carisma e a rispondere ai bisogni dell’uomo del nostro tempo per giungere preparati a vivere il Terzo Millennio con rinnovata vitalità”.

Siate miei imitatori come anch’io lo sono di Cristo.1 Cor 11,1)

 

FATEBENEFRATELLI

Chi fa bene per se stesso, fratelli?”

Haced bien, hermanos, para vosotros mismos”

Parlare di lui, Giovanni di Dio, è parlare di loro, i Fatebenefratelli.

Il termine “Fatebenefratelli” in Italia sta a indicare i religiosi ospedalieri che nel mondo hanno denominazioni diverse (vedi in fondo). Esso ha un origine che va subito spiegata.

Non so quanti hanno fatto caso che il richiamo è biblico:  il “Fate del bene a voi stessi, fratelli, per amore di Dio”, gridato dal Santo  per le vie di Granada, ha un riscontro proprio nella lettera dell’ Apostolo Paolo ai Filippesi. Egli infatti, a proposito della carità ricevuta, scriveva: “16 Anche a Tessalonica mi mandaste, più di una volta, il necessario di cui avevo bisogno. È chiaro però che non cerco regali: cerco piuttosto frutti che tornino a vostro vantaggio” (Fil 4, 16).

La carità al prossimo è un farsi del bene per il cielo ma che ha una ricaduta anche sul benessere psicofisico. Il dare ci allegerisce e ci fa sentir meglio, perfino gioire . E’ il richiamo dell’Apostolo che si legge anche in Atti: ” Io non ho desiderato né argento né oro, né i vestiti di nessuno. Voi sapete bene che alle necessità mie e di quelli che erano con me ho provveduto con il lavoro di queste mie mani. 35Vi ho sempre mostrato che è necessario lavorare per soccorrere i deboli, ricordandoci di quello che disse il Signore Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” .(Act. 20, 33-35).

Ma in quel grido di derivazione biblica, espresso molto chiaramente in Siracide, 14, come si può vedere più avanti, si cela anche una furba sottigliezza dello scaltro Portoghese, acquisita con l’esperienza di venditore ambulante di libri e immagini sacre.

IL BANDO D’INVESTIMENTO

E L’AFFARE A PORTATA DI MANO

Giovanni Cidade è uomo che ha bisogno di freno ai suoi impulsi, ha bisogno di orientamento, data la sua scarsa formazione e data la sua bontà senza liniti verso il prossimo. A questo ci pensa San Giovanni d’Avila. Ma il Portoghese è intelligente ed intraprendente. Egli escogita il modo per superare le resistenze di chi, intorno a lui, non vuole vedere né sentire.

Come sfamare tante bocche senza risorse? Semplice: la gente è sensibile quando fiuta l’affare. E lui propone affari, occasioni da prendere al volo, da non lasciarsi scappare. Ogni sera ci prova: quando chiede denaro, aiuti per i suoi poveri, sempre ricorda che l’elemosina darà frutto, porterà interessi: “L’elemosina che mi avete fatto gli angeli la tengono già registrata nel libro dellavita”, cioè nel libro di Dio. E la gente ci crede. Ma non è un ciarlatano. A poco a poco s’accorgono tutti del bene che va facendo ed è sempre più difficile resistere all’amorevole violenza verbale del disturbatore della quiete.

Il bando ha una precisa intenzione perché chiede di fare il bene per gli altri, ma con la persuasiva idea che farlo per il prossimo è, in fin dei conti, farlo a se stesso. Questa sottigliezza per l’esortazione alla carità la userà poi questo intelligente pastore di Oropesa, senza alcuna cultura, nelle lettere ai suoi nobili protettori, ai quali sempre presenterà la carità come una “occasione” favorevole. Una sorta di buon investimento del denaro.

Il bando è una novità per chiedere l’elemosina. E la gente, di notte, talvolta sotto la pioggia, raccolta nelle case, si affaccia alla finestra, alle porte. E vedono Giovanni Cidade, poveramente vestito “magro e maltrattato” come dice Castro, [n.d.r. primo biografo] “con una grande sporta appesa alle spalle e fra le mani due grosse pentole legate con spaghi”. E gli danno pane o avanzi di cibo o denaro” (José Cruset in “Un avventuriero illuminato”).

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L’elemosina, per Giovanni di Dio, è sempre un buon investimento di denaro: “Voglio che vi guadagnate questa elemosina”. Ai benefattori bisogna parlare delle conseguenze, dei vantaggi dell’investimento del denaro: “…oh felice guadagno e usura!”. La parola usura, qui, acquista lo straordinario valore della sproporzione. Il Signore è un mercante e garantisce interessi fuori del comune. “Chi non darà quel che possiede a questo benedetto mercante, che stipula con noi un un così buon affare…?”.

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E ancora: “Questa elemosina sta dinanzia Gesù Cristo a pregare per voi” Lo afferma con la sicurezza che gli conferisce la fede nella realtà del premio. Tutto il resto, i guadagni apparenti della terra, conclude è caduco e trascurabile. Quel che è definitivo è l’affare della carità: “…tutto perisce eccetto le buone opere”.

san-giovanni-di-dio-ritratto-particolareL’attualità di San Giovanni di Dio sta nella perenne giovinezza del Vangelo.

E’ la lezione di Matteo, cap. 6:

19 Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano;

20 accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano.

21 Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.

25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito?

26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?

27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?

28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano.

29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.

30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?

31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?

32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno.

33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.

34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.”


Proprio il  Capitolo 14 del Siracide che nel suo contesto è un appello all’elemosina, si potrebbe titolare:

IMPIEGA BENE I TUOI SOLDI

SIRACIDE, 14

Fili, si habes, bene fac tecum

Figlio mio, se puoi trattati bene  e presenta al Signore i doni che gli devi.

Ricorda che la morte non si può rimandare, e la data fissata ti è sconosciuta.

Prima di morire, fa’ del bene al tuo amico, sii generoso e dagli tutto quello che puoi.

Non perdere un’occasione propizia, e non rinunziare a un desiderio legittimo. Perché lasci a un altro i frutti del tuo lavoro? Perché gli eredi dovrebbero spartirsi il frutto delle tue fatiche?

Regala e accetta regali, goditi la vita, perché, una volta morto, non avrai altre soddisfazioni. L’uomo è fragile e invecchia come un vestito; questo è il destino di ognuno: “Tu morirai”.

Guarda le foglie su un albero frondoso:  cadono e ne spuntano altre. Lo stesso succede alle generazioni umane: una muore e l’altra nasce; ogni opera umana si logora e perisce,  e chi l’ha fatta avrà lo stesso destino.

LA “PERPETUA ANDADURA”(il moto perpetuo)

La definizione è di un  biografo del nostro tempo, Enriquez de Cabo. Mi preme evidenziare che quest’ uomo, sempre in movimento che non può “avere respiro per lo spazio di un credo“, che, camminatore instancabile, sempre tutto preso dall’azione, ciò che chiedeva agl’ altri lo faceva per primo perché aveva l’attitudine innata del dare. Due esempi:

    • Quando faceva il venditore di libri metteva in atto un’ astuzia particolare. Accortosi che il costo elevato di un buon libro frenava il desiderio dell’acquirente, si affrettava a cederlo sotto costo, non esitando, osserva il Castro, a collocare il guadagno spirituale dell’altro al di sopra del proprio tornaconto economico. Ma con questo sistema, stranamente non finiva in perdita bensì accresceva il suo stock di volumi, al punto di possederne molti e di pregio. Di qui la decisione di mettr su bottega alla porta Elvira, per non girovagare con quel peso enorme che gli procurava una dispendiosa fatica.

    • San Giovanni di Dio e il Crocifisso ovalePer non restare inoperoso, rimase sempre fedele alla seguente abitudine: quando giungeva in una località per prendere cibo o fermarvisi, portava sulle spalle un fascio di legna ed andava all’ospedale, se ce n’era uno, a lasciarvelo per i poveri; dopo chiedeva quanto gli bastava per nutrirsi in modo austero. Loco! Loco!” (Al pazzo! Al pazzo!)

    • Lanciarsi e senza mezzi: è ancora possibile? Quale sarà il segreto?

    • LUI ERA UN GRAN SIGNORE

Questa del primo biografo è bella:

Camminava sempre a piedi, senza mai servirsi di alcuna cavalcatura, anche nei viaggi, per quanto stanco fosse e malconci avesse i piedi.

Né, per quanto imperversassero intemperie di pioggia o neve, si coprì la testa dal giorno in cui cominciò a servire nostro Signore fino a quando lo chiamò a sé.

Eppure, sentiva compassio-ne delle più lievi sofferenze dei suoi simili e procurava di aiutarli, come se egli vivesse in molta agiatezza.” (Francisco de Castro)

Il giorno del giudizio

(clicca sull’immagine  per ingrandire)

Quando il Figlio dell’uomo verrà nel suo splendore, insieme con gli angeli, si siederà sul suo trono glorioso. Tutti i popoli della terra saranno riuniti di fronte a lui ed egli li separerà in due gruppi, come fa il pastore quando separa le pecore dalle capre: metterà i giusti da una parte e i malvagi dall’altra.


“Allora il re dirà ai giusti:
- Venite, voi che siete i benedetti dal Padre mio; entrate nel regno che è stato preparato per voi fin dalla creazione del mondo. Perché, io ho avuto fame e voi mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato nella vostra casa; ero nudo e mi avete dato i vestiti; ero malato e siete venuti a curarmi; ero in prigione e siete venuti a trovarmi.
“E i giusti diranno:

  • Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo incontrato forestiero e ti abbiamo ospitato nella nostra casa, o nudo e ti abbiamo dato i vestiti? Quando ti abbiamo visto malato o in prigione e siamo venuti a trovarti?

  • “Il re risponderà:
    - In verità, vi dico: tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me!

 

SAN GIOVANNI DI DIO – LETTERE DAL CIELO – 01 – CARISSIMI… – A. Nocent

Carissimi,

io, Giovanni di Dio, vostro fratello in Cristo e vostro compagno nella persecuzione, nella costanza e nell’attesa del Regno, (Apoc.1,9) mi rivolgo a voi, missionari tutti della carità di Dio, per trasmettervi il messaggio dello Spirito del Signore Gesù nel quinto centenario della mia nascita che desiderate celebrare, con la Chiesa universale, per la Sua gloria.

.

La nostra famiglia ha ormai cinque secoli. Viene spontaneo chiedersi come gravano sulle spalle. Vista la dimensione planetaria dei destinatari, vorrei che questa Parola che non mi appartiene, facesse il giro del mondo.

.

( * ) ALLE FRATERNITA’ CHE SONO IN EUROPA:

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  • FilippineALLE FRATERNITA’ CHE SONO IN AFRICA:
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    .

    Chiamandovi frammento eucaristico, ho voluto evidenziare le motivazioni di fondo che ci mostrano come eucaristia-chiesa-ospedale siano una triade che si richiama, si completa e si sovrappone. Questa realtà mi fa pensare a tante particole che il vento dello Spirito, soffiando sull’altare del primo ospedale di Granata, ha disseminato lontano. Ciò nonostante, la mensa non si è impoverita.

    .

    Non è l’Eucaristia, infatti, che diminuisce, è l’Altare che si dilata.

    .

    In questo momento penso con particolare trepidazione a voi, portati apparentemente alla deriva dal vento di Pentecoste ed approdati su spiagge remote. Giunga a ciascuno in particolare, ovunque vi capiti di leggere questa lettera, la mia benedizione e la gratitudine di tutti i fratelli.

    In Cristo Gesù, nel cui cuore

  • le fatiche si placano
  • le nostalgie si dissolvono
  • le stagioni hanno tutte la struggente bellezza della primavera
  • le amicizie antiche si ritrovano
  • e la vita acquista il sapore della libertàho pensato che a ben poco servirebbe ripetere o risentirsi dire in questa celebrazione del quinto centenario della mia nascita e, quindi, della fondazione, che sono stato il lungimirante fondatore dell’ospedale moderno. Ciò potrà anche gratificarvi, ma non è questo il punto. Conta invece che voi esprimiate la vostra lungimiranza, leggendo nella realtà storica alla quale appartenete e compiendo gesti profetici per il tempo presente.In nome di una solidarietà critica, siate
  • onesti con Dio
  • onesti con il mondo7 «Chi è in grado di udire ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: Ai vincitori darò da mangiare il frutto dell’albero della vita, che si trova nel giardino di Dio” (Ap.2,1-7 e ss.).

    PER LA CHIESA CHE E’ NELLA CITTA’ DI…

    .

    SMIRNE

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    IMGP4438.jpg

    .

    8 «Per la chiesa che è nella città di Smirne, scrivi questo:

    Così dice il Signore, che è il Primo e l’Ultimo, che era morto ed è tornato a vivere:

    9 Io so che siete perseguitati e ridotti in miseria, ma in realtà siete ricchi.

    So che parlano contro di voi alcuni che pretendono di essere il popolo mio, ma non lo sono, perché sono seguaci di Satana.

    .

    .

    IMGP4455.jpg

    .

    10 «Non abbiate paura delle sofferenze che vi aspettano. Sentite: il diavolo getterà presto alcuni di voi in prigione per mettervi alla prova. Sarete perseguitati per dieci giorni. Siate fedeli anche a costo di morire, e io vi darò la corona della vittoria: la vita eterna.

    11 «Chi è in grado di udire ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: La seconda morte non colpirà i vincitori. “

    .

    PER LA CHIESA CHE E’ NELLA CITTA’ DI…

    .

    PERGAMO

    .


    Pergamo, i simboli di Asclepio in una colonna dell’Asklepeion

    Pergamo: il Tempio di Serapide, trasformato in basilica cristiana

    .

    12 «Per la chiesa che è nella città di Pèrgamo, scrivi questo: Così dice il Signore, che ha una spada affilata, a due tagli:


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FERNANDO MICHELINI SI RACCONTA

FERNANDO MICHELINI SI RACCONTA

FERNANDO MICHELINI il milanese miracolato da San Riccardo Pampuri

 

Posted on Febbraio 18th, 2009 di Angelo

E’ MORTO FERDINANDO MICHELINI un miracolato da San Riccardo Pampuri

Nella mattinata di lunedì 27 ottobre 2009, presso la Casa di riposo San Carlo Borromeo dei Fatebenefratelli, a Solbiate Comasco, è deceduto il professor Ferdinando Michelini aggregato all’Ordine ospedaliero.

Nato a Milano 91 anni fa (1918), Michelini prima delle seconda guerra mondiale si diploma a Brera, perfeziona gli studi a Parigi e alle Belle Arti di Roma. Dopo la deportazione in Germania, rientrato in Italia, si laurea in architettura.

È già un pittore di fama mondiale. A metà degli anni 50 gli viene diagnosticato un tumore. Michelini si affida alle preghiere del medico Riccardo Pampuri.

La Sua guarigione è fra i miracoli che hanno poi elevato agli altari il nostro Confratello. Dopo la prodigiosa guarigione, ha speso gran parte della sua esistenza prodigandosi nel progettare e realizzare opere a beneficio delle persone ammalate e bisognose, soprattutto in terra di missione.

Encomiabili la sua disponibilità e il suo spirito di servizio, mediante i quali esprimeva la viva e sincera gratitudine per la guarigione al nostro confratello San Riccardo. Con la nostra fraterna e corale preghiera affidiamo il defunto al Risorto, perché possa concedergli il premio assicurato a coloro che lo servono e lo testimoniano anche mediante l’espressione artistica.

Il rito delle esequie è stato celebrato il, 30 ottobre, presso la chiesa della Parrocchia San Zenone di Omate, frazione di Agrate Brianza (Milano).

Da FATEBENEFRATELLI . N. 4 – Ott/Dic.2008

La sua è una santità popolare, serena carica di stupore.

Una tomba da visitare

Un benefattore dell’umanità,  persona  da non dimenticare.

( A. Nocent)

MIRACOLO A MILANO

Ebbe salva la vita per intercessione di San Riccardo Pampuri. Ha ringraziato costruendo ospedali e affrescando chiese.

 

Storia di Ferdinando Michelini

Di Lucio Brunelli

Questa è la vera storia di Michelini Fernando da Milano, professione pittore, la cui vita è stata cambiata da un miracolo. Uno di quei rari miracoli che hanno superato l’esame dalla scienza medica e sono stati approvati ufficialmente dalla Chiesa cattolica. La cosa più incredibile dei miracoli è che accadono”, diceva lo scrittore inglese Gilbert Leith Chesterton.

Al nostro pittore il miracolo accadde il 15 settembre 1959. Dopo la sua guarigione prodigiosa Michelini ha vissuto per trent’anni in Africa e in Palestina, mettendo la sua professione al servizio dei missionari e del patriarcato latino di Gerusalemme. Ha costruito ospedali, affrescatochiese. Gratis, naturalmente. “Il modo in cui ho ringraziato il Signore per il dono ricevuto”, sorride alzando le spalle. Come fosse la cosa più naturale del mondo.

Oggi Michelini ha 78 anni ed è tornato nella sua Milano. Trascorre una vecchiaia serena, dipingendo quadri di soggetto religioso. Siamo andati a trovarlo nello studio di Via Carducci, a due passi dalla Clinica San Giuseppe, dei Fatebenefratelli, dove avvenne la straordinaria guarigione. E dove, nel lontano 1 MAGGIO 1930, morì Riccardo Pampuri, il santo medico della Bassa Milanese (Trivolzio) da cui ottenne la grazia.

Bussando alla sua porta, uno di domanda con un po’ di disagio che faccia può avere un miracolato. E pensa di trovarsi di fronte un essere strano, come un mistico extraterrestre. Invece compare un signore normalissimo: alto, arzillo, i capelli lunghi e un po’ disordinati come si addice ad un artista. Allegramente entusiasta dell’avventura vissuta, ma ben piantato con i piedi per terra.

Ecco il racconto della sua vita, come è rimasto impresso nel nostro registratore.

Sono nato a Milano, nella zona di Porta Romana, il 30 marzo 1917. Fin da ragazzo fui attirato dalla pittura. Frequentai l’Accademia di Belle arti di Brera. In seguito mi iscrissi anche alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Ma dovetti interrompere gli studi quando scoppiò la seconda guerra mondiale e fui chiamato alle armi. Il giorno dell’armistizio, l’8 settembre 1943, mi trovavo in Francia, nelle truppe di occupazione a Vichy. I tedeschi ci fecero subito prigionieri e finii in campo di concentramento in Germania. A Ravensburg.

Furono due anni di inferno. Pensi, il lager di Ravensburg era talmente sperduto che non figurava nemmeno nelle liste in mano agli alleati. Quando i russi vennero a liberarci, nell’aprile 1945, i sopravvissuti erano appena un centinaio. Le dico solo una cosa: prima della guerra pesavo 86 chili, quando uscii dal lagher ero sceso a 38 chili. Uno straccio. Fu in quegli anni che mi ammalai allo stomaco.

Per una coincidenza fortuita, tornato a Milano, mi feci curare alla clinica San Giuseppe, dei Fatebenefratelli, l’ospedale dove il Riccardo Pampuri aveva svolto la sua missione negli ultimi anni della sua vita, fino alla morte. Ma a quel tempo non sapevo granché della sua vita, ne sentii parlare, ma non ero un devoto.

Tornato alla vita normale, ripresi a dipingere. Ho esposto i miei quadri in molte città dell’Europa. Viaggiavo molto. Per alcuni anni ho anche insegnato alla scuola Leone XIII gestita dai gesuiti di Milano. Realizzai dei quadri a soggetto religioso anche per la congregazione dei Fatebenefratelli, ma si trattava di un rapporto professionale.

Nell’agosto 1959 ebbi la prima grave manifestazione della malattia. Dolori violenti, vomito biliare con sangue. Fui ricoverato all’ospedale Ciceri-Agnesi di Milano. La diagnosi: ulcera duodenale perforata. Ma rifiutai l’intervento chirurgico. Dopo alcune cure mediche, venni dimesso. Il 15 settembre il male riesplose. Mi trovavo nello studio quando stramazzai a terra, in preda a dolori insopportabili. Il mio allievo Cesare e il portiere mi soccorsero e mi trasportarono di corsa al San Giuseppe. Dopo i primi esami i medici decisero che si doveva intervenire chirurgicamente al più presto. Prima di perdere i sensi, mentre mi portavano nella sala operatoria vidi un’immagine di Riccardo Pampuri, che non era ancora stato fatto santo dalla Chiesa. La causa di canonizzazione era già stata introdotta nel 1949 dal cardinale Schuster, ma i decreti per la beatificazione sono del 1981. Quell’immagine di san Riccardo è l’ultima cosa che ricordo prima di finire sotto i ferri.

Quando mi aprirono, i medici trovarono una situazione disperata. Peritonite acuta diffusa, completa occlusione intestinale. Ci fu una grave complicazione infra operatoria. Nel tentativo di separare alcune anse intestinali che si erano agglutinate, il tessuto si ruppe. E le pareti intestinali erano così malandate che non fu possibile suturarle. Il dottor Marini, uno dei periti della Consulta medica vaticana che si è occupato del mio caso, ha riassunto così la situazione: L’impossibilità di scoprire e di suturare la perforazione, causa prima della peritonite,

L’impossibilità di suturare la breccia accidentalmente aperta su un’ansa dell’ileo. E tantomeno resecare l’intera ansa lesionata, per le gravi condizioni del malato, lo fanno ritenere prossimo alla morte sicura, sia al chirurgo che ai suoi assistenti” (cfr. Sacra Congregatio pro causis sanctorum, p. n.699, 13 gennaio 1981).

Di fatto i medici dissero ai miei parenti che la prognosi era infausta, che difficilmente avrei superato la notte. Insomma, mi consideravano spacciato. Così i medici non cedettero ai loro occhi quando, la mattina seguente, mi ritrovarono ben sveglio e pimpante sul letto. I dolori erano scomparsi. Nei documenti per la causa di beatificazione del Pampuri sono riportate tutte le testimonianze dei sanitari. Ad esempio questa del dottor Terno, il chirurgo: Al mattino seguente, entrando nella stanza del malato, notai che stava in atteggiamento di preghiera semi seduto sul letto; io per incoraggiarlo gli dissi: “preghiamo perché avvenga il miracolo”. Il paziente mi strinse la mano e con voce energica mi disse: Il miracolo è già avvenuto”. Facendomi rimanere fortemente sorpreso della vitalità che rivelava la sua voce.

Procedetti all’esame dell’addome e con grande sorpresa notai che era completamente scomparso il meteorismo intestinale, che l’addome era perfettamente trattabile e indolente in tutti i quadranti—“(ibidem).

Ricordo il gran parlare dei medici attorno al mio letto, si scambiavano lastre, cartelle cliniche…Non riuscivano a capacitarsi.

Un altro medico dell’ospedale San Giuseppe, il dottor Savarè, ha dichiarato al Tribunale diocesano di Milano: Nella mia esperienza ininterrotta di 32 anni in sala chirurgica, non mi è mai avvenuto di osservare la guarigione di un malato nelle condizioni che ho sopra descritto, e questa mia esperienza è avvalorata da quanto risulta dai dati della patologia chirurgica. Ritengo pertanto che la guarigione non sia spiegabile con le leggi conosciute dalla scienza medica” (ibidem).

I perito della Consulta medica annessa alla Congregazione per le cause dei santi, dopo aver studiato l’intera documentazione e tutte le testimonianze, giunsero alle stesse conclusioni. Una guarigione inspiegabile sulla base delle attuali cognizioni medico-scientifiche. Solo nel 1981, dopo scrupoloso esame, la Chiesa ha riconosciuto che il miracolo poteva essere attribuito all’intercessione del Servo di Dio Riccardo Pampuri. Io ne fui moralmente certo fin dall’inizio. L’immagine del Pampuri fu l’ultima cosa che vidi prima di entrare nella camera operatoria e la prima che mi apparve quando riaprii gli occhi. Invocai il suo soccorso.

Anche un religioso in servizio preso l’ospedale, mio conoscente, chiese in modo incessante la grazia a san Riccardo. E per rafforzare la richiesta posò sul mio letto, dopo l’intervento, una giacca appartenuta al santo. Il buon Dio prestò ascolto alla intercessione del Pampuri.

I trent’anni successivi al miracolo Li ho trascorsi in Africa e in Israele. A costruire ospedali e chiese, al servizio dei missionari. Ma non è che mi venne la vocazione alla vita religiosa, non ho mai pensato di farmi missionario. Fu una serie di circostanze fortuite che mi portò laggiù. I Fatebenefratelli erano presenti in Togo; avevano deciso di costruire un ospedale ad Afagnan. Sapevano che mi intendevo di architettura. Mi chiesero un progetto. Accettai; era il minimo che potessi fare… Poi mi chiesero di seguire i lavori. E mi trasferii in Togo. Il 28 marzo fu posta la prima pietra dell’ospedale e il 5 luglio Il complesso era inaugurato a tempo di record: 160 letti, sette medici, una settantina di infermiere.

Dopo il Togo fu la volta del Benin. Un altro ospedale, e quante vite ha contribuito a salvare. Poi cominciarono a chiedermi progetti di chiese. Ne ho costruite in tutto una sessantina, spostandomi in Alto Volta, Dahomey, Costa d’Avorio. E una volta che le chiese erano finite, non potevano rimanere spoglie. Così mi venne chiesto di affrescarle. E naturalmente accettai. Dipingere è la cosa che amo di più. L’arte religiosa è eminentemente didattica. Tende a rappresentare una verità. In altri tempi si cercò di abolire l’immagine, ma fu un errore. Il popolo ne ha bisogno. I muri delle chiese sono la Bibbia dei poveri. Per chi non sa leggere è il modo più facile di apprendere la vita del Signore e condividere la fede della Chiesa.

Io sono un semplice pittore non un artista. Gli artisti oggi sono dei semidei. Personalmente mi considero un pittore come quelli del tempo antico, romei raminghi, che giravano l’ Europa dipingendo dovunque, tanto le cattedrali come le Madonne sulle case dei contadini, e ai quali sapevano che le loro opere facevano pregare la gente.

Ho lavorato una decina di anni anche in Terrasanta, al servizio del Patriarcato latino di Gerusalemme. Ho restaurato e dipinte decine di chiese e chiesette in Israele, nei territori arabi occupati, anche in Giordania. Naturalmente non ho mai chiesto una lira. In Africa mi ero portato una tenda di campeggio. Ma era impraticabile per il caldo. Così mi costruivo una capanna con le piante di palma. I missionari sono sempre stati ospitali. E’ stata un’esperienza che non scorderò mai. Specialmente in Africa. Tempo fa dipinsi tutto l’interno di un grande battistero a Tsevié. La gente del posto seguì il lavoro con entusiasmo ed alcuni vennero a dirmi che volevano farsi battezzare in quel luogo. Il giorno dell’inaugurazione si ebbero duecento battesimi di adulti.

A San Riccardo voglio bene, ovvio. Ho conosciuto un suo nipote, ancora vivo. Mi ha portato in una parrocchia, vicino casa mia, a Milano, dove il Pampuri andava a pregare. Da solo. Mi ha mostrato il punto esatto in cui si inginocchiava. Il parroco nemmeno lo sapeva. Mi sono fatto raccontare tutto della vita del Pampuri. Era una persona a cui Dio concesse il dono della mitezza e della modestia. Passò la vita a far del bene alla povera gente, senza darlo a vedere. E anche dopo morto, continua a fare del bene. Ho raffigurato i momenti salienti della sua vita, ne è uscito un libretto che è stato stampato in tante lingue. Quello a cui sono più affezionato è scritto in arabo. In Palestina lo hanno letto tanti ragazzi. Erano incuriositi. Volevano saperne di più. E mi ascoltavano con gli occhi sgranati quando raccontavo loro la vita del Pampuri e di come ebbi salva la vita, tanti anni prima, per merito suo…”.

Le apparizioni della Madonna in terra d’Africa

Le prime apparizioni della Madonna in terra africana riconosciute dalla chiesa si registrano a Kibeho, un paese nel sud del Rwanda. Il 28 novembre 1981 la Vergine appare, per la prima volta, ad Alphonsine Mumureke, presentandosi come Nyina wa Jambo (Madre del Verbo). Alcuni mesi dopo si mostra anche ad alcuni compagni di Scuola. Le prime apparizioni della Madonna in terra africana riconosciute dalla chiesa si registrano a Kibeho, un Paese nel sud del Rwanda. Il 28 novembre 1981 la Vergine appare, per la prima volta, ad Alphonsine Mumureke, presentandosi come Nyina wa Jambo (Madre del Verbo).

Alcuni mesi dopo si mostra anche ad alcuni compagni di scuola. L’avvenimento provoca in Rwanda un’intensa emozione. Le folle, anche da molto lontano, si riversano a Kibeho, mosse dalla curiosità e dalla aspettativa di Miracoli, e si radunano attorno al podio sul quale è seduta la veggente, per accogliere dalle sue labbra il mesSaggio celeste e dalle sue mani l’acqua che la Vergine, dietro sua richiesta, benedice. Per anni, una commissione teologica e una medica studiano attentamente la personalità dei veggenti (sei ragazze e un ragazzo di 15 anni, Segetashya, che non è neppure catecumeno quando Gesù in persona gli appare; sarà poi battezzato con il nome di Emmanuel), senza notare in loro alcunché di anormale. Anche i messaggi che i veggenti sono incaricati di trasmettere non esulano dall’ordinaria vita di un cristiano: parlano di penitenza, conversione del cuore, spirito di fede, preghiera, carità fraterna, disponibilità, umiltà, fiducia in Dio, vanità del mondo e dignità della persona umana.

L’apparizione del 19 agosto 1982 ha un tono singolare. I veggenti raccontano di aver visto immagini terrificanti: fiumi di sangue, persone che si ammazzavano tra di loro, cadaveri abbandonati insepolti, un albero in fiamme, un abisso spalancato, un mostro spaventoso e tante teste decapitate. Le 20mila persone presenti sono prese da un senso di paura, se non di panico e tristezza. Dodici anni dopo, avviene il genocidio. Anche a Kibeho, migliaia di persone sono assassinate. I molti che cercano rifugio nella chiesa vengono massacrati; l’edificio è incendiato. Nel 1996, un campo di rifugiati, installato nei pressi di Kibeho, è attaccato dall’esercito del Fronte patriottico ruandese, al potere a Kigali: migliaia i morti.

Nel 2001, la chiesa del Rwanda, uscita indebolita e divisa dalla terribile prova del genocidio, riconosce l’autenticità delle apparizioni. Mons. Augustin Misago, vescovo di Gikongoro, l’inquisitore dei primi anni, precisa che il riconoscimento delle apparizioni non è articolo di fede; il credente è libero di crederci o meno. Il santuario, consacrato nel 2003 dal card. Crescenzio Sepe, è dedicato alla Madonna del dolore.

Un’icona miracolosa nel Togo

Nel 1973, per iniziativa del comboniano Francesco Grotto, la chiesa parrocchiale di Togoville (Togo) è trasformata in santuario, dedicato a Nostra Signora del Lago, Madre della misericordia. L’architetto italiano Fernando Michelini (miracolato da San Riccardo, Pampuri, medico e religioso dei Fatebenefratelli) dona all’amico comboniano un’icona miracolosa della Madonna, che l’arcivescovo di Lomé “intronizza” solennemente a nome di tutta la chiesa togolese. Da subito, l’icona comincia a compiere meraviglie. Si racconta che un gruppo di pellegrini, in grave difficoltà mentre attraversava il Lago Togo per recarsi al santuario, si sia trovato misteriosamente sulla riva, sebbene il guidatore della piroga avesse perso la pertica.

Nel villaggio circola un altro aneddoto che assicura di un fatto avvenuto molti anni prima dell’arrivo dell’icona: durante un lavacro purificatorio presso un sacerdote del vodù locale, una donna consacrata al feticcio e impossibilitata ad avere figli ebbe la visione di una dama bianca, con un bimbo tra le braccia; qualche tempo dopo, la donna concepì.

Si racconta anche che, nel novembre 1983, in occasione dei festeggiamenti per il decimo anniversario dell’intronizzazione dell’icona, uno sciame d’api, “in forma di ostia, bianca e rotonda”, si sia posato proprio sopra la Madonna. Nella tradizione togolose, le api sono segno di benedizione. Parlare di miracolo farebbe sorridere noi occidentali. Eppure, anche i grandi sacerdoti del vodù di Togoville si sono recati più volte a venerare l’immagine della Vergine, forse perché assimilano la devozione alla Madonna alla venerazione per la dea del lago, Mama Kponu.

Sempre in Togo, 1998: corre voce che la Vergine appaia nella piazza della chiesa parrocchiale di Tsévié, a 30 km da Lomé. I veggenti sono giovani, tra cui una rifugiata rwandese. La notizia travalica subito le frontiere e i pellegrini arrivano da Costa d’Avorio, Benin e Ghana. Le apparizioni si sono ripetute, ma la chiesa non le ha mai riconosciute. I fedeli, però, continuano a recarsi a Tsévié per pregare la Vergine.

Apparizione a Nsimalen, in Camerun

Il 13 maggio 1986, a Nsimalen, a 25 km da Yaoundé (Camerun), alcuni ragazzini stanno giocando nel cortile di una scuola. A un certo punto, sulla cima di un albero vedono una forma bianca” che richiama fortemente la figura della Madonna venerata nella chiesa parrocchiale. La vedono anche alcuni adulti, che la “identificano subito: si tratta senz’altro della Vergine Maria! La voce si sparge fino alla capitale e oltre. La gente accorre: per cinque intere giornate quella strana forma bianca resterà perfettamente visibile. E subito si parla di miracoli. Una bambina di 9 anni, muta dalla nascita, riacquista improvvisamente la parola e si mette a gridare: «Maria, Maria!». Un catechista di Nsimalen ricupera la vista.

Una notte, il villaggio è invaso da una luce ininterrotta che consente di leggere un libro o ricamare un vestito senza bisogno di lampada. C’è chi vede il sole trasformato in una lucente palla verde dai bordi trasparenti, e chi giura di aver visto la luna ovale e, su di essa, una donna seduta con il bimbo in braccio. Il clero scuote la testa. Suor Marie Praxède, una suora che vive da anni a Nsimalen, non comprende la mancanza di entusiasmo dei responsabili della chiesa. Il parroco le dice che a Lourdes la Madonna è apparsa solo a Bernadette. E lei: «Ma qui siamo in Africa, e la Vergine comprende la nostra mentalità. Perché pretendere che appaia sempre allo stesso modo? Perché noi africani non potremmo avere la nostra Vergine? Voi preti, compreso l’arcivescovo, siete troppo europei e non capite».

Una devozione mariana che si è inculturata in Africa

Le apparizioni di Kibeho sono una “buona notizia” per l’Africa e la sua chiesa: la religiosità cristiana si starebbe africanizzando. Questo riequilibra le deviazioni causate dall’Occidente, che con la secolarizzazione sistematica e la dimenticanza dell’essenziale (valgono solo la scienza e la tecnica) ha spesso sedotto l’Africa. Perché meravigliarsi se, dopo un secolo di cristianesimo, le devozioni cristiane assumessero in Africa carne africana e cominciassero a segnare profondamente la psicologia dei credenti? Gli africani hanno sempre avuto visioni di spiriti e di antenati. Per tanti fedeli, la Madonna o un altro santo sono diventati personaggi familiari, che fanno parte del loro universo quotidiano .Almeno su questo punto, sì è operata una reale inculturazione. Per provarlo, non sono necessarie le apparizioni. Bastano i Santuari. Ce ne sono in ogni angolo del continente: Poponguine (Senegal),Kita (Mali), Lagos e Kona (Nigeria), Yagma (Burkina Faso), Dassa-Zoumé (Benin), Yamoussoukro (Costa d’Avorio), Nairobi e Subukia (Kenya), Kampala (Uganda), Soweto (Sudafrica), Namacha (Mozambico), Muxima (Angola)… A partire dal 1970, l’avvenimento del rinnovamento carismatico ha segnato un cambiamento importante nella vita delle comunità africane, ridando diritto di cittadinanza a espressioni religiose radicate nella tradizione e da essa valorizzate, ma che il cristianesimo ha sempre tenute con cura da parte (la trance, ad esempio, considerata “estasi” in Europa, è stata giudicata “possessione demoniaca” in Africa). Oggi, se uno partecipa a un incontro di preghiera degli amanti del Rinnovamento nello Spirito, vede tante persone che cadono in trance durante la processione del SS.mo Sacramento. Simili fenomeni non potrebbero rappresentare, tra l’altro, una protesta contro una liturgia che non dà spazio all’ispirazione o all’emozione collettiva?

Emest Kombo, vescovo di Owando (Congo) deceduto l’ottobre scorso, diceva: «Il giorno in cui non ci sarà più trance, sarà grave: vorrà dire che qualcosa è venuto a mancare». I santi “abitano”, anche solo per un momento, i loro devoti, proprio come il vodù abita” i suoi adepti. La gente ci crede, e non serve dire che Cristo ci ha promesso il suo Spirito, non sua madre o l’angelo Michele. Radicare il Vangelo nella cultura africana è un compito impegnativo e di lunga durata. E Maria di Nazareth, figlia di Israele e Serva del Signore, diventa il paradigma anche del fedele cristiano africano. E non dubito che saprà, anche in Africa, situare bene il posto che lei occupa nella storia della salvezza.

 

Foto: Santuario di Kibeho in Rwanda

René Luneau (teologo domenicano a lungo vissuto in Africa), su Nigrizia, dicembre 2008

12-01-2008

L’ARTISTA MICHELINI

Messaggio postato giovedì 19 febbraio 2009, alle ore 04.41 da Angelo Nocent

E’ una meravigliosa scoperta quella che mi è stata data di fare questa mattina [19 Febbraio 2009], dopo un risveglio così anticipato: ore 3,30, quasi un richiamo, una spinta che mi ha costretto ad alzarmi. Facevo le medie, cinquant’anni fa, quando l’ho conosciuto per la prima volta nel collegio Fatebenefratelli di Brescia. Gli sono stato vicino con grande curiosità e interesse quando dipingeva le scene per il nostro teatro di piccoli attori in erba, chiamati dalla pedagogia del tempo a misurarci con la commedia.

La Cappella, dalla pala centrale raffigurante Maria che ci accoglieva sotto il manto, alle pareti laterali, erano tutti suoi i dipinti a olio sul muro. Son tornato cinquant’anni dopo ed ho trovato quel luogo sacro era ormai sconsacrato e le raffigurazioni coperte dalla mano iconoclasta di uno sprovveduto imbianchino, pari al suo mandante. Conservo incorniciato, un piccolo quadro a matita, raffigurante un carcerato in catene. Ed ho anche un Padre Misericordioso che abbraccia il figliol prodigo. Conservo ancora, riprodotti su carta da geometri, un grande crocifisso ed una maternità di Maria, simile a quella qui riportata ad olio. Un bel giorno la mia mamma (classe 13 Giugno 1918), appassionata di disegno dalle elementari, ha dipinto gli occhi e la bocca ad entrambe le immagini. A parer suo, si trattava di un peccato di omissione, di una incomprensibile dimenticanza.

Michelini era un uomo d’oro, sgobbone, avvezzo al sacrificio. Il suo genio era pari alla sua modestia. Conversare con lui, piuttosto sordastro dopo il campo di concentramento, era piacevolissimo: ti ricaricava la batteria dell’anima con l’entusiasmo che sprigionava da tutta la sua bella persona, in tutto quello che faceva. Non avresti mai smesso di fargli perdere tempo con infinite curiose domande, disponibile com’era con tutti e gratificato da un semplice complimento sulla sua arte.

Quando, più avanti negli anni, abbiamo composto un giornaletto, OPZIONI ‘70, le formidabili lineari vignette del ciclostilato le avevamo affidate a lui che si prestava con entusiasmo a condividere i nostri sogni. Si può dire che è sempre vissuto in povertà, protetto dalla Provvidenza, come gli uccelli del cielo o i fiori del campo. Mai avrei pensato di scrivere di lui, un giorno, sul web.

Avverto ora la sua presenza d’intercessore in Cielo, con il san Riccardo Pampuri che un giorno lo ha miracolato alla grande, dopo un intervento chirurgico non riuscito. Infatti, operato dal Dott. Terno, all’Ospedale San Giuseppe di Milano, era stato trasferito dalla camera operatoria con verdetto di morte assolutamente certa, nelle successive ore della notte.

Grazie, Prof. Michelini, per essere passato ovunque facendo del bene, nel più assoluto nascondimento, dal suo piccolo grande ammiratore. La sua è una santità popolare, serena, carica di stupore.

  1. Una tomba da visitare
  2. Un benefattore dell’umanità,
  3. Una persona da non dimenticare.

Messaggio postato giovedì 19 febbraio 2009, alle ore 04.41

Per Fra Dario Vermi Postulatore Odine Ospedaliero Fatebenenefratelli

postulazione@ohsjd.org

QUI UN SAGGIO DELLA SUA ARTE PITTORICA

FERNANDO MICHELINI il milanese miracolato da San Riccardo Pampuri