05 – RIFLESSIONI SUL MISERERE – LA CONFESSONE DEI PECCATI – C. M. Martini

 

5 – LA CONFESSONE DEI PECCATI

 

Dal Vangelo secondo Luca: 18, 9-14

Disse ancora questa parabola per alcuni the presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. I

l fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come,gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo.

Il pubblicano invece, fermato si a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore.

Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato
e chi si umilia sarà esaltato
».

Quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.

A questo punto delle nostre. riflessioni sul Salmo 50 siamo in grado di comprendere meglio in che cosa propriamente consiste la « confessione» dei peccati.


Il tema è molto importante per il nostro cammino di riconciliazione. D’altra parte l’accusa dei peccati che il penitente è chiamato a fare di fronte alla Chiesa suscita sempre un senso di disagio e pone diverse domande.
Cerchiamo innanzitutto di specificare il disagio e le domande.

Il disagio per il contenuto dell’accusa. Si crea non di rado, in noi, un impaccio perché non sappiamo cosa dire, ci pare di non avere niente da dire. Ci rivolgiamo allora al sacerdote dicendo:

  • « Mi aiuti lei, io non ricordo, non so che cosa dire ».

Altre volte, al contrario, non sappiamo come esprimerci:

  • « Mi aiuti perché non so come dire, sono confuso, ho dentro qualcosa di grosso ma non so proprio come dirlo ».

Il disagio che nasce dalla forma, dall’atmosfera che assume la confessione. Facilmente diventa un’autoaccusa: ho commesso questo, ho fatto quest’altro, sono colpevole della tal cosa.

In un quadro più psicologico, l’accusa sfocia in un’autocritica che rischia di scivolare verso l’autogiustificazione.

  • Mi sono cioè autocriticato così bene
  • da essere riuscito a chiarirmi a me stesso
  • e praticamente non ho più bisogno del perdono di Dio:
  • il perdono diventa accessorio, aggiuntivo
  • e di fatto così si rinnega il Vangelo del perdono.

Oppure si cade nell’eccesso opposto, nell’autolesionismo:

  • ci si accusa allora senza fine,
  • con una pervicacia, con una crudeltà verso se stessi che è segno di un non equilibrato senso della confessione dei peccati.

Nascono quindi le domande sul valore:

  • che valore ha l’accusa dei peccati?
  • Quale valore costruttivo della personalità contiene?
  • Perché è necessaria l’accusa?
  • Non è meglio lasciare che ciascuno dica dentro di sé in maniera generica: ho peccato!?
  • Oppure non è meglio che lo riconosca attraverso un gesto, battendosi il petto, senza entrare in un dettaglio faticoso e talora fastidioso come è la confessione dei peccati?

Sono dunque problemi che riguardano il contenuto, la forma, il valore dell’accusa.

Il contenuto della confessione

Nella nostra riflessione ci lasciamo guidare dal versetto 6 del Salmo 50 che abbiamo già meditato e che dice: « Quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto ».

  • La prima cosa che notiamo in queste parole è che siamo di fronte ad un movimento dialogico. Qui non c’è autocritica: ho fatto male, ho fatto ciò che non dovevo, ho sbagliato.
  • Siamo piuttosto in un dialogo intimo e personale: ho fatto ciò che ai tuoi occhi è male. Non ho fatto male soltanto contro la tua legge ma quello che è male « ai tuoi occhi».
  • L’ambito non è di un solipsismo accusatorio, di un autolesionismo chiuso in se stesso: l’ambito è di un dialogo filiale con Colui che mi ama.

E tuttavia il dialogo appare generico. Ci sembra generico come generiche sono altre espressioni del Salmo:

  • Riconosco la mia colpa (quale colpa?);
  • il mio peccato mi sta sempre dinanzi (quale peccato?);
  • contro di te, contro te solo ho peccato.


Il Miserere, stranamente, non specifica la realtà della colpa e del peccato e suscita in noi la domanda: è necessario, è utile andare più in là?

Non potremmo fermarci a questa dichiarazione generica che è, in fondo, anche quella del pubblicano del Vangelo: « Dio, abbi pietà di me peccatore! »?


In realtà, la Sacra Scrittura ci dà, in altri passi, degli esempi di confessioni meno generiche. In alcune pagine abbastanza note, ad esempio nel cap. 9 del libro di Esdra, vediamo che, a partire da un peccato specifico che riguarda il costume sociale del popolo di Israele, segue prima un’accusa:

  • Hanno profanato la stirpe santa con le popolazioni locali,
  • i magistrati e i capi sono stati i primi a darsi a questa infedeltà.

E poi nasce la preghiera di confessione:

  • «Caddi in ginocchio,
  • stesi le mani al mio Signore e dissi:
  • Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare la faccia verso di Te, mio Dio,
  • poiché le nostre colpe si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa» (9, 5-6) .

Vengono quindi espresse tutte le conseguenze di queste colpe e infine si riprende la descrizione specifica di quanto è avvenuto:

  • «Abbiamo abbandonato i tuoi comandi che avevi dato per mezzo dei tuoi servi…
  • il paese di cui andate a prendere possesso è un paese immondo…
  • noi non abbiamo obbedito ai tuoi comandi di purità,
  • benché tu, Dio nostro, ci abbia punito meno di quanto meritavamo ».


È un esempio, che sarebbe interessante esaminare particolarmente, di una confessione specifica di ciò che è avvenuto e di ciò di cui ci si pente.

Un’altra celebre confessione delle ribellioni specifiche di Israele la troviamo al cap. 9 del libro di Neemia:

  • Tu sei un Dio pronto a perdonare, pietoso e misericordioso…
  • Anche quando si sono fatti un vitello di metallo fuso e hanno detto: Ecco il tuo dio che ti ha fatto uscire dall’Egitto, e ti hanno insultato gravemente, tu, nella tua misericordia, non li hai abbandonati nel deserto (9, 17-19).

Ci sono dunque nella Scrittura, qui e altrove, degli esempi di confessione dove l’accusa esprime la realtà di cui ci si sente colpevoli davanti a Dio.

Se noi, dopo aver riflettuto su questi esempi, ritorniamo al Salmo 50 e lo leggiamo nel contesto del Salterio in cui è posto, ci accorgiamo che siamo anche qui di fronte ad un’accusa specifica, ben determinata che si trova nel Salmo immediatamente precedente e che, con il 50, sembra costituire un’unità liturgica.

I Salmi 49 e 50 (50 e 51 nella numerazione ebraica) erano, infatti, una liturgia penitenziale che iniziava con l’accusa circostanziata da parte di Dio e con l’accettazione di questa accusa da parte dell’uomo. Ascoltiamo la requisitoria che Dio fa nel Salmo 49:

  • Se vedi un ladro corri con lui e degli adulteri ti fai compagno.
  • Abbandoni la tua bocca al male e la tua lingua ordisce inganni,
  • Ti siedi, parli contro il tuo fratello, getti fango contro il figlio di tua madre.
  • Hai fatto questo e dovrei tacere?.. (vv. 18 ss.).

Il Salmo 50 emerge chiaramente come risposta:

  • Riconosco la mia colpa…
  • Contro di te, contro te solo ho peccato…
  • sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio.

E poi segue la preghiera:

Purificami con issopo e sarò mondato… fammi sentire gioia e letizia.

Da tutte queste parole della Scrittura, possiamo cogliere quanto sia la Parola di Dio che redarguisce l’uomo e lo interpella sul suo peccato.

L’esame di coscienza – ora possiamo coglierlo meglio -

  • è il mettersi di fronte alla Parola di Dio
  • non come quadro etico di riferimento,
  • ma come Parola che interpella,
  • che rimprovera con quella forza d’amore che le è propria
  • per fare emergere la scintilla della salvezza e la possibilità del perdono.

Il contenuto dell’accusa

  • non è un cercare a tastoni qua e là qualcosa da dire,
  • non è il faticare nel dire, non si sa come, qualcosa che abbiamo dentro:
  • è un rispondere all’interpellanza della Parola di Dio che ci illumina e ci rimprovera.

Lasciandoci interpellare e rimproverare dalla Parola noi ci mettiamo nella condizione umile, semplice e chiara di confessare:

  • Sì, è vero, questo l’ho fatto, Signore:
  • hai ragione, ma tu crea in me un cuore nuovo!

Questo non vuole evidentemente dire che l’accusa dialogica debba sempre riferirsi materialmente a una parola del Vangelo. È una risposta a Dio che si rivolge a noi con amore e con forza. Dio ci ama e per questo non ci blandisce, non ci lusinga con parole vane o vanamente consolatorie, ma ci interpella con la forza della Scrittura, del magistero della Chiesa, della parola di coloro che ci amano e ci parlano a nome di Dio.

Il processo che cambia l’uomo in verità non è un giostrare con peccati fittizi o con atteggiamenti imprendibili:

  • è un mettereci nel quadro dell’Alleanza
  • e riconoscere che l’Alleanza, come interpellanza di Dio, ci trova spesso mancanti in questo dialogo di amore
  • e richiede un dialogo di pentimento e di riconciliazione.

L’atmosfera della confessione: la « todà »

Se leggiamo attentamente i Salmi 49 e 50, che abbiamo collegato in una unità liturgica, notiamo che la radice ebraica a cui si fa riferimento per indicare la confessione, è una radice che forse qualcuno di noi ricorda. Chi, infatti, è stato in Terra Santa, ha certamente sentito spesso la parola todà oppure todarabbà, che vuol dire: grazie.

Ogni volta che in Israele si chiede un favore o si va a comperare qualche cosa, la risposta è: todà, grazie; todarabbà, grazie tante.

Questa è la parola-chiave dei due Salmi. Significa non solo «grazie» ma pure « lode», confessione di lode e ancora confessione di peccato. La parola è sempre la medesima.

La riflessione sulle grandi preghiere di accusa e di confessione che troviamo nella Scrittura, come quelle di Esdra e di Neemia e poi quella del cap. 3 di Daniele, ci fa scoprire che c’è una sintesi di lode, di ringraziamento e di accusa:

Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare la faccia verso di Te. Dal giorno dei nostri padri fino ad oggi siamo stati molto colpevoli. Ma nella nostra schiavitù Tu non ci hai abbandonato, Tu ci hai fatto rivivere, ci hai fatto grazia, hai liberato un resto di noi; il nostro Dio ha fatto brillare i nostri. occhi, ci ha dato un po’ di sollievo nella nostra schiavitù (Esd. 9, 6-8).

La confessione e la lode si alternano: l’atmosfera è quella della «confessio laudis» e della «confessio vitae», della confessione di lode e della confessione della vita, non quella dell’autolesionismo e dell’amarezza.


Del resto, chi conosce bene il libro delle Confessioni di S. Agostino, sa come questo grande Santo, battezzato proprio qui, nell’antico battistero del Duomo, ha potuto congiungere meravigliosamente, nella sua opera, la confessione di lode con la confessione dei propri peccati.

Leggiamo un esempio ancora dalla preghiera di Neemia:

Alzatevi, benedite il Signore vostro Dio ora e sempre! Si benedica il Suo nome glorioso, che è esaltato al di sopra di ogni benedizione e di ogni lode… Tu, Tu solo sei il Signore. Ma noi ci siamo comportati con superbia: i nostri padri hanno indurito la loro cervice, si sono rifiutati di obbedire. Ma tu sei un Dio pronto a perdonare, pietoso e misericordioso… hai concesso il tuo spirito buono. Ma poi sono stati disobbedienti, si sono ribellati. Al tempo della loro angoscia hanno gridato à Te e Tu li hai ascoltati (cfr. Ne. 9).

Questa lunga preghiera è un continuo intreccio di lode, di ringraziamento, accusa e riconoscimento della colpa in cui l’uomo trova la sua verità, trova l’umiltà e la gioia di riconoscere la sua povertà davanti a un Dio grande e buono.


Sarebbe anche bello soffermarsi a commentare, nello stesso senso, il cap. 3 del libro di Daniele là dove è riportata la preghiera di Azaria:

Benedetto sei tu, Signore, Dio dei nostri padri, Tu sei giusto in tutto ciò che hai fatto. Noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da te; non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e lo spirito umiliato! (vv. 25 ss.).

La preghiera è simile al nostro Salmo 50, ne riprende alcune espressioni ampliando il senso di lode e di confessione del peccato. Il confessarsi nella lode era talmente abituale agli Ebrei che persino il fariseo della parabola evangelica fa la sua confessione partendo dalla lode: « Ti ringrazio, mio Dio, perché non sono come gli altri uomini» (Lc. 18, 9-14).

L’errore del fariseo, che pure inizia con la todà, sta nel congiungere la «confessio laudis » con la « confessio vitae » e nel non mettere davanti alla misericordia e alla bontà di Dio la sua povertà, quella povertà che invece riconosce il pubblicano, con semplicità e coraggio: «Dio, abbi pietà di me peccatore! », che vuol dire:

  • Tu sei grande, misericordioso, potente
  • e io sono povero.
  • Tu mi salvi
  • e io ti lodo per la tua grande potenza.

Ecco dunque l’atmosfera, il tono, il ritmo che dovrebbe avere la nostra confessione: l’atmosfera della todà.

Il valore del perdono

Personalmente mi è stato molto utile, per chiarire i non pochi problemi riguardo al tema del perdono di Dio o del giudizio salvifico di Dio sull’uomo, distinguere, nel Nuovo Testamento, tre tempi. Nel linguaggio neo-testamentario si direbbe tre « kairòi », tempi della Storia di salvezza, diversi l’uno dall’altro, in cui Dio esercita il giudizio sull’uomo peccatore.

a) Un primo tempo è quello del perdono battesimale.


È il perdono o condono esercitato sull’uomo che fa il primo passo per entrare nell’Alleanza chiedendo il Battesimo.

È il primo grande perdono di Dio che si può chiamare meglio un condono « totale». Dio decide in assoluta gratuità di concedere grazia e misericordia: non pone alcuna condizione, neppure un minimo di buona condotta, perché tutti hanno peccato e tutti hanno bisogno della misericordia divina.

Chiede soltanto la fede nel Figlio suo, Messia e Salvatore: se credi in Gesù Cristo, fatti battezzare e sarai salvo.


Il peccatore è perdonato qui con un perdono fondamentale e viene creato così di nuovo, viene fatto figlio, entra nell’Alleanza. È un giudizio dall’Alto di assoluto condono rispetto alla condizione umana di peccato.

b) Un secondo tempo è quello del perdono penitenziale o del giudizio salvifico di perdono nel dialogo.

 
Una volta che l’uomo è entrato nell’Alleanza con Dio rinascendo come cristiano nella Chiesa mediante il Battesimo, se egli manca gravemente agli impegni della nuova Alleanza, ferisce Dio, Cristo, la Chiesa e il giudizio di salvezza gli è offerto in un colloquio. Mentre prima del Battesimo non occorre colloquio salvifico né accusa dei peccati, per chi è già entrato nell’Alleanza il giudizio salvifico postula il dialogo.


La Parola di Dio redarguisce l’uomo che riconosce il suo torto specifico, si riconosce peccatore, chiede di essere rinnovato dalla potenza dello Spirito («Crea in me, o Dio, un cuore nuovo») e Dio ricrea il cuore del peccatore.

C’è quindi l’accusa del peccato e l’atto di perdono . in un dialogo tra Dio e l’uomo che si svolge nell’ambito della Chiesa, di quella comunità che è stata ferita dalla rottura dell’Alleanza.

c) Un terzo momento è quello del giudizio retributivo. Il Nuovo Testamento vi accenna chiaramente e non dobbiamo trascurarlo se non vogliamo svilire il dono di Dio.


Alla fine di una tappa storica, alla fine di una esistenza singola, alla fine della storia, il Messia verrà come giudice dei vivi e dei morti, per dare a ciascuno secondo la sua condotta. Nel giudizio retributivo non c’è più condono né dialogo: c’è il giudizio secondo verità.

La serietà del dialogo penitenziale di accusa sta nel porsi giustamente, in maniera corretta,

  • tra il condono battesimale globale, in cui l’uomo è salvato con la semplice adesione di fede a Cristo
  • e il giudizio finale in cui l’uomo viene rigorosamente pesato secondo le sue opere.

Il dialogo, il perdono del Sacramento della Riconciliazione sta in mezzo a queste due realtà e aiuta l’uomo a crescere verso quella maturità che gli permette di presentarsi con fiducia al giudizio di Dio.

C’è quindi una grande serietà in questo dialogo penitenziale:

  • in esso si rivela la bontà di Dio che, mediante  la Chiesa, restituisce gradualmente l’uomo alla coscienza della sua dignità
  • e lo prepara a un giudizio divino che svelerà il miracolo di amore che Dio ha fatto in ciascuno di noi, poveri peccatori.

Domande per noi

Propongo quattro domande per la riflessione personale.

  • - Mi lascio redarguire dalla Parola di Dio? Considero la Parola non soltanto come istruttiva, consolatori a ma anche come Parola che mi interpella e mi ammonisce, divenendo il punto di partenza del dialogo penitenziale?
  • - Vivo l’accusa dei peccati come vero dialogo con la Chiesa nell’ambito dell’Alleanza? O la vivo, invece, come monologo affrettato in cui faccio semplicemente un’autoaccusa, un autolesionismo che mi lascia freddo e amaro?
  • - So unire la «confessio vitae» con la «confessio laudis », sia nella preparazione alla confessione che, talora, nella confessione stessa, dicendo: desidero ringraziare Dio perché è stato buono con me e di fronte a ciò che Egli ha fatto per me risalta ciò che io non ho saputo fare per Lui o che ho fatto contro di Lui?
  • So unire la « confessio laudis » con la « confessio vitae », in modo da rendere il mio dialogo ricco e vero come il dialogo del Salmista, come il dialogo delle preghiere penitenziali dell’Antico Testamento che abbiamo ricordato?
  • - So rimproverare altri? La domanda forse può stupire: in realtà deriva come conseguenza sociale di ciò che abbiamo detto, nell’ambito familiare, professionale e civile.
  • Capisco che la Parola di Dio non è soltanto stimolo, consolazione ma è anche rimprovero, forte e pieno di amore? E non c’è cosa più difficile che fare un rimprovero vero e pieno di amore!

Per questo molta gente, oggi, preferisce passare sopra, preferisce lamentarsi, criticare davanti o dietro le spalle, preferisce accusare vanamente e genericamente. Sono pochi coloro che hanno la forza di fare un rimprovero modellato sulla Parola di Dio, cioè vero, giusto, penetrante, capace di scuotere e, insieme, pieno di amore, capace di instaurare un dialogo di speranza, un riconoscimento che accoglie, che sa vedere ciò che si è fatto e quindi restituisce alla verità quella persona che, forse, noi ci accontentiamo solo di denigrare o di criticare perché non vogliamo veramente il suo bene.

Nel tempo del Nuovo Testamento era molto comune la pratica della correzione fraterna, pratica che poi si diffuse nella Chiesa mentre oggi sembra un po’ dimenticata. « Se il tuo fratello ha qualcosa contro di te, va’ e correggilo da solo a solo e avrai guadagnato il tuo fratello. »

Quante volte noi non facciamo così! Quante volte non affrontiamo il nostro fratello con amore, per aiutarlo!

Abbiamo paura di amare così come Dio ci ama.

Preghiamo allora gli uni per gli altri dicendo:

« Signore, aprici gli occhi

perché noi possiamo conoscere la ricchezza delle tue parole

e possiamo esprimerla come a te piace.

Donaci di ritrovare la gioia della tua presenza!

Signore, aiutaci a fare una confessione sacramentaleche ci riporti nella verità

e ci dia la forza di partecipare alla tua Parola che ama, rimprovera e salva! ».

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