PRENDERSI CURA DEI SOFFERENTI – Guido Davanzo m.i.

State assieme - Mosaico

 

dossier su Pastorale degli infermi e dei morenti

PRENDERSI CURA DEI SOFFERENTI

 

La missione della Chiesa verso il mondo della salute

di GUIDO DAVANZO  

Il lieto annunzio del vangelo viene confermato, nel ministero di Gesù di Nazaret, dalla liberazione anche fisica che Egli opera, e di sabato. La storia della Chiesa è caratterizzata da sensibilità operosa verso i più sofferenti, in specie i morenti. Il sacramento dell’Unzione degli infermi: un modo provvidenziale e concreto di andare incontro a chi si trova in una malattia seria.

Ha dichiarato Gesù: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Gesù, come Dio, è fonte della vita, e come Dio-Uomo ha redento la nostra vita perché sia realizzata in pienezza. Ma di quale vita-salute parla? Di quella spirituale o anche di quella fisica? E di quale pienezza? Nella Sinagoga di Nazaret, quando Gesù si è presentato ai suoi compaesani, si è rifatto al profeta Isaia per specificare la sua missione: annunzierà “un lieto messaggio” soprattutto ai poveri, ai prigionieri, ai ciechi, cioè ai sofferenti (cf Mt 13,54-58; Mc 6,1-6; Lc 4,16-19).

Era la sintesi del suo ministero messianico, che si rivolge alla totalità della persona umana, spirituale, psicologica, morale, fisica. L’evangelista san Marco descrive una tipica giornata ministeriale di Gesù. Lui si trova a Cafarnao, di sabato. Inizia la giornata nella sinagoga per la lettura della Bibbia e «si mise a insegnare» (Mc 1,22). Gesù viene interrotto da «un uomo che era nella sinagoga, posseduto da uno spirito immondo» ed egli subito lo guarisce (1,23-28). L’accostamento è significativo: il lieto annunzio del vangelo viene confermato dalla liberazione anche fisica di quell’uomo. Gesù si interessa della vita umana nella sua totalità.

Spesso Gesù compie i suoi miracoli di guarigione proprio di sabato, causando la rabbiosa reazione dei giudei, tanto che dovrà ricordare loro: «Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» ( Mc 2,27). I miracoli, inseriti nel giorno particolarmente dedicato al Signore, non costituivano solamente una provocazione contro il soffocante rigorismo giudaico. Erano la conferma del suo “vangelo”, che sintetizza e caratterizza il culto a Dio nell’amore verso Dio e verso il prossimo, perché: «Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22,40).

Un amore che si estende verso chiunque si trovi in difficoltà e al quale possiamo renderci “prossimo”, come ha precisato Gesù nella parabola del buon samaritano (Lc 10,25-37), un amore che deve imitare la sua infinita bontà, «come io vi ho amati» (Gv 15,12), perché il giudizio finale verterà principalmente sulle opere di misericordia: Cristo ci attende nel bisognoso (Mt 25,31-46).

Un altro significato nelle guarigioni operate da Gesù nel giorno sacro del sabato: il culto a Dio va dimostrato nella riflessione sulla sua Parola e nella concretezza dei gesti di bontà verso coloro che soffrono. Possiamo ritornare alla giornata tipica di Gesù. «Usciti dalla sinagoga, si recarono subito in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e di Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli, accostatosi, la sollevò prendendola per mano; la febbre la lasciò ed essa si mise a servirli» (Mc 1,29-31).

Una corsia dell'ospedale Fatebenefratelli di Milano

Una corsia dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano

Ma il ministero pastorale di Gesù non è terminato: «Venuta la sera, dopo il tramonto del sole», quando era cessato l’obbligo del riposo del sabato, «gli portavano tutti i malati…; guarì molti che erano afflitti da varie malattie» (1,32-34). I miracoli, anche se particolarmente frequenti, non erano fine a sé stessi. Gesù non intendeva affatto apparire come “guaritore fisico”. Essi costituivano un segno di una esistenza rinnovata nello spirito, tramite la ripresa fisica, in una dinamica che va oltre l’esistenza terrena.

La vita che vuole donarci il Signore non è una vita facile, illusoria. Anzi lui avverte: «In verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,24-25). L’esempio del chicco di grano è particolarmente significativo: il chicco di grano sembra marcire nella terra, ma non muore, infatti germoglia in una nuova vitalità. Così il credente in Cristo deve amare l’esistenza, dono di Dio, deve valorizzarla. Ma si valorizza la vita quando non ci si chiude in sé stessi, quando si accetta di “perderla”, cioè di donarla a Cristo, alla famiglia, alla società ecclesiale e civile. È questa la prospettiva di vita-salute che Cristo ha realizzato nel mistero pasquale, mistero di donazione affettiva, sofferta, redentiva verso una nuova vita, «perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,16).

Gesù non è venuto per risolvere magicamente le nostre difficoltà, ma per condividere la condizione umana, rendersi compagno e redentore del nostro pellegrinaggio terreno, «come era stato detto per mezzo del profeta Isaia: Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie» (Mt 8,17). È una prospettiva di vita-salute che si inserisce nella dimensione biblica della salvezza, verso quella pienezza di vita, promessa da Gesù (Gv 10,10).

Il ministero pastorale della Chiesa. Gesù ha affidato agli apostoli la continuazione della sua missione: «Li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi» (Lc 9,2), ossia a prendersi cura dei sofferenti. Il mandato del Signore viene vissuto dalla comunità cristiana: la carità diventa forma della Chiesa. Dall’inizio della sua propagazione e nel suo espandersi missionario, la storia della Chiesa è caratterizzata da sensibilità operosa verso i più sofferenti.

Si deve al cristianesimo l’aver introdotto un nuovo spirito nella cura dei poveri e dei malati e di aver inaugurato un’assistenza, ricca di bontà e di pietà religiosa, fino ad allora sconosciuta. I primi ospizi, come ricovero dei malati poveri, risalgono al 437 a.C., nel clima di altruismo suscitato nell’India dalla predicazione di Budda, ma non ebbero seguito. Invece, l’iniziativa cristiana degli ospedali per i malati-poveri arriverà fino all’epoca contemporanea.

Al di là dell’istituzione ospedaliera, si sono moltiplicate le iniziative cristiane per i bambini più abbandonati, per i carcerati, per i più poveri. Si richiamino i “santi della carità”: san Giovanni di Dio, san Camillo de Lellis, san Vincenzo de’ Paoli, per limitarci ai pionieri più prestigiosi. Dal secolo XVI inizia l’epoca missionaria, che, nonostante mentalità culturali difettose e talvolta lesive della dignità degli indigeni, è stata una storia ricca di donazioni caritatevoli. Quando non era ancora di moda parlare dei poveri e degli emarginati, molti cristiani hanno dato l’esempio di donazioni generose, di iniziative coraggiose, offrendo una testimonianza unica per la continuità nei secoli, per la vastità di diffusione in ogni continente, per la molteplicità di iniziative umili ed eroiche, spesso sconosciute anche agli annali ecclesiastici, note solamente a Dio.

Le “nuove povertà”, ossia le riconosciute povertà dei disoccupati, degli emigranti, dei portatori di handicap, dei malati psichici, dei tossicomani, dei perseguitati politici, dei malati di Aids, dei carcerati, dei nomadi, delle prostitute trovano soprattutto nei centri cristiani di assistenza risposte concrete, anche se insufficienti. Si pensi alla Piccola casa della Divina Provvidenza di san Giuseppe Benedetto Cottolengo fino alle numerose iniziative di Madre Teresa di Calcutta. Il martirologio delle persone che hanno donato tutto sé stesse, fino a sacrificare la propria esistenza per contagio, per una donazione che ha logorato la loro esistenza, per aver pagato con la vita la loro presenza presso i più deboli, anche nelle zone più rischiose, è particolarmente voluminoso, anche se i loro nomi sono ignorati dai mass media.

La Chiesa continua la sua missione a difesa della vita umana, impegnandosi maggiormente per una cultura di vita, dei valori della vita e di una solidarietà organizzata a livello mondiale. Si richiami l’accorato appello di Giovanni Paolo II nella enciclica Evangelium vitae del 25.3.1995. Occorre, specifica il Papa, «decidere tra la “cultura della vita” e la “cultura della morte”…» (n. 28). A tale scopo ha indetto una Giornata annuale per la vita (n. 85) per «prendersi cura di tutta la vita e della vita di tutti» (n. 87).

Madre Teresa di Calcutta visita un centro ciechi e invalidi

Madre Teresa di Calcutta
visita un centro
ciechi e invalidi

La Consulta nazionale della Cei per la pastorale della sanità, preso atto che i concetti di salute e di malattia hanno preso «nuove e importanti connotazioni», avverte (cf La pastorale della salute nella Chiesa italiana: linee di pastorale sanitaria, del 30.3.1989, nn. 6-7) che «l’attività svolta dalla Chiesa nel settore della sanità è espressione specifica della sua missione e manifesta la tenerezza di Dio verso l’umanità sofferente» (Ivi, n. 13). Soggetto primario della pastorale sanitaria è la comunità cristiana, popolo santo di Dio, adunato nell’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo sotto la guida dei pastori» (Ivi, n. 23, citando la Lumen gentium, n. 1).

Sono sottolineature da tenere presenti perché l’ampiezza variegata della pastorale ecclesiale rischia di lasciare agli “addetti ai lavori”, cioè ai cristiani che, a vario titolo, si impegnano nel mondo socio-sanitario, la pastorale verso i malati e i moribondi, pastorale che deve invece cointeressare tutti i cristiani sia come singoli che come comunità ecclesiali.

Il sacramento dei malati. Dal concilio Vaticano II è iniziata una rivalutazione teologica e pastorale dell’Unzione degli infermi, che non va relegata ai momenti estremi della vita del malato. Questo sacramento tipico per il malato rientra in quella evangelizzazione della vita, della malattia e della morte che va recuperata nella catechesi, a tutte le età, e costituisce l’originale risposta cristiana alla problematica della sofferenza, che va anzitutto alleviata, ma poi va anche orientata. Occorre dare un senso alla vita, nelle sue molteplici difficoltà, alla salute che va vissuta nella sua vulnerabilità, alla morte perché sia avvertita come tappa per una nuova vita.

La preparazione remota al sacramento dei malati consiste nella catechesi sul senso cristiano della vita, della sofferenza e della morte. Purtroppo oggi si sorvola sulla riflessione della morte, quasi la vita cristiana possa concepirsi al di fuori del mistero pasquale, mistero di vita, di sofferenza, di morte e di risurrezione. La preparazione specifica consiste nella catechesi sul sacramento dei malati. Non è sacramento per ben morire, salvo nel senso che ogni sacramento aiuta a morire perché aiuta a ben morire; non è il sacramento della guarigione, perché Cristo non offre una soluzione magica per sfuggire da ogni sofferenza e dalla morte; bensì rientra nei “sacramenti della vita” nel senso che ogni sacramento aiuta la vita del credente nella sua realtà umana, che non è solamente spirituale.

Ogni sacramento ha una sua particolarità: il battesimo innesta la vita umana in Cristo; la comunione dà vigore alla nostra esistenza, nelle sue molteplici difficoltà; la confermazione rinnova in noi la presenza vitale dello Spirito Santo; il sacramento della riconciliazione sana le ferite spirituali; il sacramento dell’Unzione ridona coraggio e forza al malato per affrontare cristianamente il suo periodo di malattia e prepararsi gradualmente e serenamente al passaggio verso la casa del Padre.

Il Codice di Diritto Canonico specifica: «Si conferisca il sacramento a quegli infermi che, mentre erano nel possesso delle proprie facoltà mentali, lo abbiano chiesto almeno implicitamente» (can. 1006). L’unzione sacra non va conferita come rito magico di salvezza, ma presuppone e aiuta la fede del ricevente (cf Sacrosanctum concilium, dove si precisa che i riti sacramentali per gli adulti devono essere realizzati come “sacramenti della fede”, n. 59). Soggetto di questo sacramento è il malato, nel senso più estensivo del termine. L’anziano, come tale, non è soggetto valido per questo sacramento, salvo per il suo stato di generale debolezza, si ritenga lui stesso malato. Non basta una leggera indisposizione o una fase provvisoria di malattia e il convalescente non va trattato da malato. Si eviti il termine di “malattia grave”, perché viene facilmente inteso come situazione di pericolo prossimo di morte. Si può accennare a “malattia grave” o, meglio ancora, a situazione di malattia.

Come i farmaci non vanno riservati alla fase estrema del malato, anche se può usufruirne anche allora, così l’Unzione dei malati non va rinviata alla fase ultima, anche se può essere rinnovata in quella situazione. Questo sacramento va ricevuto come aiuto per tutto il tempo della malattia.

Il sacramento dell’Unzione, come tale, può essere sempre rinnovato, ma, essendo un sacramento dato non per quella “giornata” del malato ma per la sua situazione di infermità, si rinnovi solamente dopo qualche mese o all’aggravarsi della malattia.

Nella Lettera di Giacomo si precisa: «Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati» (5,13-15). Il Rituale così esplicita il testo scritturistico: «Questo sacramento conferisce al malato la grazia dello Spirito Santo; tutto l’uomo ne riceve aiuto per la sua salvezza, si sente rinfrancato dalla fiducia in Dio e ottiene forze nuove contro le tentazioni del maligno e l’ansietà della morte; egli può così non solo sopportare validamente il male, ma anche combatterlo, e conseguire anche la salute, qualora ne derivasse un vantaggio per la sua salvezza spirituale; il sacramento dona inoltre, se necessario, il perdono dei peccati e porta a termine il cammino penitenziale del cristiano» (Rituale Sacramento dell’Unzione e cura pastorale degli infermi. Premesse n. 6. La precisazione del Rituale che il malato, con l’unzione, può «conseguire anche la salute, qualora ne derivasse un vantaggio per la sua salvezza spirituale» è stata meglio chiarita nel Catechismo della Chiesa Cattolica con questa frase più sintetica, ma più conforme alla misteriosa libertà di Dio: il malato può conseguire con l’unzione la salute, se tale è la volontà di Dio, n. 1520. Senza provocare false speranze, si precisi che con l’Unzione il Signore si rende sacramentalmente vicino al malato).

L’espressione più significativa del Rituale è che «tutto l’uomo ne riceve aiuto per la salvezza». Le modalità di questo aiuto anche psicologico e fisico, detto effetto taumaturgico, rientrano nella misteriosa libertà di Dio. L’eventuale ripresa fisica del malato non dipende dalla sua fede. Fede non è la pretesa del miracolo ma l’abbandono fiducioso in Dio, comunque si evolva la situazione. Le Unzioni comunitarie sono il metodo più efficace per superare la paura di questo sacramento, perché la liturgia, da sempre, costituisce la catechesi più immediata.

Le Unzioni comunitarie vanno preparate da una catechesi sul senso cristiano della sofferenza e della morte, sull’impegno della comunità ecclesiale verso i sofferenti, sia per la loro cura fisica sia per far riemergere in essi il coraggio della vita e il senso religioso, nel rispetto delle diverse concezioni religiose. Inoltre le Unzioni comunitarie servono per ringraziare i sofferenti del “servizio insostituibile” che offrono alla Chiesa (cf Giovanni Paolo II, Salvifici doloris, Lettera Apostolica sul senso cristiano della sofferenza umana dell’11.2.1984, n. 27). Essi costituiscono una testimonianza vissuta ai valori della vita e della fede, ossia alla possibilità di vita, di tensione alla salute-salvezza anche nelle situazioni umanamente più assurde e perfino ingiuste.

Guido Davanzo

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