GIOVANNI DI DIO: LA PAZZIA
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ERA UNA NOTTE DI LUNA PIENA
Un tempo, CALENDIMAGGIO mi ricordava il triennio delle scuole medie. Era una preziosa ANTOLOGIA per un primo approccio con la letteratura. Oggi il termine che sa di risveglio primaverile, mi richiama MARIA, antologia per diventare santi.. Vorrei soffermarmi sull’argomento ma richiederebbe spazio, perciò partiamo subito dal PRIMO MAGGIO per parlare di una storia dimenticata che comincia proprio così: C’era una volta… nel nostro paese, anni ’50, un sacerdote di nome Don Giovanni BISSA. Faceva il parroco. Di lui si tramanda che fosse un vulcano in perenne eruzione, di iniziative non solo pastorali ma anche sociali. Come Gesù, è passato facendo del bene a tutti. Ma gli stava particolarmente a cuore una cosa: la “SANTITA’“, ossia la vocazione comune a cui è chiamato ogni cristiano.
Qualcuno forse ricorderà che un tempo, prima di entrare nel bar dell’Oratorio c’era una stampa d’epoca, in una cornice argentata, raffigurante SAN RICCARDO PAMPURI. Per me, proveniente da Peschiera Borromeo, dove è sorta la prima chiesa lombarda a lui dedicata, è stato come ritrovare in questo paese un amico di vecchia data. Ma quando fu necessario imbiancare i locali, il quadro venne rimosso e mai rimesso, tanto che nessuno sa più dove sia finito. Ma…nel Febbraio 2024, il nuovo parroco don Mario BOTTI, fresco di nomina, ha trovato il modo di riservare in chiesa un posticino alla icona di questo santo, giovane e contemporaneo, nel segno della continuità. Cresciuto nell’Azione Cattolica (33 anni di sì a Dio), il Pampuri ha tanto da insegnare alla nuova “UP–Unità Pastorale BETANIA”, proprio ora che intende riscoprire e promuovere la ministerialità nella Chiesa (Ef 4,11-13). E questo medico malaticcio, che ha conosciuto il patire, può dare una mano anche a chi ha problemi di salute fisica e spirituale.
Questa volta però non si tratta di una stampa. Il ritratto è opera del prof.FERDINANDO MICHELINI, architetto e pittore milanese, uno dei miracolati dal santo. Sopravvissuto allo sterminio di Lavensburgher, quando è tornato da quel lagher infernale pesava 38 Kg, uno straccio, non un uomo. La detenzione gli aveva procurato serie conseguenze grastro-intestinali che lo hanno afflitto per anni, fino a quella notte in cui è stato costretto a sottoporsi ad intervento chirurgico d’urgenza nella vicina clinica San Giuseppe di Milano. Addome aperto e ricucito. Operazione non riuscita. Decesso previsto dai medici operatori nella notte stessa. Lo sbalordimento dell’equipe medica quando il mattino seguente, invece di un cadavere, si è ritrovata davanti ad un arzillo Michelini, seduto sul letto a disegnare. Erano andati a visitarlo per fargli coraggio e lo riscontrano semplicemente miracolato, per l’invocata intercessione del Servo di Dio, complice anche una sua vecchia giacca, posata sopra le coperte dell’infermo. Ancor più stupefacenti gli anni post guarigione del laico Michelini che metterà tutte le sue energie e competenze professionali a disposizione dell’Africa, gratuitamente. Dirà: “era il minimo che potessi fare”.
Il corpo del dott. ERMINIO FILIPPO PAMPURI, noto in tutto il mondo ormai come SAN RICCARDO, non ha subìto la corruzione del sepolcro. Ora è venerato nella parrocchiale di Trivolzio (PV), suo paese natale, meta di ininterrotti pellegrinaggi. Nei suoi appunti spirituali si trova un proposito coltivato fin dai banchi del liceo e dell’università di Pavia, attivo ed esemplare nell’allora “Circolo Severino Boezio”, con un preciso ideale: “Abbi sempre grandi desideri, cioè desiderio di GRANDE SANTITA‘, di fare opere grandi – mira sempre più in alto che puoi – per riuscire a colpire giusto. Come i mercanti che domandano di più per riuscire a prendere il giusto prezzo”. Di sicuro il treno di Don Bissa, evangelizzatore per vocazione, viaggiava sul medesimo binario e cercava di farvi salire su questo treno più gente possibile, a cominciare dai giovani che gli stavano particolarmente a cuore.
Ma veniamo al PRIMO MAGGIO. Pio XII istituì nel 1955 la festa di «san Giuseppe artigiano» per dare un protettore ai lavoratori e un senso cristiano alla «festa del lavoro». Epperò, fra i santi del giorno elencati nel Martirologio, si legge: “A Milano, san RICCARDO (Erminio Filippo) PAMPURI, che dapprima esercitò nel mondo la professione di medico ed, entrato nell’Ordine di San Giovanni di Dio, dopo due anni riposò in pace nel Signore”. Maggio naturalmente, per tradizione, è anche sentito come il MESE DI MARIA. Riccardo è un santo mariano, perciò eucaristico, come san Giovanni Paolo II che lo ha proclamato santo.Un piccolo aneddoto. Nel pomeriggio del 18 aprile 1930, Venerdì Santo, i superiori, sollecitati dai familiari, a disagio per gli spostamenti con le ferrovie, prendono la decisione di trasportare Fra Riccardo da Brescia, Ospedale Sant’Orsola, sua residenza, a Milano, Casa di Cura San Giuseppe, dove dai primi del ’900 avevano attivato una sezione per i colpiti da tubercolosi, malattia allora invalidante e alla lunga mortale.
La pleurite che lo ha colpito al fronte nella battaglia di Caporetto è degenerata. Consultati i migliori specialistici, alla fine, nessuna terapia si è dimostrata veramente efficace. Consapevole del suo stato, lui non si lamenta né si illude: minimizza e accetta le attenzioni premurose per non essere scortese. Acceso in volto per lo strapazzo e qualche linea di febbre, varca il portone e, mentre entra in clinica, la radio, data la religiosità del giorno, sta trasmettendo l’Ave Maria di Gounoud. La sua sembra quasi un’entrata trionfale. Gli viene assegnata la stanza n. 54. Per l’assistenza i familiari si avvicendano a turno. Rita, la sorella che con lui aveva trascorso gli anni migliori presso la Condotta Medica di Morimondo, lo veglia nelle ore notturne. Zia Maria che lo ha adottato, è presa da sconforto: ”Oh Nan, se la Madonna di Lourdes ti fa guarire, ci perdo tutte le mie sostanze e non m’importa di restare con niente“. Lui la interrompe: “Non dire cose fuori posto. Se il Signore mi lascia, sto qui volentieri; se mi toglie, vado volentieri“.
Tra alti e bassi si giunge al 29 aprile. La situazione precipita. Riccardo riceve l’UNZIONE dei malati e il SANTO VIATICO. Subentra in tutti una grande serenità d’animo. La febbre lo assopisce. Ad ogni risveglio chiede se è già Maggio, quasi avesse un segreto APPUNTAMENTO da rispettare. E proprio all’aprirsi del mese mariano, tanto agognato, chiude la sua beve giornata terrena a soli 33 anni. Ho verificato: era di MERCOLEDI‘ ed era UNA NOTTE DI LUNA PIENA.
In un attimo si sparge la voce che il DOTTORINO SANTO, un tempo il FAC TOTUM della sua parrocchia, E’ MORTO. Il 4 Maggio al camposanto di Trivolzio, lo accompagna una folla sterminata proveniente anche dai paesi limitrofi e oltre. Nei giorni seguenti, chi passa dal cimitero va a deporre un fiore, come per dire “grazie!”. E c’è chi dalla tomba preleva un pugno di terra da portarsi a casa. Matura la decisione di traslare la salma in chiesa e viene posta vicino al fonte battesimale.
Passano gli anni. Ad un certo momento entra in scena un personaggio influente: DON GIUSSANI. In internet (vedi Alberto Savorana) per sapere come è nata la sua devozione pro san Riccardo, passato come una meteora, lasciandosi dietro un fascio di scintille in un campo di stoppie: “tamquam scintillae in arundimento”. Se oggi il roveto continua ad ardere e non si consuma è perché lì c’ è Dio: l’unico FUOCO che non ha bisogno di essere riattizzato. L’aveva promesso: ”Attirerò tutti a ame“ Gv 12,20). Angelo Nocent
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Il mese di maggio è il periodo dell’anno che più di ogni altro abbiniamo alla Madonna. Un tempo in cui si moltiplicano i Rosari, sono frequenti i pellegrinaggi ai santuari, si sente più forte il bisogno di preghiere speciali alla Vergine. Una necessità avvertita con particolare urgenza nel tempo, drammatico, che stiamo vivendo. L’ha sottolineato più volte il Papa che già nella “Lettera” inviata a tutti i fedeli il 25 aprile di tre anni fa evidenziava l’importanza di rivolgersi a Maria nei momenti di difficoltà. Un invito caldo e affettuoso a riscoprire la bellezza di pregare il Rosario a casa. Lo si può fare insieme o personalmente, diceva, ma senza mai perdere di vista l’unico ingrediente davvero indispensabile: la semplicità. Contemplare il volto di Cristo con il cuore di Maria, aggiungeva papa Francesco, “ci renderà ancora più uniti come famiglia spirituale e ci aiuterà a superare questa prova”.
In particolare la storia ci porta al Medio Evo, ai filosofi di Chartres nel 1100 e ancora di più al XIII secolo, quando Alfonso X detto il saggio, re di Castiglia e Leon, in “Las Cantigas de Santa Maria” celebrava Maria come: «Rosa delle rose, fiore dei fiori, donna fra le donne, unica signora, luce dei santi e dei cieli via (…)». Di lì a poco il beato domenicano Enrico Suso di Costanza mistico tedesco vissuto tra il 1295 e il 1366 nel Libretto dell’eterna sapienza si rivolgeva così alla Madonna: «Sii benedetta tu aurora nascente, sopra tutte le creature, e benedetto sia il prato fiorito di rose rosse del tuo bei viso, ornato con il fiore rosso rubino dell’Eterna Sapienza!». Ma il Medio Evo vede anche la nascita del Rosario, il cui richiamo ai fiori è evidente sin dal nome. Siccome alla amata si offrono ghirlande di rose, alla Madonna si regalano ghirlande di Ave Maria.
Le prime pratiche devozionali, legate in qualche modo al mese di maggio risalgono però al XVI secolo. In particolare a Roma san Filippo Neri, insegnava ai suoi giovani a circondare di fiori l’immagine della Madre, a cantare le sue lodi, a offrire atti di mortificazione in suo onore. Un altro balzo in avanti e siamo nel 1677, quando il noviziato di Fiesole, fondò una sorta di confraternita denominata “Comunella”. Riferisce la cronaca dell’archivio di San Domenico che «essendo giunte le feste di maggio e sentendo noi il giorno avanti molti secolari che incominciava a cantar maggio e fare festa alle creature da loro amate, stabilimmo di volerlo cantare anche noi alla Santissima Vergine Maria…». Si cominciò con il Calendimaggio, cioè il primo giorno del mese, cui a breve si aggiunsero le domeniche e infine tutti gli altri giorni. Erano per lo più riti popolari semplici, nutriti di preghiera in cui si cantavano le litanie, e s’incoronavano di fiori le statue mariane. Parallelamente si moltiplicavano le pubblicazioni. Alla natura, regina pagana della primavera, iniziava a contrapporsi, per così dire, la regina del cielo. E come per un contagio virtuoso quella devozione cresceva in ogni angolo della penisola, da Mantova a Napoli.
O Maria, Tu risplendi sempre nel nostro cammino come segno di salvezza e di speranza. Noi ci affidiamo a Te, Salute dei malati, che presso la croce sei stata associata al dolore di Gesù, mantenendo ferma la tua fede. Tu, Salvezza del popolo romano, sai di che cosa abbiamo bisogno e siamo certi che provvederai perché, come a Cana di Galilea, possa tornare la gioia e la festa dopo questo momento di prova. Aiutaci, Madre del Divino Amore, a conformarci al volere del Padre e a fare ciò che ci dirà Gesù, che ha preso su di sé le nostre sofferenze e si è caricato dei nostri dolori per condurci, attraverso la croce, alla gioia della risurrezione. Amen. Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta.
L’indicazione del gesuita Dionisi
L’indicazione di maggio come mese di Maria lo dobbiamo però a un padre gesuita: Annibale Dionisi. Un religioso di estrazione nobile, nato a Verona nel 1679 e morto nel 1754 dopo una vita, a detta dei confratelli, contrassegnata dalla pazienza, dalla povertà, dalla dolcezza. Nel 1725 Dionisi pubblica a Parma con lo pseudonimo di Mariano Partenio “Il mese di Maria o sia il mese di maggio consacrato a Maria con l’esercizio di vari fiori di virtù proposti a’ veri devoti di lei”. Tra le novità del testo l’invito a vivere, a praticare la devozione mariana nei luoghi quotidiani, nell’ordinario, non necessariamente in chiesa «per santificare quel luogo e regolare le nostre azioni come fatte sotto gli occhi purissimi della Santissima Vergine». In ogni caso lo schema da seguire, possiamo definirlo così, è semplice: preghiera (preferibilmente il Rosario) davanti all’immagine della Vergine, considerazione vale a dire meditazione sui misteri eterni, fioretto o ossequio, giaculatoria. Negli stessi anni, per lo sviluppo della devozione mariana sono importanti anche le testimonianze dell’altro gesuita padre Alfonso Muzzarelli che nel 1785 pubblica “Il mese di Maria o sia di Maggio” e di don Giuseppe Peligni.
Da Grignion de Montfort all’enciclica di Paolo VI
Il resto è storia recente. La devozione mariana passa per la proclamazione del Dogma dell’Immacolata concezione (1854) cresce grazie all’amore smisurato per la Vergine di santi come don Bosco, si alimenta del sapiente magistero dei Papi. Nell’enciclica Mense Maio datata 29 aprile 1965, Paolo VI indica maggio come «il mese in cui, nei templi e fra le pareti domestiche, più fervido e più affettuoso dal cuore dei cristiani sale a Maria l’omaggio della loro preghiera e della loro venerazione. Ed è anche il mese nel quale più larghi e abbondanti dal suo trono affluiscono a noi i doni della divina misericordia». Nessun fraintendimento però sul ruolo giocato dalla Vergine nell’economia della salvezza, «giacché Maria – scrive ancora papa Montini – è pur sempre strada che conduce a Cristo. Ogni incontro con lei non può non risolversi in un incontro con Cristo stesso». Un ruolo, una presenza, sottolineato da tutti i santi, specie da quelli maggiormente devoti alla Madonna, senza che questo diminuisca l’amore per la Madre, la sua venerazione. Nel “Trattato della vera devozione a Maria” san Luigi Maria Grignon de Montfort scrive: «Dio Padre riunì tutte le acque e le chiamò mària (mare); riunì tutte le grazie e le chiamò Maria»
«Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio».
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«Abbi grandi desideri, cioè desiderio di grande santità, di fare opere grandi; mira sempre più in alto che puoi per riuscire a colpire giusto: ma poiché non sempre sarai chiamato ad azioni gloriose, fa anche le cose piccole, minime, con grande amore». «… far sempre la volontà del Signore nell’esatto adempimento dei propri doveri, e in una lotta perseverante… questo dovrebbe veramente essere il mio programma. E noi ci sforzeremo di servirlo sempre non con timore servile dei castighi, ma per amore, con un amore sempre più grande che ci farà tornare sempre più lievi le sue croci e più soave il suo giogo».
«Aveva 30 anni quando mio fratello Riccardo mi scrisse queste poche righe, a me suora missionaria in Egitto. Era il 28 ottobre 1928. Due anni dopo sarebbe morto.
SAMNTO
San Riccardo Pampuri, medico del Fatebenefratelli. Te lo ricordi zia?».
«Altroché! Ero orgoglioso di lui. Soprattutto quando mi disse che voleva seguire le mie orme. Anche lui medico. Anche lui all’Università di Pavia. Se non fosse stato per la parentesi bellica – Prima Guerra mondiale – forse si sarebbe laureato in due anni…».
«Io lo conobbi proprio in università. Per me fu un vero compagno di studi. Pur estraniandosi dalle varie congreghe era sempre con e per noi. Faceva parte del circolo San Severino Boezio, associazione fondata nel 1898 dal vescovo locale, monsignor Riboldi, per la formazione morale degli studenti “quasi a dimostrazione solenne che era ancora possibile l’unione della scienza con la fede e la pratica della morale cattolica”. E vi assicuro che non erano tempi facili quelli.
«Già. Che anni! In quel paesino sperduto nelle campagne della Bassa milanese. Non aveva un attimo di sosta, anzi non si dava un attimo di sosta. Potevano chiamarlo in qualsiasi ora del giorno o della notte. Era l’uomo della carità. E prima di tutto della carità spirituale, perché agli ammalati, oltre a curarli, cercava di dire una buona parola e di dare buone letture.
«Non disse niente della sua scelta, neanche a me che ero la zia, la mamma che lo aveva tirato su. Nemmeno a sua sorella Margherita. Nemmeno ai compaesani. Un giorno prese e se ne andò. Io lo accompagnai al convento del l’Ordine ospitaliero, senza sapere niente. Padre Norberto mi disse: “Allora il dottore si ferma con me”. Cominciai a piangere e a gridare: “Per carità, Erminio non mi abbandonare”. E lui con grande calma e fermezza di spirito mi ripeteva: ”Devo seguire la chiamata di Dio; voglio farmi santo” e se ne andò con il maestro al Postulandato. Dopo quindici giorni, erano le dieci, ritornai per persuaderlo a tornare a casa. Lo feci chiamare e lui tramite suor Cherubina mi disse: “Dica alla zia che io devo seguire la chiamata di Dio. Me la saluti tanto”. Non mi arresi. Almeno vederlo. Lo aspettai nel cortile fino alle 13 per vederlo passare. Ma lui, apposta per non incontrarmi, fece il giro da dietro. Solo per intercessione del padre Maestro riuscii a parlargli. Da quel colloquio capii che quella era la sua vocazione».
«Il 21 ottobre 1927 fu canonicamente vestito. Gli imposi il nome di fra Riccardo. Voglio sottolineare che il nostro ordine unitamente ai voti di povertà, castità ed obbedienza ha il voto della ospitalità, cioè l’assistenza degli infermi ricoverati nei nostri ospedali e in quelli ad essi affidati. Ecco, frate Riccardo compì appieno questo voto. Non solo verso i malati, ma verso tutti coloro che avvicinava. Era il primo a maneggiare la scopa, il primo a vuotare i vasi e le sputacchiere. Con la stessa semplicità e naturalezza con la quale compiva questi uffici, quando mancava il direttore medico o il Primario, all’invito del Superiore indossava la vestaglia bianca e iniziava la visita medica. Quando si accorgeva che qualche confratello sfuggiva a lavori che destavano ripugnanza o comunque capiva che li faceva di malavoglia, diceva: “Sono le piccole umiliazioni, sono le cose che ripugnano che dobbiamo cercare noi religiosi, se non facciamo queste cose, quando esercitiamo un po’ di umiltà? Le fanno i borghesi queste cose, tanto più le dobbiamo fare noi”.
«Un’ultima cosa voglio dirla io, su mio zio Erminio, anche se sono quello che meno lo ha conosciuto. Ricordo quando andavo in vacanza a Trivolzio e mi capitava di stare con lui. Parlava di Dio e della Madonna con un accento tale che veniva dal cuore, come se parlasse di suo padre e di sua madre, di una persona conosciuta. Io lo guardavo sbigottito, perché per me Dio era una grande cosa, ma lontana da tutto quello che potevo vedere o immaginare. Invece per lui era una realtà ben sentita, di cui non poteva fare a meno».
(da Tracce n.2/1995)
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Conservo incorniciato, un piccolo quadro a matita da lui donatomi.Raffigurante un carcerato in catene. Ed ho anche un Padre Misericordioso che abbraccia il figliol prodigo. Conservo inoltre, riprodotti su carta da geometri, un grande crocifisso ed una maternità di Maria, simile a quella qui riportata ad olio. Un bel giorno la mia mamma (classe 13 Giugno 1918), appassionata di disegno dalle elementari, ha dipinto gli occhi e la bocca appena accennati, ad entrambe le immagini. A parer suo, si trattava di un peccato di omissione, di una incomprensibile dimenticanza.
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FBF_rivista_ottobre_dicembre2023.pdf (hubspotusercontent-na1.net)
Nel 1899 quando nacque Bonifacio, Maria Cristina, seconda moglie del re Alfonso XII, governava la Spagna che aveva perso parte del suo immenso impero: Cuba, Porto Rico, le Filippine. Due grandi forze politiche dominavano la Spagna: i partiti dei con servatori e dei liberali. Si susseguivano crisi di gover no, con continui cambi di ministri e divergenze di opinione tra i partiti stessi. Nonostante le difficoltà si poteva registrare una crescita economica, la dif fusione dell’illuminazione elettrica che aveva sosti tuito il gas nelle città, una rivoluzione nei trasporti, lo sviluppo dell’industria automobilistica, dell’indu stria chimica e degli armamenti, come pure dell’in dustria tessile e dell’agricoltura. In Spagna c’erano circa diciannove milioni di abitanti. Tale fu il clima sociale e civile nel quale visse Bonifacio, che nonostante un’infanzia povera, semplice e manchevole di una formazione scolastica, fu comunque un ragazzo gioioso. Questi cresceva sopperendo alla scarsa istruzione ricevuta con la sua 8 brillante intelligenza e con la sua innata capacità di comprendere e di convincere gli altri. In questo contesto si svolgeva anche la grande opera dei Fratelli di San Giovanni di Dio. Ma chi era questo Santo che aveva tanto colpito il giovane Bonifacio durante il suo soggiorno a Bar cellona?
L’INFLUSSO DI SAN GIOVANNI DI DIO
Giovanni di Dio nacque a Montemor o Novo (Portogallo) nel 1495. Figlio di genitori cristiani, all’età di otto anni partì da casa per Oropesa (Toledo) e vi rimase, per circa vent’anni, con la famiglia di Francisco Gil (Mayoral), come responsabile del gregge e dei campi di D. Francisco Álvarez di Toledo. Dopo qualche tempo, ritenendolo bravo, vollero dargli in sposa la figlia del sindaco, ma lui si arruolò come soldato per combattere contro i francesi; così si recò a Fuenterrabía. Al servizio dell’imperatore Carlo V proseguì fino a Pavia, poi partecipò alla difesa di Vienna contro i Turchi con le armate di Don Giovanni d’Austria. Soddi sfatto del servizio prestato, ma anche stanco, tornò a La Coruña e da lì nella casa paterna in Portogallo, ma si rattristò nell’apprendere che sua madre era già morta e che suo padre era entrato in un convento francescano dove morì santamente. Tornato in Spa gna passando per Siviglia, continuò a fare il pastore, poi si recò a Ceuta, dove lavorò come muratore. 9 Le sue peregrinazioni non erano finite, fece ritor no nuovamente in Spagna, passando per Gibilterra, dove vendeva libri religiosi, profani e romanzi. Era il 1538. Viaggiò in altre città, finché, carico di libri, si recò a Gaucín (Malaga). In questo momento della sua travagliata vita il Santo fece un incontro che fu decisivo per la sua vocazione. La tradizione tramanda che avendo visto un bambino malvestito e scalzo lo caricò sulle spal le. Giunto nei pressi di una fontana prese dell’acqua per il piccolo assetato e voltatosi indietro lo trovò raggiante con una melagrana in mano che gli dice va: “Giovanni di Dio, Granada sarà la tua croce”.
Era il Bambino Gesù e in quell’attimo scomparve dalla sua vista. Di fatto da quell’istante gli fu chiara la destina zione del suo viaggio: Granada. Quando arrivò in città, all’ingresso, in via Elvira, vicino all’omonima porta, iniziò a vendere libri. Il 20 gennaio 1539, Giovanni d’Avila predicò nell’eremo dei Martiri e Giovanni di Dio andò ad ascoltarlo. Sentendolo, rimase sconvolto e termi nata la predica uscì di là come fuori di sé, chie dendo ad alta voce pietà e misericordia a Dio e implorando perdono per i suoi peccati. Tornato al negozio, regalò i libri religiosi, distrusse quelli pro fani e distribuì il denaro guadagnato a coloro che passavano. Preso per pazzo, fu internato all’Ospedale Reale, dove fu maltrattato, come era consuetudine all’e poca, e dove lui stesso si prese cura degli altri rico 10 verati. È qui che si forgiò l’avventura della sua vita e che gli ispirò: “Se solo potessi avere un giorno un ospedale dove poter curare questi malati come meri tano!”. Dopo qualche tempo, dimesso dall’ospedale, partì e si recò a Baeza, dove Giovanni d’Avila gli diede dei consigli e poi proseguì in pellegrinaggio al Monastero di Guadalupe. Da allora la Vergine Maria sarebbe stata la sua protettrice e in quel luogo san to avrebbe trovato aiuto e formazione negli studi “infermieristici”, per realizzare la sua futura missione. Tornò a Granada, sentendosi pronto ad aiutare i poveri e i malati che incontrava per strada, assisten doli durante il giorno e uscendo anche di notte per chiedere l’elemosina al grido: “Fratelli, fate del bene a voi stessi facendo l’elemosina ai poveri”.
Non sempre era soddisfatto, per ché dopo la guerra civile spagnola erano molte le difficoltà: scarsi raccolti e povertà, razionamento del cibo e salari bassi. Pian piano il Servo di Dio conquistava la simpatia di molte persone che riconoscevano la sua dedizione agli altri. Al momento del raccolto, visitava tutte le fattorie e raccoglieva: grano, ceci, olio, olive, uva, vino, mandorle, tacchini, galli, tutto tornava utile. Vedendo la bontà d’animo del religioso, gli dicevano: “se riesci a catturare quell’animale, puoi portarlo con te”. E lui lo rincorreva, con il suo abito, senza risparmiarsi finché non lo prendeva. Comunità di Cordova 1948. È CONOSCIUTO COME “FRA GARBANZO” (FRA CECE) I religiosi moltiplicano gli sforzi. Sempre più bambini vengono trattati per le deformità congenite, per il morbo di Pott, per la tubercolosi ossea e per tutti i tipi di chirurgia ortopedica e generale. Una volta, mentre raccoglieva l’elemosina in una fattoria, il proprietario gli diede una grossa pecora e un sacco di ceci. C’era anche una suora che aveva ricevuto la stessa carità dal proprietario. Mentre sta vano per andarsene, alcuni uomini armati si avvicinarono a lui:– Che bello, abbiamo qui un frate e una suora.– È vero, questo merita di essere festeggiato con un buon pasto!– E un terzo disse: “Che bella idea hai avuto!” Così catturarono i due religiosi e il proprietario della fattoria, macellarono l’animale e mangiarono a sazietà. Dopo essersi stuzzicati e divertiti, si dissero: “Perché non ci divertiamo un po’ con questi due santi?” Presero due asini e misero Fra Bonifacio su uno e la suora sull’altro. Legati piedi e mani, li misero in groppa agli asini. E così, in una posizione ridicola, li fecero girare in continuazione, prendendoli in giro volgarmente. Durante questo malsano gioco, Fra Bonifacio riconobbe uno dei tre personaggi: era il padre di un bambino che era stato operato per una certa malattia alla Clinica qualche tempo prima. Così r volgendosi a lui, disse: “Se questo mi fosse stato fatto quando c’era tuo figlio, sarebbe morto di fame: le pecore che hai appena mangiato e i ceci non li hai presi a me, ma ai poveri bambini malati che sono nella Clinica”. Al sentire questo finalmente l’uomo rientrò in sé, fece cessare le beffe e disse agli altri: “Date il sacco di ceci a “Fra Garbanzo”. Così, da quel momento in poi, cominciarono a chiamarlo con quel nome, senza che questo gli creas se imbarazzo. Se doveva ringraziare per un’elemosi na, scrivere o inviare un saluto si firmava Fra Garban zo. Anche quando in seguito ricevette la decorazione del governo spagnolo e il titolo di Excelentísimo Sr., disse: “Sarò sempre Fra Garbanzo fino alla morte”. Fra Bonifacio dopo la questua quotidiana. L’ARTE DI ESSERE ELEMOSINIERE La semplicità, l’umiltà, la prudenza, l’amore per il la voro e la dedizione al prossimo furono sempre il suo tratto distintivo. Il suo aspetto bonario, la sua simpatia, la sua capacità di convincere gli altri, la sua astuzia e la sua fede in Dio fecero di lui un elemosiniere capace di non tornare mai a mani vuote alla Clinica. Per la sua raccolta aveva preso l’abitudine a fre quentare i locali del centro cittadino e lì incontrava anche coloro che andavano all’elegante e maestoso Savarín, all’Avorio o al Mercantil. Fra Bonifacio si se deva a mezzogiorno, tenendo gli occhi ben aperti e non mangiando nulla, aspettando l’occasione per incontrare i signori e i contadini che potevano aiuta re i suoi bambini. A volte, questi, gli sfuggivano, ma sapeva dove andare a cercarli. E trovati gli elargiva no doni generosi ed in seguito li raggiungeva nelle loro fattorie o nei loro magazzini per raccogliere ciò che era utile per i tanti bambini malati. Conosceva bene il suo campo di lavoro per le elemosine. Sapeva tutto dei benefattori. Se qualcuno vendeva una fattoria o comprava qualcosa di impor tante, sapeva come dirgli: “Che bella vendita hai fatto, perché non mi dai qualcosa per i miei figli?” Allo stesso modo, se avevano avuto un buon raccolto. Andava a trovare i toreri dopo le corride. Se c’era qualche for tunato con la lotteria o altri tipi di gioco, non perde va l’occasione per incontrarli e per congratularsi con Il Servo di Dio in attesa di incontrare i suoi benefattori. 30 loro e poi chiedeva una parte per i suoi bambini. Per questo aveva una buona conoscenza degli ambienti in cui si muoveva e del territorio circostante. Frequentava tutte le battute di caccia sapendo ottenere parte della cacciagione e alleggerire i por tafogli dei cacciatori. Accettava ogni tipo di elemo sina, anche la più improbabile, che poi vendeva o scambiava. Non mostrava mai stanchezza o svogliatezza. Si armava di santa pazienza, imparando l’arte di aspet tare che “il frutto maturi”. Quando lo invitavano a non affaticarsi troppo ri spondeva: “Sono un povero mendicante, faccio quello che devo fare, altri stanno peggio di me”. I Fratelli della sua comunità lo ammiravano; Fra Federico Argüello diceva: “Sono sicuro che passava tutta la notte a pensare come ottenere elemosine migliori, perché nessuno poteva resistergli”. Utilizzava una vecchia Land Rover per raggiungere le campagne cordovane e per caricare tutto quello che gli davano, perché non poteva andarsene a mani vuote. Per molte ragioni, era chiaro che Fra Bonifacio era un buon mendicante al servizio dei bisognosi. È stato un grande samaritano del XX secolo perché la sua coscienza si era formata così da rendere la sua persona tutta solidale con i bisognosi che incontrava lungo la strada. Ed in linea con il Vangelo della misericordia seppe risvegliare i cuori duri e distanti, rendendoli grandi nel servizio agli altri attraverso la sua totale dedizione a Dio.
NON AVEVA BARRIERE NEL “CHIEDERE PER AMORE DI DIO”
Era conosciuto in ogni luogo della provincia di Cordova, poiché le sue visite a questi villaggi erano frequenti, soprattutto durante la stagione della rac colta dei vari prodotti della campagna. Inutile dire che Fra Bonifacio incontrava anche persone rilut tanti e indifferenti. Ma la sua arguzia, la sua bontà riuscivano a vincere sulle resistenze. Una volta, in una strada del Centro di Cordova, fermò un uomo a bordo di un’auto nuova di zecca e gli chiese l’elemosina, ma questi replicò non molto garbatamente di non avere offerte. Il religioso dopo averci pensato un po’ gli disse: “Non sai che la tua auto sembra un’oliva? L’uomo attonito rispose: “Vi dico che non lo so, perché il colore non è lo stesso dell’oliva”. Il religioso a lui: “Beh, l’oliva ha dentro un nocciolo duro, così è l’autista dell’auto” . Il signore scoppiò in una fragorosa risata e alla fine gli elargì una buona offerta. Per attenuare il calore dell’estate cordovana si rese necessario posizionare una struttura metallica sulla terrazza-solarium dei bambini e acquistare una tenda da sole. Fra Bonifacio commentava con i con fratelli della Comunità: “Quando potremo comprare una tenda per la terrazza?”. Per l’acquisto erano necessarie 80.000 pesetas, e per i religiosi era impossibile affrontare una tal spesa. Ma si sa: a Dio tutto è possibile. La Divina Provvidenza non avrebbe fallito. Ecco che l’evento di una corrida fu decisivo. Infatti, l’impresario dell’arena soddisfatto dei pro venti raggiunti donò una buona parte del ricavato al governatore civile a favore delle organizzazioni caritatevoli; si accordarono per devolvere parte del premio alla clinica, che lo destinò all’acquisto della tenda, mentre Fra Bonifacio si impegnò e ottenne l’altra metà del denaro mancante. Così facendo si riuscì a portare a termine il lavoro e a posizionare la tenda con grande gioia e festa per tutti i bam bini. Terrazzo della Clinica San Rafel, Cordova. 33 Così, forti della costanza e del sacrificio di Fra Bonifacio, i confratelli cercarono di migliorarsi ogni giorno e l’ospedale pediatrico continuò a svolgere la sua nobile missione di assistenza e cura dei bam bini malati. Al giubileo d’argento del Centro partecipò tutta la città e riconobbe il bene fatto dai Fratelli di San Giovanni di Dio per il loro lavoro con i bambini. La carità cordovana, promossa dai Fatebenefratelli, unita alla fervente preghiera al servizio dei bam bini con limitazioni fisiche e alla testimonianza del loro spirito di ospitalità venne riconosciuta da tutta l’opinione pubblica e dai media. In quell’occasione fu messa in risalto la figura di Fra Bonifacio e della sua opera di elemosina, per il suo instancabile e am mirevole lavoro. Tra aranci e ulivi la carità cresceva sulle montagne di El Brillante. Fra Bonifacio elargiva sorrisi ed affetto paterno ai suoi bambini. Tutti i malati venivano trattati con massimo af fetto, ma più di una volta, quando il malato era un bambino – nel frattempo l’ospedale aveva già ini ziato a ricoverare pazienti adulti – Fra Bonifacio in vitava i suoi compagni con queste parole: “Trattate molto bene il bambino X, perché è povero”. Era felice nel vederli sorridenti, rilassati e divertiti.
ASTA DI BENEFICENZA
Ogni Natale alla radio durante “l’asta di beneficenza” la sua voce risuonava in tutte le case di Cordova. Questo accadeva perché Fra Bonifacio era considera to come uno di famiglia e tutti si sentivano più vicini ai bambini della clinica. L’emittente locale “Radio Cordova” si offriva di colla borare con il suo staff avvisando il pubblico che Fra Bo nifacio avrebbe visitato negozi e aziende. Anche duran te le vacanze di Natale Fra Bonifacio rimaneva alla radio, perché i bambini volevano parlare con lui al telefono. L’asta divenne popolare poiché Fra Bonifacio aveva una predilezione per alcuni animali (pecore, maiali, tacchini, cani, piccioni, pernici e anche alcuni asini), e anno dopo anno era la gente stessa che portava al Servo di Dio quanto aveva bisogno senza che lui chiedesse. Durante la trasmissione radiofonica si invitava Fra Bonifacio ad intonare un canto, a recitare una poesia composta da lui stesso, improvvisando rime divertenti e spiritose, che erano poi oggetto di offerte e davano risultati. I programmi si inoltravano fino a notte fonda e all’annuncio che Fra Bonifacio avrebbe cantato, le telefonate aumentavano, la gente si commuoveva per l’emozione, ognuno contribuiva come poteva. Era tutto molto semplice. Fra Bonifacio sapeva tutto de gli abitanti di Cordova, grazie alla sua memoria prodigiosa e ai continui contatti che manteneva con loro. Per il Servo di Dio questo era anche il suo campo di apostolato e la sua missione. Organizzò tre festival di corride per raccogliere fondi e diverse feste popolari, sempre a beneficio dei bambini ricoverati perché tutto gli sembrava troppo poco. 35 LA POPOLARITÀ DI FRA BONIFACIO Poche persone a Cordova erano cosi note come lui. Era di statura normale, tarchiato, di corporatura robusta. Si presentava con il suo famoso saturno (cappello dei religiosi), le sue vecchie scarpe “con sumate”, la valigetta portafoglio in mano, la sua enorme simpatia e un ampio sorriso che illuminava il suo volto bonario. Ma si riconosceva anche per la sua grande fede in Dio, il suo discorso sempre evan gelico, la sua costante preghiera, e una grande so miglianza al papa “regnante”, per cui lo chiamavano un “altro Giovanni XXIII”. Era già più che conosciuto e riconosciuto nei Circoli Mercantili o Labrador, nei bar di Savarín, Dunia o Toledo, perché in tutti questi luoghi chiedeva l’elemosina. È vero che più di uno non ricambiava con alcu na elemosina, ma molti altri, guidati dalla bontà del loro cuore, gli mettevano in mano il loro portafoglio affinché potesse prendere la quantità di denaro che riteneva opportuna, sapendo che tratteneva solo il necessario e che ogni spicciolo andava a finire in elemosina. E poiché chiedeva a chi avesse e dava a chi aveva bisogno, era ammirato da tutti.
Se Fra Bonifacio usava la simpatia come stratagemma per ottenere qualcosa, era sempre perché desiderava che il benefattore donasse con gioia e fosse felice di sapere che la sua elemosina andava a buon fine. Lo chiedeva con grazia e con dolcezza. Se andava a incontrare i cacciatori nel luogo dove si raccoglieva la selvaggina uccisa, attendeva seduto ad aspettare 36 sulla porta; se di notte gli veniva detto che molte per sone avrebbero assistito a uno spettacolo teatrale o musicale, senza invito si presentava e si faceva trova re lì senza disturbare. E “qualcosa riceveva sempre”. In effetti, erano in molti ad avergli fatto delle “soffiate” su dove poteva andare, perché c’era sempre “un posto dove raschiare”. Sapeva come chiedere, perché era convinto che chiedere significava dare. “Fate del bene a voi stessi dando ai poveri per amore di Dio”. Quando Fra Bonifacio seppe che il famoso torero di Palma del Río, Manuel Benítez Pérez detto “El Cor dobés”, dava una festa per celebrare i suoi bei tempi, vi si recò e felice di vederlo comparire, prese la sua borsa Fra Bonifacio con il famoso Torero “El Cordobés”. 37 portafoglio, che portava sottobraccio, la alzò per brindare e salutandoli a gran voce disse: “Paesani del Cordobés, Manolete e del Guerra, vediamo se siete generosi e mi lasciate una buona offerta”. Gli applausi furono fragorosi e alla fine del “paseíllo” raccolse abbastanza denaro da sentirsi felice di tornare alla clinica. Juan Muñoz Cascos, autore del libro biografico “El Hermano Bonifacio, Excelentísimo Sr. Limosnero”, scritto con grande affetto per il nostro Servo di Dio, nel capitolo XXIV racconta di aver indagato sulla persona di Fra Bonifacio rivolgendo una domanda precisa a diverse persone di livello sociale differen te: “Qual è la sua opinione su Fra Bonifacio? La riposta fu unanime: “Era un santo; non chiedeva mai nulla per sé stesso, ma tutto per i suoi bambini; non si lamentava mai di nulla; sarebbe difficile per l’Ordine Ospedaliero avere di nuovo un altro frate questuante come lui; sapeva a chi doveva chiedere e come farlo”. E la risposta di Juan Jurado Ruiz, un sacerdote virtuoso che conosceva il servo di Dio fin dal suo Ospedale San Giovanni di Dio di Cordova. arrivo a Cordova, fu chiara e decisa: “In Fra Bonifacio spiccano: l’amore e la dedizione senza limiti per i bi sognosi, fino a dimenticare se stesso per donarsi agli altri; un’umiltà commovente, che non dava mai im portanza all’enorme merito che aveva il suo lavoro di elemosiniere e il suo spirito profondamente religioso, proclamato in molte occasioni durante la sua lunga vita come Fratello di San Giovanni di Dio”. LA CROCE DI BENEMERENZA Poco incline alle celebrazioni e alle decorazioni, nella sua vita quotidiana il Servo di Dio trovava vera gioia nello stare vicino ai benefattori e ai collabora tori. Era felice e a suo agio anche con la gente sem plice della campagna. Conoscendo ogni angolo di tutti i villaggi e le fattorie di Cordova, poteva svolge re meglio il suo lavoro di questuante. Non si limitava a chiedere l’elemosina; quando sapeva che un bambino era malato, lo visitava, gli dimostrava affetto e faceva quello che poteva per la famiglia, in modo da farlo ricoverare nella Clinica San Rafael, motivo per cui era ammirato e rispetta to da tutti. In questo modo realizzava il suo motto: essere semplice, povero e lavoratore, essere l’ultimo e il servitore di tutti; certo che chi lavorava per i po veri, lavorava per Dio. Dopo aver percorso per quasi quarant’anni le strade delle città, i campi e i villaggi di Cordova, con i piedi stanchi e le mani aperte da tanta mendicità, 39 38 qualcuno si ricordò di rendere omaggio al celebre “mendicante di Cordova”, perché il suo lavoro, pur essendo umile e sacrificato, non passava inosserva to. Fra Bonifacio era sulla bocca di tutti e per questo si volle premiare tanto amore e carità disinteressati per i più poveri. Così le autorità cordovane, facendo eco al senti mento popolare, chiesero al governo spagnolo di conferirgli la Croce della Carità, un riconoscimento che veniva dato solo a persone che avevano fatto molto bene al prossimo e che erano un esempio vi vente per gli altri. In questo modo, il governo rico nobbe pubblicamente i suoi meriti e lo ringraziò a nome di tutto il popolo spagnolo. Il riconoscimento gli fu assegnato ad aprile 1972, ma la cerimonia di premiazione fu fissata per il 10 di Fra Bonifacio è decorato con la Gran Croce di benemerenza, 10 dicembre 1972. cembre dello stesso anno. Quel giorno la cerimonia iniziò con una messa concelebrata da dodici sacer doti, presieduta dal vescovo della diocesi di Cordova, Mons. Cirarda, il quale tenne un’omelia piena di affetto per Fra Bonifacio. Al termine dell’Eucaristia, più di due mila persone si erano già radunate fuori dalla chiesa. – L’ex sindaco di Cordova sottolineò nelle sue parole la figura di Fra Bonifacio, il quale, nonostante si creassero situazioni d’imbarazzo, non rinunciava alla sua missione per il bene dei bambini.– Il dottor Calzadilla, direttore medico della clini ca fin dalle sue origini nel 1935, illustrò brevemente la storia del Centro dalla sua fondazione.– P. Jacinto del Cerro, dell’Ordine dei Fatebenefra telli, recitò una bella poesia, seguita da alcune pa Fra Bonifacio in compagnia di Mons. Cirarda, vescovo di Cordova. 41 40 role del Superiore di Cordova, Fra Antonio Barreno, che sottolineò la dedizione di Fra Bonifacio. Dopo la lettura dell’ordinanza di concessione della “Gran Cruz de Beneficencia”, il Governatore Ci vile, D. Manuel Hernández, pronunciò parole com moventi: “All’affetto di Cordova per Fra Bonifacio, il Governo lo sostiene con merito e gratitudine”. Il Su periore Provinciale Sebastián Fernández espresse la sua gratitudine per l’onorificenza conferita a un degno membro dell’Ordine Ospedaliero. Fra Bonifacio concluse, commosso, ringraziando il Governo e tutti i presenti per la calorosa parteci pazione alla cerimonia e per la targa posta “come giusto tributo e affetto fraterno per la sua instancabile carità e dedizione ai bisognosi”. Va detto che, a turno, nelle settimane preceden ti erano arrivate donazioni da parte di benefattori, grandi e piccoli, così che l’umile elemosiniere po teva sentire il “suono” del dono per le necessità dei bambini del Centro. Sappiamo che in seguito, quan do il Provinciale fu informato da un membro della sua comunità che Fra Bonifacio era pronto a “sacrifi care la medaglia” per i poveri, indicò che in virtù del la santa obbedienza doveva essere adeguatamente custodita. 42 SENTIVA PROFONDAMENTE LA SUA VOCAZIONE RELIGIOSA DI OSPEDALIERO Ormai anziano, Fra Bonifacio era assistito da un giovane religioso che faceva l’infermiere nella comu nità cordovese. Il Servo di Dio essendo robusto aveva spesso problemi ai piedi, così a volte questo religioso lo aiutava a pulirsi e a mettersi le scarpe. Il frate però aveva deciso di abbandonare la sua vocazione reli giosa a causa di una donna che gli aveva proposto di sposarlo. E quando si congedò dal buon Fra Boni facio, quest’ultimo, con tristezza e lacrime agli occhi, gli disse: “È deplorevole che tu faccia questo con la tua vocazione religiosa. Anch’io quando ero a Madrid, in qualità di religioso, venni avvicinato con proposte dello stesso tipo, eppure non mi passò mai per la testa di far lo. Ma se Dio lo vuole, Dio sia lodato”. Gli ci volle molto tempo per dimenticare la perdita di questo religioso. Fra Bonifacio non solo dimostrò la sua incrolla bile vocazione, ma la sua testimonianza fu decisiva per attirare nuove vocazioni e per la formazione di nuovi sacerdoti e religiosi. Fra Félix Quintas, che trascorse due anni in comu nità con lui a Cordova, racconta, che quando il Servo di Dio tornava dopo mezzogiorno dall’elemosina di porta in porta, mangiava con la comunità o a un se 43 condo tavolo, e si riposava un po’. Nel pomeriggio era solito pulire i vasi da notte dei bambini ricove rati. Lo faceva quotidianamente come un servizio ospedaliero obbligatorio che si era imposto; era sempre vicino ai bambini, con i quali condivideva aneddoti e scherzi. Faceva questo per consolarli e alleviare loro la nostalgia di casa. Tornando a casa dopo la questua, gli piaceva fer marsi nella stanza dei bambini e, se ne vedeva uno triste, gli chiedeva: “Perché sei triste?” Io non sono mai triste, perché prima che arrivi quel momento, mi racconto una barzelletta e rido”. E il sorriso sboccia va di nuovo sul bambino costretto a letto. Un bacio sulla fronte e diceva: “Pregate Gesù Bambino, perché sia sempre con voi”. Coglieva sempre l’occasione per fare un riferimento al cielo CELEBRAZIONE DEL 50° DI PROFESSIONE RELIGIOSA Religioso capace e socievole, abnegato e sem plice, all’età di 77 anni, il 24 ottobre 1976, celebrò il 50° anniversario della sua professione religiosa, che i confratelli della comunità e la Provincia religiosa festeggiarono con grande partecipazione. Infatti, per tutti i confratelli, secondo le parole del Supe riore Antonio Barreno, Fra Bonifacio aveva qualcosa di più di un normale religioso. Per i confratelli era la memoria vivente di ciò che era stato San Giovanni di Dio. 44 Monsignor Cirarda, celebrò l’Eucarestia e rivol se parole accorate e toccanti al festeggiato e a Fra Antonio Manso, di Cordova, che celebrava il suo 25° anniversario di professione. Concelebrarono anche dieci sacerdoti e animò la santa Messa il coro della scuola apostolica di Cordova. Il Vicario Provinciale, Fra Sebastián Fernández, ricevette il rinnovo dei voti alla presenza di una folta rappresentanza di confra telli delle altre Province di Spagna. La chiesa era gremita, come non mai, e alla fine Fra Bonifacio ricevette i doni dei benefattori, delle comunità rappresentate, del personale del Centro e l’applauso di innumerevoli amici, oltre a quello dei “suoi bambini”, felici di vedere che “Fra Boni” era an cora vivo e attivo e che tutti gli volevano bene. Fra Bonifacio celebra il 50° di Professione religiosa, 1976. 45 ACCIDENTALE CADUTA E ARRIVO AL TRAGUARDO Era il 1978. Il 20 maggio, un giorno come un altro, si preparava ad uscire per la questua. Fra Angel Fonse ca, incaricato dal Superiore ad aiutare il Servo di Dio ormai ottantenne e logorato dal duro lavoro, sentì un forte botto provenire dal bagno, mentre Fra Bonifacio era sotto la doccia. Si affrettò a tornare indietro, si era infatti allontanato per prendere un asciugamano che non si trovava al suo posto, e dovette chiedere l’aiuto di altri due Fratelli. Lo aiutarono ad alzarsi e si resero conto del forte dolore che avvertiva alla spalla destra. Venne fasciato nell’infermeria ed il sospetto di una rottura fu confermata dalle radiografie: frattura del collo dell’omero, e conseguente ingessatura. Fra Bonifacio insisteva per andare a fare il suo lavo ro di mendicante. All’autista Pedro, che non lo vedeva in buone condizioni e lo sconsigliava, rispose: “Devo chiedere l’elemosina tutti i giorni, come fa un povero”. Per questo diceva a coloro che gli stavano ingessan do il braccio: “Lasciate la mia mano libera di chiedere l’elemosina”, e continuava: “Mi basta la mia loquacità”. I confratelli raccontano che non si lamentava mai e con pazienza diceva loro: “Sto perdendo tempo, quello che devo fare è lavorare”, e “quello che man gio non me lo merito”. Un mese dopo era di nuovo in strada, ma questa volta si rese conto che non era più come prima. Tornato a casa, poiché non si sentiva bene, fu portato in reparto e messo a letto. I medici che lo visitarono furono chiari nella loro diagnosi: si trattava di una trombosi cerebrale. Ma questa volta si riprese grazie alle sue forze. 46 Qualche giorno dopo ricominciò la sua attività di questuante per “i suoi figli” attraverso il telefono. Molti benefattori si interessarono a lui e gli lasciaro no la propria donazione, che lui a sua volta conse gnava al Superiore. Si spense lentamente. Nei momenti di lucidità, ebbe a dire. “Ieri sera pensavo di morire, ma ho sentito tanta dolcezza e pace che non ho dubbi che il Signore stia preparando un felice passaggio verso di lui”. E n trò in coma, ma riprese conoscenza ed era ancora in grado di dire a Fra Angel: “Se non siamo uomini di preghiera, la nostra vita va a rotoli”, come aveva detto molte volte durante la sua vita. “Ho già compiuto la mia missione, che Dio mi chiami quando vuole”. DESTINATO AL CIELO Verso le tre del pomeriggio dell’11 settembre 1978, Fra Bonifacio Bonillo morì serenamente nell’O spedale San Giovanni di Dio di Cordova. La notizia si diffuse in tutta la città. Anche la comunità e i bambini piansero e pregarono molto per lui. Non avrebbe più chiesto l’elemosina. Coloro che lavoravano presso la stazione radio e la redazione giornalistica, i benefat tori e tutti gli abitanti di Cordova sfilarono davanti alla salma di Fra Bonifacio. I fratelli giunsero da tutte le case dell’Andalusia e da Madrid. Mons. Infantes Flori do, presiedendo l’Eucaristia, disse nell’omelia: “Era un uomo semplice che offriva la sua vita, il suo buon umore e il suo sorriso come testimonianza della sua dedizione agli altri. Non escludeva nessuno e non distingueva le persone in base alla loro classe sociale. Per lui tutti era no uguali e si rivolgeva a tutti chiedendo per i suoi figli”. 47 Dopo il funerale i suoi resti mortali furono trasfe riti nel cimitero di San Rafael, nella città di Cordova, e collocati nella cappella dei Fratelli di San Giovanni di Dio, nel cortile principale del cimitero. Tomba dei Religiosi dove venne sepolto il Servo di Dio.
TORNA IN OSPEDALE Dopo la morte, la sua fama di santità continuò a crescere, così come l’Opera sociale, a lui dedicata, proseguì a svolgere la propria missione di servizio ai più bisognosi di Cordova e ad intensificare l’attività ogni anno a causa delle difficili condizioni di molte famiglie prive dei beni di prima necessità. Finché ci sarà qualcuno nel bisogno, i Fratelli di San Giovanni di Dio, fedeli seguaci del Santo della Carità e impegnati continuatori del servizio che Fra Bonifacio ha sempre voluto prodigare oltre l’impos sibile, manterranno attivo il servizio sociale, con lo spirito di solidarietà e generosità di tutti gli abitanti di Cordova che ancor oggi continuano con genero sità a donare quanto necessario. Traslazione delle spoglie mortali di Fra Bonifacio per il centenario della nascita, 1899-1999. 49 48 Nel 1999, in occasione del centenario della na scita dell’amato Fra Bonifacio, dopo aver ottenuto le necessarie autorizzazioni, si decise di riesumare i resti che erano stati deposti nel cimitero di San Rafael dopo la sua morte. Nel mese di marzo del 1999 vennero sottoposti a un accurato studio ana tomopatologico e debitamente conservati furono traslati nella cappella dell’ospedale San Giovanni di Dio, dove attendono la resurrezione e la desiderata glorificazione. Da allora molte persone continuano il loro pellegrinaggio per chiedere favori e grazie al Signore per intercessione del Servo di Dio. Il nostro Fra Bonifacio continua a sperare che, quando lo visitiamo e lo preghiamo, ci ricordiamo dei poveri e dei sofferenti, soprattutto dei bambini, per i quali ha sempre fatto tutto per amore di Dio. Tomba del Servo di Dio nella Chiesa dell’Ospedale San Giovanni di Dio a Cordova, dopo la traslazione nel 1999. LETTERA DEL VESCOVO CIRARDA Quando Mons. Cirarda era vescovo a Cordova, nel 1972 partecipò alla cerimonia di conferimento della “Gran Cruz de Beneficencia”, vivendo momenti di vera vicinanza cordiale e fraterna con Fra Boni facio. In occasione del centenario della nascita del Servo di Dio, nel 1999, il vescovo si scusò di non po ter partecipare a causa di altri impegni, ma scrisse una bellissima lettera al Superiore della Comunità di Cordova. “Le sono grato per la sua gentilezza per avermi invi tato ad onorare il caro Fra Bonifacio a Cordova il pros simo 20 maggio. Ho un ricordo molto bello della bontà di questo Fratello. Ho avuto molti contatti con lui nei giorni, ormai lontani, del mio servizio episcopale in quella Chiesa di Cordova, per me indimenticabile. E ricordo con commozione le tante virtù del suddetto Fratello, l’amore con cui si prendeva cura dei malati, soprattut to dei bambini, e il coraggio con cui osava tutto per servirli, al di là di quanto la prudenza umana potesse consigliare. Il suo spirito mi è sempre sembrato “una controfigura”, come si dice nel lessico cinematografico, dello spirito di San Giovanni di Dio, la cui vita e il cui esempio lo avevano sedotto a imitare Cristo, seguen do le orme di quel “pazzo d’amore” che stupì Granada. Onorando Fra Bonifacio, Cordova onora sé stessa, adempiendo a un dovere di gratitudine nei confronti di un così buon servitore di Dio e dei poveri, che era 51 50 considerato “folle d’amore” e “Fratello” di tutti a Cor dova. Avrei voluto essere con voi il 20, per ricambiare l’o nore che mi avete fatto invitandomi. Ma non posso. Sono in pensione e molto anziano. Ma sono in buona salute e mi muovo molto a causa dei continui impe gni apostolici. Come le ho detto al telefono, per tutto il mese di maggio sono impegnato nel lavoro pastorale in Catalogna, Navarra e Vitoria. Mi unisco spiritualmente a voi nel ricordare Fra Bonifacio. E le sarei grato, se fosse così gentile, al mo mento opportuno, di rendere nota la mia vicinanza a tutto il popolo di Cordova nel giusto omaggio che gli renderà. Un saluto e una benedizione a tutti i Fratelli”. José M. Cirarda–––––– Per la bontà del suo contenuto, riportiamo qui anche un’altra lettera di Monsignor Cirarda, al quale Juan Muñoz Cascos, autore del libro “Excelentísimo Señor Limosnero”, aveva inviato una copia. Di segui to la risposta da Pamplona 4 marzo 1985: “Mio caro amico: Lei si è fatto onore omaggiando l’Eccellentissimo Signor Limosnero, Fra Bonifacio, de dicandogli un libro ampio e ben documentato, che mi sembra colga lo spirito di quell’uomo di Dio, insigne benefattore di Cordova, nato in Castilla la Nueva, ma cordovano nel cuore fin dal suo arrivo in quella città del Califfato. 52 L’ho conosciuto da vicino durante gli anni in cui ero vescovo di Cordova. Ho avuto molti rapporti con lui. Ho ammirato le sue grandi virtù umane e religiose. Sono testimone di come si sia sempre prodigato af f inché la Clinica di San Giovanni di Dio raggiungesse l’eccellenza nei suoi servizi, che la caratterizzano. Per questo motivo, sono stato molto contento di poter partecipare in due diverse occasioni a due omaggi che gli sono stati tributati durante i miei giorni a Cordova. Ho letto con interesse il lavoro che gli avete dedica to. Spero che serva a due scopi:– affinché non si dimentichi la figura di quell’uomo buono, con il temperamento di un santo, inciso in lui, che nell’antica Cordova diede frutti esemplari di carità e di giustizia sociale; e – perché il ricordo della sua figura sia di stimolo af f inché la sua opera rimanga, perché non manchino generosi cordovesi che continuino a percorrere la strada che lui ha tracciato con la sua ammirevole dedizione caritatevole. Le, sono molto grato per avermi inviato il libro e per l’affettuosa dedica che ha voluto farmi. Prego Dio che ci siano molti cordovesi, che amino ricordare personaggi degni di merito, che spesso per la nostra fragilità ed egoismo cadono nell’oblio. Che tu possa avermi sempre come tuo affettuoso amico. Che tu sia benedetto. José Mª Cirarda, arCivesCovo PREGHIERA DI INTERCESSIONE Signore Gesù Cristo, conforto dei deboli e degli oppressi, che hai annunciato il tuo Vangelo della Misericordia, attraverso la testimonianza e le opere di carità di Fra Bonifacio, fedele imitatore di San Giovanni di Dio, fa che otteniamo per sua intercessione le grazie che ti chiediamo e in particolare quella di (dire la grazia che si desidera ottenere), perché seguendo il suo esempio possiamo amarti al di sopra di tutte le cose del mondo e possiamo sempre servirti nei nostri fratelli e sorelle più bisognosi e malati. Signore nostro Dio, ottienici le grazie che ti abbiamo chiesto per la tua maggiore gloria e il tuo onore. Per Cristo nostro Signore. Amen. (Padre nostro, Ave Maria e Gloria) Con l’approvazione ecclesiastica Secondo i decreti di Urbano VIII 54 ITINERARIO DELLA VITA DI FRA BONIFACIO 1. Cañaveruelas. Bonifacio Bonillo nacque il 14 maggio 1899. Rima sto orfano all’età di dieci anni si dedicò a lavorare nel piccolo orto di proprietà per trarre sostentamento alla famiglia. Fu un giovane gentile e allegro con tutti. 2. Barcellona. Nel 1923, poiché era stato esonerato dal servizio militare, in quanto figlio di madre vedova, si mise alla ricerca di lavoro e dopo aver girovagato senza fortuna per Madrid e Saragozza, arrivò a Barcello na dove trovò un impiego come fattorino presso il “Centro de la Inmaculada”, gestito dai Fratelli di San Giovanni di Dio, che si occupava di bambini poveri. 3. Ciempozuelos. Entrò come postulante a Ciempozuelos (Madrid), nel Sanatorio psichiatrico di “San José”, dove i reli giosi accoglievano e curavano più di 1.300 malati di mente. Fu la prova vocazionale decisiva, che lo con fermò nella sua chiamata all’ospitalità. 4. Carabanchel Alto. In questo luogo, vicino a Madrid, fece il novizia to (1924-1926) e la professione semplice dei voti di 55 povertà, castità, obbedienza e ospitalità (1926). Tra scorse il suo tempo in ospedale con un centinaio di ragazzi epilettici ricoverati presso l’istituto “San José”. 5. Santurce. Nel 1926 a Santurce (Bilbao), nell’ospedale San Giovanni di Dio, ricevette il suo primo incarico come inserviente dell’ospedale per dieci intensi mesi. 6. Madrid. Nel Centro “San Rafael”, per i bambini affetti da po liomielite, svolse il suo lavoro più faticoso come eco nomo per quattro anni (1927-31), e dimostrò la sua grande vocazione per il servizio ospedaliero, metten do alla prova la sua forza d’animo e la sua virtù. 7. Granada. Dal 1931 al 1935 trascorse un periodo a Granada dedicandosi alla questua per la città e alla cura dei bambini poveri e paralitici. 8. Cordova. Con il suo arrivo a Cordova, nel 1935, crebbe il nuovo Centro “San Rafael”, dove si dedicò con umile disponibilità alla questua, percorrendo città e vil laggi per 43 anni, sviluppando le sue virtù cristiane, facendosi fratello di tutti, soprattutto dei più poveri e malati, consumando la propria vita per i “suoi po veri figli”. Nel 1972 il Governo Spagnolo gli conferì 56 la Gran Croce di benemerenza per il suo impegno di carità verso il prossimo. Morì in fama di santità l’11 settembre 1978 nell’ospedale San Giovanni di Dio di Cordova. Il 18 dicembre 2022 nella Diocesi di Cordova inizia la Causa di beatificazione e canonizzazione del Servo di Dio. 57 58
Indice Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 3 Il centro dell’Immacolata Concezione . . . . . . . . . . . . . 7 La situazione in Spagna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8 L’influsso di San Giovanni di Dio. . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 Ingresso nell’Ordine Ospedaliero . . . . . . . . . . . . . . . . 14 Professione dei voti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 L’ospedale San Rafael a Madrid . . . . . . . . . . . . . . . . . 20 A Granada da San Giovanni di Dio . . . . . . . . . . . . . . . 22 Cordova una clinica accogliente . . . . . . . . . . . . . . . . . 23 Questuante a Cordova . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24 È conosciuto come “Fra Garbanzo” . . . . . . . . . . . . . . 27 L’arte di essere elemosiniere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 Non aveva barriere nel “chiedere per amore di Dio” . . 32 Asta di beneficenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 La popolarità di Fra Bonifacio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36 La croce di benemerenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 Sentiva profondamente la sua vocazione religiosa di ospedaliero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43 Celebrazione del 50° di Professione religiosa . . . . . . 44 Accidentale caduta e arrivo al traguardo . . . . . . . . . 46 Destinato al cielo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47 Torna in ospedale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49 Lettere del vescovo Cirarda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 Preghiera di intercessione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54 Itinerario della vita di Fra Bonifacio . . . . . . . . . . . . . . 55
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AMBULATORIO SAN RICCARDO DOTT. PAMPURI
Attivato sabato, 25 febbraio 2006
“Alla vita dei santi non appartinene solo la loro biografia terrena, ma anche il loro vivere ed operare dopo la morte.
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2019 – PAPA FRANCESCO IN GIAPPONE – Angelo Nocent
Pubblicato il 24 novembre 2019 da angelonocent
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Pubblicato il 5 novembre 2019 da angelonocent
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RICCARDO PAMPURI IL SANTO FRAGILE – Angelo Nocent
Pubblicato il 3 novembre 2019 da angelonocent
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PAMPURI & ABRAMO – Angelo Nocent
ABRAMO Genesi 12
https://youtu.be/MXzmVtf-ARQ
https://youtu.be/RVWNEuC3To8
RIT. Esci dalla tua terra e và, dove ti mostrerò. (2 Volte)
Abramo non andare, non partire,
non lasciare la tua casa,
cosa speri di trovar?
La strada è sempre quella,
ma la gente è differente, ti è nemica,
dove speri di arrivar?
Quello che lasci tu lo conosci,
il tuo Signore cosa ti dà?
– Un popolo, la terra, la promessa –
Parola di Jahvè. RIT.
La rete sulla spiaggia abbandonata
l’han lasciata i pescatori,
son partiti con Gesù.
La folla che osannava se n’è andata
ma il silenzio una domanda
sembra ai dodici portar:
Quello che lasci tu lo conosci,
il tuo Signore cosa ti dà?
– Il centuplo quaggiù e l’eternità –
Parola di Gesù. RIT.
Partire non è tutto
certamente, c’è chi parte e non dà niente,
cerca solo libertà.
Partire con la fede nel Signore,
con l’amore aperto a tutti,
può cambiar l’umanità.
Quello che lasci tu lo conosci,
quello che porti vale di più.
– Andate e predicate il mio Vangelo –
Parola di Gesù. RIT.
VOCAZIONE è la proposta autorevole di una meta e di un cammino per arrivare alla libertà.
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Medici in dittico, Riccardo e Alessandro Pampuri
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Cari amici, sono Manuel, l’uomo miracolato trent’anni fa da san Riccardo Pampuri
Tempi.it pubblica la lettera che Manuel Cifuentes ha inviato ad alcuni amici in occasione dell’anniversario del “milagro”.
«San Riccardo Pampuri è il nostro riferimento nel cammino che ci conduce a Gesù, e alla region dei cieli». Ecco tutta la storia di come un frate medico della Bassa milanese è arrivato ad “operare” su un ragazzino che viveva nellasierra spagnola.
Era una mattina di trent’anni fa, in un paesino della sierra spagnola di Albacete, Alcadozo, un ragazzino di dieci anni, Manuel Cifuentes, stava aiutando suo padre a lavorare nell’orto di casa. Inavvertitamente andò a sbattere contro un ramo di mandorlo, che si conficcò nell’occhio sinistro. La ferita sembrava lieve, ma il padre decise di portare il ragazzo dal medico condotto, che, a sua volta, dopo aver bendato l’occhio ferito, lo inviò da uno specialista nel capoluogo Albacete. Il dottor Juan Ramon Perez confermò la gravità della ferita prescrisse medicinali, prospettando un delicato intervento chirurgico. Tornato a casa, il dolore aumentò a tal punto da impedire l’uso della pomata prescritta.
Fu allora che il padre di Manuel, Cecilio, si ricordò di avere un’immaginetta di un santo italiano, un certo Riccardo Pampuri, del quale la famiglia Cifuentes non conosceva la storia, ed era ignara del fatto che, all’epoca, Pampuri non fosse stato ancora proclamato santo, ma solo beato da Giovanni Paolo II, qualche mese prima, il 4 ottobre 1981. Seguendo la propria fede, con la quale invitava spesso il figlio a pregare perché «Gesù ascolta chi lo invoca attraverso i suoi santi», papà Cecilio decise di inserire l’immaginetta tra l’occhio e la benda.
Dopo una notte tribolata arrivò il sonno. Fu solo la mattina presto, all’ora del risveglio che Cecilio si accorse del “milagro”: l’occhio di Manuel non presentava più segni di ferite.
Il 1° novembre 1989, la famiglia Cifuentes era in ginocchio davanti a papa Wojtyla in piazza San Pietro, nel giorno della proclamazione alla santità di Riccardo Pampuri. Naturalmente il “milagro” della guarigione dell’occhio era stato confermato nell’aprile 1988, dalla Consulta Medica presso la Congregazione per le cause dei Santi, con questa conclusione: «Guarigione estremamente rapida, completa e duratura, non spiegabile in base alle conoscenze mediche».
Un altro miracolo del dottor Erminio Pampuri, fra Riccardo dei Benefratelli, un uomo nato in terra lombarda, a Trivolzio, a pochi chilometri da Pavia, il 2 agosto 1897, un periodo giovanile pieno di interessi, legati da un grande sentimento di umanità e di carità cristiana, che lo pervasero per tutta la sua vita: nel laurearsi in Medicina, nel compiere un atto di eroismo durante la Prima Guerra Mondiale, quando, medico nell’esercito, trasportò sotto una pioggia incessante, nella disfatta di Caporetto, i soldati feriti, minando per sempre la sua salute, con una pleurite che lo condizionò per il resto della sua esistenza.
Una storia densa di amore per i malati che lo rese testimone della fede cristiana nella Bassa milanese; la testimonianza di chi si spende, attraverso la concretezza della professione medica, accogliendo i malati, non solo curando il corpo, ma sostenendo lo spirito, con l’autorevolezza della sua vocazione francescana. Pamupri morì per le complicazioni della pleurite, che non l’abbandonò mai, il 1° maggio 1930.
Già pochi anni dopo la sua morte, si ebbero notizie di guarigioni dovute alle intercessioni rivoltegli, tanto che il 1° aprile 1949 fu aperto dall’arcivescovo di Milano, il cardinale Ildefonso Schuster, il processo di canonizzazione. E mentre si facevano sempre più frequenti i pellegrinaggi alla sua tomba, nel piccolo cimitero del paese natale di Trivolzio avvenivano le due guarigioni più significative: a Gorizia, nel 1952, e a Milano nel 1959, entrambe mentre i malati erano degenti negli ospedali gestiti dai Benefratelli.
Oggi san Riccardo Pampuri è custodito e venerato nella chiesa parrocchiale di Cornelio e Cipriano a Trivolzio; è meta incessante di pellegrini ed è uno dei santi più invocati da chi vive l’esperienza educativa del movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione.
Infatti, don Luigi Giussani non smise mai di invitare alla sua intercessione, chiedendo ai tanti amici del movimento di pregare ogni giorno con un “Gloria” il santo di Trivolzio. A San Riccardo Pampuri è intitolata la clinica per malati terminali ad Asuncion, in Paraguay, che Padre Aldo Trento gestisce dal 2004.
Da qualche tempo, sul web è presente una pagina Facebook intitolata agli “Amici di San Riccardo”, e proprio il responsabile di questa iniziativa ha voluto incontrare, nell’estate scorsa, Manuel Cifuentes, raggiungendolo nella sua casa di Alcadozo. Ha trovato una famiglia ancora piena di stupore per ciò che è accaduto loro: Manuel lavora in una casa di riposo, il padre è stato nominato da poco diacono della piccola chiesa del paese. Da questa chiesa, ogni 1° maggio, parte una processione molto curata, con la statua di san Riccardo e una reliquia donata dal Fatebenefratelli.
Proprio sulla pagina Facebook, in occasione dei trent’anni esatti dal “milagro”, Manuel ha spedito un saluto, che il responsabile della stessa pagina web ha autorizzato a pubblicare sul sito tempi.it: «Cari amici di san Riccardo, sono Manuel, di Alcadoz. Vorrei mandare un saluto, prima di tutto, per augurarvi un felice e prospero 2012, pieno di pace, benessere e salute. Grazie al nostro amico Ste posso comunicare con voi e unirmi al vostro cammino di fede, assieme al nostro caro amico san Riccardo Pampuri. È il nostro riferimento nel cammino che ci conduce a Gesù, e alla region dei cieli. Questa è la nostra meta di cristiani, e Gesù non avrebbe voluto che camminassimo da soli, per conto nostro. Invece dobbiamo marciare in comunione, come un popolo unito, e quale miglior popolo di uno fatto da fratelli e amici? Essere cristiano vuol dire essere amici di Gesù. E questo credo che sia per tutti una certezza. Spero che la nostra amicizia serva a unire fili che possano resistere alla distanza, per mantenerci uniti, come cristiani. Potete contare su di me, e scrivermi quando lo desideriate. Un saluto e un forte abbraccio, dal vostro amico e fratello Manuel».
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«Il mio 60 esimo anno di Professione religiosa nell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio – Fatebenefratelli – cade proprio in questo anno 2022 (4 novembre 1962) nel quale ricorrono anche i 450 anni dalla prima approvazione, da parte di San Pio V, dei Fatebenefratelli come Istituto Religioso: mi rendeva lieto che nell’assistere i malati, vi riconoscevano Gesù, misticamente presente in essi.» introduce Fra Serafino. «E ripensando la mia chiamata alla vita religiosa, provo una grande gioia. Il Signore, tanto buono e grande nell’amore, quasi a mia insaputa mi ha preso per mano e mi ha accompagnato lungo il cammino della vita, fin dalla mia tenera età. La mia Mamma in particolare, mi raccomandava spesso di pregare per conoscere la Via da intraprendere per essere felice.» ci confida.
Il contatto con l’Ordine Fatebenefratelli
«Già da ragazzo iscritto all’Azione Cattolica Ragazzi mi avevano colpito i religiosi Fatebenefratelli, che gestivano l’Ospedale Fissiraga di Lodi ed erano una presenza secolare molto amata dalla popolazione lodigiana fino dal 1700. I Religiosi hanno lasciato l’opera a fine luglio 1957, e proprio in quell’Ospedale era morta la mia carissima mamma ed altri parenti.»
«Nel sottoscritto era rimasta impressa la figura di questi religiosi vestiti di nero con sopra l’abito una elegante vestaglia bianca. Poi nel 1950 si è celebrato nella città di Lodi (MI) i quattro secoli della morte di San Giovanni di Dio nonché fondatore dei cosiddetti “Fatebenefratelli” ed è stato un avvenimento diocesano con cerimonie religiose nella grande Chiesa di San Francesco d’Assisi, tenuta dai PP. Barnabiti, e vicina all’Ospedale Fissiraga, e da lì è partita una lunga processione, con la statua del santo Fondatore, fino alla Cattedrale di Lodi alla presenza del Vescovo Diocesano Mons.Pietro Calchi Novati e dal Vescovo Principe di Gorizia, dove i Fatebenefratelli erano presenti già dal 1656.»
A quella processione oltre ai Seminaristi del Seminario Diocesano, sacerdoti, religiosi, religiose, Associazioni Cattoliche, aveva partecipato anche il sottoscritto, come ragazzo dell’Azione Cattolica insieme ad altri ragazzi e giovani delle Scuole della città; così a me è rimasta in mente quella manifestazione la santità eroica di San Giovanni di Dio.» ci racconta Fra Acernozzi.
Le Figure di ispirazione
«Infine all’età di 18 anni entrai nell’Ordine Ospedaliero come Postulante a Cernusco sul Naviglio (MI) e nel cammino della mia lunga vita religiosa sono venuto a conoscenza della santità di San Benedetto Menni (1841-1914) che ha vissuto per anni nella Comunità al Fissiraga di Lodi, e ha frequentato come studente il Seminario Vescovile per divenire sacerdote, e rifondatore dell’Ordine in Spagna e Fondatore della Congregazione delle Suore Ospedaliere del S. Cuore di Gesù. In seguito ha ricoperto anche l’incarico di Padre Generale dell’Ordine Ospedaliero. Mi è stata di esempio anche la Figura di San Riccardo Pampuri, un medico cristiano esemplare e religioso dell’Ordine Ospedaliero Fatebenefratelli, ossia un Santo contemporaneo lombardo.» ci spiega Fra Serafino.
«Nella fase della mia vita religiosa nell’Ordine Ospedaliero ho conosciuto figure di spicco ed ho avuto la grazia di vivere in Comunità assieme, potrei dire, a Padre Mosè Bonardi, che fu un Superiore Generale e Provinciale, molto attivo e dinamico, ed a Fra Pierluigi Marchesi, divenuto anch’egli Padre Generale dell’Ordine e che ebbe parole illuminanti sulla pastorale ospedaliera: di per sé l’Ospedale è un luogo chiuso, eppure riguarda tutti ed è la prima frontiera dell’umanità.»
«Voglio ricordare a voi giovani di guardare alla vita religiosa ospedaliera missionaria. Il sottoscritto vi dice quello che ha vissuto nelle nostre missioni: Tanguiètà (Benin), ad Afagnan (Togo) ed a Nazareth (Israele) la Nostra Terra Santa per un totale di 32 anni tra l’Africa Occidentale e il Medio Oriente e ho voluto vivere il versetto del Vangelo di Mt 25,40: “Tutto quello che avete fatto a uno di questi piccoli l’avete fatto a me”.» racconta.
«Cari giovani Confratelli non abbiate paura, sappiate che anche fare del bene non mi è stato facile, però ho sempre visto quanto abbia creduto alla Provvidenza di Dio, e la Provvidenza non è mai mancata, soprattutto quando si trattava di aiutare i più poveri.» dice, riferendosi ai giovani.
«Infine grazie a tutti: Padri Superiori, Confratelli, Ospiti, Amici, Conoscenti e Parenti per la vostra presenza. Sappiate che voglio continuare a sognare che il nostro Ordine Ospedaliero continui a sognare, come sognava San Giovanni di Dio, di portare avanti questa missione per gli ammalati, per i poveri e i bisognosi.
Grazie per l’ascolto ed essere qui presenti.»
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SAN GIOVANNI DI DIO – FU VERA FOLLIA? – Angelo – Nocent
PREMESSA – Questa “ricerca” non è di oggi. Risale a qualche hanno fa. Era pensata per una qualche rivista interessata, alla quale avrei ceduto volentieri diritti, compensi ed esonerata da vincoli editoriali. MA NON L’HO TROVATA. Epperò è qui a disposizione.
Alla vigilia della festa del Santo, anno 2023, ho pensato di diseppellirla e metterla in circolazione. Può darsi che altri sappiano prenderne lo spunto per fare di più e meglio.
A Giovanni di Dio chiedo solo di venirmi a dare una mano nell’ora dei SUDORI FREDDI che non è molto lontana.
Di Angelo Nocent
Mentre scrivo, penso agli attuali ragazzi del nuovo Noviziato Europeo Fatebenefratelli di Brescia ed a coloro che si aggregheranno nel tempo. Sono passati ormai 473 anni dalla morte del Fondatore San Giovanni di Dio che tetimoni del suo tempo hanno visto in lui un amico del silenzio, tanto che evitva di pererdersi in chiacchere e non amava parlare se non di caritá e di cura dei malati. Mi domando come faccia a parlare ancora e ad essere tutt’ora capace di trasmettere fascino e suscitare discepoli.
La sola spiegazione: pazzo lui allora, pazzi gli scolari di oggi e di domani, incredibilmente ammagliati da un silente Amore Crocifisso, un tempo considerato anche lui fuori di testa perfino dai suoi familiari: “20Gesù tornò in casa, ma si radunò di nuovo tanta folla che lui e i suoi discepoli non riuscivano più nemmeno a mangiare.21Quando i suoi parenti vennero a sapere queste cose si mossero per andare a prenderlo, perché dicevano che era diventato pazzo”. (Marco 3,20-21).
Fra le tante disavventure in cui è incorso San Giovanni di Dio, c’è anche quella di essere stato diagnosticato post mortem affetto da SINDROME PSCHIZOFRENICA, per via di un fatto risalente alla caduta da cavallo durante la vita militare. Picchiando la testa, sarebbe rimasto tramortito per alcune ore, senza che qualcuno o aiutasse. Questo incidente spiegherebbe certi suoi comportamenti che gli procurarono un ricovero coatto nell’Ospedale Regio di Granata, settore PSICHIATRIA…
II bello è che, secondo la tradizione, sarebbe stato soccorso nientemeno che da notra signora la Vergine Maria.
LA CADUTA DA CAVALLO
Quando si parla di Giovanni Cidade (San Giovanni di Dio), un LAICO dalla vita TORMENTATA, che diventa “LA MERAVIGLIA DI GRANATA”, “L’ONORE DEL SUO SECOLO”, “SANTO” per la Chiesa, il punto di riferimento è ed è sempre stato Francesco de Castro, suo primo biografo, considerato come la fonte più autentica. Lui stesso esordisce dicendosi chiamato a “risuscitare la verità che col passare del tempo è stata sepolta e messa in oblio…essendo mancato chi mettesse in scritto le cose essenziali della sua vita, ed essendo egli stato un UOMO SILENZIOSO, che POCHE VOLTE PARLAVA DI COSE CHE NON RIGUARDASSERO LA CARITA’ e il SOCCORSO DEI POVERI, non abbiamo notizia di molte cose che appartengono a questa storia, di molte cose, cioè, notevoli che gli accaddero dopo la vocazione avuta da Dio… Pertanto, ciò che si riporterà qui è ciò che si è potuto sapere con molta CERTEZZA e VERITA’ ”.
Di Francesco de Castro il Padre Gabriele Russotto si sente di scrivere: “Storico e narratore onesto, come e più di tanti storici e narratori moderni, il Castro merita la più assoluta credibilità”.
La premessa mi serve per introdurmi più serenamente nel Cap. VII che narra DELLA CONVERSIONE DI GIOVANNI DI DIO AL SIGNORE, argomento cruciale e delicato.
Questo il fatto narrato dal Castro: “Giunto ad età conveniente, costui (il conte di Oropesa) lo mandò in campagna insieme agli altri suoi servitori che guardavano il gregge. Ivi attendeva a prendere e portare l’approvvigionamento necessario con ogni diligenza, perché, essendogli venuti a mancare i genitori in così tenera età, procurò di compiacere e servire questo brav’uomo nella menzionata e come pastore tutto il tempo che stette in casa sua. Per questo i suoi padroni gli volevano molto bene, ed era amato da tutti.
Essendo ormai giovane di 22 anni, gli venne la volontà di andare in guerra, e si arruolò in una compagnia di fanteria d’un capitano di nome Giovanni Ferruz, che allora il conte di Oropesa inviava al servizio dell’Imperatore per soccorrere Fuenterrabía, che era stata occupata dal re di Francia.
Mosso Giovanni dal desiderio di vedere il mondo e godere di quella libertà che comunemente sogliono prendersi coloro che vanno in guerra correndo a briglia sciolta per il cammino largo (benché faticoso) dei vizi, incontrò in essa molti travagli e si vide in molti pericoli.
Trovandosi, infatti, in quella frontiera, un giorno a lui e ai suoi compagni venne a mancare l’approvvigionamento. Essendo egli giovane e molto volenteroso si offri per andare a cercare da mangiare presso certi casali o fattorie, che si trovavano un po’ distanti da loro. Per potere andare e tornare più presto, montò su una giumenta francese, che era stata presa ai nemici. Arrivato a circa due leghe da dove era partito, la giumenta, riconoscendo i luoghi nei quali di solito andava, cominciò a correre furiosamente per rientrare nella sua terra.
Siccome, però, non aveva per briglia che una cavezza, con la quale Giovanni la guidava, non fu possibile trattenerla, e corse tanto per le falde di un monte che lo scaraventò contro alcune rupi, dove rimase per oltre due ore, senza parola, buttando sangue dalla bocca e dalle narici, completamente privo dei sensi, come un morto, senza che vi fosse alcuno che potesse vederlo ed aiutarlo in tanto pericolo.
Ripresi i sensi, tormentato dal colpo ricevuto per la caduta e visto il rischio di incorrere in altro non minor pericolo di esser fatto, cioè, prigioniero dai nemici, si sollevò da terra come meglio poté, senza quasi poter parlare, si mise in ginocchio e, alzati gli occhi al cielo, invocò il nome di nostra Signora la Vergine Maria, della quale fu sempre devoto, cominciando a dire: «Madre di Dio, venite in mio aiuto e soccorso, pregate il vostro santo figlio che mi liberi dal pericolo in cui mi trovo e non permetta che venga preso dai miei nemici».
Poi, sforzandosi alquanto e preso in mano un palo ivi trovato, col quale si aiutava, si mise in cammino e piano piano giunse dove stavano i suoi compagni ad aspettarlo.
Avendolo visto così mal ridotto e credendo che lo avessero incontrato i nemici, gli chiesero che cosa fosse accaduto. Egli raccontò loro quanto gli era occorso con la giumenta, ed essi lo fecero mettere a letto e sudare, ponendogli molti panni addosso. Così di lì a pochi giorni, guarì e stette bene”.
LE VOCI DISCORDANTI
Quel volo contro le pietre del bordo della strada, dove rimase per due, tre, cinque…ore privo di sensi, privo di parola, di conoscenza, come morto, gli procurarono una commozione cerebrale? Una lieve frattura della scatola cranica? Probabilmente sì.
Qualcuno ha insinuato che la “pazzia” di San Giovanni di Dio, ossia le sue “stranezze” manifestate durante la conversione originino da questo infortunio. Nessuno è in grado di provarlo. Jean Caradec Cousson o.h. sostiene che il de Castro ha il pregio di riferire fedelmente i fatti ma l’abitudine a interpretarli a modo suo. Ad esempio, “per lui è evidente che Giovanni Cidade ha recitato la parte del folle. Ora, contro questa opinione illogica, si leva la descrizione così viva dello stesso de Castro che descrive Giovanni Cidade impegnato in atteggiamenti e attività esplosive, incoercibili e non dirette a calcolare come lo sarebbe necessariamente degli atti simulati: inoltre, conviene prendere alla lettera le parole di Giovanni che non mentiva: “Fratello mio, che Nostro Signore vi ricompensi per la carità che mi avete testimoniato in questa casa di Dio, per tutto il tempo che sono stato malato. Ora mi sento bene e in grado di lavorare; per amor di Dio, lasciatemi dunque uscire!”.
Caradec Cousson, autore di “GIOVANNI DI DIO dall’angoscia alla santità” – Città Nova, pag 61) conclude così il ragionamento: “In breve, la Vita di Giovanni di Dio secondo il suo contemporaneo de Castro, letta attentamente ed interpretata secondo i criteri scientifici moderni, come anche le testimonianze concordi dei notabili di Granata, del direttore dell’ospedale regio e del paziente stesso, ci permettono di dedurre molto verosimilmente che: “No, Giovanni di Dio non ha simulato la follia. Egli è stato malato, come lo esprime lui stesso in termini moderni e dignitosi: “He estado enfermo” .
Nelle note a piè di pagina si legge: “Per provare che Giovanni Cidade non ha simulato la follia, l’autore invoca la testimonianza dei notabili e del direttore dell’ospedale, ma non condivide affatto il loro punto di vista sullo stato reale del suo eroe.
Alcuni lettori del Capitolo V (apparso sul “Lien Hospitalier” del novembre 1972 sembrano però supporlo, nonostante l’esposizione di un’opinione diversa, forse un po’ diluita nel corso del capitolo. Per togliere ogni equivoco in merito, ecco, in termini concisi la convinzione dell’autore. “Giovanni Cidade, affetto da uno shock nervoso acuto e breve, di forma angosciosa, conserva, nonostante tutto, la propria lucidità, ma diventa preda momentanea di impulsi disordinati, irresistibili, accettati, d’altra parte, con soddisfazione, perché appagano i suoi profondi desideri di espiazione”.
Quest’opinione è confermata dai gesti e dalle parole di Giovanni Cidade, riferiti fedelmente da de Castro. Infatti, “dopo alcuni giorni di ospedale, Giovanni dichiara di essere uscito dall’angoscia” (Ya me siento sano y libre…del dolor y angustia…).
Sul ricovero di Giovanni di Dio come pazzo nell’ospedale di Granata è intervenuto nel lontano 1951 anche un certo DON GIOVANNI COLOMBO, futuro cardinale arcivescovo di Milano in questi termini: “Su quest’ultima notizia (il ricovero) temo che un sorrisetto malizioso sforerà le labbra degli uomini moderni, saputi e prevenuti. “Era da aspettarselo; ecco un soggetto da clinica psichiatrica!”. Non intendo qui rispondere esaurientemente, ma solo indurli a una riflessione che li renda più dubbiosi della loro opinione, più prudenti nel giudicare ciò che forse non è facile capire, insomma, più profondi. Il nemico irriducibilmente feroce dell’amore di Dio è l’egoismo che s’abbarbica nei fondi e sottofondi della natura umana con mille indistricabili radici ripullulanti ad ogni taglio. Solo a prezzo di trivellanti sofferenze lo si può disbarbicare (sradicare).
A volte, specialmente quando i disegni di Dio richiedono una bonifica completa, o quasi, della natura, la volontà umana non basta, occorre che intervenga l’azione di Dio con le cosiddette prove passive. Ecco, allora, le tribolazioni straordinarie interne ed esterne, le umiliazioni più cocenti, le malattie fisiche e psichiche. Non è da meravigliarsi se in questo arduo lavoro di purificazione la natura possa risentire scosse che talora ne facciano perdere momentaneamente il normale equilibrio. Anche la santità, come la scienza ed ogni altra grandezza, ha i suoi rischi.
Può darsi che la follia di Giovanni Ciudad sia stata soltanto una simulazione ricercata di proposito, a scopo ascetico.
Può darsi che sia stata un’interpretazione volgare del fervore che lo trasportava ad atteggiamenti inconsueti, ad azioni singolari, giustificabili in quel clima d’esaltazione mistica che non raramente si riscontra nella spiritualità iberica.
E può darsi pure che in parte sia stata anche un reale morbo psichico: contraccolpo nervoso del logorio intenso a cui la grazia purificatrice sottoponeva quell’ardente natura e in pari tempo esperienza preziosa per le imprese che Dio lo chiamava a compiere.
Comunque, fu tale malattia che per troppi aspetti sconcerterà sempre le dotte diagnosi dello psichiatra. Basti pensare all’uomo nuovo e all’opera meravigliosa, che ne uscirono. Poiché fu proprio nella notte di quel morbo che spuntò nello spirito di San Giovanni di Dio la luce riorganizzatrice ed orientatrice delle sue aspirazioni eroiche, fin allora saltuarie e disperse in molteplici direzioni.
Uscito dall’ospedale, egli è deciso a seguire un’idea che ormai gli brilla chiara davanti: amare Dio nel prossimo, e il prossimo nella sua carne sofferente. Sarà ancora e sempre l’avventuriero del buon Dio, ma non più ramingo per le strade del mondo esteriore, bensì per le vie del mondo interiore della carità: mondo assai più vasto di quello fisico, più interessante, più irto di rischi e di sorprese, più ricco di tesori.
Cominciano così le nuove avventure del cavaliere innamorato che va a liberare i poveri dalla schiavitù del bisogno, che, abbattendo pareti d’ipocrisia e di vergogna, salva ragazze pericolanti e risolleva donne cadute nella cattiva vita, che esplora con ronde infaticabili di giorno e di notte i vicoli malfamati e la periferia della città per raccogliere e soccorrere bambini e vecchi, orfani e vedove, sventurati e malati.
San Giovanni di Dio non è stato uno speculatore teorico, ma un attuatore pratico. Non ci ha lasciato una dottrina sulla carità, ma un esempio affascinante. Egli è uno che sulla terra ha aumentato l’amore, non “con le labbra e le parole” ma “coi fatti e in realtà” (1 Gv 3,18).
Gli bastò un passo del Vangelo: “Qualunque cosa farete anche al più piccolo dei miei fratelli l’avrete fatto a me” (Mt 25,40).
Di questo passo gli è bastato il comandamento dell’Evangelista di cui portava il nome: “Noi sappiamo di essere passati da morte a vita perché amiamo i fratelli…Se uno pretende d’amar Dio e resta freddamente indifferente davanti al suo fratello, sappiamo che è un mentitore. Infatti, non amano il fratello che egli vede, come potrà amare Dio che non ha mai visto?” (1 Gv 3,13; 4, 19-20). Su queste lineari verità della rivelazione divina ha costruito tutto l’edificio della sua santità personale e della sua opera ospedaliera. Si persuase irremovibilmente di due cose.
1. La prima è che uno dei modi di permanenza di Gesù sulla terra sta nella sofferenza degli umili, degli abbandonati, dei poveri e dei malati: ogni corpo umano è carne del corpo mistico di Cristo, ogni piaga e ogni agonia umana è un prolungamento nei secoli delle piaghe e dell’agonia del Figlio di Dio.
2. La seconda è che la via dell’amore vero si trova nella concretezza del sensibile: non si giunge all’amore del Dio invisibile se non attraverso l’amore dell’uomo visibile, non si giunge a guarire le piaghe invisibili dell’anima dell’uomo se non attraverso l’amore alle piaghe visibili del suo corpo sofferente.
Nella luce di queste certezze egli dell’OSPEDALE fece un TEMPIO: il servizio degli ammalati divenne un OPUS DEI, una liturgia d’amore e di dolore con le sue rubriche minuziose indicanti la cura, la dieta, la visita, a ore fisse e a qualsiasi ora”.
Come si vede, anche questo punto di vista ha le sue interessanti suggestioni ma non “s-velano” il travaglio interiore di quest’uomo, sconvolto da un panegirico su San Sebastiano, in un freddo inverno (qualcuno parla d’estate), all’Eremo dei Martiri di Granata, mescolato tra una folla amante della tradizione e richiamata dal nome famoso dell’oratore. Sembra che “le frecce divine” scagliate con veemenza abbiano preso di mira proprio lui, nudo come e fragile come il cristiano martire militare romano, sotto l’impero di Diocleziano.
La CHEMIOTERAPIA dello spirito è già in atto.
Nelle lunghe pause, Giovanni ha sfogliato i libri ascetici che vende e s’è fatto una modesta cultura. La vita ascetica è farcita di norme: non fare questo, non fare quello…Noi oggi diremmo che la norma morale è un “semaforo”. Epperò, dietro ogni comportamento deviante di chi non rispetta la segnaletica e passa con il “rosso”, c’è un uomo che non sempre ha coscienza del reato e magari neppure ha il senso del peccato.
In Giovanni “ribellione, disarmonia e smarrimento”, entrambi sono presenti e pulsano dentro di lui.
Per occhi attenti, colpisce sempre questa dimensione molto umana, di umana fragilità e spesso di umana inconsistenza, che si cela dietro ogni nostro comportamento deviante. E il “giudice” che gli si troverà davanti, il santo Giovanni d’Avila, ha la consapevolezza della “personalizzazione della colpa”.
Se i suoi sermoni attirano è perché il popolo percepisce che dietro il “giudice” del confessionale c’è l’uomo di Dio che in ogni comportamento deviante sa scorgervi la persona, la sua ribellione o il suo smarrimento. Il suo compito di fondo è di restituire la libertà alla persona che ha di fronte, sottraendola proprio alla ribellione, allo smarrimento, alla disarmonia interiore in cui per tanti e oscuri motivi si è imprigionato con le sue stesse mani.
Il messaggio contenuto nel panegirico è lacerante: Giovanni si sente come sul banco degli imputati, avverte che è giunto il momento, adesso, qui, ora, di uscire dall’ambiguità.
Alla “verità dell’oscuro”, farà seguire la terapia contenuta nel salmo 50: “crea in me”, “rendimi la gioia”. Ed il punto di partenza per comprendere la sindrome da Miserere che colpisce il quarantacinquenne avventuriero è di assimilare il Testo:
3 Pietà di me, o Dio, nel tuo grande amore; /nella tua misericordia cancella il mio errore.
4 Lavami da ogni mia colpa, / purificami dal mio peccato.
5 Sono colpevole e lo riconosco, / il mio peccato è sempre davanti a me.
6 Contro te, e te solo, ho peccato; / ho agito contro la tua volontà.
Quando condanni, tu sei giusto, / le tue sentenze sono limpide.
7 Fin dalla nascita sono nella colpa, / peccatore mi ha concepito mia madre.
8 Ma tu vuoi trovare dentro di me verità, / nel profondo del cuore mi insegni la
sapienza.
9 Purificami dal peccato e sarò puro, / lavami e sarò più bianco della neve.
10 Fa’ che io ritrovi la gioia della festa, / si rallegri quest’uomo che hai schiacciato.
11 Togli lo sguardo dai miei peccati, / cancella ogni mia colpa.
12 Crea in me, o Dio, un cuore puro; / dammi uno spirito rinnovato e saldo.
13 Non respingermi lontano da te, / non privarmi del tuo spirito santo.
14 Ridonami la gioia di chi è salvato, / mi sostenga il tuo spirito generoso.
15 Ai peccatori mostrerò le tue vie / e i malvagi torneranno a te.
16 Liberami dal castigo della morte, mio Dio, / e canterò la tua giustizia, mio Salvatore.
17 Signore, apri le mie labbra / e la mia bocca canterà la tua lode.
18 Se ti offro un sacrificio, tu non lo gradisci; / se ti presento un’offerta, tu non l’accogli.
19 Vero sacrificio è lo spirito pentito: / tu non respingi, o Dio, un cuore abbattuto e umiliato.
20 Dona il tuo amore e il tuo aiuto a Sion, / rialza le mura di Gerusalemme.
21 Allora gradirai i sacrifici prescritti, / le offerte interamente consumate: tori saranno immolati sul tuo altare.
A proposito del “Pietà di me o Dio nel tuo amore”, il Martini è illuminante: “La prima parola è racchiusa in un verbo ma, in realtà, è la radice. di un sostantivo. Quello che in italiano traduciamo con: «Pietà di me, o Dio », in ebraico è semplicemente: «Grazia, fammi grazia, riempimi della tua grazia». Si chiede dunque a Dio che sia per noi grazia, che prenda interesse a chi sta male, a chi si trova in difficoltà, che ci dia una mano. È l’esperienza di Maria che canta: «Signore, tu hai guardato alla povertà della tua serva e mi hai fatto grazia, mi hai riempito della tua grazia».
Ed un’altra osservazione ci è preziosa e ci sarà di aiuto: “Dio è dono gratuito, è l’essenza della gratuità. Quando noi diciamo che Dio non può aver alcun interesse a pensare a noi, ad occuparsi di noi, riveliamo di avere un’idea falsa di Dio. Abbiamo di Lui, per dirlo con una parola tecnica, un’idea farisaica, che cerca cioè di capire Dio partendo dalle categorie del calcolo. Dio gode nel poter donare qualcosa a chi ha bisogno di essere sostenuto, a chi non si sente nessuno, a chi si sente in basso. Egli vuole versare il suo valore in noi e non giudica il nostro”.
UNA PAROLA A PROPOSITO DEI SALMI
André Chouraqui fa una considerazione che merita di essere rilevata. Egli scrive che “Noi nasciamo con questo libro nelle viscere. Un piccolo libro: centocinquanta canti, centocinquanta gradini eretti tra la morte e la vita; centocinquanta specchi delle nostre rivolte e delle nostre fedeltà, delle nostre agonie e delle nostre resurrezioni. Più che un libro, un essere vivente che parla – che vi parla – che soffre, che geme e che muore, che resuscita e canta, sulla soglia dell’eternità – e vi prende e vi porta con sé, voi e i secoli dei secoli dall’inizio alla fine”.
La sottolineatura è importante perché la vedremo posta in essere in Giovanni Cidade, alle prese con il suo dramma esistenziale. Pur non proferendo parola, il salmo 51 respira con lui, i battiti del cure scandiscono uno ad uno i ventuno stati d’animo che lo compongono. Tanto da assistere ad una reazione liberatoria che si verifica sì nella sua coscienza ma si manifesta anche esteriormente, tanto da essere notata, annotata e trasmessa a noi come un “fatto”, lì per lì irrazionale, ma chiaritosi nel tempo, pur con le diverse e talora opposte interpretazioni.
Dall’Avila, ministro della Parola, Giovanni riceve una chiara indicazione:
LA CONFESSIONE
Giovanni, prima ancora di recarsi dal confessore d’Avila, fa una confessione pubblica. Ma non è tanto un’autoaccusa: ho fatto questo, ho commesso quest’altro…ho fatto ciò che non dovevo fare, ho sbagliato…Il rischio dell’autocritica è proprio l’autogiustificazione che non necessita del perdono di Dio. Nel nostro caso c’è piuttosto un dialogo intimo, personale, filiale con Colui che lo ha cercato, atteso all’appuntamento, amato: “ho fatto ciò che ai tuoi occhi è male”. Non ho fatto male soltanto contro la tua legge ma quello che è male “ai tuoi occhi”.
Ovviamente Giovanni non procede con questa visione schematica ma sotto l’impulso della Parola (Spirito) che lo ha braccato, amorevolmente ferito come una lancia nella sua parte più vulnerabile: l’orgoglio. In ginocchio, sul pavimento gelido di una chiesa, il 20 gennaio 1539, capisce che è giunto il momento di “decidersi per Dio”. E fa la sua scelta, la sua solenne “professione religiosa”, non prevista, non programmata, con una liturgia non canonica.
La consacrazione è in questi termini: “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù”. E’ l’anticipazione dei quattro voti che professeranno i suoi discepoli.
Non veste un abito, non professa una regola, non appartiene a una famiglia monastica, non ha un Cardinale protettore. E’ uomo del Vangelo. Nudo, povero, libero obbediente alla Voce del “Maestro interiore” ed al suo “ministro” che gli a posto al fianco come guida: il sacerdote Giovanni d’Avila.
CAMMINO PENITENZIALE
Da questo momento inizia il suo cammino penitenziale.
Il “grazie” per queste riflessioni va detto al mio Arcivescovo, il Cardinale Carlo Maria Martini per il commento al Salmo 50 che fece tra il 1983-84, quando convocò in Duomo i giovani per ascoltare e per pregare con il loro Arcivescovo, dando vita a quella esperienza contagiosa organizzata dall’Azione Cattolica Ambrosiana, che va sotto il nome di SCUOLA DELLA PAROLA. Ricordo benissimo quei tempi perché si è trattato di uno dei momenti più forti e significativi della sua esperienza episcopale insieme ai giovani, che ha lasciato un segno duraturo. Non più giovane, – allora avevo 41 anni – necessitavo anch’io proprio di questa riconciliazione con me stesso e le sue riflessioni mi hanno segnato profondamente.
Da quelle sue meditazioni ho tratto due insegnamenti fondamentali:
1. La chiave di lettura della “conversione” di Giovanni di Dio, risultata “eccessiva” per i suoi contemporanei, tanto da farlo internare nel manicomio dell’Ospedale Regio di Granada.
L’unico a vederci chiaro, sarà proprio San Giovanni d’Avila, con il quale Dio aveva predisposto l’incontro che avrebbe modificato definitivamente l’itinerario del suo penitente. Perché l’iniziativa, il punto di partenza di ogni cammino di conversione del cuore è sempre un’iniziativa divina: Dio, il leale, l’affidabile, il fedele, il buono, il tenero, il costante nell’attenzione e nell’amore, espressioni riassumibili in una: il Misericordioso è sempre il primo a dare la mano; “il piatto della bilancia pende sempre dalla parte della Sua bontà”.
Le parole che c’introducono, sono semplici e brevi: “Pietà di me…”. La parola forte, il pugno nello stomaco è il termine “peccato”. Nel testo ebraico il significato è più precisato, usa tre parole che andrebbero lette così:
“cancella la mia ribellione,
lavami da ogni disarmonia,
mondami (tirami fuori da ogni mio smarrimento”.
Senza bisogno di scomodare psichiatri e psicologi, la vera risonanza magnetica che non mente è la Parola di Dio. Essa che ci dice per filo e per segno cos’è accaduto a Giovanni di Dio all’Eremo dei Martiri in quel lontano 1539.
Di suo egli ha messo solo quell’eccesso di esteriorizzazione mal interpretato che solo degli innamorati come lui, folgorati da una luce interiore accecante sarebbero stati in grado di comprendere. Tant’è che l’unico a non meravigliarsi sarà proprio il “provocatore” della situazione Giovanni d’Avila. Un miracolo della Grazia che ha dato vita non solo a una personale conversione ma ad una nuova famiglia religiosa e fatto di lui un “vir misericordiae” additato alla Chiesa universale. Da un evento personale, a un progressivo mutamento di mentalità ecclesiale che perdura.
Giovani di Dio all’Eremo non ha da presentare a Dio la sua fragilità: egli si percepisce come uomo peccatore. Epperò avverte che Dio è attivo su di lui: lo sta lavando, lo monda, sente che è in corso una purificazione, una dialisi potremmo dire; egli sta sperimentando una cosa inedita: che il Dio della sua vita è buono, è verità, è misericordia.
Anche se non trova le parole giuste come Davide, le sue sillabe, le lettere dell’alfabeto che farfuglia, vengono trasformate dallo Spirito che prega in lui: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Romani 8, 26-27).
Bello! Nella Lettera a Proba, Agostino scrive: «Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi. Dio infatti “pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime”(Salmo 55, 9), e il nostro gemito non rimane nascosto (cf. Salmo 37,10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uomini» (2).
Egli si appropria, per così dire, della sua povertà e miseria; riconosce il suo stato di uomo peccatore, ammette la sua incapacità ad armonizzare la sua vita morale, di dichiara bisognoso di perdono. Questo quarantacinquenne avverte che Dio vuole sincerità nel cuore e non esita ad accettare il poco, il niente che è.
Questa confessio vitae è corrispondente ai vv. 5-8 del salmo 50 ma sfugge, non è capita dalle persone che gli stanno attorno. Solo Giovanni d’Avila si rende conto del miracolo della Grazia che è in atto e non esita a riconoscerlo. Per gli altri è uno che merita solo commiserazione: un poverino uscito di senno. Ma egli, dopo l’elettrochoc provocato dalla Parola di Dio, a poco a poco, avverte che Dio è capace di fare in lui qualcosa di nuovo. Lui che ha sperimentato la sua insufficienza morale, non esita a riconoscere l’azione dello Spirito in atto e accetta di fare pace con se stesso: è la confessio fidei : “Lavami, e sarò più bianco della neve”.
La gioia, la letizia, non arrivano subito. Il “Ridonami la gioia di chi è salvato; mi sostenga il tuo spirito generoso.”(v.14), verrà. Ma lui ormai è stato collocato sul binario giusto e la potenza di Dio non tarderà a manifestarsi.
IL PASSATO E’ PASSATO
Dio, che gli ha fatto grazia di guardare in avanti, ora gli mette in cuore la confessio laudis. Ha sperimentato il soffio di vita, la forza di Dio? Qui riceve l’investitura: vai e annuncia quanto Dio ha fatto per te, sìì testimone della salvezza che hai ricevuto: “Ai peccatori mostrerò le tue vie e i malvagi torneranno a te”(v. 15).
D’ora innanzi dovrà essere un predicatore del Dio che salva: “Dona il tuo amore e il tuo aiuto a Sion, rialza le mura di Gerusalemme”.(v.20) E’ la missione che avrà nella Chiesa. A cominciare da Granada. La sua croce sarà la sua gioia, ora che è stato reso capace di annunziare le grandi opere di Dio. Il suo motto sarà “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù”.
E’ evidente che questo percorso di ri-conversione del cuore non si è esaurito nell’arco di una giornata. Sono state necessarie delle tappe che il nuovo Giovanni non ha potuto disattendere o saltare. Quanto più cercheremo di ripercorrere quel processo che abbiamo chiamato sindrome da Miserere, tanto più ci convinceremo che si è trattato sì di vera follia ma di quella contagiosa del Signore Crocifisso-Risorto. Non lo ha scritto proprio l’apostolo Paolo che “la parola della croce sembra una pazzia a quelli che vanno verso la perdizione”, mentre “per noi che Dio salva, è la potenza di Dio?” Paolo sa bene di non dire una cosa nuova e cita le Scritture dei padri: “Sta scritto infatti: ”Distruggerò la sapienza dei sapienti e squalificherò l‟intelligenza degli intelligenti” (1Cor 1, 18-19).
E poi aggiunge di suo: “Dio ha deciso di salvare quelli che credono, mediante questo annuncio di salvezza che sembra una pazzia. Gli Ebrei infatti vorrebbero miracoli, e i non Ebrei si fidano solo della ragione.
Noi invece annunziamo Cristo crocifisso, e per gli Ebrei questo messaggio è offensivo, mentre per gli altri è assurdo.
Ma per quelli che Dio ha chiamati, siano essi Ebrei o no, Cristo è potenza e sapienza di Dio. Perché la pazzia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini.
Guardate tra voi, fratelli. Chi sono quelli che Dio ha chiamati? Vi sono forse tra voi, dal punto di vista umano, molti sapienti o molti potenti o molti personaggi importanti? No!
Dio ha scelto quelli che gli uomini considerano ignoranti, per coprire di vergogna i sapienti; ha scelto quelli che gli uomini considerano deboli, per distruggere quelli che si credono forti.
Dio ha scelto quelli che, nel mondo, non hanno importanza e sono disprezzati o considerati come se non esistessero, per distruggere quelli che pensano di valere qualcosa.
Così, nessuno potrà vantarsi davanti a Dio.
Dio però ha unito voi a Gesù Cristo: egli è per noi la sapienza che viene da Dio. E Gesù Cristo ci rende graditi a Dio, ci dà la possibilità di vivere per lui e ci libera dal peccato. Si compie così quel che dice la Bibbia: Chi vuol vantarsi si vanti per quel che ha fatto il Signore” (idem 21-31).
La riflessione potrebbe estendersi ulteriormente ma ci porterebbe molto lontano, perché la Bibbia è un pozzo senza fondo. Vorrà dire che sarà per un’altra volta.
Si noti l’antica iconografia: Giovanni di Dio è ripetutamente riprodotto con il simbolo della somma follia: la Croce.
San Giovanni di Dio affascina non per le cose dette o scritte, che sono poche, ma per la la testimonianza. La sua esistenza, del resto come quella di ogni altro uomo, in qualunque sistema sociale ed economico si inquadri, è un evento attraversato, segnato dalla croce: dal dolore, dall’affanno, dalla sofferenza e dalla morte. Oggi come ieri, come domani.
FATEBENEFRATELLI”: E’ SOGNO AD OCCHI APERTI CHE PERDURA – Angelo Nocent
“Granada sarà la tua croce”. La leggenda del Gaucín” – Nonostante la mancanza di fonti storiche, una delle storie più significative ed evocative che cercano di spiegare l’arrivo di San Giovanni di Dio a Granada è la celebre leggenda del Gaucín.
Si tratta di questo: “il santo ebbe un incontro con un umile trovatello, mentre passeggiava presso il piccolo comune di Gaucín, in Spagna.
– Deciso a non abbandonarlo, Giovanni prese il bambino con sé sulle spalle e proseguì il cammino.
– Fermatosi per bere ad una fonte, Giovanni adagiò il bambino sotto un albero, il quale mostrò al santo un melograno spaccato, dal quale fuoriusciva una croce, e gli disse: “Granada sarà la tua croce”.
Dunque: LEGGENDA o LASCITO ?
Mi rifiuto di sottoscrivere che quella di Gaucín sia leggenda, perché ritengo l’interpretazione fuorviante: non è VERO solo tutto ciò che è dimostrabile e documentabile.
Mi chiedo: ci si può innamorare di una leggenda a tal punto da farla sbarcare sui cinque continenti e moltiplicare esponenzialmente gli “illusi” o “infatuati” durante i successivi cinque secoli fino ad oggi?
Nessuno è autorizzato a definire “LEGGENDA” quella che vede per protagonista lo sbandato Giovanni di Dio. Perché c’è di mezzo il Maestro interiore, lo Spirito di Gesù che lo ha preso per mano e lo sta conducendo perché si realizzi il progetto che l’Eterno ha su quest’uomo, sbandato ma credente e pensante.
L’annunciazione dell’Angelo a Maria è leggenda? Nessuno osa pensarlo. Per noi è un “fatto”. Ed è anche sconvolgente. Noi testimoni solo degli effetti che ha provocato non riusciamo a credere che l’ effetto si ha senza causa.
Perciò, senza cadere nel miracolistico, mi sento di dire che tutta la nostra vita, compresa quella di Giovanni di Dio, è fatta di appelli, vocazioni, annunciazioni, che Dio rivolge in tutti i tempi, ad ogni ora del giorno ma anche della notte. Se in principio era il Verbo, ora Egli è un CONTEMPORANEO che abita fra noi. Ma se di messaggi, vocazioni, annunciazioni, sollecitazioni, inviti… è piena la nostra vita, senza l’illuminazione del Vangelo, il rischio è di non accorgercene.
Mi viene in mente Francesco d’Assisi. Nessuno definisce leggenda la sua esperienza: “In preghiera, davanti al Crocifisso di San Damiano, scoprì in modo più chiaro la via da seguire: il “Cristo povero e crocifisso”. Da lui ricevette un ordine ben preciso che si accinse a seguire con tutto se stesso: «Francesco, va’ ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina» (2 Cel. 3).
Francesco ebbe, per tutta la vita, la persuasione di essersi mosso sotto l’azione dello Spirito Santo fin dall’inizio della sua conversione. Tutto è dono e iniziativa del Signore:
«Il Signore concesse a me, frate Francesco»,
«Il Signore mi condusse tra i lebbrosi»,
«Il Signore mi dette tanta fede»,
«Il Signore mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo»
A fare attenzione, non è difficile avvertire che la nostra vita è piena di angeli, di messaggeri, di apparizioni. Ma è solo l’esperienza religiosa dei primi testimoni che può aiutarci a identificarli.
Il modo migliore di leggere il Vangelo è proprio quello di pensare che tutto quanto vi si trova, capita anche nella nostra vita. Ciò che è accaduto ai primi testimoni, succede anche ai nostri giorni.
Il modello ideale di lettura del Vangelo è Maria.
– Da che cosa ha riconosciuto l’angelo?
Come è giunta alla certezza che quel messaggio veniva da Dio?
Ognuno ha il diritto di chiedersi:
– da che cosa potrei riconoscere un angelo?
– Da che cosa riconoscere che un pensiero, un incontro, un avvenimento vengono da Dio?
E’ un problema vitale, lo stesso che dovette risolvere Maria. Lei come ha fatto?
– Anzitutto, non si è lasciata indurre a credere immediatamente.
– Ha riflettuto, si è interrogata, ha messo in questione questa vocazione straordinaria.
In presenza di una Parola di Dio, ci sono due attitudini pericolose:
– quella di rifiuto, del lasciar perdere perché non ci si vede chiaro;
– l’altra, di capirci tutto, dell’evidenza, della non meraviglia, dello scontato.
Ma il solo modo ragionevole è quello assunto da Maria: “Ella non capiva ciò che egli diceva, ma conservava tutte quelle cose e se le ripeteva nel cuore” (Luca 2,51).
– Tutto avviene nel tempo, col tempo, mettendovi del tempo, perché il discernimento dello Spirito non funzione come il caffè liofilizzato istantaneo.
– Poi Maria ha consultato le scritture. Tutti i testi di Luca come anche di Matteo, sono citazioni di profeti ed il Magnificat ci dice come Maria vedeva la sua vocazione: nella linea di tutti quei poveri, di tutte quelle fecondità che l’avevano preceduta.
Come si dirà più avanti, si diventa FATEBENEFRATELLI non tanto per scelta ma per ACCETTAZIONE di una chiamata dall’alto, nel consenso quotidiano di un destino che oltrepassa la nostra previsione e immaginazione. Anche Giovanni di Dio si è trovato coinvolto in un progetto talmente più grande di lui da sembrare folle il progetto e più folle il consenziente.
A chi accetta di inoltrarsi in questa avventura umana e divina è richiesto di muoversi nella logica della fede:
– ricettività e riflessione,
– gioia e timore,
– senso di Dio e buon senso umano.
Le grazie di Dio talvolta giungono come tegole sulla testa. Lasciarsi sconvolgere e pregare, leggere e riflettere le Scritture, conservare e ruminare dentro l’anima gli avvenimenti, è il solo modo ragionevole di procedere.
– Perché Dio interpella proprio me?
– Perché mi fa rivivere tutte le angosce dei poveri, dei perseguitati, delle sterili, degli esseri duramente abbandonati da Dio nel quale hanno messo la loro fiducia?
– Degli innocenti calpestati, accusati, respinti?
– Dei sofferenti senza via d’uscita, degli angosciati dalla vita?
Maria scopre che dietro c’è la fedeltà di Dio, il suo stare ai patti, il suo mantenere le promesse:
– “Ha accolto Israele, suo servo…
– la sua misericordia di generazione in generazione verso coloro che si fidano di Lui”.
L’angelo in carne ed ossa che Maria ha incontrato è Elisabetta, una donna anziana che aveva sofferto come lei e che l’ha incoraggiata a credere, lei così giovane è già così coinvolta nei destini di Dio.
Anche Giovanni di Dio quando riconosce la sua annunciazione canta il Magnifica a modo suo. Gli altri ridono, prendono le distanze dall’impazzito. Lui invece vede realizzarsi le promesse di Dio proprio là dove non aveva sperimentato che i suoi tormenti e disagi assieme a quelli di sventurati suoi simili internati e incatenati nel manicomio.
Come Maria e Giovanni di Dio, i discepoli, consacrati o laici, accettano di associarsi alle follie di Dio, ai suoi progetti grandiosi. Presi singolarmente, essi sono piccola cosa. Messi insieme, diventano trasportatori di ossigeno nel tessuto umano in preda all’anemia, a rischio di cancrena.
La loro determinazione al “servizio trasporto ossigeno” la imparano dalla MATER HOSPITALITATIS, nel senso del suo Magnificat:
1. “Cerco nel cuore le più belle parole per il mio Dio,
2. l’anima mia canta per il mio amato” (Lc 1,46).
3. “Perché ha fatto della mia vita un luogo di prodigi,
4. ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore” (Lc 1,47)
5. “Ha guardato me che non sono niente:
6. sperate con me, siate felici con me,
7. tutti che mi udite.
8. Cose più grandi di me stanno accadendo.
9. E’ Lui che può tutto, Lui solo, il santo!” (Lc 1, 48-49)
10. “ E’ lui che ha guardato, è lui che solleva,
11. è Lui che colma di beni, è lui…”
12. “Santo e misericordioso, santo e dolce,
13. con cuore di madre verso tutti, verso chiunque”
(Lc 1,50).
14. “Ha liberato la sua forza,
15. ha imprigionato i progetti dei forti” (Lc 1,51).
16. “Coloro che si fidano della forza sono senza troni.
17. Coloro che non contano nulla hanno il nido nella sua mano” ( Lc 1,52)
18. “Ha saziato la fame degli affamati di vita,
DISTRIBUTORI DI OSSIGENO
Essere FATEBENEFRATELLI vuol dire CANTARE IL MAGNIFICAT CON LA VITA, ossia portare e TRASFONDERE Vangelo, le gioiose notizie che tutti devono venir a sapere, ossia:
1. Che Dio ha attraversato i cieli,
2. Che l’emoglobina, ossia l’amore, scende dal cielo verso
la terra e non viceversa,
3. Che Lui ci conosce così bene che sarebbe capace di dirci
quanti capelli abbiamo in testa,
4. Che Dio ci conosce uno per uno, si ricorda il nostro
nome,
5. Che ci incoraggia a respirare meglio con il Suo respiro,
6. Che a sognare con Lui i sogni si avverano,
7. Che a vivere la Sua vita, non c’è nulla da perdere, anzi!
Se i FATEBENEFRATELLI si fanno guidare da Maria percepiscono ciò che Lei per prima ha intuito dalle confidenze dello Spirito: che, rispetto al decalogo della Antica Alleanza, che era al centro della Tôrah, il Nuovo Decalogo non è più PRESCRITTIVO di comportamenti dell’uomo verso Dio e i fratelli, ma NARRATIVO, DESCRITTIVO di un Dio che è per l’uomo.
Decalogo che Luca illustra con meticolosità nella parabola del buon samaritano, dove in quella catena di verbi è evidente che il contare di Dio non si ferma a dieci ma sconfina alla grande quando s’impegna con l’uomo che incontra sulla Gerusalemme-Gerico del mondo (Lc 1o,25-37):
“…Invece un uomo della Samaria, che
1. era in viaggio,
2. gli passò accanto,
3. lo vide,
4. ne ebbe compassione
5. Gli andò vicino,
6. versò olio e vino sulle sue ferite
7. e gliele fasciò.
8. Poi lo caricò sul suo asino,
9. lo portò a una locanda
10. e fece tutto il possibile per aiutarlo.
11. Il giorno dopo tirò fuori due monete
12. le diede al padrone dell’albergo
13. e gli disse:”Abbi cura di lui
14. e se spenderai di più
15. pagherò io quando ritorno “
FATENBENEFRATELLI significa sottoscrivere il decalogo che è di ogni credente, anzi, riguarda ogni uomo che sogni il sogno di Dio: UNA TERRA FATTA DI PROSSIMI (di tanti globuli rossi TRASPORTATORI DI OSSIGENO).
Con gli occhi di Maria, già vedo germinare i glomeruli dal midollo osseo della Cina. Donne e uomini, dalle campagne alle città, dagli ospedali alle trascurate periferie, muoversi in direzione delle persone più “anemiche”. Ci confermano che i “pionieri o.h.” sono già in avanscoperta a trattare con le Autorità Cinesi. Ma, per un Paese così sterminato, dovranno seguire consistenti rinforzi, tutti ancora in incubazione. E con la Cina, la sterminata Africa…il Mondo…
La fortuna è che tutto il mondo (O stupore immenso!) può contare sulla stessa Messa, sull’EUCARISTIA, SACRAMENTUM HOSPITALITATIS !
Chi incappa in un’annunciazione, trovi il coraggio di rispondere come Maria: “Fai di me ciò che tu vuoi”. Il dopo si sa a priori come finirà: non può essere che un GIOVANNI DI DIO CONTEMPORANEO con in testa la medesima profezia:
”ha fatto della mia vita un luogo di prodigi,
ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore” (Lc 1,47).
PUNTO VERO DA DIFENDERE
Questo blog nasce solo ora ma il sogno di far conoscere al vasto pubblico uno dei più grandi campioni della carità quale è San Giovanni di Dio, il santo di Granada che in Spagna è equiparabile per fama al nostro San Francesco d’Assisi, il sogno – dico – rimasto nel cassetto dodici anni, potrebbe realizzarsi ora.
Benedetto XVI nella sua prima enciclica DEUS CARITAS EST cita espressamente alcune figure somme della carità cristiana: Francesco d´Assisi, Ignazio di Loyola, Giovanni di Dio, Camillo de Lellis, Vincenzo de´ Paoli, Luisa di Marillac, Giuseppe B. Cottolengo, Giovanni Bosco, Luigi Orione, Teresa di Calcutta.
Il Papa ne è convito: i santi «Rimangono modelli insigni di carità sociale per tutti gli uomini di buona volontà. I santi sono i veri portatori di luce all´interno della storia, perché sono uomini e donne di fede, di speranza e di amore» (40). Naturalmente, tra essi eccelle Maria, la donna che ama, serve, accoglie i discepoli di Gesù come suoi figli e continua dal cielo la sua opera di intercessione materna.
Nel v° centenario della nascita
Scritti nel 1995, per tale ricorrenza, credo che i seguenti appunti mantengano ancora intatta la la loro attualità.
Cinque secoli fa, l’otto Marzo 1495, nasceva a Montemor o Novo, in Portogallo, Giovanni Cidade, l’attuale San Giovanni di Dio.
Qual è il modo possibile di lettura di una vita così insignificante, (se si esclude l’ultimo decennio) quale appare quella del Santo, e lo straordinario messaggio che si tramanda nei suoi figli spirituali?
Tralasciando [qui] la biografia, [Nei fratelli vedeva Gesù] resta, comunque, la straordinaria figura di un uomo qualsiasi, che ha fatto di tutto nella vita e che, improvvisamente, a quarantacinque anni, rompe i confini della nostra visione terrena e conquista di colpo un’altra dimensione. Tutte le volte che si scandagliano gli atteggiamenti di questo innamorato pazzo di Dio e dei suoi simili, si registra un primo atto di profonda umiltà, un atto che davvero lo prostrava fisicamente ai piedi della croce del Salvatore.
FATEBENEFRATELLI
“Chi fa bene per se stesso, fratelli?”
“Haced bien, hermanos, para vosotros mismos”
Parlare di lui, Giovanni di Dio, è parlare di loro, i Fatebenefratelli.
Il termine “Fatebenefratelli” in Italia sta a indicare i religiosi ospedalieri che nel mondo hanno denominazioni diverse (vedi in fondo). Esso ha un origine che va subito spiegata.
Non so quanti hanno fatto caso che il richiamo è biblico: il “Fate del bene a voi stessi, fratelli, per amore di Dio”, gridato dal Santo per le vie di Granada, ha un riscontro proprio nella lettera dell’ Apostolo Paolo ai Filippesi. Egli infatti, a proposito della carità ricevuta, scriveva: “16 Anche a Tessalonica mi mandaste, più di una volta, il necessario di cui avevo bisogno. È chiaro però che non cerco regali: cerco piuttosto frutti che tornino a vostro vantaggio” (Fil 4, 16).
La carità al prossimo è un farsi del bene per il cielo ma che ha una ricaduta anche sul benessere psicofisico. Il dare ci allegerisce e ci fa sentir meglio, perfino gioire . E’ il richiamo dell’Apostolo che si legge anche in Atti: ” Io non ho desiderato né argento né oro, né i vestiti di nessuno. Voi sapete bene che alle necessità mie e di quelli che erano con me ho provveduto con il lavoro di queste mie mani. 35Vi ho sempre mostrato che è necessario lavorare per soccorrere i deboli, ricordandoci di quello che disse il Signore Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” .(Act. 20, 33-35).
Ma in quel grido di derivazione biblica, espresso molto chiaramente in Siracide, 14, come si può vedere più avanti, si cela anche una furba sottigliezza dello scaltro Portoghese, acquisita con l’esperienza di venditore ambulante di libri e immagini sacre.
IL BANDO D’INVESTIMENTO
Giovanni Cidade è uomo che ha bisogno di freno ai suoi impulsi, ha bisogno di orientamento, data la sua scarsa formazione e data la sua bontà senza liniti verso il prossimo. A questo ci pensa San Giovanni d’Avila. Ma il Portoghese è intelligente ed intraprendente. Egli escogita il modo per superare le resistenze di chi, intorno a lui, non vuole vedere né sentire.
Come sfamare tante bocche senza risorse? Semplice: la gente è sensibile quando fiuta l’affare. E lui propone affari, occasioni da prendere al volo, da non lasciarsi scappare. Ogni sera ci prova: quando chiede denaro, aiuti per i suoi poveri, sempre ricorda che l’elemosina darà frutto, porterà interessi: “L’elemosina che mi avete fatto gli angeli la tengono già registrata nel libro dellavita”, cioè nel libro di Dio. E la gente ci crede. Ma non è un ciarlatano. A poco a poco s’accorgono tutti del bene che va facendo ed è sempre più difficile resistere all’amorevole violenza verbale del disturbatore della quiete.
Il bando ha una precisa intenzione perché chiede di fare il bene per gli altri, ma con la persuasiva idea che farlo per il prossimo è, in fin dei conti, farlo a se stesso. Questa sottigliezza per l’esortazione alla carità la userà poi questo intelligente pastore di Oropesa, senza alcuna cultura, nelle lettere ai suoi nobili protettori, ai quali sempre presenterà la carità come una “occasione” favorevole. Una sorta di buon investimento del denaro.
Il bando è una novità per chiedere l’elemosina. E la gente, di notte, talvolta sotto la pioggia, raccolta nelle case, si affaccia alla finestra, alle porte. E vedono Giovanni Cidade, poveramente vestito “magro e maltrattato” come dice Castro, [n.d.r. primo biografo] “con una grande sporta appesa alle spalle e fra le mani due grosse pentole legate con spaghi”. E gli danno pane o avanzi di cibo o denaro” (José Cruset in “Un avventuriero illuminato”).
L’attualità di San Giovanni di Dio sta nella perenne giovinezza del Vangelo.
E’ la lezione di Matteo, cap. 6:
19 Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano;
20 accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano.
21 Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.
25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito?
26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?
27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?
28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano.
29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.
30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?
31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?
32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno.
33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.
34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.”
Proprio il Capitolo 14 del Siracide che nel suo contesto è un appello all’elemosina, si potrebbe titolare:
SIRACIDE, 14
“Fili, si habes, bene fac tecum“
(clicca sull’immagine per ingrandire)
“Quando il Figlio dell’uomo verrà nel suo splendore, insieme con gli angeli, si siederà sul suo trono glorioso. Tutti i popoli della terra saranno riuniti di fronte a lui ed egli li separerà in due gruppi, come fa il pastore quando separa le pecore dalle capre: metterà i giusti da una parte e i malvagi dall’altra.
“Allora il re dirà ai giusti:
- Venite, voi che siete i benedetti dal Padre mio; entrate nel regno che è stato preparato per voi fin dalla creazione del mondo. Perché, io ho avuto fame e voi mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato nella vostra casa; ero nudo e mi avete dato i vestiti; ero malato e siete venuti a curarmi; ero in prigione e siete venuti a trovarmi.
“E i giusti diranno:
io, Giovanni di Dio, vostro fratello in Cristo e vostro compagno nella persecuzione, nella costanza e nell’attesa del Regno, (Apoc.1,9) mi rivolgo a voi, missionari tutti della carità di Dio, per trasmettervi il messaggio dello Spirito del Signore Gesù nel quinto centenario della mia nascita che desiderate celebrare, con la Chiesa universale, per la Sua gloria.
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La nostra famiglia ha ormai cinque secoli. Viene spontaneo chiedersi come gravano sulle spalle. Vista la dimensione planetaria dei destinatari, vorrei che questa Parola che non mi appartiene, facesse il giro del mondo.
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( * ) ALLE FRATERNITA’ CHE SONO IN EUROPA:
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Chiamandovi frammento eucaristico, ho voluto evidenziare le motivazioni di fondo che ci mostrano come eucaristia-chiesa-ospedale siano una triade che si richiama, si completa e si sovrappone. Questa realtà mi fa pensare a tante particole che il vento dello Spirito, soffiando sull’altare del primo ospedale di Granata, ha disseminato lontano. Ciò nonostante, la mensa non si è impoverita.
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Non è l’Eucaristia, infatti, che diminuisce, è l’Altare che si dilata.
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In questo momento penso con particolare trepidazione a voi, portati apparentemente alla deriva dal vento di Pentecoste ed approdati su spiagge remote. Giunga a ciascuno in particolare, ovunque vi capiti di leggere questa lettera, la mia benedizione e la gratitudine di tutti i fratelli.
In Cristo Gesù, nel cui cuore
PER LA CHIESA CHE E’ NELLA CITTA’ DI…
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SMIRNE
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8 «Per la chiesa che è nella città di Smirne, scrivi questo:
Così dice il Signore, che è il Primo e l’Ultimo, che era morto ed è tornato a vivere:
9 Io so che siete perseguitati e ridotti in miseria, ma in realtà siete ricchi.
So che parlano contro di voi alcuni che pretendono di essere il popolo mio, ma non lo sono, perché sono seguaci di Satana.
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10 «Non abbiate paura delle sofferenze che vi aspettano. Sentite: il diavolo getterà presto alcuni di voi in prigione per mettervi alla prova. Sarete perseguitati per dieci giorni. Siate fedeli anche a costo di morire, e io vi darò la corona della vittoria: la vita eterna.
11 «Chi è in grado di udire ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: La seconda morte non colpirà i vincitori. “
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PER LA CHIESA CHE E’ NELLA CITTA’ DI…
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PERGAMO
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Pergamo, i simboli di Asclepio in una colonna dell’Asklepeion |
Pergamo: il Tempio di Serapide, trasformato in basilica cristiana |
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12 «Per la chiesa che è nella città di Pèrgamo, scrivi questo: Così dice il Signore, che ha una spada affilata, a due tagli:
Austria
ALLE FRATERNITA’ CHE SONO IN ASIA:
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FERNANDO MICHELINI SI RACCONTA
FERNANDO MICHELINI il milanese miracolato da San Riccardo Pampuri
Posted on Febbraio 18th, 2009 di Angelo
E’ MORTO FERDINANDO MICHELINI un miracolato da San Riccardo Pampuri
Nella mattinata di lunedì 27 ottobre 2009, presso la Casa di riposo San Carlo Borromeo dei Fatebenefratelli, a Solbiate Comasco, è deceduto il professor Ferdinando Michelini aggregato all’Ordine ospedaliero.
Nato a Milano 91 anni fa (1918), Michelini prima delle seconda guerra mondiale si diploma a Brera, perfeziona gli studi a Parigi e alle Belle Arti di Roma. Dopo la deportazione in Germania, rientrato in Italia, si laurea in architettura.
È già un pittore di fama mondiale. A metà degli anni 50 gli viene diagnosticato un tumore. Michelini si affida alle preghiere del medico Riccardo Pampuri.
La Sua guarigione è fra i miracoli che hanno poi elevato agli altari il nostro Confratello. Dopo la prodigiosa guarigione, ha speso gran parte della sua esistenza prodigandosi nel progettare e realizzare opere a beneficio delle persone ammalate e bisognose, soprattutto in terra di missione.
Encomiabili la sua disponibilità e il suo spirito di servizio, mediante i quali esprimeva la viva e sincera gratitudine per la guarigione al nostro confratello San Riccardo. Con la nostra fraterna e corale preghiera affidiamo il defunto al Risorto, perché possa concedergli il premio assicurato a coloro che lo servono e lo testimoniano anche mediante l’espressione artistica.
Il rito delle esequie è stato celebrato il, 30 ottobre, presso la chiesa della Parrocchia San Zenone di Omate, frazione di Agrate Brianza (Milano).
Da FATEBENEFRATELLI . N. 4 – Ott/Dic.2008
La sua è una santità popolare, serena carica di stupore.
– Una tomba da visitare
– Un benefattore dell’umanità, persona da non dimenticare.
( A. Nocent)
MIRACOLO A MILANO
Ebbe salva la vita per intercessione di San Riccardo Pampuri. Ha ringraziato costruendo ospedali e affrescando chiese.
Storia di Ferdinando Michelini
Di Lucio Brunelli
Questa è la vera storia di Michelini Fernando da Milano, professione pittore, la cui vita è stata cambiata da un miracolo. Uno di quei rari miracoli che hanno superato l’esame dalla scienza medica e sono stati approvati ufficialmente dalla Chiesa cattolica. “La cosa più incredibile dei miracoli è che accadono”, diceva lo scrittore inglese Gilbert Leith Chesterton.
Al nostro pittore il miracolo accadde il 15 settembre 1959. Dopo la sua guarigione prodigiosa Michelini ha vissuto per trent’anni in Africa e in Palestina, mettendo la sua professione al servizio dei missionari e del patriarcato latino di Gerusalemme. Ha costruito ospedali, affrescatochiese. Gratis, naturalmente. “Il modo in cui ho ringraziato il Signore per il dono ricevuto”, sorride alzando le spalle. Come fosse la cosa più naturale del mondo.
Oggi Michelini ha 78 anni ed è tornato nella sua Milano. Trascorre una vecchiaia serena, dipingendo quadri di soggetto religioso. Siamo andati a trovarlo nello studio di Via Carducci, a due passi dalla Clinica San Giuseppe, dei Fatebenefratelli, dove avvenne la straordinaria guarigione. E dove, nel lontano 1 MAGGIO 1930, morì Riccardo Pampuri, il santo medico della Bassa Milanese (Trivolzio) da cui ottenne la grazia.
Bussando alla sua porta, uno di domanda con un po’ di disagio che faccia può avere un miracolato. E pensa di trovarsi di fronte un essere strano, come un mistico extraterrestre. Invece compare un signore normalissimo: alto, arzillo, i capelli lunghi e un po’ disordinati come si addice ad un artista. Allegramente entusiasta dell’avventura vissuta, ma ben piantato con i piedi per terra.
Ecco il racconto della sua vita, come è rimasto impresso nel nostro registratore.
“Sono nato a Milano, nella zona di Porta Romana, il 30 marzo 1917. Fin da ragazzo fui attirato dalla pittura. Frequentai l’Accademia di Belle arti di Brera. In seguito mi iscrissi anche alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Ma dovetti interrompere gli studi quando scoppiò la seconda guerra mondiale e fui chiamato alle armi. Il giorno dell’armistizio, l’8 settembre 1943, mi trovavo in Francia, nelle truppe di occupazione a Vichy. I tedeschi ci fecero subito prigionieri e finii in campo di concentramento in Germania. A Ravensburg.
Furono due anni di inferno. Pensi, il lager di Ravensburg era talmente sperduto che non figurava nemmeno nelle liste in mano agli alleati. Quando i russi vennero a liberarci, nell’aprile 1945, i sopravvissuti erano appena un centinaio. Le dico solo una cosa: prima della guerra pesavo 86 chili, quando uscii dal lagher ero sceso a 38 chili. Uno straccio. Fu in quegli anni che mi ammalai allo stomaco.
Per una coincidenza fortuita, tornato a Milano, mi feci curare alla clinica San Giuseppe, dei Fatebenefratelli, l’ospedale dove il Riccardo Pampuri aveva svolto la sua missione negli ultimi anni della sua vita, fino alla morte. Ma a quel tempo non sapevo granché della sua vita, ne sentii parlare, ma non ero un devoto.
Tornato alla vita normale, ripresi a dipingere. Ho esposto i miei quadri in molte città dell’Europa. Viaggiavo molto. Per alcuni anni ho anche insegnato alla scuola Leone XIII gestita dai gesuiti di Milano. Realizzai dei quadri a soggetto religioso anche per la congregazione dei Fatebenefratelli, ma si trattava di un rapporto professionale.
Nell’agosto 1959 ebbi la prima grave manifestazione della malattia. Dolori violenti, vomito biliare con sangue. Fui ricoverato all’ospedale Ciceri-Agnesi di Milano. La diagnosi: ulcera duodenale perforata. Ma rifiutai l’intervento chirurgico. Dopo alcune cure mediche, venni dimesso. Il 15 settembre il male riesplose. Mi trovavo nello studio quando stramazzai a terra, in preda a dolori insopportabili. Il mio allievo Cesare e il portiere mi soccorsero e mi trasportarono di corsa al San Giuseppe. Dopo i primi esami i medici decisero che si doveva intervenire chirurgicamente al più presto. Prima di perdere i sensi, mentre mi portavano nella sala operatoria vidi un’immagine di Riccardo Pampuri, che non era ancora stato fatto santo dalla Chiesa. La causa di canonizzazione era già stata introdotta nel 1949 dal cardinale Schuster, ma i decreti per la beatificazione sono del 1981. Quell’immagine di san Riccardo è l’ultima cosa che ricordo prima di finire sotto i ferri.
Quando mi aprirono, i medici trovarono una situazione disperata. Peritonite acuta diffusa, completa occlusione intestinale. Ci fu una grave complicazione infra operatoria. Nel tentativo di separare alcune anse intestinali che si erano agglutinate, il tessuto si ruppe. E le pareti intestinali erano così malandate che non fu possibile suturarle. Il dottor Marini, uno dei periti della Consulta medica vaticana che si è occupato del mio caso, ha riassunto così la situazione: “L’impossibilità di scoprire e di suturare la perforazione, causa prima della peritonite,
L’impossibilità di suturare la breccia accidentalmente aperta su un’ansa dell’ileo. E tantomeno resecare l’intera ansa lesionata, per le gravi condizioni del malato, lo fanno ritenere prossimo alla morte sicura, sia al chirurgo che ai suoi assistenti” (cfr. Sacra Congregatio pro causis sanctorum, p. n.699, 13 gennaio 1981).
Di fatto i medici dissero ai miei parenti che la prognosi era infausta, che difficilmente avrei superato la notte. Insomma, mi consideravano spacciato. Così i medici non cedettero ai loro occhi quando, la mattina seguente, mi ritrovarono ben sveglio e pimpante sul letto. I dolori erano scomparsi. Nei documenti per la causa di beatificazione del Pampuri sono riportate tutte le testimonianze dei sanitari. Ad esempio questa del dottor Terno, il chirurgo: “Al mattino seguente, entrando nella stanza del malato, notai che stava in atteggiamento di preghiera semi seduto sul letto; io per incoraggiarlo gli dissi: “preghiamo perché avvenga il miracolo”. Il paziente mi strinse la mano e con voce energica mi disse: “Il miracolo è già avvenuto”. Facendomi rimanere fortemente sorpreso della vitalità che rivelava la sua voce.
Procedetti all’esame dell’addome e con grande sorpresa notai che era completamente scomparso il meteorismo intestinale, che l’addome era perfettamente trattabile e indolente in tutti i quadranti—“(ibidem).
Ricordo il gran parlare dei medici attorno al mio letto, si scambiavano lastre, cartelle cliniche…Non riuscivano a capacitarsi.
Un altro medico dell’ospedale San Giuseppe, il dottor Savarè, ha dichiarato al Tribunale diocesano di Milano: “Nella mia esperienza ininterrotta di 32 anni in sala chirurgica, non mi è mai avvenuto di osservare la guarigione di un malato nelle condizioni che ho sopra descritto, e questa mia esperienza è avvalorata da quanto risulta dai dati della patologia chirurgica. Ritengo pertanto che la guarigione non sia spiegabile con le leggi conosciute dalla scienza medica” (ibidem).
I perito della Consulta medica annessa alla Congregazione per le cause dei santi, dopo aver studiato l’intera documentazione e tutte le testimonianze, giunsero alle stesse conclusioni. Una guarigione inspiegabile sulla base delle attuali cognizioni medico-scientifiche. Solo nel 1981, dopo scrupoloso esame, la Chiesa ha riconosciuto che il miracolo poteva essere attribuito all’intercessione del Servo di Dio Riccardo Pampuri. Io ne fui moralmente certo fin dall’inizio. L’immagine del Pampuri fu l’ultima cosa che vidi prima di entrare nella camera operatoria e la prima che mi apparve quando riaprii gli occhi. Invocai il suo soccorso.
Anche un religioso in servizio preso l’ospedale, mio conoscente, chiese in modo incessante la grazia a san Riccardo. E per rafforzare la richiesta posò sul mio letto, dopo l’intervento, una giacca appartenuta al santo. Il buon Dio prestò ascolto alla intercessione del Pampuri.
I trent’anni successivi al miracolo Li ho trascorsi in Africa e in Israele. A costruire ospedali e chiese, al servizio dei missionari. Ma non è che mi venne la vocazione alla vita religiosa, non ho mai pensato di farmi missionario. Fu una serie di circostanze fortuite che mi portò laggiù. I Fatebenefratelli erano presenti in Togo; avevano deciso di costruire un ospedale ad Afagnan. Sapevano che mi intendevo di architettura. Mi chiesero un progetto. Accettai; era il minimo che potessi fare… Poi mi chiesero di seguire i lavori. E mi trasferii in Togo. Il 28 marzo fu posta la prima pietra dell’ospedale e il 5 luglio Il complesso era inaugurato a tempo di record: 160 letti, sette medici, una settantina di infermiere.
Dopo il Togo fu la volta del Benin. Un altro ospedale, e quante vite ha contribuito a salvare. Poi cominciarono a chiedermi progetti di chiese. Ne ho costruite in tutto una sessantina, spostandomi in Alto Volta, Dahomey, Costa d’Avorio. E una volta che le chiese erano finite, non potevano rimanere spoglie. Così mi venne chiesto di affrescarle. E naturalmente accettai. Dipingere è la cosa che amo di più. L’arte religiosa è eminentemente didattica. Tende a rappresentare una verità. In altri tempi si cercò di abolire l’immagine, ma fu un errore. Il popolo ne ha bisogno. I muri delle chiese sono la Bibbia dei poveri. Per chi non sa leggere è il modo più facile di apprendere la vita del Signore e condividere la fede della Chiesa.
Io sono un semplice pittore non un artista. Gli artisti oggi sono dei semidei. Personalmente mi considero un pittore come quelli del tempo antico, romei raminghi, che giravano l’ Europa dipingendo dovunque, tanto le cattedrali come le Madonne sulle case dei contadini, e ai quali sapevano che le loro opere facevano pregare la gente.
Ho lavorato una decina di anni anche in Terrasanta, al servizio del Patriarcato latino di Gerusalemme. Ho restaurato e dipinte decine di chiese e chiesette in Israele, nei territori arabi occupati, anche in Giordania. Naturalmente non ho mai chiesto una lira. In Africa mi ero portato una tenda di campeggio. Ma era impraticabile per il caldo. Così mi costruivo una capanna con le piante di palma. I missionari sono sempre stati ospitali. E’ stata un’esperienza che non scorderò mai. Specialmente in Africa. Tempo fa dipinsi tutto l’interno di un grande battistero a Tsevié. La gente del posto seguì il lavoro con entusiasmo ed alcuni vennero a dirmi che volevano farsi battezzare in quel luogo. Il giorno dell’inaugurazione si ebbero duecento battesimi di adulti.
A San Riccardo voglio bene, ovvio. Ho conosciuto un suo nipote, ancora vivo. Mi ha portato in una parrocchia, vicino casa mia, a Milano, dove il Pampuri andava a pregare. Da solo. Mi ha mostrato il punto esatto in cui si inginocchiava. Il parroco nemmeno lo sapeva. Mi sono fatto raccontare tutto della vita del Pampuri. Era una persona a cui Dio concesse il dono della mitezza e della modestia. Passò la vita a far del bene alla povera gente, senza darlo a vedere. E anche dopo morto, continua a fare del bene. Ho raffigurato i momenti salienti della sua vita, ne è uscito un libretto che è stato stampato in tante lingue. Quello a cui sono più affezionato è scritto in arabo. In Palestina lo hanno letto tanti ragazzi. Erano incuriositi. Volevano saperne di più. E mi ascoltavano con gli occhi sgranati quando raccontavo loro la vita del Pampuri e di come ebbi salva la vita, tanti anni prima, per merito suo…”.
Le apparizioni della Madonna in terra d’Africa
Le prime apparizioni della Madonna in terra africana riconosciute dalla chiesa si registrano a Kibeho, un paese nel sud del Rwanda. Il 28 novembre 1981 la Vergine appare, per la prima volta, ad Alphonsine Mumureke, presentandosi come Nyina wa Jambo (Madre del Verbo). Alcuni mesi dopo si mostra anche ad alcuni compagni di Scuola. Le prime apparizioni della Madonna in terra africana riconosciute dalla chiesa si registrano a Kibeho, un Paese nel sud del Rwanda. Il 28 novembre 1981 la Vergine appare, per la prima volta, ad Alphonsine Mumureke, presentandosi come Nyina wa Jambo (Madre del Verbo).
Alcuni mesi dopo si mostra anche ad alcuni compagni di scuola. L’avvenimento provoca in Rwanda un’intensa emozione. Le folle, anche da molto lontano, si riversano a Kibeho, mosse dalla curiosità e dalla aspettativa di Miracoli, e si radunano attorno al podio sul quale è seduta la veggente, per accogliere dalle sue labbra il mesSaggio celeste e dalle sue mani l’acqua che la Vergine, dietro sua richiesta, benedice. Per anni, una commissione teologica e una medica studiano attentamente la personalità dei veggenti (sei ragazze e un ragazzo di 15 anni, Segetashya, che non è neppure catecumeno quando Gesù in persona gli appare; sarà poi battezzato con il nome di Emmanuel), senza notare in loro alcunché di anormale. Anche i messaggi che i veggenti sono incaricati di trasmettere non esulano dall’ordinaria vita di un cristiano: parlano di penitenza, conversione del cuore, spirito di fede, preghiera, carità fraterna, disponibilità, umiltà, fiducia in Dio, vanità del mondo e dignità della persona umana.
L’apparizione del 19 agosto 1982 ha un tono singolare. I veggenti raccontano di aver visto immagini terrificanti: fiumi di sangue, persone che si ammazzavano tra di loro, cadaveri abbandonati insepolti, un albero in fiamme, un abisso spalancato, un mostro spaventoso e tante teste decapitate. Le 20mila persone presenti sono prese da un senso di paura, se non di panico e tristezza. Dodici anni dopo, avviene il genocidio. Anche a Kibeho, migliaia di persone sono assassinate. I molti che cercano rifugio nella chiesa vengono massacrati; l’edificio è incendiato. Nel 1996, un campo di rifugiati, installato nei pressi di Kibeho, è attaccato dall’esercito del Fronte patriottico ruandese, al potere a Kigali: migliaia i morti.
Nel 2001, la chiesa del Rwanda, uscita indebolita e divisa dalla terribile prova del genocidio, riconosce l’autenticità delle apparizioni. Mons. Augustin Misago, vescovo di Gikongoro, l’inquisitore dei primi anni, precisa che il riconoscimento delle apparizioni non è articolo di fede; il credente è libero di crederci o meno. Il santuario, consacrato nel 2003 dal card. Crescenzio Sepe, è dedicato alla Madonna del dolore.
Un’icona miracolosa nel Togo
Nel 1973, per iniziativa del comboniano Francesco Grotto, la chiesa parrocchiale di Togoville (Togo) è trasformata in santuario, dedicato a Nostra Signora del Lago, Madre della misericordia. L’architetto italiano Fernando Michelini (miracolato da San Riccardo, Pampuri, medico e religioso dei Fatebenefratelli) dona all’amico comboniano un’icona miracolosa della Madonna, che l’arcivescovo di Lomé “intronizza” solennemente a nome di tutta la chiesa togolese. Da subito, l’icona comincia a compiere meraviglie. Si racconta che un gruppo di pellegrini, in grave difficoltà mentre attraversava il Lago Togo per recarsi al santuario, si sia trovato misteriosamente sulla riva, sebbene il guidatore della piroga avesse perso la pertica.
Nel villaggio circola un altro aneddoto che assicura di un fatto avvenuto molti anni prima dell’arrivo dell’icona: durante un lavacro purificatorio presso un sacerdote del vodù locale, una donna consacrata al feticcio e impossibilitata ad avere figli ebbe la visione di una dama bianca, con un bimbo tra le braccia; qualche tempo dopo, la donna concepì.
Si racconta anche che, nel novembre 1983, in occasione dei festeggiamenti per il decimo anniversario dell’intronizzazione dell’icona, uno sciame d’api, “in forma di ostia, bianca e rotonda”, si sia posato proprio sopra la Madonna. Nella tradizione togolose, le api sono segno di benedizione. Parlare di miracolo farebbe sorridere noi occidentali. Eppure, anche i grandi sacerdoti del vodù di Togoville si sono recati più volte a venerare l’immagine della Vergine, forse perché assimilano la devozione alla Madonna alla venerazione per la dea del lago, Mama Kponu.
Sempre in Togo, 1998: corre voce che la Vergine appaia nella piazza della chiesa parrocchiale di Tsévié, a 30 km da Lomé. I veggenti sono giovani, tra cui una rifugiata rwandese. La notizia travalica subito le frontiere e i pellegrini arrivano da Costa d’Avorio, Benin e Ghana. Le apparizioni si sono ripetute, ma la chiesa non le ha mai riconosciute. I fedeli, però, continuano a recarsi a Tsévié per pregare la Vergine.
Apparizione a Nsimalen, in Camerun
Il 13 maggio 1986, a Nsimalen, a 25 km da Yaoundé (Camerun), alcuni ragazzini stanno giocando nel cortile di una scuola. A un certo punto, sulla cima di un albero vedono una “forma bianca” che richiama fortemente la figura della Madonna venerata nella chiesa parrocchiale. La vedono anche alcuni adulti, che la “identificano subito: si tratta senz’altro della Vergine Maria! La voce si sparge fino alla capitale e oltre. La gente accorre: per cinque intere giornate quella strana forma bianca resterà perfettamente visibile. E subito si parla di miracoli. Una bambina di 9 anni, muta dalla nascita, riacquista improvvisamente la parola e si mette a gridare: «Maria, Maria!». Un catechista di Nsimalen ricupera la vista.
Una notte, il villaggio è invaso da una luce ininterrotta che consente di leggere un libro o ricamare un vestito senza bisogno di lampada. C’è chi vede il sole trasformato in una lucente palla verde dai bordi trasparenti, e chi giura di aver visto la luna ovale e, su di essa, una donna seduta con il bimbo in braccio. Il clero scuote la testa. Suor Marie Praxède, una suora che vive da anni a Nsimalen, non comprende la mancanza di entusiasmo dei responsabili della chiesa. Il parroco le dice che a Lourdes la Madonna è apparsa solo a Bernadette. E lei: «Ma qui siamo in Africa, e la Vergine comprende la nostra mentalità. Perché pretendere che appaia sempre allo stesso modo? Perché noi africani non potremmo avere la nostra Vergine? Voi preti, compreso l’arcivescovo, siete troppo europei e non capite».
Una devozione mariana che si è inculturata in Africa
Le apparizioni di Kibeho sono una “buona notizia” per l’Africa e la sua chiesa: la religiosità cristiana si starebbe africanizzando. Questo riequilibra le deviazioni causate dall’Occidente, che con la secolarizzazione sistematica e la dimenticanza dell’essenziale (valgono solo la scienza e la tecnica) ha spesso sedotto l’Africa. Perché meravigliarsi se, dopo un secolo di cristianesimo, le devozioni cristiane assumessero in Africa carne africana e cominciassero a segnare profondamente la psicologia dei credenti? Gli africani hanno sempre avuto visioni di spiriti e di antenati. Per tanti fedeli, la Madonna o un altro santo sono diventati personaggi familiari, che fanno parte del loro universo quotidiano .Almeno su questo punto, sì è operata una reale inculturazione. Per provarlo, non sono necessarie le apparizioni. Bastano i Santuari. Ce ne sono in ogni angolo del continente: Poponguine (Senegal),Kita (Mali), Lagos e Kona (Nigeria), Yagma (Burkina Faso), Dassa-Zoumé (Benin), Yamoussoukro (Costa d’Avorio), Nairobi e Subukia (Kenya), Kampala (Uganda), Soweto (Sudafrica), Namacha (Mozambico), Muxima (Angola)… A partire dal 1970, l’avvenimento del rinnovamento carismatico ha segnato un cambiamento importante nella vita delle comunità africane, ridando diritto di cittadinanza a espressioni religiose radicate nella tradizione e da essa valorizzate, ma che il cristianesimo ha sempre tenute con cura da parte (la trance, ad esempio, considerata “estasi” in Europa, è stata giudicata “possessione demoniaca” in Africa). Oggi, se uno partecipa a un incontro di preghiera degli amanti del Rinnovamento nello Spirito, vede tante persone che cadono in trance durante la processione del SS.mo Sacramento. Simili fenomeni non potrebbero rappresentare, tra l’altro, una protesta contro una liturgia che non dà spazio all’ispirazione o all’emozione collettiva?
Emest Kombo, vescovo di Owando (Congo) deceduto l’ottobre scorso, diceva: «Il giorno in cui non ci sarà più trance, sarà grave: vorrà dire che qualcosa è venuto a mancare». I santi “abitano”, anche solo per un momento, i loro devoti, proprio come il vodù “abita” i suoi adepti. La gente ci crede, e non serve dire che Cristo ci ha promesso il suo Spirito, non sua madre o l’angelo Michele. Radicare il Vangelo nella cultura africana è un compito impegnativo e di lunga durata. E Maria di Nazareth, figlia di Israele e Serva del Signore, diventa il paradigma anche del fedele cristiano africano. E non dubito che saprà, anche in Africa, situare bene il posto che lei occupa nella storia della salvezza.
Foto: Santuario di Kibeho in Rwanda
René Luneau (teologo domenicano a lungo vissuto in Africa), su Nigrizia, dicembre 2008
12-01-2008
L’ARTISTA MICHELINI
Messaggio postato giovedì 19 febbraio 2009, alle ore 04.41 da Angelo Nocent
E’ una meravigliosa scoperta quella che mi è stata data di fare questa mattina [19 Febbraio 2009], dopo un risveglio così anticipato: ore 3,30, quasi un richiamo, una spinta che mi ha costretto ad alzarmi. Facevo le medie, cinquant’anni fa, quando l’ho conosciuto per la prima volta nel collegio Fatebenefratelli di Brescia. Gli sono stato vicino con grande curiosità e interesse quando dipingeva le scene per il nostro teatro di piccoli attori in erba, chiamati dalla pedagogia del tempo a misurarci con la commedia.
La Cappella, dalla pala centrale raffigurante Maria che ci accoglieva sotto il manto, alle pareti laterali, erano tutti suoi i dipinti a olio sul muro. Son tornato cinquant’anni dopo ed ho trovato quel luogo sacro era ormai sconsacrato e le raffigurazioni coperte dalla mano iconoclasta di uno sprovveduto imbianchino, pari al suo mandante. Conservo incorniciato, un piccolo quadro a matita, raffigurante un carcerato in catene. Ed ho anche un Padre Misericordioso che abbraccia il figliol prodigo. Conservo ancora, riprodotti su carta da geometri, un grande crocifisso ed una maternità di Maria, simile a quella qui riportata ad olio. Un bel giorno la mia mamma (classe 13 Giugno 1918), appassionata di disegno dalle elementari, ha dipinto gli occhi e la bocca ad entrambe le immagini. A parer suo, si trattava di un peccato di omissione, di una incomprensibile dimenticanza.
Michelini era un uomo d’oro, sgobbone, avvezzo al sacrificio. Il suo genio era pari alla sua modestia. Conversare con lui, piuttosto sordastro dopo il campo di concentramento, era piacevolissimo: ti ricaricava la batteria dell’anima con l’entusiasmo che sprigionava da tutta la sua bella persona, in tutto quello che faceva. Non avresti mai smesso di fargli perdere tempo con infinite curiose domande, disponibile com’era con tutti e gratificato da un semplice complimento sulla sua arte.
Quando, più avanti negli anni, abbiamo composto un giornaletto, OPZIONI ‘70, le formidabili lineari vignette del ciclostilato le avevamo affidate a lui che si prestava con entusiasmo a condividere i nostri sogni. Si può dire che è sempre vissuto in povertà, protetto dalla Provvidenza, come gli uccelli del cielo o i fiori del campo. Mai avrei pensato di scrivere di lui, un giorno, sul web.
Avverto ora la sua presenza d’intercessore in Cielo, con il san Riccardo Pampuri che un giorno lo ha miracolato alla grande, dopo un intervento chirurgico non riuscito. Infatti, operato dal Dott. Terno, all’Ospedale San Giuseppe di Milano, era stato trasferito dalla camera operatoria con verdetto di morte assolutamente certa, nelle successive ore della notte.
Grazie, Prof. Michelini, per essere passato ovunque facendo del bene, nel più assoluto nascondimento, dal suo piccolo grande ammiratore. La sua è una santità popolare, serena, carica di stupore.
Messaggio postato giovedì 19 febbraio 2009, alle ore 04.41
Per Fra Dario Vermi Postulatore Odine Ospedaliero Fatebenenefratelli
postulazione@ohsjd.org
QUI UN SAGGIO DELLA SUA ARTE PITTORICA
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