L’UNIVERSITA’ DELLA STRADA

AMICI DI SAM

CRISTO SAMARITANO   

Lo scrittore Luigi Santucci (19 18-1999) in un suo racconto intitolato Samaritano apocrifo ricorda che questo personaggio evangelico — che abbiamo iniziato a presentare la scorsa settimana, attingendo alla parabola di Luca 10,25-37 — è divenuto nei secoli cristiani una specie di icona posta nei «vestiboli dei lazzaretti e dei luoghi pii».

Ma qua’è il vero senso della parabola di Gesù, una delle più celebri e più belle del Vangelo?

La risposta è da cercare in un abile contrasto tra due domande presenti nella cornice del racconto. In essa un dottore della legge chiede a Cristo: «Chi è mai il mio prossimo?». L’ebraismo Ilsolveva questo interrogativo “oggettivo” sulla base di una serie di cerchi concentrici che si allargavano ai parenti e agli Ebrei. Gesù, in finale di parabola, rilancia la domanda allo scriba ma con un mutamento significativo: «Chi ha agito come prossimo?». Come è evidente, c’è un ribaltamento: invece di interessarsi “oggettivamente” a definire il vero o falso prossimo, Gesù invita a comportarsi “soggettivamente” da prossimo nei confronti di tutti coloro che sono nella necessità. 
In questa luce il Samaritano — a differenza del levita e del sacerdote ebreo che «passano òltre dall’altra parte» della strada su cui giace lo sventurato, mezzo morto — autenticamente è prossimo del sofferente, senza interrogarsi su chi è questo prossimo da aiutare. È per questo che una tradizione posteriore ha visto nel ritratto del buon Samaritano un’immagine di Cristo stesso. E, infatti, interessante notare che sulle mura di un edificio crociato diroccato, chiamato liberamente “il khan (caravanserraglio) del buon Samaritano” posto proprio sulla strada che scende da Gerusalemme a Gerico, un anonimo pellegrino medievale ha inciso in latino questo graffito: «Se persino sacerdoti o leviti passano oltre la tua angoscia, sappi che Cristo è il buon Samaritano che avrà sempre compassione di te e nell’ora della tua morte ti porterà alla locanda eterna». 
Questa pagina evangelica di forte tensione drammatica ma anche di grande fragranza spirituale e lettera-~ ria illustra in modo esemplare il messaggio cristiano dell’amore che pervade tante parole di Gesù, a partire dall’appello del Discorso della Montagna: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo 5,43-44). Per giungere fino al testamento dell’ultima sera di Gesù: «Vi do un comandamento nuovo: Amatevi gli uni gli altri; come io vi ho amati, così anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo tutti vi riconosceranno come miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Giovanni 13,34-35). Anche nell’apocrifo Vangelo di Tommaso Gesù ripete: «Ama il tuo fratello come l’anima tua. Proteggilo come la pupilla dei tuoi occhi».

Avvenire, 5 aprile 2007

Dire Dio in ospedale  

 

(Con olio di consolazione e vino di speranza)

Sono appena rientrato in camera mia a conclusione di una giornata piena di impegni: i catechismi, la celebrazione della Messa, il pomeriggio in ospedale dove presto il mio servizio come assistente religioso e dopo cena il gruppo delle superiori per l’incontro di programmazione delle attività estive.

Dopo una giornata così, ciò che desideri di più è il silenzio e un po’ di riposo, gli occhi sono appesantiti dalla stanchezza e il sonno si fa subito sentire appena tocco il cuscino.

Verso le due di notte, il mio telefonino suona, non faccio fatica a capire che si tratta di una telefonata e non di un SMS o della sveglia.

Rispondo, mi chiamano dall’ospedale, reparto medicina uomini: un uomo, Luigi, si è aggravato e sembra imminente la fine. Mi precipito giù dal letto e in un attimo sono vestito. Mentre percorro, con passo spedito, la via verso l’ospedale, penso e ripenso con la preghiera, che questa è “l’urgenza della grazia” da invocare verso chi è colpito dal male e si avvia verso la conclusione della vita terrena.

Arrivo in ospedale, mi dirigo verso il reparto da cui è partita la chiamata e mi avvicino al letto del paziente. Vicino a lui, ormai irrequieto e agitato come chi sta combattendo fino all’estremo delle proprie forze, c’è la moglie, è una donna minuta, con il volto segnato da notti insonni e con le lacrime agli occhi.

La saluto, ci parliamo, mi racconta di questo marito colpito da un male che in pochi mesi lo sta conducendo alla fine, ha solo 56 anni!

Preghiamo e amministro il sacramento dell’Unzione al malato. Questo è ciò che normalmente capita nel mio servizio di  cappellano in ospedale. 

Incroci la storia di tanti uomini e donne che si ritrovano con la malattia che, come un grosso macigno, li sta schiacciando e cercano un senso alla loro esistenza e al loro dolore.

 Non hanno molte parole, ma tante lacrime; non chiedono più chissà cosa, ma un abbraccio, ascolto, preghiera. Nella malattia l’uomo cerca Dio il Vangelo ce lo insegna: i malati nel corpo e nello spirito, cercano Dio.  Lo cercano accontentandosi anche solo di toccare il lembo del mantello del Maestro!

In ospedale tante volte incontro uomini che cercano Dio, forse per prendersela con Lui, forse per sfogarsi con il Signore che ha dato una croce pesante da portare. 
Ma è proprio da quel cercare Dio che il cuore si apre al Mistero e trova senso la sofferenza: “Il dolore e la malattia fanno parte del mistero dell’uomo sulla terra. 
Certo, è giusto lottare contro la malattia, perché la salute è un dono di Dio. Ma è importante anche, saper leggere il disegno di Dio quando la sofferenza bussa alla nostra porta.

La “chiave” di tale lettura è costituta dalla Croce di Cristo, Il Verbo incarnato si è fatto incontro alla nostra debolezza assumendola su di sé nel mistero della Croce. Da allora ogni sofferenza ha  acquistato una possibilità di senso, che la rende singolarmente preziosa.” (Giovanni Paolo II, Giubileo dei Malati – 11 febbraio 2000).

Cosa significa “dire Dio” in ospedale? Cosa vuol dire raccontare 
che abbiamo una speranza che è Dio stesso?

  1. 1.     Dire Dio in ospedale è dare consolazione e speranza. C’è un’icona biblica a me molto cara che mi aiuta in questo mio compito e che guardo come esempio per il mio ministero. È l’icona del buon samaritano (Luca 10,29-37). Quella parabola raccontata da Gesù ci suggerisce cosa possiamo fare con i nostri malati.

  2. 2.     Dire Dio in ospedale è declinare infinitamente e vicino ad ogni letto, i verbi che descrivono l’agire del samaritano. Dire Dio è passare accanto al fratello, per vedere il corpo ferito e avere compassione della disperazione. 

  3. 3.     Dire Dio è farsi vicino, con la consapevolezza che incroci lo sguardo di Cristo, che ti fissa perché ti ama. È farsi vicino senza aver paura di perdere, ma con la certezza che guadagni tanto di più.

  4. 4.     Dire Dio è fasciare quelle ferite, che gridano dolore e rabbia. È ascoltare quel grido e prestare la propria voce per pregare il Padre.

  5. 5.     Dire Dio è versare olio e vino per guarire. Olio di consolazione e vino di speranza. Il fratello ammalato sentirà la carezza di Dio; la malattia consuma le membra, ma la vita sofferta ha senso perché quella carezza ti fa assaporare la dolcezza di Dio che ha compassione dei suoi figli.

  6. 6.     Dire Dio è dare una certezza di una compagnia indistruttibile, è dare una certezza di una vita senza fine, è far sentire un abbraccio misericordioso e paterno.

  7. 7.     Ho detto Dio ad Ajka, ragazza di 23 anni conosciuta in ospedale che ha sconvolto la mia vita da prete. Un giorno mi ha detto: “Ti prego, non voglio morire da sola!”.   
    Non le ho detto molte cose, le sono stata vicina e l’ho accompagnata nel suo cammino segnato dalla sofferenza.

  8. 8.     Dire Dio: speranza e compagnia indistruttibile del destino dell’uomo.  

Don Paolo Comba Assistente religioso Ospedale “Santa Croce” Moncalieri – Torino  

Pregando.it – Pillole di Cristianità - Brano tratto da “Il Vento” Periodico Diocesano

IL BUON SAMARITANO 
 
 «Occidente sazio e disperato stai saccheggiando l’Africa…»   La parabola del buon samaritano e l’Occidente che si arricchisce sulla povertà dei paesi dell’Africa, o si abbandona all’abbrutimento consumistico. Le due situazioni si trovano congiunte in una sezione del libro che papa Benedetto XVI ha dedicato alla figura di Cristo. L’ampia riflessione del Pontefice, tratta dal libro in uscita, è stata anticipata ieri dal «Corriere della Sera». In sostanza, il buon samaritano è l’occasione che Gesù dà alla riflessione per comprendere che la prima alterità va cercata in noi stessi: ama il prossimo tuo come te stesso, il comandamento biblico, diventa lo specchio per sostenere questa ricerca di mettersi nella parte dell’altro. «Io devo diventare il prossimo» perché solo in quel momento «l’altro conta per me come “me stesso”». «La domanda – scrive Benedetto XVI -, nel concreto, è: chi è il “prossimo”? La risposta abituale, che poteva poggiarsi anche su testi delle Scritture, affermava che “prossimo” significava “connazionale”. (…) Gli stranieri, allora, le persone appartenenti a un altro popolo, non erano “prossimi”? (…)». Di fronte alla problematicità di questa scelta, Gesù – scrive Papa Ratzinger – «risponde con la parabola dell’uomo che sulla strada da Gerusalemme a Gerico viene assalito dai briganti che abbandonano ai bordi della via, spogliato e mezzo morto». Un sacerdote e un levita tirano oltre; arriva il samaritano – «uno che non appartiene alla comunità solidale di Israele» – e ne ha compassione. Fu morso «nelle viscere», «preso nel profondo dell’anima», precisa il Papa, che collega questa immagine alle responsabilità dell’Occidente verso i paesi poveri dell’Africa, o al comportamento di tanti verso «l’uomo spogliato e martoriato» «Le vittime della droga, del traffico di persone, del turismo sessuale, persone distrutte nel loro intimo, che sono vuote nell’abbondanza di beni materiali». «Tutto ciò – è il monito di Benedetto XVI – riguarda noi e ci chiama ad avere l’occhio e il cuore di chi è prossimo e anche il coraggio dell’amore verso il prossimo».

IL SAMARITANO 

 

Rammento di aver letto di un giovane che trovò una donna dentro una carcassa di automobile, in una delle tante bidonville alla periferia delle grandi città. Stava là dentro da oltre trenta giorni, malata, senza nessuno che l’aiutasse, in una sporcizia inimmaginabile. Il giovane cercò di aiutarla. Bussò alla porta di alcuni istituti di assistenza ma non trovò nessuno che l’aiutasse. Gli rispondevano:”Giovanotto, mi dispiace, ma non posso far niente per te”. Oppure:”Anche se lo volessi, ragazzo mio, non potrei proprio aiutarti. Di notte noi qui non riceviamo nessun malato; a eccezione dei casi della mutua”.

Alla fine, aiutato da un passante occasionale, mise la poveretta nella sua macchina e la portò lui stesso all’ospedale. Venne ricevuto da una suora che gli rispose: “Anni fa, quando eravamo noi a occuparci dell’ospedale, avrei potuto aiutarti, ma adesso, non posso fare assolutamente nulla”.

La portò allora al pronto soccorso, e il medico di guardia disse:” Se mi metto ad aiutare questa donna, rischio di perdere il posto! Ma –pensò un po’, si grattò la testa, e decise –correrò il rischio!” Aiutò la poveretta, prestandole le prime cure: Quindi nei giorni seguenti riuscì a farla ricoverare in un istituto di accoglienza. 

Un fatto della vita del tempo della Bibbia.

Gesù domandò al paralitico: “Vuoi essere guarito?”

Quello rispose:” Signore, non c’è nessuno che mi porti fino alla piscina, quando l’acqua incomincia a muoversi. Quando io arrivo laggiù, un altro è già entrato prima di me”.

Il paralitico stava lì da 38 anni, aspettando sempre una mano amica che lo aiutasse a entrare nella piscina, per essere guarito dall’agitarsi delle acque. Aspettò 38 anni e nessuno venne ad aiutarlo. Gesù lo aiutò nell’ora giusta: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina con le tue gambe!”(Gv.5,1-9). 

Approfondiamo il fatto della vita

Due casi simili: quella donna aspettò trenta giorni, sola, morente, in una automobile sfasciata, nella più lurida periferia; il paralitico aspettò 38 anni, tra gli altri ammalati, vicino alla piscina. Come può succedere una cosa simile? 

Ascoltiamo cosa ha detto Gesù alla gente del suo tempo su questo problema

Molte persone sono solite mettere in pace la loro coscienza e, di fronte alla miseria della gente, trovano sempre una scusa giusta e ragionevole per esimersi dalla colpa. Facevano così anche i farisei. Dicevano di dover amare solo il prossimo e non gli altri. Il loro maggior problema era quello di sapere: chi era il prossimo? 

LEGGIAMO COSA DICE GESU’ IN LUCA 10,25-37

Commento 

Per commentare questa parabola dobbiamo tenere presente una verità inconfutabile e cioè che perfino il nostro mondo di credenti può diventare così contorto e aggrovigliato da farsi incomprensibile a noi stessi. A volte viviamo di frammenti cristiani, di approssimazione confuse, di nostre invenzioni religiose. Mai come in questi tempi nei quali c’è l’esplosione di sette esoteriche e sataniche abbisogniamo di chiarezza. Eppure i comandi e i decreti di Dio sono chiari, comprensibili. Non sono troppo lontani e alti. Solo la nostra meschinità intellettuale e morale riesce a oscurare la chiarezza e la bellezza della sua legge dell’amore. Il fatto è che per capirla, al di là delle varie spiegazioni e insegnamenti, e accoglierla bisogna con molta umiltà interiore sempre convertirci “con tutto il cuore e con tutta l’anima”.

Noi siamo come il dottore della legge che è pieno di domande su Dio e sul prossimo. Gesù al quesito che gli viene posto (Lc.10,25-29) risponde che il centro della legge ha due facce indisgiungibili: l’amore di Dio e l’amore al prossimo.

Allo stesso tempo, però, fa notare che l’amore di Dio viene prima ed è totale (il prossimo è da mare e da servire. Non da adorare, come invece Dio); e che, infine, tutto ciò non costituisce in alcun modo una novità, essendo già presente nelle Scritture che lo stesso dottore della legge conosce.

Pare di capire che il dottore della legge non sia soddisfatto della risposta di Gesù. Il problema è più complesso: chi è il prossimo? Lui come noi del resto chiediamo: chi è il prossimo da amare? Il vicino? Il correligionario? Il sofferente? Il giusto? La persona che frequenta il cenacolo e la comunità? Il simpatico? I parenti? Ecc..

Il dottore della legge vuol sentire in proposito l’opinione di Gesù, che gli risponde proprio con il prosieguo della parabola (Lc.10,30-35).

Gesù non formula una casistica, non allunga la serie delle opinioni teologiche nel merito della questione. Racconta un esempio. Propone, infatti, un comportamento da imitare, e non va trasportato da un piano all’altro, da quello figurato a quello religioso, poiché è già esso stesso sul piano spirituale.

Ma occorre ancora fare un’osservazione generale prima di addentrarci nella rinarrazione della parabola. Il dialogo fra il dottore della legge e Gesù è costruito su uno schema molto significativo: domanda del dottore della legge (10,25) e controdomanda di Gesù (10,26), seconda domanda del dottore della legge (10,29) e seconda controdomanda di Gesù (10,36). Questo schema rende evidente una costante dei dibattiti di Gesù e, più profondamente una caratteristica della stessa rivelazione: le risposte di Gesù esigono che l’ascoltare cambi innanzitutto la direzione della sua domanda. Gli interrogativi dell’uomo sono troppo limitati per le risposte di Dio. Anche l’analisi di questa parabola mostra che Gesù non risponde direttamente alle domande del dottore della legge.

Quando mai Gesù risponde “soltanto” alle domande che gli vengono poste? Le sue risposte sono “oltre” e “più ampie”. 

Il sacerdote e il levita

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico: tra le due città ci sono mille metri di dislivello e circa trenta chilometri di strada attraverso l’arido e spopolato deserto di Giuda: un luogo ideale per le imboscate. Il viandante viene assalito, depredato e abbandonato mezzo morto.

Un sacerdote e un levita (tornavano dal loro servizio al tempio, con ogni probabilità) giungono sul posto e,scorto il ferito, lo evitano passando oltre, dal lato opposto. Insensibilità? O piuttosto desiderio di mantenere la propria purezza cultuale? Sappiate, infatti, che era prescritto (sempre le innumerevoli norme dei farisei) ai sacerdoti che prestavano servizio al tempio di mantenersi puri, e il sangue contaminava.

Ma perché Gesù sceglie, quali figure negative, proprio un sacerdote e un levita? Impossibile non ravvisare in questa scelta un’intenzione polemica: l’osservanza cultuale non deve distrarre dall’essenziale, cioè dall’amore per il prossimo, e la purezza che Dio vuole è la purezza dal peccato, dall’ingiustizia, non dal sangue di un ferito.

Il dottore della legge che stava ad ascoltare la narrazione, ha probabilmente pensato: i due hanno fatto quanto dovevano fare, è giusto anche se doloroso!

Gesù, invece, è di parere opposto: E questo mostra che la sua polemica non è indirizzata contro una classe religiosa, ma contro una prospettiva religiosa universalmente condivisa.

 Il samaritano

Passa un samaritano, si ferma, si prende cura del ferito. Il samaritano è presentato come un modello, e lo stupore del dottore della legge, a questo punto, certamente dovette essere grande ( lo stupore dell’ascoltatore è sempre, o quasi, un segnale che la narrazione sta toccando un punto su cui occorre soffermarsi). I samaritani venivano considerati impuri, gente da evitare alla stregua del pagani. Nonostante questo (anzi proprio per questo), Gesù sceglie come personaggio-modello della parabola un samaritano, non un fariseo osservante. Si tratta di una seconda intenzione polemica: la bontà non ha confini, afferma Gesù, e gli esempi da imitare si trovano anche là dove non ce lo si aspetta, perché Gesù è libero da ogni pregiudizio. Il bene non è tutto da una parte e il male dall’altra. Gesù riprende questo concetto successivamente in Luca 17,11-19. Egli risana dieci lebbrosi, ma uno solo torna indietro a ringraziarlo: “Era un samaritano” E Gesù osserva: “Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”

Il samaritano è chiamato straniero “di altra razza”, dice il testo alla lettera, ma la differenza era anche di tipo religioso. Ebbene, proprio questo straniero, di altra razza e di altra fede, è l’unico dei dieci che si ricorda di dar gloria a Dio: un privilegio, questo, che i giudei pensavano spettasse soltanto al loro popolo.

Ma ritorniamo al nostro racconto. Indirettamente la parabola lascia intendere che il prossimo da aiutare è qualsiasi bisognoso che si incontri. Potrebbe essere questa la risposta diretta alla precisa domanda al dottore della legge: “Chi è il mio prossimo?”.

L’attenzione di Gesù è però rivolta altrove. Dell’uomo bisognoso dice soltanto che giaceva sulla strada derubato, ferito e mezzo morto. Che altro è necessario sapere? La narrazione indugia piuttosto sulla figura del samaritano. E si sofferma nel descrivere non chi egli sia, bensì che cosa abbia fatto. Quando una narrazione, prima scattante, a un certo punto rallenta dilatandosi, è perché si è giunti alla scena più importante, che va considerata senza fretta. Infatti, l’attenzione cade sul comportamento del samaritano: vede il ferito, sente compassione, si avvicina, fascia le ferite, lo carica sulla sua cavalcatura, lo porta a una locanda, si prende cura di lui, paga l’albergatore.

Praticamente è come se a Gesù poco importasse la domanda del dottore della legge (“chi è il mio prossimo”), e rispondesse invece a un’altra: come devo comportarmi nei confronti del prossimo? Che significa amare il prossimo? L’attenzione di Gesù è concentrata sul grande comandamento –amare Dio e il prossimo–, non sulla curiosità teologica del dottore della legge.

Vedete, il samaritano non si è chiesto chi era il ferito, e il suo aiuto è stato disinteressato, generoso e concreto. Ecco che cosa significa amare il prossimo. Non a parole, ma gesti concreti. Amare il prossimo vuol dire prendersi interamente a carico la sua condizione.

Che a Gesù stia a cuore il “che cosa fare” è indicato anche dalle due risposte date al dottore della legge: “Hai risposto bene, fa questo e vivrai” (10,28); “va e anche tu fa lo stesso” (10,37). Il dottore della legge tentava di spostare la domanda dal fare alla teoria, Gesù lo riporta al fare.

Chi dei tre si è fatto prossimo?

Si direbbe che, a questo punto, il discorso sia chiuso. E’ stata fatta una domanda (chi è il prossimo?) ed è stata data la risposta (il bisognoso che si incontra). Invece, giunto alla conclusione (10,36), Gesù pone inaspettatamente un’altra domanda, che racchiude un ultimo insegnamento, forse il più importante. E’ una domanda formulata in modo diverso da come l’ascoltatore si aspetterebbe. Non: “chi dei tre ha saputo vedere nel ferito il prossimo da amare?, bensì: “Chi di questi tre ti sembra si sia fatto prossimo a colui che è incappato nei briganti?”.

In questo modo la domanda del dottore della legge viene ulteriormente spostata: prima dalla teoria alla pratica, ora dall’esterno (chi è l’altro?) all’interno (chi sono io?).

Per Gesù chiedersi chi sia il prossimo è in definitiva un falso problema: il prossimo c’è, vicino, visibile, però occorrono occhi capaci di scorgerlo.

Il vero problema è che noi dobbiamo farci prossimo di chiunque, abbattere le barriere e le differenze che abbiamo dentro di noi e che costruiamo fuori di noi. Dobbiamo comportarci come il samaritano che si è sentito prossimo, coinvolto, fratello nei confronti di uno sconosciuto. Il dottore della legge, che aveva una curiosità teologica da soddisfare, si è visto invitato a convertire se stesso.

Questo significa anche ritornare alla chiarezza della legge di Dio.

Non chiediamoci quanto gli altri possono darci, ma quanto noi stessi possiamo dare agli altri. Se la società in cui viviamo ci sembra ostile forse dovremmo seriamente chiederci quanto noi siamo duri con chi ha bisogno di noi.

Amen,alleluia,amen.

http://www.adonaj.net/old/parabole/samaritano.htm

Posted on Novembre 17, 2008 
Filed Under Video

Chissà se ai nostri alunni piacerà questo video così particolare… Sicuramente è un modo originale di presentare le parabole del vangelo. A questo indirizzo anche la parabola del “Servo Spietato”. 

L’amore ed il prossimo: la parabola del Samaritano   

Nota personale  

 «Questo capitolo vuol rappresentare fondamentalmente un omaggio, quanto mai dovuto, a Françoise Dolto e Gérard Sévérin.  

Dalla lettura della loro opera «Psicoanalisi del Vangelo»1 nell’autunno del 1979, in particolare del capitolo sull’interpretazione della parabola del Samaritano (Lc 10, 25-37), prese il via la profonda riflessione che mi ha condotto a questo lavoro. 

Dalle loro conclusioni infatti trovai lo spirito, la speranza di comporre finalmente in modo coerente una auto-percezione ontologica, una visione del mondo, degli altri, la mia disposizione al mondo, agli altri, che sollevasse il mio animo alle anonime perplessità che da sempre avevo covato e, penso condiviso con altri esseri umani, nei confronti dell’intero quesito metafisico di Dio e del sovrannaturale, della collocazione e del destino dell’uomo nell’ambito del teismo» . VR

 

I contenuti della suddetta parabola sono profondamente vicini alle affermazioni di Gv 13, 34-35; quel che seguirà rappresenta solo una rielaborazione, un adattamento delle conclusioni dei due autori summenzionati, nulla più, un tributo si spera, all’interpretazione del messaggio evangelico testé sostenuto.

Luca ci riporta, unico tra i quattro autori evangelici, di una parabola narrata da Gesù ad un Dottore della Legge che aveva domandato: «Cosa debbo fare per avere in sorte la vita eterna?» (Lc 10, 25)

 

Gesù a tale domanda «… disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che vi leggi?” “Quegli rispose dicendo: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso”. Ed egli a lui: “Hai risposto bene; fai questo e vivrai.” E quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “Ma chi è il mio prossimo?”» (Lc 10, 26-29).

 

E Gesù a questo punto inizia a narrare la parabola del Samaritano, conducendo il suo interlocutore ad una risposta chiara, circostanziata… su cui però l’esegesi cattolica ha preso un’altra grave cantonata.

 

 

Un uomo viene assalito e depredato da dei briganti in una località isolata e lasciato mezzo morto lungo la strada. Per caso, si susseguono lungo tale sentiero tre persone: un sacerdote, un levita ed infine un Samaritano.

 

Mentre i primi due ignorarono il malcapitato «passando oltre», il Samaritano, «impietosito» lo soccorse, gli prestò le prime cure, lo portò in un albergo, dove si prese ulteriormente cura di lui sino al giorno successivo quando, dovendo proseguire il suo viaggio, lo affidò all’albergatore.

Gesù chiede quindi al suo interlocutore di indicare chi, tra i tre, il sacerdote, il levita ed il Samaritano, possa essere stato «il prossimo di colui che è incappato nei ladroni» (Lc 10, 37). «Quello rispose: “Colui che gli ha usato misericordia”. E Gesù gli disse: “Va, e comportati anche tu a quel modo.”» (Lc 10, 37)

La «morale» tratta dall’esegesi ortodossa di tale parabola è che «il prossimo è ogni uomo, senza distinzione di nazionalità, credo, razza e sesso che potremmo trovare sul nostro cammino, alla stessa stregua del malcapitato bastonato dai ladroni che il Samaritano soccorse». Qualsiasi uomo bisognoso di cure, di misericordia, di aiuto è il nostro prossimo: poveri, malati, indigenti, ogni essere umano sofferente, vicino e lontano, ciascuno di questi è il nostro prossimo da amare come noi stessi.2

L’invito è quindi quello di prendersi in sorte le sventure e le esigenze del nostro prossimo, di chi soffre, di farsi «prossimi» a coloro che soffrono, amarli coinvolgendoci totalmente in ciò, reprimendo il nostro egoismo, sollevandoci dalla nostra indifferenza alla stessa stregua del Samaritano che si prese cura del suo prossimo, dello sventurato malmenato dai briganti. Così si amerebbe il proprio prossimo.

Il «vai e fa lo stesso» dovrebbe spronare ad agire come il Samaritano, che sembra riconoscere nel poveretto il prossimo da amare. Uno slancio, secondo l’esegesi classica, da spingere anche oltre tale fine, addirittura all’espressione dell’amare il proprio nemico (vedi Mt 5, 44) poiché sostiene che lo sventurato attaccato dai banditi dovesse essere – implicitamente, dato che non c’è scritto – un Giudeo, popolazione in contrasto socio culturale, etnico, di culto con i Samaritani.3

Questi fini chiaramente umanitari sembrerebbero corroborati anche da altri passi evangelici: Mt 25, 34-40; Mc 8, 34; Lc 15, 25-27; Gv 15, 12-13. Cosa poter porre in alternativa a queste indicazioni che non sia un tentativo di «volersi giustificare», alla stessa stregua del Dottore della Legge?

Nulla, se non quello che Gesù afferma in tale parabola: l’esatto contrario.4

Sia chiaro: non è che Gesù affermasse indifferenza o noncuranza, egoismo o quant’altro. Anzi. Ma in merito alla definizione di «prossimo» Gesù, come vedremo, in questa parabola ha affermato l’esatto contrario di quel che è stato inteso finora.

Dunque, la conclusione ortodossa è che il prossimo sarebbe qualsiasi uomo; nella fattispecie che il «nostro prossimo» sarebbe, sulla base di questa parabola, «ogni uomo bisognoso in cui potremmo imbatterci nella nostra vita», come il malcapitato che il Samaritano incontrò quel giorno sul suo cammino.

Quest’identificazione, teoricamente così immediata, pone in realtà due complicazioni. La prima è eminentemente di carattere pratico. Quanti sventurati possiamo riconoscere sul nostro cammino! I mass media ci versano quotidianamente nel piatto l’indigenza di intere popolazioni, il dolore, la fame e le sofferenze di innocenti esseri umani, ghermiti da carestie e siccità, costretti dalla violenza economica e militare a soccombere miseramente oltre le impalpabili quanto concrete dighe socio economiche e militari che le società industriali e post industriali più potenti hanno edificato ai loro confini, a garanzia di quell’abbondanza, quell’opulenza che caratterizza il loro status economico. Quante sofferenze poi in istituti, ospedali, dove una parte dell’umanità giace tra il lezzo, la sofferenza, l’indigenza, l’isolamento, saprebbero attirare il nostro interesse, il nostro sguardo, sempre distolto da ciò? Come ignorare, in tali frangenti, questo «comandamento» evangelico su cui poggia il fondamento stesso della «… legge ed i profeti…»? (Mt 22)5

La situazione in pratica pone l’individuo dinnanzi a due alternative, in funzione alla sua sensibilità, alla sua fede ed alla sua disponibilità: due estremi di un continuum ad un polo del quale c’è un egoistico anteporre se stessi agli altri, all’altro anteporre le altrui esigenze, in un’opera di servizio e dedizione per il prossimo, alle proprie esigenze, a se stessi. È naturale come, cogliendo in ciascun uomo il prossimo da amare come se stessi risulterebbe inevitabile rivolgere ogni propria stilla di vita all’amore per l’altro – notare i possibili legami con le simbiosi masochistiche precedentemente esposti.

E l’amore per «se stessi»? Nell’ottica classica quest’affermazione verrebbe immediatamente presa per deplorevole manifestazione «egoistica», non consona allo spirito di sacrificio che permea virtuosamente l’ortodossa etica cristiana. Prima considerazione: Gesù non parla affatto di «sacrificio». Egli «non» vuole «… sacrificio ma misericordia.» (Mt 9, 13)

Non che ci sproni all’egoismo, questo no: ma non tralascia la dignità, i diritti di ciascuno. Ora possiamo concludere che Gesù ha come obiettivo non un uomo represso, che ha alienato ogni suo diritto, ogni sua dignità, ma un «Uomo», una «Donna», che vivano, nella loro dignità, «amando», esprimendo misericordia. Egli ci invita anzi a fare agli altri «… tutto quello che volete che gli uomini facciano a voi… questa è la legge ed i profeti» (Mt 7, 12). Negli intenti di Gesù in definitiva traspare un rispetto delle esigenze dell’individuo, di ogni «Uomo e Donna», che nell’ortodossa interpretazione viene ad essere meno: si perde in quest’ultima quell’armonia, quella spontaneità che per contro pervade tutta la filosofia religiosa dell’autentico cristianesimo, della «lieta novella» evangelica.

La seconda complicazione è la seguente: se l’interpretazione data dall’esegesi classica fosse giusta, si dovrebbe concludere – anche qui – che Gesù abbia narrato:

1) una parabola… assolutamente inutile; oppure…

2) Una parabola clamorosamente sbagliata.

Cominciamo per ordine. Una parabola… assolutamente inutile?

Sembra di sì. Non si vedrebbe infatti il senso di una così particolare e contorta narrazione. La stringata affermazione: «Ogni uomo è il tuo prossimo. Punto.» avrebbe dato infatti al Dottore della Legge, e di riflesso a tutti noi, la risposta più chiara, inequivocabile, esplicita e perfetta possibile. Questa semplice risposta avrebbe infatti:

•  esaurito tale richiesta;

•  allargato, senza equivoci e mezzi termini, senza appigli per qualsivoglia giustificazione, il concetto di «prossimo» al di là di ogni credo, nazionalità, razza, aspetto, collocazione sociale, superando le restrizioni dell’accezione giudaica di prossimo;

•  ed… io non potrei a scrivere alcunché.

Ma evidentemente non è così. Questo benedetto Messia non ha mai in bocca quel che occorrerebbe ai sostenitori del paradigma teoetotomistico! È proprio insolente…

Passiamo alla seconda opzione: una parabola clamorosamente sbagliata? Decisamente no. Sembra più probabile che ad essere sbagliata sia stata l’esegesi ortodossa… Ovvero: nella parabola si afferma tutt’altra cosa.

Dunque le cose sono da intendere in un altro modo. Innanzi tutto: «se» Gesù confeziona a nostro uso e consumo questa complessa rappresentazione, questa scenografia, «allora» il motivo è che evidentemente la risposta non è così «immediata» come si vorrebbe far credere. Il prossimo cioè non sarebbe «ogni Uomo». Chi sarebbe questo benedetto prossimo allora? Semplice: è bello scritto. Nel brano si afferma precisamente chi è: «può essere ogni Uomo».

Allora: la dottrina cattolica afferma che il prossimo sarebbe colui che fu assalito dai banditi, figura da assimilare dunque a chi, sofferente, avrebbe bisogno di aiuto.6 Ma quest’uguaglianza è «palesemente infondata»: per convincersene basta leggere «con i propri occhi». Basta prendere il Vangelo di Luca, aprire al versetti 10, 36-37, qualora si dubiti di quanto riportato qui, per convincersi da soli se si sta dicendo qualcosa di infondato. Semmai, controllare che la propria copia abbia l’imprimatur, poiché quella da cui sono stati trascritti questi brani ne era dotata! Dunque, provare per credere…

Incredibile, ma vero! La domanda di Gesù è infatti estremamente circostanziata in merito e ben diversamente orientata. Egli infatti chiede: «Chi dei tre (Sacerdote, Levita e Samaritano n.d.a.) è stato il prossimo di colui che è incappato nei ladroni?» (Lc 10, 36). Gesù propone esplicitamente al Dottore della Legge tre figure in cui individuare il «prossimo da amare come se stessi» e questi fa una scelta che è implicitamente avallata da Gesù: il Samaritano, – «Colui che gli ha usato misericordia» (Lc 10, 37). A questo punto la soluzione è evidente, ovvia, scontata, inevitabile: «il prossimo da amare come se stessi è chi ci ha usato misericordia».

Non penso sia necessario mostrare la struttura logico semantica dei brani con gli operatori logici… sarebbe eccessivo ed umiliante!

È decisamente incredibile come si possa aver equivocato su ciò! Gesù dà un’immagine inequivocabile, chiara, a tutto tondo del prossimo. Indica infatti l’oggetto, «il prossimo» e il soggetto dell’«amore verso il prossimo». L’uomo sofferente ai bordi della strada, malmenato dai ladroni, è il «soggetto» dell’amore per il prossimo e il Samaritano l’«oggetto» dell’amore per il prossimo, nonché espressione della misericordia auspicata da Gesù. L’invito ad amare il prossimo è infatti rivolto a chi nella vita si viene per qualche modo a trovare in una situazione simile a quella del disgraziato assalito dai ladroni.

E questa affermazione è perfettamente ovvia. L’uomo assalito dai briganti addirittura è scartato a priori dalle figure, dagli attori proposti da Gesù al Dottore della Legge per riconoscervi il prossimo, e Gesù, avallando tacitamente la risposta dello stesso, implicitamente afferma che il Samaritano è la giusta figura di prossimo presentata nella parabola.

Ipotizziamo di aver potuto assistere nella realtà, nella persona del Dottore della Legge, assieme a Gesù, il fatto narrato dalla parabola, magari da un’altura vicina. Ecco il viandante (V), poi arrivano i ladroni (Ladr.), la colluttazione e il malcapitato rimane ferito a terra. Poi passano tre altri viandanti: il sacerdote (Sa), il levita (Le) ed il Samaritano (Sm). Dei tre uomini transitati l’ultimo soccorre il malcapitato. Chiaro, limpido, semplice. Gesù non chiede: «Chi dei tre viandanti ha riconosciuto nell’uomo steso a terra esanime il “prossimo” da amare, da soccorrere?» come vorrebbe intendere l’esegesi ortodossa, perché chiede: «Chi dei tre è stato il prossimo di colui che era a terra esanime, bisognoso di soccorsi?».

È di una semplicità disarmante. Addirittura quest’ultimo è categoricamente escluso dal novero di figure tra cui indicare chi è stato «… il prossimo di colui che era a terra esanime, bisognoso di soccorsi». Delle quattro persone (V, Sa, Le, Sm) solo tre sono ammessi al confronto, (Sa, Le, Sm), in questo riconoscimento… con faretto abbacinante puntato sulle tre figure, poste l’una a fianco in una di quelle stanze con le righe graduate orizzontali ed il vetro mono trasparente, come da sterotipo cinematografico…

A questo punto ogni possibile dubbio è fugato. Il prossimo «è il Samaritano»: (Sm). Colui che ha usato misericordia. Se dunque si vuol dottrinalmente estrapolare il senso di tale parabola si deve concludere che «il prossimo è ogni Uomo che ci ha usato misericordia», che ci ha «rimesso in carreggiata».

La classica, fuorviante affermazione «ogni Uomo è nostro prossimo» – nella fattispecie se sofferente – deve essere dunque cambiata in «ogni Uomo, senza distinzione alcuna, può divenire nostro prossimo nella misura in cui ci usa misericordia».

Gesù solleva il Dottore della Legge dall’esigenza di cercare attivamente – per avere la vita eterna, si mediti su questo contenuto così «egoista» – il prossimo da amare ma gli dice implicitamente: «Non stare a preoccupati di trovare il tuo prossimo da amare; il prossimo non si “cerca” ma lo si “trova”, si presenterà lui, spontaneamente, imprevedibilmente, a te. Cerca solo di usare misericordia, nulla più.»7

E la frase finale «va e fa lo stesso» porta ad un’ulteriore sviluppo al tema dell’«Amore», direttamente in sintonia con i contenuti del precedente capitolo. Quest’ultimo invito vorrebbe dire, secondo l’interpretazione classica:

«Ama il prossimo tuo come il Samaritano fece con il ferito che incontrò sulla sua strada, con la stessa abnegazione: non ti stare a domandare chi è il tuo prossimo ma ama, donando te stesso, le tue rinunzie, la tua vita, a chi ha bisogno di te, senza guardare il suo status sociale, la sua nazionalità, il suo viso, posticipando il tuo egoismo, le tue esigenze alle sue necessità, ripudiando la tua chiusura nei confronti delle altrui esigenze».

E ciò vuol dire necessariamente posticipare se stessi alle esigenze esterne in una scala di concessioni e privazioni che non conosce limiti, fino ad alienare se stessi; conclusioni che sono alla base dell’etica teoetotomistica cattolica della nobile rinuncia a se stessi – ma che ha un suo subdolo parallelo socio economico nell’accettazione dello status quo della società, delle sue regole ed esigenze malgrado il calpestio della dignità dell’individuo, della libertà dello stesso: un parallelo inquietante.

Precisare invece i contenuti, i contorni delle figure evocate da Gesù conduce ad diverse conclusioni. Ci sono sfaccettature importanti nella parabola, che hanno un loro senso profondo.

Si osservi l’atteggiamento del Samaritano: cura il ferito, lo conduce all’albergo caricandolo sulla sua cavalcatura, si accolla addirittura il surplus della sua degenza. Lo assiste sì personalmente, ma al mattino seguente compie un gesto molto significativo: torna ai suoi affari, alle sue attività, alle sue esigenze, momentaneamente accantonate, per soccorrere quel disgraziato. Eppure il ferito aveva ancora bisogno di cure, tanto che il samaritano dovette lasciare dei denari all’oste con la preoccupazione che forse non sarebbero neanche bastati alle sue cure.

Il Samaritano non molla tutto e tutti: un’indicazione fondamentale per la risoluzione dei nostri interrogativi. Gesù propone in questo brano un esempio estremamente armonico, equilibrato: propone di usare misericordia all’altro ma non di rinnegarsi, in un reciproco rispetto: la giornata persa dal Samaritano ha certamente un rilievo relativo per lo stesso, per le sue eventuali incombenze della giornata, ma per l’altro quel gesto, quei minuti, sono fondamentali, decisivi: rappresentano la possibilità di restare o meno in vita.

Un gesto che sprizza umanità da ogni poro ma che, non negando una sorta di «distacco», in realtà conduce a percepire stima, dignità reciproca, rispetto nell’atteggiamento del Samaritano: egli non sacrifica completamente lo scopo del suo viaggio, ma dona all’altro proporzionatamente ai suoi mezzi, alle sue esigenze.

Ecco l’essenza: ciascuno di noi è degno di rispetto, di amore, «come ciascun altro»; si afferma nettamente in questa parabola, un senso di profonda uguaglianza: perché allora mortificarci, disprezzare queste nostre esigenze? Perché togliere amore e dignità ad un’esistenza, qualunque essa sia?

Ciò non è necessariamente in contrasto con la dignità dell’altro, con una concreta manifestazione di misericordia. Rispettiamo sì costui, costoro, ma anche noi stessi. Anzi, dalle nostre esigenze, dalle risposte che sapremo dare a nostri quesiti, potremo attingere ciò che necessita per capire ed «amare» l’altro, noi stessi: dando alle nostre esigenze lo stesso peso delle altrui esigenze; ecco il nostro «essere fratelli». Ecco, per inciso, ciò che può veramente opporsi alle ingiustizie che troviamo affermate nel mondo, alla povertà ed un’indifferenza «quotidianamente versata nel piatto» che surclassa anche gli sterili proclami di gerarchie delle varie confessioni di fede, in ultima analisi sempre decisamente compiacenti con quei poteri e quei sistemi: l’affermazione di un’etica veramente fraterna, pervasiva, sistematica, «zelante» anche e soprattutto nel non chiudere alcun occhio con tiranni e sfruttatori, e non l’azione di qualche manipolo di anche convinti missionari e volontari, un pugno di sacrificandi che nulla possono, pur con tutta la loro dedizione ed abnegazione, davanti all’infinita valanga di competitori e sfruttatori che riducono alla fame intere popolazioni per meri fini economici ed imperialistici delle società più progredite.

Gesù ci chiede dunque di «amare» chi ci ha usato misericordia in modo gratuito, spontaneo, immediato. Allo stesso modo. Ed «amare» vuol dire affermare l’altro, trasmettere libertà, dignità, esprimere in sé questi slanci tesi alla vita, spontanei ed immediati, come la misericordia espressa dal Samaritano.

Forse lo stesso Samaritano e l’uomo da lui soccorso non si sarebbero più incontrati, forse quest’ultimo non avrebbe potuto superare, mettiamo per qualche ricaduta, le percosse subite, o neppure aver più la possibilità di guardare in faccia e ricordare il viso del suo salvatore: ma proprio a quel gesto così anonimo e spontaneo, gratuito, deve forse la sua eventuale vita.

Ancor più, «amare il prossimo» non vuol dire esprimere allo stesso ovvia riconoscenza, quanto «ripetere», «amplificare» il senso e la portata di quel gesto, di quell’intento, di quell’espressione spontanea di misericordia, di «amore» per la vita con la stessa spontaneità con cui si è ricevuta, in una continua catena di misericordia, in una continua, spontanea ed inarrestabile espressione dell’ «amare» attivo, dinamico, prorompente, libero, pieno, che l’ «Uomo» sa sperimentare e sa donare.

Ma questo… l’uomo non lo sa.

 

Note:

 

1 Françoise Dolto, Gerard Sévérin, Psicoanalisi del Vangelo, Rizzoli, 1978.

2 La sacra Bibbia. Vecchio testamento – Vol. 1, Sel. Dal Reader’s Digest. Unione tipografica Ed. Torinese Garzanti, Torino, 1948. note di pag. 36.

3 Luca, Ed. Paoline, 1977, pag. 241.

4 Françoise Dolto, Gerard Sévérin, Op. Cit., [1978], pag. 140.

5 Françoise Dolto, Gerard Sévérin, Op. Cit., [1978].

6 Hans Kung, Op. Cit., [1976], pag. 282. 

7 Françoise Dolto, Gerard Sévérin, Op. Cit., [1978], pag. 151-157.

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