COMMENTO ALLA REGOLA DI SANT’AGOSTINO – Agostino Trapè

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Tomba di Sant’Agostino, vescovo d’Ippona e dottore della Chiesa  nella Basilica di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia.

PARTE SECONDA LA REGOLA:

CONTENUTO DOTTRINALE

PREMESSA

La Regola agostiniana è breve – appena poche pagine – ma ricca di contenuto. I suoi precetti, non molti ma essenziali, danno alla vita religiosa un orientamento forte, sicuro, moderno. Non fissa un regolamento della giornata, ma lo suppone e ne impone l’osservanza; non descrive la lectio divina e lo studio, ma ne enuncia il principio; non parla del ministero sacerdotale, ma ne prepara e ne arricchisce l’azione attraverso l’organizzazione della vita in comune. Rivela una conoscenza profonda del cuore umano, e un’intuizione sicura delle esigenze più vere della vita consacrata. Moderazione e austerità, interiorità e ricerca del bene comune, amicizia schietta e ascesa costante verso Dio, autorità umile ed efficiente e fraternità sincera si fondono in essa per creare un equilibrio mirabile, quell’equilibrio sapienziale che è proprio, per dono di natura e di grazia, del Vescovo d’Ippona. Ne risulta un quadro spirituale che è insieme profondamente umano e autenticamente evangelico. L’idea-madre della Regola è la carità presentata come fine, mezzo e centro della vita religiosa. Il fine è indicato in quelle parole iniziali: Prima di tutto si ami Dio e quindi il prossimo (n. 1); il mezzo in quelle altre che vengono subito dopo: abbiate un’anima sola e un sol cuore protesi verso Dio (n. 3); il centro in quelle altre ancora: su tutte le cose di cui si serve la passeggera necessità, si elevi l’unica che permane: la carità (n. 31). Tutto il resto è considerato un presupposto o alimento o un motivo d’ispirazione. Presupposto sono i consigli evangelici che spianano la via al cammino della carità; alimento: la preghiera, la mortificazione, lo studio, il lavoro; motivo d’ispirazione: la bellezza eterna alla cui contemplazione il religioso si consacra, la fragranza della virtù di Cristo che il religioso vuol diffondere nel mondo, la libertà interiore che sente come fonte perenne di gaudio e di speranza. Vediamo un po’ più da vicino alcuni particolari di questo quadro meraviglioso, cominciando dai motivi che ne raccomandano l’osservanza.

 

Capitolo primo

I GRANDI MOTIVI D’ISPIRAZIONE

Per avere in mano la chiave che apra i segreti della Regola agostiniana, del suo grande equilibrio sapienziale, dei suoi alti ideali, della sua incomparabile fortuna, bisogna cominciare a leggerla dal fondo. Non è una battuta: è l’indicazione di chi l’ha scritta. Raccomandandone, infatti, verso la fine, la fedele osservanza, lo fa con parole altissime che svelano all’attento lettore i motivi universali e profondi del suo pensiero filosofico, teologico e mistico. Scrive: “Il Signore vi conceda di osservare queste norme con amore, come innamorati della bellezza spirituale ed esalanti dalla vostra santa convivenza il buon odore di Cristo, non come servi sotto la legge, ma come uomini liberi sotto la grazia” (n. 48). Da questa sintesi emergono quattro motivi, tutti fondamentali, o, se si vuole, quattro dimensioni della vita dello spirito nella comunità monastica:

1) il motivo dell’amore o dimensione affettiva. È infatti l’amore, forza segreta dell’animo, che rende possibile e gioiosa l’osservanza delle prescrizioni della Regola. Per esporre subito un profondo pensiero agostiniano riguardante l’amore, si può dire così: la vita consacrata e, molto più, la vita monastica si abbraccia per un più grande amore, esige l’esercizio d’un più grande amore, attende come premio un più grande amore.

2) il motivo della bellezza spirituale o dimensione contemplativa. La bellezza spirituale o è Dio o è il riflesso di Dio nelle creature. Agostino fu innamorato di questa bellezza, l’amò con tutte le fibre dell’animo, la cercò senza stancarsi, la pose nella Regola come meta della preghiera contemplativa, come risorsa delle ascensioni interiori, come sostegno del monaco nell’impegno ascetico.

3) il motivo del profumo di Cristo o dimensione apostolica. Se quello precedente poteva essere considerato un motivo prevalentemente filosofico – si sa quanto i filosofi neoplatonici, specialmente Plotino, abbiano scritto su la bellezza -, questo è nettamente cristologico e dipende da quel grande innamorato di Cristo che fu S. Paolo. Dio, dice l’Apostolo, … diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo intero. Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo… (2 Cor 2, 14-15). Agostino, che ereditò da S. Paolo l’amore appassionato a Cristo, ne riprende il tema e lo propone ai suoi religiosi perché diffondano dovunque nel mondo l’amore e l’imitazione di Cristo.

4) il motivo della libertà cristiana o dimensione carismatica. Questo motivo è proprio di colui che la tradizione ha chiamato dottore della grazia e perciò della libertà; dico della libertà cristiana che abbraccia tutta la vita e si estende nell’eternità. Anche questo motivo non poteva mancare nella Regola agostiniana. Pertanto, occorre leggerla e meditarla alla luce di questi grandi principi per scoprirne la ricchezza e la modernità che ne fanno una norma spirituale ammirata, amata, ricercata, ieri e oggi. Qui vorrei invitare il lettore, che si avvicina ad essa per la prima volta, ad approfondire un poco questi quattro motivi che gli permettono di entrare nel vivo della spiritualità monastica o più semplicemente religiosa quale la concepì, l’amò, la visse, l’organizzò e la difese il Vescovo d’Ippona.

1. …con amore

Il primo motivo è l’amore. Il Signore vi conceda di osservare queste norme con amore. Una sola parola; ma ricca di significati profondi e rivelatrice d’un panorama che abbraccia tutti i precetti della Regola. Questa parola infatti ha una portata metafisica, psicologica e spirituale immensa, che il Vescovo d’Ippona ha contribuito ad approfondire e a chiarire con grande intuito e passione. Si sa che egli ha scavato molto a fondo nell’anima umana per scoprire non solo la verità; ma, insieme alla verità e in conseguenza di essa, l’amore; l’amore che è la radice di ogni attività, il rapporto che ci lega inseparabilmente a Dio, la tensione profonda e la ricerca continua, insaziabile dell’eterno. Sarebbe veramente bello potersi soffermare su questi aspetti della filosofia dell’amore. Sarebbe bello, dico, parlare dell’amore che muove l’anima come il peso i corpi e la porta ovunque si porti 1; parlare delle passioni umane e delle virtù come modulazioni di un unico movimento, che è il movimento dell’amore 2; parlare della ricerca inconsapevole di Dio per cui ogni creatura capace d’amore, lo sappia o non lo sappia, ama Dio e lo cerca e lo invoca 3. Ma il discorso porterebbe lontano. Lasciando dunque da parte questi aspetti profondissimi ed altri ancora, della filosofia agostiniana dell’amore, accennerò a due proprietà singolari che l’amore possiede: 1) La prima è questa: l’amore rende leggere le cose pesanti e facili le cose difficili. S. Agostino lo ripete spesso con ricchezza di particolari. “Non sono affatto gravosi – scrive nel De bono viduitatis – i lavori degli amanti, ma sono anch’essi motivo di diletto; come appunto i lavori dei cacciatoti, degli uccellatori, dei pescatori, dei vendemmiatori, dei negozianti, degli sportivi. Quel che importa dunque è sapere ciò che si ama, perché quando una cosa la si fa per amore o non si sente la fatica o si ama di sentirla” 4. Ciò vale non solo per le cose buone o indifferenti, ma anche per le cose cattive. “Sappiamo – dice S. Agostino in un discorso al popolo – sappiamo quante cose faccia l’amore… quante asprezze gli uomini hanno sofferto, quante indegne e intollerabili cose hanno sopportato per ottenere ciò che amavano; sia che si tratti di amatori del denaro, cioè degli avari, o degli amatori di onori, che sono gli ambiziosi, o degli amatori dei corpi, che sono i lascivi. Ma chi può enumerare tutti gli amori? Considerate tuttavia quante fatiche fanno gli amanti, né sentono la fatica, anzi faticano di più quando qualcuno impedisce loro di faticare” 5. L’amore infatti è una forza che non può stare oziosa: deve agire, scuotere, trascinare 6. Quando perciò S. Agostino chiede a Dio che conceda ai suoi religiosi di osservare la Regola con amore, indica loro qual è il segreto dell’osservanza regolare, quel segreto che la rende possibile e gioiosa. Se poi prendiamo la parola amore come sinonimo di carità, tutto quello che abbiamo detto sulla sua forza travolgente non solo non viene meno, ma diventa più vero. La carità, quand’è vera, possiede tutte le risorse psicologiche dell’amore e possiede, inoltre, tutte le ricchezze dei doni di Dio tra i quali è il più prezioso e il più grande. La carità perciò è un amore più forte, più profondo, più invincibile di ogni altro amore, perché è opera dello Spirito Santo che la diffonde nei cuori. S. Paolo parla di larghezza, lunghezza, altezza e profondità della carità 7, e S. Agostino commenta: “larghezza, perché la carità si esercita in tutte le opere buone e la sua benevolenza si estende fino all’amore dei nemici; lunghezza perché in questo esercizio è longanime e sopporta tutte le molestie; altezza, perché per queste opere non spera un premio temporale, ma il premio eterno; profondità, perché è un dono della grazia che ci viene secondo il segreto, misterioso proposito del divino volere” 8. Dotata di queste dimensioni, la carità trasforma necessariamente in gioia tutto ciò che tocca, e imprime all’anima un dinamismo che non conosce ostacoli. 2) La seconda proprietà dell’amore, che qui voglio ricordare, è quest’altra: l’amore rende sempre nuove, e perciò sempre affascinanti, le cose abituali, le cose di ogni giorno. Quanto questa proprietà sia preziosa non occorre dirlo; particolarmente per chi, come il religioso, è portato dall’osservanza regolare a ripetere spesso e per tutta la vita gli stessi atti, le stesse formule, gli stessi esercizi. Si sa che l’abitudine, la noia, la stanchezza sono i nemici più insidiosi della vita religiosa, soprattutto della vita comune. S. Agostino mette in rilievo questa proprietà dell’amore proprio contro la noia; la noia da cui può essere mortalmente preso il catechista costretto a ripetere ai neofiti sempre le stesse verità elementari. Dice il Santo in sostanza: facciamo nostri con l’amore – un amore fraterno, paterno, materno – i sentimenti di questi neofiti, e sembreranno nuove anche a noi le cose che andiamo dicendo. “Non avviene di solito – continua – che, percorrendo spaziose e incantevoli località cittadine o campestri non proviamo più alcun lascino, perché già le abbiamo contemplate spesso? Eppure, mostrandole a chi non le ha mai viste, nel fascino nuovo che essi provano non si rinnova forse anche il nostro? E tanto più fortemente quanto più essi sono nostri amici, perché a misura che attraverso il vincolo dell’amore noi siamo in loro, quelle cose, che erano vecchie, diventano nuove anche per noi” 9. Pensiamo che questo possa e debba dirsi anche della vita in comune, e non solo per quelli che in essa esercitano l’ufficio di educatori. Comunicare agli altri le proprie esperienze, ascoltare le esperienze degli altri, costatare il progresso nella virtù di quelli che amiamo, osservare lo stupore e la gioia che provocano nell’animo di tanti giovani pratiche e dottrine per noi abituali, aiutarli con il consiglio e l’esempio a scoprire le ricchezze della vita interiore, sono mezzi efficacissimi per rendere sempre nuove, e perciò affascinanti, le cose che per la forza dell’abitudine tendono a non esserlo più. Pensiamo che sia proprio questo uno dei frutti migliori della vita comune. Ma a consolazione di chi questi mezzi nella comunità in cui vive o non li trova o non sa usarli – le due ipotesi sono ambedue possibili – dirò che v’è un’altra ragione che spiega la proprietà dell’amore di cui stiamo parlando, che è questa: l’amore è fonte perenne di conoscenza, sia perché spinge l’intelligenza a fissarsi nelle cose amate, sia perché dà alla conoscenza un valore e un sapore sperimentale che la conoscenza puramente nozionale non ha. “Non si può infatti amare ciò che s’ignora del tutto. Ma quando si ama ciò che in qualche modo si conosce, in virtù di questo amore si riesce a conoscerlo e più profondamente” 10. Ora è proprio questa progressiva scoperta delle ricchezze delle cose spirituali – il significato, il valore, l’importanza – che le rende sempre nuove al nostro sguardo, e perciò oggetto perenne di stupore, di contemplazione, di gioia.

2. …innamorati della bellezza spirituale

Al motivo metafisico e psicologico dell’amore si aggiunge quello mistico della contemplazione. Non poteva mancare nella Regola una visibile traccia di quella che fu la passione più profonda e più costante dell’animo agostiniano: la contemplazione della divina bellezza. “Il Signore vi conceda di osservare queste norme… come innamorati della bellezza spirituale”. La bellezza spirituale è la bellezza della sapienza, la bellezza di Dio. S. Agostino ne fu perdutamente invaghito fin dall’età di 19 anni. L’amore della sapienza divenne spontaneamente amore della bellezza. La prima questione infatti che lo occupò come scrittore, a 25 anni, fu proprio questa: la bellezza. Noi non amiamo che il bello, diceva ai suoi amici, e nulla ci attrae e ci avvince agli oggetti del nostro amore se non la convenienza e la bellezza, perché se ne fossero privi non ci attirerebbero affatto 11. Quando poi a 32 anni scoperse il volto autentico della sapienza, cioè la natura di Dio, che è luce intellettuale piena d’amore, la passione per la bellezza divenne amore di Dio. “… mi si mostrò – scrive all’amico Romaniano – il volto della filosofia con piena evidenza. Magari avessi potuto mostrarlo, non dico a te che ne hai avuto sempre fame, ma a quel tuo avversario… Anch’egli subito disprezzando e abbandonando le piscine circondate di palme e gli ameni frutteti e i delicati e sontuosi banchetti e i buffoni domestici ed infine quanto suscita in lui l’acre desiderio del piacere, convertitosi in amante tenero e rispettoso, volerebbe ammirato, bramoso e appassionato verso la bellezza di quel volto” 12. Da quel momento Dio fu per Agostino non solo Verità, Eternità, Amore, ma anche Bellezza, anzi il “Padre della Bellezza” 13, “la bellezza di ogni bellezza” 14, “fondamento, principio e ordinatore per cui sono belle tutte le cose che sono belle” 15. Da quel momento il rimpianto cocente di aver amato troppo tardi questa bellezza ineffabile, rimpianto espresso nelle Confessioni con le note commoventi parole: “Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai” 16. Da quel momento l’abitudine di salire a Dio attraverso la bellezza delle cose: sia delle cose corporee – la bellezza dell’universo proclama infatti Dio creatore, e lo loda e a lui richiama il nostro pensiero 17-; sia delle cose artistiche, poiché “tutte le cose belle, che attraverso l’anima passano nelle mani dell’artista, provengono da quella bellezza che sovrasta le anime e a cui giorno e notte l’anima mia sospira” 18, sia dalla storia umana, che scorre come un amplissimo carme modulato da una mano ineffabile che ci richiama alla contemplazione della bellezza di Dio 19, sia dell’anima nostra, in cui risiede la vera bellezza 20, che consiste nella natura stessa dell’anima fatta ad immagine di Dio 21, e nella virtù che essa coltiva, poiché la vera e la somma bellezza è la giustizia 22 o, come dice altrove lo stesso Dottore, la fede e la carità. L’anima diventa bella, amando Dio, che è bello; e quanto più cresce nell’amore tanto più cresce nella bellezza; poiché l’amore stesso, cioè la carità, è la bellezza dell’anima 23. Da questa abitudine nasce quell’insistente richiamo di S. Agostino a non fermarsi all’universo sensibile, né all’arte, né alla storia, né all’animo umano; ma a trascendere tutto per salire alla fonte stessa della bellezza, per salire a Dio. Molti purtroppo sanno trarre da questa bellezza la misura per approvare le cose belle – infatti le approvano e le amano, mentre non potrebbero farlo se non avessero in sé la norma per giudicarle – ma non vi traggono la misura per goderne, perché nessuno può godere rettamente delle cose belle, se non ama prima di tutto la Bellezza e non si serve di loro per salire ad essa e possederla 24. Quante volte S. Agostino abbia percorso questo itinerario non è possibile dirlo. Possiamo dire però che questo era il suo più profondo desiderio 25, che si applicava ad esso ogni volta che glielo consentivano gli obblighi del ministero pastorale 26, che il Signore premiava spesso questo suo impegno e questa sua fedeltà con i doni straordinari della contemplazione infusa. “Spesso faccio questo, leggiamo nelle Confessioni, è la mia gioia, e in questo diletto mi rifugio, allorché posso liberarmi dalla stretta delle occupazioni. Ma fra tutte le cose che passo in rassegna consultando te, non trovo un luogo sicuro per la mia anima, se non in te. Soltanto lì si raccolgono tutte le mie dissipazioni, e nulla di mio si stacca da te. Talvolta m’introduci in un sentimento interiore del tutto sconosciuto e indefinibilmente dolce, che qualora raggiunga dentro di me la sua pienezza, sarà non so cosa, che non sarà questa vita” 27. Bisogna dunque concludere che l’estasi di Ostia, così mirabilmente descritta nel libro 9° delle Confessioni, non è un caso isolato 28. Del resto l’insistenza di S. Agostino sul tema dell’interiorità è anche un richiamo alla contemplazione. Si sa che l’interiorità agostiniana è una dottrina profonda e vastissima che comprende almeno quattro aspetti essenziali: filosofico, pedagogico, ascetico e mistico. La Regola, richiamandoci al desiderio della bellezza spirituale, ci richiama a questi ultimi due. Occorre infatti abituarsi a vivere gioiosamente in se stessi – ciò che non si ottiene se non attraverso un impegnativo sforzo ascetico – per salire, poi, attraverso la meditazione contemplativa, dall’anima nostra a Dio e fissare in lui lo sguardo della mente. La vita religiosa impegnandoci in questo sforzo ascetico ci prepara, per sua natura, alla contemplazione, che rappresenta, anche nei suoi gradi iniziali, un frutto e un nutrimento preziosis-simo nella carità. Nelle sue forme più alte essa è un dono tanto straordinario, che possiamo umilmente chie-dere, anche se non possiamo meritare. Fortificata da questo dono, l’anima “seguendo una certa dolcezza, una non so quale nascosta ed interiore delizia, come se dalla casa di Dio risuonasse soavemente un organo… astraendosi da ogni rumore della carne e del sangue, giunge fino alla casa di Dio… dove eterna è la festa, dove ciò che si celebra non passa” 29. Dobbiamo aggiungere infine che S. Agostino era abituato a salire a Dio dalle bellezze di un’altra creatura, che, per essere unita ipostaticamente al Verbo, è piena di grazia e di verità, e perciò di bellezza inenarrabile: l’umanità sacrosanta di Cristo. Per gli occhi della fede tutto è bello in Cristo uomo: la nascita, la passione, la morte. Perché tutto è opera dell’amore. “Cristo ha trovato in noi molte cose brutte, dice S. Agostino ai fedeli di Cartagine, eppure ci ha amati: se noi troveremo qualcosa di brutto in lui, facciamo a meno di amarlo… Ma per chi capisce, anche il Verbo fatto carne è tutto bellezza… Bello come Dio… bello nel seno della Vergine… Dunque, bello nel cielo, bello qui in terra, bello nel seno (di sua madre), bello nelle mani dei parenti, bello mentre fa miracoli, bello mentre subisce i flagelli, bello quando invita alla vita, bello quando disprezza la morte, bello quando depone l’anima, bello quando la riprende, bello nella croce, bello nel sepolcro, bello in cielo… L’infermità della sua carne non distolga i vostri occhi dallo splendore della sua bellezza” 30. Abbiamo ricordato sopra che S. Agostino esorta esplicitamente le vergini a contemplare la bellezza di Cristo, loro sposo. Vale la pena di riportare qui il testo intero. “Considerate la bellezza di colui che amate. Pensatelo uguale al Padre e obbediente anche alla madre; Signore del cielo e servo qui in terra; Creatore di tutte le cose e creato come una di esse. Contemplate quanto sia bello in lui anche quello che i superbi scherniscono. Con occhio interiore mirate le piaghe del crocifisso, le cicatrici del risorto, il sangue del morente, il prezzo versato per il credente, lo scambio effettuato dal redentore. Pensate al valore di tutte queste cose e ponetelo sulla bilancia dell’amore” 31.

3. …esalanti il buon odore di Cristo

Al motivo della contemplazione, a cui la vita religiosa ci prepara e ci sprona, S. Agostino aggiunge il motivo, che non poteva mancare, dell’apostolato. Lo esprime con le parole di S. Paolo: siamo il buon odore di Cristo in ogni luogo 32, parole che valgono per tutti i fedeli – e S. Agostino lo sa 33 – ma che la Regola applica opportunamente alla vita religiosa. “Il Signore vi conceda di osservare queste norme… come… esalanti dalla vostra santa convivenza il buon odore di Cristo” 34. È il motivo cristologico della spiritualità della Regola, un motivo profondo, essenziale, che nasce in S. Agostino dall’esperienza e dalla lunga meditazione del Vangelo. Penso che il lettore non ignori quale posto occupasse la sacra persona di Cristo nella vita e nel pensiero del Vescovo d’Ippona. Se ha letto le pagine delle Confessioni sul nome di Gesù bevuto col latte materno 35, nella scoperta di Cristo Redentore degli uomini e Mediatore di salvezza 36, sul comando di S. Paolo di rivestirsi di Gesù Cristo 37, sull’adesione a Lui, sacerdote e sacrificio, e perciò fonte della nostra fiducia 38, non potrà dimenticarle facilmente, tanto è grande la carica di affetto che egli vi ha infuso. In quanto al pensiero divino, che la teologia, la pietà e la storia trovano per S. Agostino una sola spiegazione, un solo nome che le illumini: il nome di Cristo. L’accenno dunque della Regola non è occasionale, non è indifferente: è invece l’espressione, sia pure brevissima, d’una pietà profonda, d’una dottrina vastissima, d’una spiritualità che ha in Cristo l’alfa e l’omega. Occorre osservare poi che l’accenno della Regola si riferisce direttamente all’apostolato e, cosa non meno significativa, all’apostolato comunitario. Vuole cioè che la comunità religiosa sia tale che renda testimonianza a Cristo, ne diffonda la fragranza delle virtù, ne confermi con opere la dottrina, ne glorifichi il nome. Si tratta, come si vede, dell’apostolato cristiano più importante, quello della santità, che è apostolato di carità, di sofferenza, di gioia, e poi ancora, come risultanza di questo, apostolato di parola e di azione. La Regola vuole perciò che la comunità, vivendo in mezzo al popolo di Dio e con il popolo di Dio, sia un centro di alta spiritualità cristiana, e sia conosciuta come tale. Ricordiamo la posizione dei monaci di Cartagine: “Così, dicevano, ci comportiamo anche noi: attendiamo alla lettura in compagnia dei fratelli che vengono a noi stanchi delle agitazioni della vita mondana, per trovare, fra noi, la quiete nello studio della parola di Dio, nella preghiera, nel canto dei salmi, inni o cantici spirituali. Ci apriamo con loro, li consoliamo, li esortiamo al bene, costruendo in essi, cioè nella loro condotta, quanto a nostro avviso ancora vi manca, avuta considerazione dello stato in cui si trovano” 39. Questa posizione non era sbagliata per ciò che affermava, ma per ciò che escludeva. Escludeva infatti dalle occupazioni del monachesimo il lavoro manuale. Contro questo esclusivismo, che costituiva una disobbedienza al Vangelo e una causa d’inganno e di scandalo per i fedeli, si rivolse S. Agostino. È dunque necessario che ogni comunità, se in essa Cristo è veramente amato, sia una comunità “esemplare”. Questa esemplarità nasce, come si sa, dalla carità, dall’osservanza regolare, dalla disponibilità al servizio della Chiesa, che è il Corpo di Cristo. Dalla carità, poi, nasce l’imitazione. “Se amiamo veramente, imitiamo: non possiamo rendere un frutto migliore dell’amore che mostrando l’esempio dell’imitazione” 40. Per questo S. Agostino esorta particolarmente le vergini consacrate a salire su su per i gradi delle beatitudini, imitando in ciascuno di essi le corrispondenti virtù di Cristo. “Beati i poveri di spirito! Imitate colui che, essendo ricco, si è fatto povero per voi 41. Beati i miti! Imitate colui che disse: Imparate da me, perché sono mite ed umile di cuore 42. Beati coloro che piango-no! 43 Imitate colui che pianse sopra Gerusalemme. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia! Imitate colui che disse: Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato 44. Beati i misericordiosi! Imitate colui che prestò soccorso all’uomo ferito dai briganti e abbandonato ai margini della strada mezzo morto, in condizioni disperate 45. Beati i puri di cuore! Imitate colui che non commise peccato e sulla cui bocca non si è trovato inganno 46. Beati i pacifici! Imitate colui che pregò per i suoi carnefici: Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno 47. Beati i perseguitati per amore della giustizia! Imitate colui che patì per voi, lasciandovi un esempio affinche ne seguiate le orme 48. Coloro che imitano l’Agnello in queste virtù, in queste stesse ne seguono le orme” 49. Le vergini consacrate, inoltre, seguono, cioè imitano l’Agnello nello splendore della verginità. “Voi dunque – dice loro S. Agostino – seguite l’Agnello conservando con perseveranza ciò che avete consacrato a Lui con ardore” 50. Come frutto di questa assidua e perseverante imitazione di Cristo, si sprigiona dalla comunità religiosa quella fragranza spirituale che, diffondendosi nella Chiesa e nel mondo, ne manifesta la presenza e la divinità. Questo è il primo e principale apostolato di ogni comunità religiosa, sia essa consacrata esclusivamente alla contemplazione, come le Monache di clausura, sia essa consacrata, anche, all’attività ministeriale o caritativa. E non si tratta di un apostolato di comodo, ma di rottura. S. Paolo lo ricorda nelle parole alle quali la Regola si riferisce – siamo il buon odore di Cristo tra coloro che si salvano e tra coloro che si perdono: per gli uni odore di morte… per gli altri odore di vita… 51 e S. Agostino lo commenta spesso, mostrandone il misterioso significato 52. “La parola della croce infatti è stoltezza per coloro che se ne vanno in perdizione, ma per noi, che siamo nella via della salvezza, è la forza di Dio” 53. Per questo S. Paolo non cessava di predicare Cristo crocifisso, anche se la sua predicazione era “uno scandalo per i Giudei, una stoltezza per i Gentili” 54. Lo stesso fece S. Agostino. La lunga e sofferta polemica contro i Pelagiani non ebbe altro scopo che questo: impedire che la forza della croce di Cristo fosse svuotata della sua sostanza e della sua efficacia; ut non evacuetur crux Christi 55. Per questo le sue parole destarono scandalo, e qua e là lo destano ancora. Inutile mettere in luce il carattere decisamente moderno delle brevi parole della Regola che abbiamo brevemente commentato: il lettore se ne è accorto da sé. Oggi si parla molto, e giustamente, di testimonianza, ma è proprio la testimonianza in favore di Cristo che S. Agostino chiede alle sue comunità, una testimonianza individuale e collettiva. Oggi si parla molto e, ripetiamo ancora, giustamente, di autenticità, ma è proprio l’autenticità un’esigenza fondamentale della dottrina agostiniana in genere e della Regola in particolare. Il cristiano non è autentico se non è santo, ed è santo solo se è autentico. Autentico vuol dire sincero, convinto, conseguente, vero. Soprattutto vero. Autenticità e verità coincidono. Che cos’è infatti la verità se non l’armonia tra ciò che una cosa è e ciò che deve essere, cioè tra il nome e la realtà? Non per nulla S. Agostino ripete a ciascuno dei suoi religiosi, se non con queste parole, certo in questo senso: sii uomo; sii cristiano; sii servo di Dio; sii, se lo sei, sacerdote; sii te stesso. Sii te stesso; ma nell’ambito della dignità cristiana, perché la nostra personalità non può essere altro che la personalità di Cristo, né altra può essere la nostra libertà, se non quella che ci viene da Cristo. Con questa conclusione il discorso si riannoda al quarto motivo che S. Agostino mette in campo per indurre i suoi figli spirituali ad osservare con diligenza e amore le prescrizioni della Regola.

4. …uomini liberi sotto la grazia

“Il Signore vi conceda di osservare queste norme con amore… non come servi sotto la legge, ma come uomini liberi sotto la grazia” 56. Con queste parole la Regola riprende un tema caro a S. Paolo, caro più tardi a S. Agostino, caro in ogni tempo ad ogni anima nobile e generosa, che sente l’anelito per la libertà. Libertà va cercando, ch’è sì cara (Dante, Purg. 1, 71). È un tema eminentemente moderno. Lo sentono particolarmente i giovani, anche se qualche volta lo interpretano male. Non fa meraviglia: il tema della libertà è il più sentito, ma è anche quello che si presta più facilmente alla confusione e all’inganno. I termini sostanzialmente sono quelli antichi: libertà e dovere, ma la soluzione non è sempre la stessa. Spesso per difendere la libertà si crede necessario negare la legge, o almeno negare che la legge costituisca una norma obbligante. S. Paolo invece ha proclamato con grande forza la vocazione cristiana alla libertà 57, ma non per togliere di mezzo la legge – intendiamo la legge evangelica – bensì per rivelare il segreto che ci fa sentire la legge come un bisogno, non come un peso; come aiuto, non come un ostacolo; come una spinta, non come un freno. Questo segreto è la fede che opera per mezzo dell’amore 58, è la carità che lo Spirito Santo diffonde nei nostri cuori 59. Infatti non abbiamo ricevuto lo spirito di schiavitù per ricadere ancora nel timore, ma abbiamo ricevuto lo spirito di adozione filiale per il quale esclamiamo: Abba, o Padre! 60. Da questa grande verità nascono due luminose conclusioni, una sulla libertà, l’altra sulla legge, che l’Apostolo esprime così: dove è lo spirito del Signore ivi è la libertà 61, … la legge non è fatta per l’uomo giusto 62. S. Agostino ha sviluppato questa dottrina di S. Paolo particolarmente nel suo libro De spiritu et littera, un libro utilissimo, indispensabile per intendere la dottrina agostiniana sulla grazia. Vi si parla dell’osservanza servile della legge, e dell’osservanza liberale: la prima nasce dal timore che sente la legge come un’imposizione e come un freno, e quindi come minaccia di castigo; la seconda invece nasce dall’amore ed è fonte di gioia e di libertà 63. Ecco un commento alle parole della Lettera ai Romani: Siamo stati giustificati gratuitamente per mezzo della grazia di Cristo 64. “Non già – dice il Santo – che ciò avvenga senza la nostra volontà, ma la legge dimostra che la nostra volontà è debole, affinché la grazia la guarisca; e la volontà, guarita dalla grazia, osservi la legge, non più costituita sotto la legge, né più bisognosa della legge” 65. Non più costituita sotto la legge, perché l’uomo giusto non è sotto la legge, ma nel cuore stesso della legge, in quanto la porta scolpita nel cuore e la osserva con amore; non più bisognosa della legge, perché l’uomo giusto ha raggiunto la santità e la dirittura morale, ed è diventato perciò norma a se stesso. Non si sente più servo, anche se serve, perché non è servo della legge, ma è servo di Dio. E Dio è amore. Coloro dunque che sentono il peso della legge – ammonisce S. Agostino – imparino a sentir la fame e la sete della giustizia e da servi si trasformeranno in figli. Con questo non cesseranno di essere servi: serviranno ancora, ma come figli; serviranno il Signore e il Padre liberamente 66. Ne segue che saremo liberi solo a condizione di essere servi: liberi dal peccato, servi della giustizia 67. È l’amore della giustizia o, come dice S. Agostino, la soave liberalità dell’amore per la giustizia che ci rende cristianamente liberi. Di questa inestimabile libertà il Vescovo d’Ippona fu difensore e cantore insieme. La libertà vera, quella che Cristo ci ha promesso e ci ha procurato – Se il Figlio vi libererà sarete veramente liberi 68 – consiste nell’essere spiritualmente sani 69. L’uomo perciò è tanto più libero quanto più è sano spiritualmente, ed è tanto più sano quanto più è soggetto alla grazia 70. Vale la pena di citare un altro testo agostiniano che dimostra quale vasta e profonda dottrina si nasconda nelle brevi parole della Regola che abbiamo citato. Dice dunque S. Agostino: “Forse rendiamo vano il libero arbitrio predicando la grazia? Niente affatto. Ma piuttosto lo rafforziamo. Come non si rende vana la legge per mezzo della fede, ma si rafforza, così è del libero arbitrio per mezzo della grazia. Infatti la legge si osserva solo col libero arbitrio, ma, per mezzo della legge si ha la cognizione del peccato, per mezzo della fede s’impetra la grazia contro il peccato, per mezzo della grazia la sanità dell’anima dalla malattia del peccato, per mezzo della sanità dell’anima la libertà della volontà, per mezzo della libera volontà l’amore della giustizia, per mezzo dell’amore della giustizia il compimento della legge. Perciò come la legge non è resa vana ma rafforzata dalla fede, perché la fede impetra la grazia con cui si adempie la legge, così il libero arbitrio non è reso vano, ma è rafforzato dalla grazia, perché la grazia sana la volontà e la volontà sanata ami liberamente la giustizia” 71. Verso questa méta sublime della libertà cristiana, che dà tanto valore all’osservanza della vita comune, e la rende facile e gioiosa, la Regola vuol sospingere ciascun religioso. Per questo gli ricorda l’opposizione che corre tra la schiavitù della legge e la libertà della grazia.

Capitolo secondo

CARITÀ E AMICIZIA

Sono i due pilastri della concezione spirituale, ecclesiale e monastica del Vescovo d’Ippona. Per scoprire la portata, la bellezza e la fecondità di questa concezione occorre studiarli insieme. Un errore sulla loro valutazione e sulle relazioni mutue potrebbe essere gravemente dannoso. Occorre evitarlo. 1. Carità Quanto il Vescovo d’Ippona abbia parlato dell’amore e con quale acume psicologico si è detto sopra sia pure per sommi capi. Più lungamente e più profondamente ha parlato dell’amore che lo Spirito Santo diffonde nei nostri cuori, cioè della carità. Per riassumere il suo vasto pensiero vorrei servirmi delle parole con cui l’ho fatto altrove 72. “La carità di Dio e del prossimo è il contenuto di tutte le Scritture 73, la sintesi della filosofia 74, il fine della teologia 75, l’anima della pedagogia 76, il segreto della politica 77, l’essenza e la misura della perfezione cristiana 78, la somma di ogni virtù, l’ispirazione della grazia 79, il dono da cui derivano tutti i doni dello Spirito Santo 80, la regola che distingue le opere buone da quelle cattive 81, la realtà con la quale nessuno può essere cattivo 82, il bene in cui si possiedono tutti i beni e senza il quale gli altri non giovano a nulla (Abbi la carità e avrai tutto, perché senza di essa a nulla giova tutto ciò che potrai avere) 83, la caparra o il principio della vita eterna 84. È in questo contesto che si deve intendere il celebre aforisma agostiniano: Ama e fa’ ciò che vuoi 85″. Se si volesse continuare, si potrebbe; soprattutto rilevando le proprietà di questo dono divino che il nostro dottore non cessa di approfondire. Eccole in sintesi: “l’inesauribile dinamismo, l’intransigente radicalità, il totale disinteresse, la forza progressiva dell’assimilazione, l’inseparabile compagnia dell’umiltà e in ultimo, ma non meno importante, la soprannaturalità” 86. Ma non è un trattato sulla carità che voglio scrivere, anche se sarebbe bello, utile e consolante scriverlo. Mi limito pertanto a riportare qualche brano di un discorso di S. Agostino sulla carità. “La carità – dice al suo popolo – con la quale amiamo Dio e il prossimo, possiede sicura tutta la grandezza e tutta l’ampiezza degli eloqui divini… se dunque non hai tempo di scrutare tutte le pagine sante, di svolgere tutti gli involucri della (divina) parola, di penetrare tutti i segreti della Scrittura, abbi la carità da cui tutto dipende; così possederai ciò che hai imparato nella Scrittura e ciò che ancora non hai imparato… In ciò che intendi della Scrittura, è la carità che ti si manifesta, in ciò che non intendi è la carità che resta occulta. Dunque chi possiede la carità nei costumi, questi possiede ciò che è aperto e ciò che è occulto nella parola divina. Perciò, fratelli, seguite sempre la carità, dolce e salutare vincolo delle anime, senza la quale il ricco è povero e con la quale il povero è ricco. La carità nelle avversità è tollerante, nella prosperità è temperante, nelle dure sofferenze è forte, nelle opere buone è ilare, nella tentazione è sicura, nell’ospitalità è larga, tra i veri fratelli è lieta, tra i falsi è paziente … “. Ricorda poi S. Agostino l’esempio dei santi del Vecchio e del Nuovo Testamento, le cui virtù, tanto diverse tra loro, non furono che modulazione dell’unica virtù della carità, cita le parole di S. Paolo nella lettera ai Corinti, della quale egli, Agostino, non potrebbe dire nulla di meglio, e continua: “Ma questa carità quanto è grande? Anima delle Scritture, forza delle profezie, salute dei sacramenti, base solida della scienza, frutto della fede, ricchezza dei poveri, vita dei morenti. Che c’è di tanto magnanime quanto il morire per gli empi? Che di tanto benigno quanto l’amare i nemici? Solo la carità non si duole della felicità altrui, perché non è invidiosa; solo la carità non si esalta per la felicità propria, perché non è gonfia dell’orgoglio; solo la carità non sente il rimorso della cattiva coscienza, perché non opera il male. Tra le ingiurie è sicura, tra gli odi benefica, tra le ire placida, tra le insidie difesa dalla sua innocenza, tra le iniquità geme, nella verità respira. Che cosa di più forte della carità non per ripagare, ma per curare le ingiurie? Che cosa di più fedele non verso le vanità (della terra), ma verso le cose eterne (del cielo)?” 87. La citazione è lunga, ma meritava d’essere riportata come premessa del posto che occupa la carità nella concezione monastica del Vescovo d’Ippona. Questa sublime virtù, la sola che sia eterna con Dio, essendo l’anima e il cuore della vita cristiana, diventa per sua natura nel pensiero agostiniano – l’ho già accennato -, il fine, il mezzo e il centro della vita comune. La Regola v’insiste in tutte le sue pagine. Comanda fin dall’inizio: “La prima cosa per la quale vi siete insieme riuniti è che viviate unanimi nella casa e che abbiate un sol cuore e un’anima sola protesi verso Dio” (n. 3). Vediamo di scandagliarne il pensiero. 1) Carità e unità Questo primo precetto contiene in nuce tutte le prescrizioni che seguono. In esso S. Agostino ha espresso la sua persuasione più profonda e la sua esperienza più cara. In realtà, egli era innamorato di queste parole degli Atti degli Apostoli, e quindi del santo proposito che porta i fratelli ad unirsi insieme per viverle con pienezza. Il Dottore della carità, sapeva molto bene che il proposito di abitare insieme in santa concordia ha per sorgente la carità, per fine la carità, per esercizio quotidiano la carità. È interessante infatti notare che quando cita questo testo degli Atti – e lo cita molto spesso – vi aggiunge sempre il richiamo alla carità, cioè alla virtù che unisce ciò che la natura divide, che raccoglie ciò che il peccato disperde, che fa di molti individui, diversi e lontani, un sol corpo e una sola persona. Sarebbe troppo citarne tutti i passi. Eccone alcuni. ” … vivendo concordemente nella carità cristiana… avevano un sol cuore ed un’anima sola in Dio” 88. ” … avevano una sola anima e un sol cuore fusi nel fuoco della carità” 89. ” … erano come legni secchi che ardevano nella chiesa di Gerusalemme per il fuoco dello Spirito Santo quando avevano un solo cuore ed un’anima sola protesi verso Dio” 90. Proprio così. La concordia fraterna non è frutto di coincidenza di interessi o di uguaglianza di sentimenti o di simpatia naturale, ma è frutto della carità con cui amiamo Dio e, per amore di Dio, il prossimo. “Non abitano insieme, afferma categoricamente S. Agostino, non abitano insieme (nella concordia) se non coloro nei quali la carità di Cristo è perfetta. Quelli invece nei quali la carità di Cristo non è perfetta, anche quando stanno insieme, sono odiosi, molesti, turbolenti; e con la loro inquietudine disturbano gli altri… simili a un giumento inquieto sotto il giogo, il quale non solo non tira, ma tormenta anche, con calci, il compagno” 91. Così è: mentre il dissenso produce le divisioni “la carità produce l’accordo, l’accordo genera l’unità, l’unità mantiene la carità, la carità conduce alla gloria” 92. Da questo accordo, che genera l’unità, proviene il nome di monaco. “Monos, spiega S. Agostino, vuol dire uno, ma non uno in qualsiasi modo; poiché anche nella massa uno è uno, ma, essendo egli insieme a molti, si può dire che è uno, ma non si può dire che è solo, cioè monos: monos infatti significa uno solo. Dunque coloro che vivono insieme in modo da formare un solo uomo, in modo che di loro si possa dire ciò che è scritto: avevano un’anima sola e un cuore solo; che sono cioè molti corpi, ma non molte anime, molti corpi, ma non molti cuori, giustamente si possono dire monos, cioè uno solo” 93. Frutto dunque della carità è la concordia, frutto della concordia l’unità, frutto dell’unità la gioia. Ecce quam bonum et quam iucundum, esclama il salmista, habitare fratres in unum. S. Agostino osserva che questa voce di esultanza ha riempito i monasteri. “Queste parole del salterio, dice al suo popolo, questo dolce suono, questa soave melodia – è soave nel canto ed è soave nell’intelligenza – ha generato anche i monasteri. Risuonò per tutta la terra, e quelli che erano divisi si sono riuniti”. “Per primi abitarono insieme quelli che (a Gerusalemme) vendevano tutto ciò che avevano e ne davano il Prezzo agli Apostoli, come si legge negli Atti degli Apostoli”. “Dunque loro furono i primi ad ascoltare (queste parole): Ecco com’è bello, come giocondo, il convivere di tanti fratelli insieme: i primi ma non i soli. Infatti non giunse solo a loro quest’amore e questa unità dei fratelli: questa carità esultante giunse anche ai posteri … ” 94. Ma per gustare la gioia di vivere insieme e di sentirsi fratelli, occorre prima di tutto che l’amore possegga tre prerogative essenziali: una spinta costante verso Dio, una coscienza viva della presenza di Dio nella comunità, un senso profondo della Chiesa. 2) In Deum Abbiate un’anima sola e un cuore solo in Dio, o più precisamente, protesi verso Dio, in Deum. Quest’aggiunta al testo biblico, è propria di S. Agostino: non c’è nella Scrittura, non c’è nei santi Padri prima di lui. Ed è molto significativa. Essa esprime il dinamismo profondo della carità, la ragione ultima della vita comune. Cuori protesi verso la ricerca di Dio e perciò uniti fra loro in una santa comunione di vita che è unità nella varietà. L’agostiniano quaerere Deum trova qui la sua applicazione più piena. “Perché, si chiede S. Agostino nei Soliloqui, desideri che le persone a te care vivano insieme a te?”. Ecco la risposta: “Affinché possiamo occuparci insieme, concordemente, nella ricerca di ciò che riguarda le nostre anime e Dio. Di tal maniera che colui che avrà trovato per primo potrà condurre gli altri, senza fatica, allo stesso risultato” 95. L’anima e Dio: le due sole cose che S. Agostino desiderava sommamente di conoscere 96, per scoprire sempre più ciò che Dio è per l’anima e ciò che l’anima è per Iddio e orientare così, di conseguenza, la vita. La ricerca di Dio significa dunque per il Vescovo d’Ippona molto di più della fredda indagine filosofica; significa fede, amore, culto, servizio di Dio; desiderio, tensione, ascesa, contemplazione; progressivo avanzamento nella somiglianza della SS. Trinità. Si capisce allora che coloro i quali sentono nel cuore questo fuoco di carità, che è dono dello Spirito Santo, imprimono alla vita un movimento che li porta ad unirsi e li solleva in alto. “Il tuo dono – scrive S. Agostino in un celebre passo delle Confessioni – il tuo dono (Signore) ci accende e ci porta verso l’alto. Noi ardiamo e ci muoviamo. Saliamo la salita del cuore cantando il cantico dei gradini. Del tuo fuoco, del tuo buon fuoco ardiamo e ci muoviamo, salendo verso la pace di Gerusalemme” 97. Si attua così nel monastero in modo eminente quel che dice lo stesso Santo in un altro luogo: “Se amate Dio, trascinate all’amore di Dio i vostri congiunti e tutti coloro che sono nella vostra casa… rapiteli a godere di Dio; dite loro: magnificate il Signore con me… Rapitene quanti più ne potete, esortando, sospingendo, pregando, discutendo, dando spiegazioni, con mansuetudine, con dolcezza; rapiteli all’amore, affinché se magnificano il Signore, lo magnifichino insieme nell’unità” 98. Quell’in Deum non è dunque un’aggiunta al testo biblico messa lì per caso, ma è, invece, sommamente ricco di significato: contiene infatti tutte le ricchezze dell’amore di S. Agostino per la sapienza e rivela la prima grande sorgente da cui scaturisce l’unitas caritatis. 3) La presenza di Dio nei fratelli La prima sorgente, non l’unica. Insieme alla dimensione verticale che va verso Dio, la carità deve possedere la dimensione orizzontale che investe e abbraccia i fratelli. S. Agostino portò nella vita comune tutta la carica umana dell’amicizia. Sappiamo quale eco avesse nel suo animo questa cara e soave parola. Amicizia vuoi dire comunione, gioia, arricchimento: comunione di vita, gioia di dare e di ricevere, arricchimento di sapienza e di grazia. Nasce infatti dall’amore di un bene superiore e comune, che è la Verità – nessuno può essere amico di un altro se prima di tutto non lo è della Verità, sentenzia Agostino 99 -; suppone la stima, la fiducia, la benevolenza, il rispetto, la fedeltà; e richiede per mantenersi e crescere, molte cose: la presenza dell’amico, l’assenza dell’invidia, i frequenti colloqui, l’unità degli intenti, la cooperazione generosa, la scienza del chiedere e del concedere il perdono, ecc. Agostino ne descrive le manifestazioni con queste memorande parole: “I colloqui, le risa in compagnia, lo scambio di cortesie affettuose, le comuni letture di libri ameni, i comuni passatempi ora frivoli ora decorosi, i dissensi occasionali, senza rancore, come di ogni uomo con se stesso, e i più frequenti consensi, insaporiti dai medesimi, rarissimi dissensi; l’essere ognuno dell’altro ora maestro, ora discepolo, la nostalgia impaziente di chi è lontano, le accoglienze festose di chi ritorna. Questi e altri simili segni di cuori innamorati l’uno dell’altro, espressi dalla bocca, dalla lingua, dagli occhi e da mille gesti gradevolissimi, sono l’esca, direi, della fiamma che fonde insieme le anime e di molte ne fa una sola” 100. Ma nel monastero l’amicizia non è solo questo, perché non ha solo, o non ha affatto, fonti naturali, com’era l’amicizia di cui parla S. Agostino nel passo citato. Su questo punto il Santo è perentorio: non sia carnale, ma spirituale il vostro amore 101, il che vuol dire: non sia umano – nel senso deteriore della parola – ma divino; non naturale, ma soprannaturale. Nel monastero dunque l’amicizia deve avere fonti soprannaturali; deve scaturire cioè dalla carità, la virtù che ama, rispetta e venera nell’altro il tempio di Dio. Vivete dunque, così il Vescovo d’Ippona conclude il primo capitolo della Regola, vivete dunque unanimi e concordi e onorate mutuamente in voi stessi Dio, di cui siete templi. Con questo precetto egli dà il tono dell’amicizia cristiana e religiosa, inserendola nel mistero del soprannaturale. In questo modo l’amicizia, senza essere privata del calore umano che le è proprio, si arricchisce dei doni divini della grazia che purifica ed eleva la natura. Le parole della Regola, che abbiamo ricordate, contengono, riuniti insieme, due precetti paolini; quello di onorare Dio d’un sol cuore e d’una sola voce 102 e quello di prendere coscienza della nostra condizione di templi di Dio 103. S. Agostino ha scritto molto su questi argomenti. L’inabitazione dello Spirito Santo nell’anima del giusto è, per esempio, uno dei temi più belli e più fecondi della sua teologia della grazia. Il religioso che è entrato in monastero per vivere questa verità in tutta la sua stupenda ricchezza deve conoscerla profondamente. Tra le opere agostiniane si legga almeno la Lettera 187, che è un trattato sulla presenza di Dio, un trattato la cui struttura essenziale si può riassumere in queste tre grandi affermazioni: 1. benché Dio sia dovunque e sia dovunque tutto, non abita in tutti, poiché è bensì dovunque con la presenza della divinità, ma non è dovunque con la grazia dell’inabitazione; 2. anche in coloro nei quali Dio abita, non ci abita nella stessa misura; 3. intanto si dice che Dio abita nell’uomo in quanto lo rende con la sua grazia “dilettissimo” o “beatissimo” tempio suo. Di questa mirabile e consolante dottrina vogliamo rilevare qui un solo particolare; cioè l’affermazione agostiniana che non solo i singoli religiosi sono templi di Dio, ma che la comunità in se stessa, dove i membri vivono in santa concordia, è un tempio di Dio: “Son diventati – scrive il Santo – templi di Dio; non soltanto templi di Dio i singoli, ma tempio di Dio tutti insieme” 104. A nessuno può sfuggire l’immensa portata di questa affermazione: la comunità tempio di Dio. Compito della carità fraterna edificare a Dio, giorno per giorno, questo tempio: frutto della carità sentire ed amare Dio in esso. A questa affermazione se ne aggiunge un’altra non meno sorprendente. I fratelli uniti fra loro in quella carità che lo Spirito Santo diffonde nei cuori sono talmente uniti a Cristo da formare con Lui un’unica anima, l’anima, appunto, di Cristo. “La tua anima – scrive arditamente S. Agostino – non è più tua, ma di tutti i fratelli e le loro anime sono tue, o meglio, le loro anime insieme alla tua non sono più che un’anima sola, Christi unica” 105. Tradurre in pratica attraverso la perfetta unione d’amore la realtà divina del Corpo mistico di Cristo, è la prerogativa che S. Agostino volle imprimere ai suoi monasteri. Da questa prerogativa proviene l’ascetismo della carità. Ma prima di parlarne dobbiamo fare un accenno alla terza sorgente da cui scaturisce l’unione dei cuori, che fonda e ricapitola la vita monastica agostiniana. 4) Il senso ecclesiale Questa terza sorgente è il sensus Ecclesiae. Senso della Chiesa vuol dire, in questo caso, la persuasione profonda che la vita comune è inserita nella compagine ecclesiale e vi è inserita in tal modo che ne ricorda una manifestazione iniziale, ne esprime una realtà essenziale, ne annunzia la fase finale. Un senso ecclesiale dunque che ha le dimensioni del tempo e si proietta nell’eternità. a) Ricordo. – Prima di tutto la comunità religiosa costituisce un ricordo, che è insieme una continuazione; il ricordo della prima comunità di Gerusalemme. Abbiamo detto ripetutamente che S. Agostino nel fondare i suoi monasteri guardò a quella comunità e la prese per esempio. Da essa la comunità agostiniana deve attingere perennemente la fermezza della fede apostolica, la freschezza spirituale dell’amore, l’ardore della preghiera, l’assiduità nella celebrazione dell’Eucaristia, la gioia della speranza cristiana, che sono, appunto, le prerogative di quella prima comunità. Leggiamo negli Atti queste parole che dipingono un quadro di mirabile bellezza: “Quelli adunque che accolsero la parola (di Pietro) furono battezzati e quel giorno furono aggregate alla Chiesa circa tremila persone. E tutti perseveravano nel farsi istruire dagli Apostoli, nella comunanza fraterna, nell’eucaristia, nella preghiera… I fedeli intanto si tenevano uniti e avevano tutto in comune. E man mano che se ne sentiva il bisogno vendevano beni mobili e immobili e ne facevano distribuire fra tutti il ricavato. Ed ogni giorno frequentavano unanimi il tempio e spezzavano il pane di casa in casa, nutrendosene in esultanza e semplicità di cuore, lodando Iddio” 106. b) Realtà. – A questo ricordo, da cui la comunità religiosa attinge una vena perenne di freschezza e di vigore, si aggiunge la coscienza che la vita comune, vissuta secondo l’ideale degli Atti degli Apostoli, è un segno di quell’unità che Cristo ha voluto che fosse una nota essenziale della sua Chiesa. Si sa che S. Agostino fu l’apostolo infaticabile dell’unità della Chiesa lacerata dai donatisti; ciò si riflette nella concezione dell’ideale monastico: la concordia fraterna dei religiosi è e dev’essere un segno, una manifestazione concreta di quell’omnes unum sint di cui ogni discepolo di Cristo deve sentire la forza e la gioia. Non fa dunque meraviglia che non amino questo sublime ideale di fraternità coloro che hanno spezzato l’unità della Chiesa separandosi dai fratelli. “Non a torto, dice S. Agostino contro i donatisti, non a torto deridono il nome di unità coloro che si staccano dall’unità della Chiesa; non a torto dispiace loro il nome di monaco, perché essi non vogliono abitare insieme con i fratelli ma, per seguire Donato, hanno abbandonato Cristo” 107. La comunità religiosa è e dev’essere una piccola chiesa, la quale, unita non dalla carne e dal sangue, ma dalla carità di Cristo, dà testimonianza a favore dell’unità della Chiesa universale e ne offre un valido esempio. In essa infatti si compiono in modo eminente le parole: da questo appunto tutti riconosceranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri 108. Nasce da qui il valore apologetico del segno, che si aggiunge a quello storico del ricordo, proprio di ogni comunità religiosa che viva sinceramente il suo ideale di unione. c) Annuncio. – Ma occorre menzionare subito un terzo valore, che completa gli altri due e dà il pieno significato al senso ecclesiale d’una comunità religiosa agostiniana: il valore profetico di annuncio. L’unione che fa dei fratelli un solo cuore e un’anima sola sarà sempre qui in terra un abbozzo, un inizio, vorremmo dire un tentativo. La perfezione è altrove, là dove le conseguenze del peccato, che è essenzialmente divisione, saranno superate e vinte per intero e la carità avrà soggiogato a sé ogni pensiero ed ogni sentimento umano: nella città celeste, che è, secondo la celebre definizione di S. Agostino, “la ordinatissima e concordissima comunità di coloro che godono di Dio e mutuamente di se stessi in Dio” 109. Solo in quella città Dio sarà pienamente tutto in tutti. E poiché Dio è carità, per mezzo della carità avverrà una cosa stupenda, inenarrabile: quello che avranno i singoli sarà comune a tutti, ut quod habent singuli commune sit omnibus. “In tal modo ognuno avrà anche ciò che non ha, perché (pur non avendolo egli stesso) lo ama nell’altro (e, amandolo, lo possiede). La diversità dello splendore non susciterà dunque invidia, perché regnerà in tutti l’unità dell’amore, l’unitas caritatis” 110. A questo ideale s’ispira la vita comune e, ispirandovisi, lo preannuncia con crescente dinamismo, che è tensione, invocazione, speranza. E si badi che il senso profetico non sta solo nell’osservanza dei consigli evangelici, ognuno dei quali possiede, come è noto, un significato escatologico, ma sta anche nella vita comune come tale, in quanto essa, esigendo un esercizio quotidiano di carità, costituisce una comunione di vita che è l’inizio di quella consors differentia che sarà perfetta e beata nei cieli. La comunità religiosa, dunque, non vuole soltanto fare la Chiesa, cioè estenderne col suo apostolato l’azione, ma è Chiesa e si sente Chiesa, in quanto della Chiesa ricorda gli inizi, ricorda la perenne efficacia e annuncia gli eterni destini. Vivendo l’ideale dell’amore vive nel mistero della Chiesa, ed è essa stessa espressione di questo mistero: dell’amore, che è l’unica cosa eterna tra le cose temporali e sa compiere il miracolo di moltiplicare i beni dei singoli comunicandoli a tutti. Questo il significato ampio e profondo del senso ecclesiale che S. Agostino volle infondere nelle sue comunità religiose. Non v’è chi non veda di quanta freschezza spirituale e di quante energie interiori esso sia portatore. 5) Su tutte le cose si elevi la carità che permane Ma non basta il precetto iniziale per richiamarci al tema centrale e inesauribile della carità. Nel cuore stesso della Regola il legislatore ne propone il programma con queste parole: in tutte le cose di cui si serve la transitura necessità, si elevi l’unica che permane: la carità 111. Programma solenne, ma difficile; si sa che la carità è la più ardua e la più vulnerabile di tutte le virtù. Per aiutare i suoi discepoli a metterlo in pratica S. Agostino enuncia alcuni principi, destinati a creare solide convinzioni, dai quali poi nasce quel deciso orientamento che permette il trionfo della carità. a) … meglio aver meno bisogni che aver più cose – Il primo principio lo abbiamo ricordato sopra: è meglio aver meno bisogni che aver più cose. Possiamo chiamarlo il principio della libertà dal bisogno, non nel senso corrente dell’espressione, ma in un altro molto diverso, anzi opposto. La libertà dal bisogno può significare, e significa correntemente, libertà di soddisfare il bisogno; suppone perciò l’impegno di promuovere l’aumento dei beni per poterlo soddisfare. È il principio della società del benessere; utile, anzi, dentro certi limiti, necessario, soprattutto se si pensa di soddisfare i bisogni dei più disagiati, dei meno abbienti o, come oggi si dice, dei sotto sviluppati; ma principio anche pericoloso, perché può entrare, ed entra molto spesso, in quella terribile spirale, che è l’aspirazione alla libertà dal bisogno che promuove l’aumento del benessere, e l’aumentato benessere che provoca l’aumento dal bisogno. Nella Regola invece, libertà dal bisogno significa non soddisfazione, ma limitazione del bisogno stesso, nei limiti, s’intende, che il dovere consente. Ora, questa limitazione è fonte autentica di libertà. È risaputo, infatti, che ogni bisogno di cose temporali e caduche per chi, come l’uomo, è destinato alle cose imperiture ed eterne, costituisce una servitù. La servitù, poi, genera la necessità, e la necessità, quando non sia soddisfatta, genera indigenza, inquietudine, tormento. Ma anche quando sia possibile soddisfarla, la necessità è sempre necessità, mai libertà. “Tu fabbrichi la casa – dice S. Agostino al suo popolo – perché, se non la fabbricassi, resteresti senza abitazione: la necessità ti costringe a fabbricare la casa, non la libera volontà” 112. Lo stesso vale per le vesti e i cibi: tutto ciò che si fa per procurarseli, si fa per necessità non per libertà. Il religioso quindi, il quale, attraverso la temperanza, la parsimonia e l’austerità evangelica, limita, per quanto gli è possibile, i suoi bisogni, conquista progressivamente la libertà interiore e s’immerge nell’amore delle cose celesti. Si stima perciò felice non di avere più cose – in realtà, chi entrava nel monastero da bassa condizione trovava in esso più cose di quelle che avesse – ma si stima felice di aver meno bisogni. Senza dire che, limitando i propri bisogni, il religioso mette la comunità in grado di venire incontro ai bisogni altrui. Il principio agostiniano non ha dunque solo un valore comunitario, in quanto crea nella comunità quel clima spirituale e soprannaturale che facilita il trionfo della carità, ma possiede anche un valore sociale di stimolo e di aiuto. b) … la carità… antepone le cose comuni alle proprie – Il secondo principio, non meno luminoso del primo, viene enunciato dalla Regola con queste parole: nessuno mai lavori per se stesso ma tutti i vostri lavori tendano al bene comune e con maggiore impegno e più fervida alacrità che se ciascuno li facesse per sé. Infatti, la carità di cui è scritto che non cerca il proprio tornaconto, va intesa nel senso che antepone le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni. Per cui vi accorgerete di aver tanto più progredito nella perfezione quanto più avrete curato il bene comune anteponendolo al vostro 113. Parole d’oro, che indicano nell’amore del bene comune – o bene sociale – il progressivo svuotamento dell’egoismo, e perciò la misura del progresso nella carità. La distinzione tra amore privato e amore sociale è fondamentale nella dottrina agostiniana: sta alla base delle due città in cui è diviso il genere umano, ed è più ampia e più profonda di quella notissima tra l’amore di sé e l’amore di Dio 114. Ecco un testo importante: “Due amori… dei quali uno sociale e un altro privato… distinsero le due città sorte nel genere umano… una dei giusti e un’altra degli iniqui” 115. Amore privato vuol dire amore di cose proprie. È considerata ed è cosa propria, in questo caso, tutto ciò che si possiede o si desidera in opposizione agli altri o con esclusione degli altri; quindi le ricchezze, la gloria, il potere. L’amore privato nasce dalla cupidigia, dall’egoismo, dalla superbia e conduce al peccato, che è, essenzialmente, una rinuncia, e perciò una privazione, del bene totale, comune a tutti, e un’adesione al bene parziale, che è il bene proprio. Il peccato degli Angeli, spiega S. Agostino, consiste proprio in questo, cioè nella volontà di separarsi da un bene superiore comune a tutti e di aderire a un bene inferiore, proprio di ognuno, e quindi parziale e privato. Con quali conseguenze? Disastrose. Ebbero il fasto dell’orgoglio, ma perdettero l’eternità, che è eccelsa; ebbero l’astuzia della vanità, ma perdettero la verità, che è certissima; ebbero la parzialità, ma perdettero la carità, che è indivisibile, che abbraccia cioè il tutto e non può ridursi mai ad una parte. In altre parole, privati della partecipazione dell’eternità, della verità, della carità, che è Dio, bene di tutti, divennero superbi, fallaci, invidiosi, e perciò soli, poveri e miseri 116. Invece l’amore sociale è l’amore del bene comune. Per comune s’intende quel bene che può essere tutto di tutti in modo da escludere tra gli amanti ogni ombra d’invidia e ogni possibilità di opposizione, come il bene della sapienza, come ogni altro bene spirituale, universale ed eterno. In definitiva l’amore sociale è l’amore di Dio e l’amore di se stessi e del prossimo in Dio. C’è dunque tra l’amore sociale e l’amore privato la stessa opposizione che corre tra l’umiltà e la superbia, tra la carità e la cupidigia. Ecco come S. Agostino esprime questa opposizione: “Uno provvede all’utilità comune in vista della società celeste, l’altro per un arrogante desiderio di dominio fa servire a sé anche il bene comune; uno è suddito a Dio, l’altro emulo di Dio; uno tranquillo, l’altro turbolento; uno pacifico, l’altro sedizioso; uno preferisce la verità alle lodi degli adulatori, l’altro preferisce in qualunque modo le lodi alla verità; uno amichevole, l’altro invidioso; uno che vuole al prossimo il bene che vuole a sé, l’altro che vuole assoggettare a sé il prossimo; uno che regge il prossimo per l’utilità del prossimo, l’altro che lo regge per la sua utilità” 117. La Regola ammonisce il religioso a frenare l’amore privato, che è causa di tanti mali, anteponendo sempre le cose comuni alle proprie. In questo modo si svuoterà a poco a poco dall’egoismo e dilaterà il cuore in quella carità che non cerca il proprio tornaconto 118 ma cerca in tutte le cose e sempre il bene del Vangelo, imparando a vivere non più per sé, ma per Gesù Cristo, che è morto per tutti 119. A condizione, ovviamente, che non sostituisca all’egoismo individuale un egoismo collettivo che è, anch’esso, una triste forma di amore privato. Il primo infatti antepone le cose proprie a quelle comuni, il secondo le cose di un gruppo a quelle di tutti. Questa pericolosa e non infrequente sostituzione avverrebbe, per esempio, se il religioso anteponesse il bene del proprio monastero al bene dell’Ordine o il bene dell’Ordine al bene della Chiesa. Per evitare questo pericolo è necessario spingere fino in fondo l’amore sociale, amare cioè nel proprio monastero l’Ordine, nell’Ordine la Chiesa, nella Chiesa Cristo, che è Dio benedetto nei secoli 120 che dobbiamo amare, perciò, in tutti e sopra tutto. È naturale allora che S. Agostino indichi come misura del progresso spirituale l’amore delle cose comuni. Primo frutto di questo amore è la concordia fraterna: “una cosa molto grande e pur molto rara tra le cose umane; una cosa lodata da tutti e conservata da pochi”. “Ma perché è tanto difficile che i fratelli vivano in concordia? Perché litigano di cose terrene, perché vogliono essere terra… I fratelli dunque se vogliono vivere concordi non amino la terra. Ma se non vogliono amare la terra, non siano terra. Cerchino una possessione che non si può dividere, e saranno sempre concordi” 121. Questa possessione è l’eredità celeste. “Per questa eredità non si litiga. Altre eredità si acquistano litigando, questa litigando si perde” 122. Il secondo frutto dell’amore sociale è l’orientamento costante dell’animo verso la celeste città e la preparazione ad essa. “Quella gloriosissima città, infatti,… non avrà cittadini dei quali ognuno goda delle cose proprie (come di cose private), perché Dio sarà tutto in tutti. Chiunque in questo terreno pellegrinaggio desidera fedelmente e ardentemente questa società con Dio, si abitua a preferire le cose comuni alle proprie, cercando non ciò che è suo, ma ciò che è di Gesù Cristo” 123. c) “Uti” e “frui” – V’è finalmente un terzo principio, la cui meditazione può educare l’animo al trionfo della carità. La Regola lo accenna con quelle parole: su tutte le cose di cui si serve la transitura necessità… Si tratta dunque dell’uso delle cose, d’un uso che nasce dalla necessità, d’una necessità destinata a sparire. Sotto queste parole v’è la celebre distinzione agostiniana tra usare (uti) e godere (frui). Usare vuol dire amare una cosa come mezzo, e quindi non per se stessa, ma in ordine al fine e nella misura che conduce ad esso; godere significa, invece, amare una cosa per se stessa, come il termine in cui il cuore si riposi, come il fine. Da queste nozioni nasce il principio: la legge suprema dell’ordine vuole che si usi delle cose di cui si deve usare e si goda delle cose di cui si deve godere: il contrario è perversione e peccato. Ma quali sono le cose di cui ci si deve solo servire? Tutte quelle legate alla condizione della vita presente, destinate quindi a passare con la vita stessa: quelle che riguardano il sostentamento del corpo – vitto, vestiario, riposo, lavoro – che riguardano la formazione della mente – educazione, scuola, scienza, arte – che riguardano l’organizzazione sociale – diversità di compiti e molteplicità d’uffici che riguardano la vita spirituale nella fase presente: sacerdozio ed opere di misericordia. È noto infatti che nel regno di Dio non ci sarà più, come funzione, il sacerdozio, perché non vi saranno più uomini da salvare, né vi saranno più le opere di misericordia, perché non ci saranno più uomini miseri. Tutte queste cose devono essere stimate per quel che sono e, di conseguenza, amate per quel che sono. L’amore retto richiede un giudizio retto. “Giustamente e santamente vive solo chi è un imparziale stimatore delle cose, cioè chi ama ordinatamente” 124. Ma l’amore non è ordinato se non si conforma all’ordine stesso delle cose. Ora le cose di cui stiamo parlando sono mezzi a nostra disposizione in vista del fine da raggiungere, mezzi necessari, sì, ma sempre e soltanto mezzi. Sarebbe dunque deplorevole, oltre che stolto, trasformarli in fine, arrestarsi ad essi, o anche lasciarsi solo frenare da loro nel movimento verso la patria. In questo caso saremmo simili a quel viandante che, avendo a disposizione una carrozza per raggiungere più presto e più comodamente la meta, si lascia attrarre tanto dall’interesse per quello strumento che rallenta il passo o, peggio, dimentica la meta e si ferma. Le cose invece di cui possiamo e dobbiamo godere sono quelle eterne, cioè Dio e coloro che insieme a noi possono essere partecipi di Dio: il prossimo. Ma del prossimo possiamo goderne a condizione che lo amiamo in Dio e che in esso amiamo Dio, a somiglianza di ciò che avviene nella città celeste, che è, secondo la celebre definizione agostiniana, “la società ordinatissima e concordissima di coloro che godono di Dio e godono l’uno dell’altro in Dio” 125. Ideale più sublime, più umano, più pieno non ci poteva presentare: vi brilla la carità in tutte le sue forme, la carità una e molteplice, contemplante ed operante, che abbraccia Dio, noi stessi, gli uomini, gli Angeli. Abbiamo ricordato rapidamente tre fecondi principi, la cui meditazione può aiutare il religioso a mettere in pratica l’arduo programma della Regola, quello di far trionfare in tutte le cose che passano la luce divina della carità, che permane. Il primo lo aiuta a restringere i propri bisogni, il secondo a svuotarsi dall’innato, inguaribile egoismo, il terzo a sentire la strumentalità delle cose temporali e ad immergersi sempre più nell’eterno. 2. Amicizia Ho detto non certo molto, ma almeno qualcosa della carità. Non dispiaccia al lettore se mi trattengo un poco sull’amicizia che, insieme alla carità, fu la grande passione del cuore del Vescovo d’Ippona. All’amicizia secondo S. Agostino sono stati dedicati non pochi studi che non è il caso ora di recensire. Qui, per riassumere, si può dire che tre cose sono certe: 1. che S. Agostino sentì profondamente il bisogno dell’amicizia e ne ebbe il culto; 2. che contribuì decisamente a trascrivere l’ideale classico dell’amicizia nella concezione della vita cristiana, dimostrando che in essa, nella vita cristiana, quell’ideale trova il perfezionamento e l’inveramento; 3. che introdusse questo ideale così inverato nell’organizzazione della vita monastica. Per chiarire queste affermazioni basteranno pochi accenni. 1) Il bisogno e il culto dell’amicizia. S. Agostino non sa concepire la vita senza amicizia. Una vita simile gli sarebbe sembrata vuota, insipida, tenebrosa. Nella pienezza degli anni, dopo una bella pagina sulle consolazioni dell’amicizia, scrive questo celebre aforisma che rivela il suo animo e quello degli uomini: “in quibuslibet rebus humanis nihil est bomini amicum sine homine amico”; in tutte le cose umane nulla è caro all’uomo che non abbia un amico 126. Difatti, l’amicizia fiorì spontanea intorno a lui, e non fu mai solo. Dall’innominato amico della gioventù la cui improvvisa morte gli suggerì pagine memorabili nelle Confessioni 127 all’amicizia “dolcissima” con Alipio, Nebridio, Evodio, Severo, Profuturo, Possidio e tanti altri in Africa e oltre il mare, fino alla morte, quando intorno al suo letto si raccolsero tanti vescovi suoi colleghi ed ammiratori, fu sempre circondato da amici che amò e dai quali fu riamato. Per portare qualche testimonianza, scrive di Nebridio: “Anche Nebridio aveva lasciato il paese natio, nei pressi di Cartagine, e poi Cartagine stessa, ove lo s’incontrava sovente, aveva lasciato la splendida tenuta del padre, lasciata la casa e la madre, non disposta a seguirlo, per venire a Milano con l’unico intento di vivere insieme a me nella ricerca ardentissima della verità e della sapienza” 128; e di Severo: “Tu mi conosci come io conosco me stesso… essendo tu un’altra anima mia, anzi l’anima mia e tua non sono più che un’anima sola” 129; e di Alipio, “fratello del mio cuore” 130: “Chi ci conosce potrebbe dire che io e lui siamo due (persone) non quanto all’animo ma quanto al corpo; solo, beninteso, per la nostra concordia e amicizia fedelissima, non per i meriti, in cui egli mi supera” 131. Del resto egli sentiva vere e approvava le parole di Orazio che aveva definito l’amico (Virgilio) metà dell’anima sua 132, come pure approvava la definizione dell’amicizia data da Cicerone: “L’amicizia – afferma egli e lo afferma giustamente – è il perfetto accordo su tutte le cose divine e umane, accompagnato da benevolo affetto” 133. 2) L’ideale cristiano dell’amicizia. Egli si sentiva inserito, per elezione e per indole, nella corrente dell’ideale classico dell’amicizia, di cui conosceva bene le opere, molte e pregevoli, a cominciare da quella a lui più vicina e più cara: L’Amicizia di Cicerone 134. Divenuto però cristiano, il suo sforzo fu quello di mostrare inverato nel cristianesimo questo grande ideale umano. Lo fece approfondendo la nozione, la proprietà, il fine. Osserva che non può esserci vera amicizia se non sul fondamento della verità. “Nessuno può essere amico dell’uomo se prima di tutto non sia amico della verità” 135. Osserva poi che se l’amicizia importa – secondo la definizione classica – l’accordo nelle cose umane e divine, non può esserci pieno accordo in, quelle umane se c’è disaccordo in quelle divine. “Questo accade perché è inevitabile che stimi le cose umane diversamente da quel che si conviene colui il quale disprezza le cose divine, e che non sappia amare rettamente l’uomo chiunque non ama Colui che ha creato l’uomo” 136. Il fondamento dunque dell’amicizia è l’amore di Dio. S. Agostino v’insiste: “Ama veramente l’amico chi ama Dio nell’amico o perché Dio è in lui o perché sia in lui” 137. Ne segue che l’amicizia vera è è quella che Dio annoda con la sua grazia. “Non c’è vera amicizia – scrive nelle Confessioni – se non quando l’annodi tu fra persone a te strette col vincolo dell’amore diffuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo che ci fu dato” 138. Da quella premessa deriva un’altra conseguenza importante: la vera amicizia trova solo nel Cristo il suo vincolo e la sua forza. S. Agostino lo scrive al papa Bonifacio, proponendo insieme e la nozione dell’amicizia e il posto che in essa occupa l’amore per Cristo. “Benché sia molto in alto, non disdegni d’essere amico degli umili e di rendere l’amore a chi te lo ha offerto, che ti viene reso. E che altro è l’amicizia se non questo? L’amicizia che non ha preso il nome se non dall’amore e non è fedele se non nel Cristo, solo nel quale può essere eterna e felice?” 139. Dunque l’amicizia è amore reciproco – amore offerto e reso – e solo nell’amore di Cristo resta fedele e diventa eterna. Queste due prerogative – fedeltà ed eternità – appartengono alla natura stessa dell’amicizia. Su di esse S. Agostino insiste commentando la definizione classica alla luce dei precetti cristiani dell’amore di Dio e del prossimo. “Nel primo comandamento, scrive, c’è il perfetto accordo sulle cose divine, nel secondo quello sulle cose umane, accompagnato da affettuosa benevolenza. Se insieme con me li osserverai con la massima fedeltà, la nostra amicizia sarà sincera ed eterna e ci unirà, non soltanto l’uno all’altro, ma anche allo stesso Signore” 140. Le altre due prerogative che mette in rilievo sono la fiducia e la libertà: sull’una e sull’altra le pagine agostiniane sono commoventi. Si veda la corrispondenza con S. Girolamo, particolarmente le Lettere 73 e 82: la prima sulla fiducia 141, la seconda sulla libertà. “Ci piaccia nelle nostre mutue relazioni non solo la carità, ma anche la libertà dell’amicizia” 142. 3) L’ideale cristiano dell’amicizia e la vita monastica. Dopo aver mostrato l’inveramento dell’amicizia nell’ideale cristiano – in esso infatti l’amicizia può essere, come dev’essere per natura, non solo sincera ma anche fedele e perpetua, fiduciosa e libera -, S. Agostino non poteva non inserirla nell’ideale monastico che di quello cristiano è, sul piano della tendenza, la perfezione. Ve lo inserì di fatto ponendo come fondamento la perfetta vita in comune – Tutto sia comune tra voi (n. 4) -, come centro la carità – Vivete unanimi e concordi (n. 9) -, come aspirazione la piena comunione o amicizia: un solo cuore e un’anima sola in Deum (n. 3). L’aggiunta in Deum, verso Dio, che indica intenzione, tensione e movimento, è essenziale, perché solo in Dio, e nella sua città, i fratelli possono costituire quella concordissima e ordinatissima società i cui membri godono di Dio e l’un dell’altro in Dio” 143. Non c’è chi non riconosce in queste parole la definizione agostiniana della Città di Dio nella sua condizione escatologica e definitiva, quando cioè ha raggiunto la piena comunione o la vera e piena amicizia. Questo inserimento nacque ben presto nell’animo di Agostino. Un passo dei Soliloqui, scritti prima del battesimo, ce lo assicura. Vi si parla della ricerca della sapienza e nota che la presenza degli amici non solo non ne costituisce un impedimento, ma un aiuto per trovarla prima e meglio. “Voglio chiederti però perché desideri che le persone a te care vivano e convivano con te. Agostino risponde: affinché possiamo indagare in concorde collaborazione sulla nostra anima e su Dio. Così colui che per primo avrà risolto il problema, indurrà senza fatica al medesimo risultato anche gli altri.” 144. 3. Carità e amicizia Ma a questo punto s’impone la necessità di chiarire un equivoco o, se si vuole, di sciogliere un problema che le relazioni tra la carità e l’amicizia non permettono di eludere. In questi ultimi tempi si è parlato spesso dell’amicizia come espressione fondamentale del carisma monastico agostiniano, anzi qualcuno ha spezzato non una lancia ma quante credeva di averne a disposizione per sostenere questa tesi: la vera amicizia, si è detto, è l’essenza dell’ideale monastico agostiniano. Ma in questo modo o si parla con troppa imprecisione creando confusioni pericolose, o si lasciano indietro molte cose che pur il Vescovo d’Ippona ha insistentemente inculcato. Prima di tutto bisogna fare un’affermazione di fondo: l’amicizia non s’identifica con la carità anche se non può prescindere da essa. Addurre dunque i testi che parlano della carità e intenderli come detti dell’amicizia può diventare, e diventa di fatto, una ignoratio elenchi. Non la commettiamo e sarà tanto di guadagnato per l’autenticità dell’ideale monastico agostiniano. Non cito autori perché non amo far polemiche con i confratelli. Ho scritto altrove a proposito d’un santo agostiniano che ebbe profondo e delicato il senso dell’amicizia: “Spesse volte, parlando della vita comune, particolarmente comune come Agostino l’intese – un solo cuore ed un’anima sola -, si confonde tra carità ed amicizia. La seconda non può stare senza la prima, ma la prima non s’identifica con la seconda. Tutt’altro! Quando ci si comanda di amare i confratelli anche se non ci sono simpatici, di sopportarne i difetti anche se sono fastidiosi, di dissimularne le stranezze anche se sono frequenti, non si tratta di amicizia, si tratta di carità. Di quella carità che è, secondo S. Paolo, paziente, benigna, non invidiosa…, che non tiene conto del male ricevuto…, tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (1 Cor 13, 4-7)” 145. In altre parole, la carità, è amore oblativo, l’amicizia amore reciproco, e, per di più, fiducioso, confidente, stabile, sicuro, gioioso. La carità tende a creare questa bella amicizia, ma non sempre, anzi pienamente mai, qui in terra ci riesce. E quando non ci riesce o per colpa o senza colpa devono soccorrere le prerogative della carità descritte dall’Apostolo. S. Agostino lo sa e lo mette in pratica e lo raccomanda ai suoi discepoli. Nel passo dei Soliloqui citato sopra, egli continua così. “E se essi (gli amici che desiderava e prevedeva sarebbero vissuti insieme a lui) non volessero indagare su tali argomenti (cioè ricercare con tutta l’anima la sapienza)? Li convincerò a volere. E che avverrebbe se tu non lo potessi o perché ritengono che sono già arrivati o che tali conoscenze non si possono raggiungere o perché sono ostacolati dal pensiero e dal desiderio di altre cose?”. Ed ecco la risposta degna di attenta meditazione: Habebo eos, et ipsi me, sicut possumus; staremo insieme come potremo 146. Altro che amicizia! Qui si tratta di carità, solo di carità, e per di più d’una carità forte, generosa, paziente. Senza queste prerogative la carità viene meno affatto, e con la carità viene meno ogni speranza di stabilire l’amicizia. S. Agostino raccomanda, l’ascetismo della carità nella Regola, nelle Lettere, nei Discorsi 147. Basterà rileggere l’insistenza della Regola sulla correzione fraterna e sul perdono delle offese e il commento al salmo 99 sulla sopportazione dei “falsi fratelli”. Questo commento, tenuto dopo molti anni di esperienza monastica, rivela la profonda conoscenza che S. Agostino aveva del cuore umano e il suo realismo che professava nei riguardi dell’ideale monastico, del quale pur era innamorato. Vivere solo tra i buoni il cristiano non lo può, neppure ritirandosi nel monastero. Certo il monastero è un porto, ma anche nel porto entra il vento. Dove dunque la quiete? La risposta è secca e tagliente: Hic nusquam; quaggiù in nessuna parte 148. S. Agostino lo sa per esperienza: gode dell’amicizia quando gli riesce di stabilirla 149, soffre quando le necessità ecclesiastiche costringono gli amici a starsene lontani da lui 150, geme per gli scandali di chi non comprende l’ideale monastico o lo tradisce 151, pronuncia sulla condotta dei “falsi” monaci giudizi che per la loro crudezza fanno trasecolare 152. Perciò, raccomanda di non lodare la vita monastica imprudentemente – costituirebbe un inganno per chi vuole abbracciarla e produrrebbe un’amara delusione -, come pure, s’intende, di non biasimarla ingiustamente 153. Un uomo simile, parlando della vita monastica che ama, difende e diffonde, non può mettere l’accento sull’amicizia, non perché questo concetto contenga qualcosa di meno nobile o, come qualcuno potrebbe pensare, di pericoloso per la vita religiosa – si tratta sempre infatti di amicizia comunitaria, cioè aperta a tutta la comunità senza esclusioni e fondata sull’amore di Cristo -; ma perché sa che questo ideale è molto lontano e non è mai raggiungibile, pienamente, quaggiù. Metterà l’accento piuttosto, come lo mette di fatto, sulla carità che promuove l’unità di mente e di cuore, che cerca di stabilire, con umiltà, pazienza e generosità, quella corrispondenza di affetti che si avvicina progressivamente all’amicizia che regna tra i santi nel cielo, quando essa, la carità, avrà compiuto il suo più grande miracolo che è questo: escludere ogni ombra d’invidia, fare in modo che sia comune a tutti quello che è proprio dei singoli 154. Perciò, come raccomandazione fondamentale di S. Agostino a coloro che vivono insieme nei suoi monasteri, valgono queste sapienti parole le quali, partendo da una costatazione negativa, ne indicano il rimedio positivo: “i recipienti di fango si procurano angustie a vicenda. Sed si angustiantur vasa carnis, dilatentur spatia caritatis; se si trovano nella angustie i recipienti di carne, si dilatino gli spazi della carità” 155. Proprio così. Spesso – non voglio dire: troppo spesso, per non apparire pessimista – i recipienti di carne, cioè la nostra povera, fragile, malridotta natura umana, simile ad un vaso di terracotta, anche nel monastero, si sente stretta, urtata, pungolata, e rischia d’infrangersi. Si allarghino allora gli spazi della carità, e tutto sarà salvo. Sarà salva l’unitas caritatis che costituisce il fine stesso della vita monastica e la preparazione migliore alla vita eterna dove questa unitas sarà perfetta e imperturbabile e con essa piena ed eterna la vera amicizia, perché pieno ed eterno il reciproco amore. Capitolo terzo L’UMILTÀ Non si può scrivere un’introduzione, sia pur breve, alla Regola senza parlare dell’umiltà. Per molte ragioni. La prima è che l’umiltà, per S. Agostino, non si può separare dalla carità, né questa da quella: ubi humilitas, ibi caritas; dov’è l’umiltà, c’è anche la carità 156. La seconda, che il dottore della grazia ha scritto un’ampia teologia dell’umiltà, illustrandone le radici metafisiche 157, teologiche 158, cristologiche 159, umane 160. La terza, che l’umiltà è il fondamento dell’edificio spirituale 161 e l’unica via che porti alla sapienza 162. La quarta, che l’umiltà è la casa dove abita il custode della verginità consacrata: custos virginitatis caritas, locus huius custodis humilitas; custode della verginità è la carità, la casa dove abita questo custode e l’umiltà 163. La quinta… Ma può bastare. Qui interessa l’umiltà nell’ambito della Regola. Per essere brevi si può dire così: l’umiltà insieme alla carità ne è la chiave interpretativa e ne svela il contenuto profondo e la forza di persuasione. 1. La natura maligna della superbia Anzitutto, il discorso sulla superbia. Si trova proprio a inizio d’ella Regola. Importante perché legato con le parole che ne costituiscono il nucleo centrale. Rivolto a “quelli che credevano di valere qualcosa nel mondo”, cioè ai nobili e ai ricchi che entravano nel monastero – e in quel momento di fervido entusiasmo cristiano non erano pochi -dice loro di non vantarsi dei ricchi parenti e meno ancora di gloriarsi di aver portato al monastero i loro beni; “a che giova, si chiede, spogliarsi dei propri beni dandoli ai poveri e diventare povero, se la misera anima nel disprezzare le ricchezze diviene più superba che non quando le possedeva?” (n. 8). Misura della virtù è l’umiltà, origine di ogni vizio la superbia: una dottrina su cui torna con appassionata insistenza il Vescovo d’Ippona. Rivolto, poi, agli altri, a quelli che provenivano da umili condizioni, li ammonisce paternamente di non “montarsi la testa” per il fatto di trovarsi associati a quelli cui non osavano avvicinarsi nel mondo; non cerchino le vanità della terra, siano umili. E aggiunge un motivo di profonda psicologia: “affinché i monasteri, se ivi i ticchi si umiliano e i poveri si vantano, non comincino ad essere utili ai ricchi e non ai poveri” (n. 7). L’insistenza su questo tema dell’umiltà non sta solo nella condizione della vita in comune nella quale devono convivere in fraterna concordia quelli che provengono dalle più diverse condizioni sociali, ma soprattutto dalla natura perversa della superbia. S. Agostino lo spiega nella Regola stessa con queste parole: “Se infatti ogni altro vizio spinge a compiere azioni cattive, la superbia tende insidie anche alle buone per guastarle” (n. 8). Parole, queste, che convengono con quelle, non meno esplicite e più insistenti, della lettera al giovane Dioscoro. Dopo avergli detto che quando si tratta della via per giungere alla sapienza, che è Cristo, “la prima è l’umiltà, la seconda è l’umiltà, la terza è ancora l’umiltà”, ne dà questa ragione: “perché la superbia ci strapperà senz’altro di mano tutto il merito del bene di cui ci rallegriamo, se l’umiltà non precede, accompagna e segue tutte le nostre buone azioni in modo che l’anteponiamo per averla di mira, la poniamo accanto per appoggiarci ad essa, ci sottoponiamo ad essa perché reprima il nostro orgoglio”. Seguono altre parole che richiamano appunto quelle della Regola: “Poiché tutti gli altri vizi sono da temersi nelle azioni colpevoli; la superbia invece deve temersi anche nelle azioni buone, poiché le azioni per sé degne di lode vanno perdute se ispirate dall’amore della stessa lode” 164. 2. L’umiltà nella compagine della vita monastica Sulla base di queste due ragioni – concordia nel monastero e fuga della superbia come il più maligno dei vizi – si svolgono e devono interpretarsi i precetti della Regola. L’umiltà è necessaria nel governo del monastero sia in chi comanda, sia in chi ubbidisce. Il primo “deve stimarsi felice non perché domina col potere, ma perché serve con la carità” 165 e, se esteriormente si trova ad essere più in alto degli altri, interiormente deve mettersi più basso di tutti “prostrandosi ai loro piedi davanti a Dio” (n. 46). Il secondo deve obbedire con diligenza ed umiltà, perché “obbedendo maggiormente, mostrerete pietà non solo di voi stessi ma anche di lui” (n. 47) 166. L’umiltà è necessaria nel fare e nell’accettare la correzione fraterna la Regola tanto insiste (nn. 25-29). Chi fa la correzione non deve avere solo una grande carità, ma anche una grande umiltà pensando alla fragilità umana e a se stesso, interrogandosi se quel vizio che si appresta a correggere nell’altro lo abbia avuto mai egli stesso o se, avendolo avuto, o lo ha corretto o se ce l’ha tuttora: in quest’ultimo caso più che correggere deve invitare il confratello a gemere insieme per correggersi insieme 167. In ogni caso dev’essere convinto “che non c’è peccato che ha commesso un uomo che non possa commettere un altro uomo se gli manca dall’alto la guida di Colui che ha fatto l’uomo” 168. Non minore umiltà è necessaria in colui che riceve la correzione, tanto è vero che il legislatore, conoscendo bene il cuore umano più incline a difendere che a correggere i propri difetti, commina la pena dell’espulsione a chi, dopo la correzione, ricuserà d’accettare la pena (n. 27) 169. L’umiltà è necessaria nel chieder perdono e nel perdonare le offese, un esercizio non infrequente di carità fraterna che non si può mettere in atto senza grande umiltà. Eppure è d’una importanza estrema, perché, dice la Regola, “chi si rifiuta di chieder perdono o non lo richiede di cuore, sta nel monastero senza ragione alcuna, benché non ne sia espulso” (n. 42) 170. A questo dovere di umiltà nel chiedere perdono S. Agostino fa un’eccezione per il superiore che si accorga di aver ecceduto nella riprensione degli inferiori; la fa appunto perché l’umiltà, entrando in collisione con l’autorità, non ne indebolisca il vigore: “per salvare un’umiltà sovrabbondante non si deve spezzare il prestigio dell’autorità presso chi deve starvi soggetto” (n. 43). Giudichi ognuno come vuole questa disposizione, ma essa rivela lo spirito acuto di S. Agostino che ha presente in tutta la Regola l’umiltà, ma ha presenti anche l’autorità, e vuole evitare che un’umiltà eccessiva, particolarmente presso coloro che non saprebbero apprezzarla, rechi detrimento all’autorità. Senza il rispetto dell’autorità una comunità religiosa non può avere né coesione né vita serena e prospera. Infine l’umiltà è necessaria per ricoscere le proprie colpe davanti a Dio e chiedergliene perdono, che è l’ultimo precetto della Regola. È interessante notare come i santi che hanno professato la Regola agostiniana abbiano compreso questa nota dominante dell’umiltà. Vale la pena di ricordare una santa del lontano medioevo, Chiara da Montefalco, che come superiora non fece che raccomandare questa virtù quale fondamento di tutte le altre 171. Capitolo quarto VITA COMUNE O ASCETISMO DELLA CARITÀ Ricca delle prerogative che abbiamo ricordate, la carità opera un crescente movimento di espansione nell’anima che unisce i cuori e li solleva a Dio, creando con ciò i presupposti d’una vita comune gioiosa e feconda. Ma nessuno pensi che questo movimento sia facile. Non lo è affatto. Perché si realizzi, occorre un esercizio quotidiano di umiltà, di mortificazione, di rinuncia, di disponibilità, di pazienza, di dimenticanza di sé, di dedizione agli altri; occorre, cioè, un vigilante e continuo ascetismo, il quale, compiendo progressivamente l’opera della purificazione interiore, permette alla carità di prendere il dominio totale dell’anima e di ricomporre nell’ordine le disordinate passioni umane. 1. Difficoltà della vita comune La vita religiosa è un porto, è vero; ma anche nel porto entra il vento e le navi rischiano di rompere gli ormeggi e di urtarsi fra di loro; è un santo proposito, chi ne dubita? ma anche nella comunità dei “santi” si annidano i falsi fratelli e la loro presenza mette a dura prova la costanza ed il fervore della carità. Tutto questo S. Agostino lo sa, e vuole che si sappia. Egli rimprovera aspramente tanto gli incauti panegiristi della vita religiosa quanto i denigratori pertinaci di essa. Non è vero che tutto è brutto nella vita religiosa, anche se è vero che non tutto è bello: c’è la quiete, e c’è anche la tempesta, ci sono i buoni, e ci sono i cattivi. Anzi gli uni e gli altri vi s’incontrano in grado superlativo. “Da quando ho cominciato a servire il Signore – scrive S. Agostino dopo aver invocato Dio a testimonio della verità delle sue parole – ho incontrato difficilmente persone migliori di quelle che si sono santificate nel monastero, come pure non ho trovato persone peggiori di quelle che sono cadute nei monasteri” 172. Lodare quindi la vita religiosa come se tutti fossero buoni è una sottilissima insidia, biasimarla come se tutti fossero cattivi è un’aperta ingiustizia. Chi loda, non dimentichi che tra i buoni sono mescolati i cattivi; chi biasima, riconosca che tra i cattivi ci sono anche i buoni. Cosi l’uno non sarà imprudente, l’altro non sarà ingiusto. A chi, uscito dal monastero, non fa che denigrare, S. Agostino risponde: “O perfido, perché non parli dei buoni? Ti scagli contro coloro che non potesti tollerare, ma taci di coloro che tollerano la tua cattiveria” 173. “Ci sono anche i falsi monaci, e io ne ho conosciuti, dice ancora il Santo. Ma la pia fraternità dei monasteri non perisce per colpa di coloro i quali professano di essere quel che realmente non sono. Ci sono falsi monaci, come ci sono falsi chierici e falsi fedeli. Tutt’e tre le classi… hanno i buoni e i cattivi” 174. Certo, si sta più sicuri nel porto che in alto mare; ma anche il porto non è senza pericoli: se non c’è il pericolo d’incappare negli scogli, c’è il pericolo del vento che insidia l’incolumità delle navi. Quale il rimedio contro questo pericolo? Uno solo: la carità. La carità è forte, paziente, longanime; che scusa, crede, spera, sopporta tutto 175, che è in ogni caso la virtù di cui abbiamo bisogno. “Le navi nel porto si amino fra loro, sappiano stare l’una vicino all’altra, badino di non urtarsi; ci sia tra esse l’uguaglianza dell’equità (parilitas aequabilitatis) e la fermezza della carità; e, ogni qual volta il vento irromperà da quel lato per dove si entra nel porto, sappia il nocchiero destreggiarsi con cautela (cauta gubernatio)” 176. Si sa, però, che l’azione di governo più cauta e più sapiente non basta ad evitare gli urti. S. Agostino lo confessa gemendo a proposito d’uno scandalo scoppiato nel suo monastero. “Per quanto sia vigilante la disciplina della mia casa – scrive tristemente – io sono un uomo e vivo tra gli uomini, né oso vantarmi che la mia casa sia migliore dell’arca di Noè… o migliore della casa di Abramo… o di quella d’Isacco… o migliore della casa stessa di Gacobbe… o migliore della casa di David… o migliore dei compagni di Paolo… o migliore dei compagni dello stesso Gesù … “. Ognuno dei termini di paragone nascondeva una colpa grave, spesso vergognosa, causa alla comunità di sopportazione e di dolore. Nell’ultimo termine di paragone la cosa è notissima: “gli undici buoni (gli Apostoli) dovettero tollerare Giuda perfido e ladro … ” 177. Il Vescovo d’Ippona è tanto convinto che situazioni simili possano nascere nei monasteri, che fa al suo popolo la solenne confessione che abbiamo riportata poco 178. Conclude la lettera con queste parole di ammonimento e di conforto: “Sebbene quindi ci rattristiamo per via di alcune brutture, ci consoliamo anche, tuttavia, per le molte bellezze. Voi dunque non detestate, per causa della morchia, che offende i vostri occhi, i torchi (= i monasteri), per mezzo dei quali le dispense del Signore si riempiono di un olio più luminoso” 179. Perché in queste situazioni, che non sono rare, non perisca nella vita comune la concordia, la fraternità e la gioia, occorre che la carità eserciti fortemente il suo influsso dominante e dispieghi quelle virtù che sono proprie dell’ascetismo cristiano. Per questo S. Agostino nella sua Regola, pur tanto breve, ha dedicato due degli otto capitoli in cui è divisa, alla correzione fraterna e al condono delle offese; due disposizioni interiori, due esercizi di carità assolutamente indispensabili nella vita comune. 2. Correzione fraterna Della correzione fraterna stabilisce il principio, il presupposto, la tecnica. Il principio è espresso in quelle celebri e preziose parole: amate le persone e odiate i vizi. È un principio evangelico, universale, che si applica ad ogni umana relazione, da quella dell’amicizia a quella della vita politica. Nella vita comune ha un’applicazione più frequente, più feconda, più religiosa. Dunque, né odiare l’uomo a causa del vizio, né amare il vizio a causa dell’uomo. Due scogli non piccoli per la natura umana, che è portata a fare tutto il contrario, cioè a includere l’uomo nell’avversione al vizio e il vizio nell’amore per l’uomo. Passare incolume tra questi due scogli non è facile; eppur si deve e si può. A condizione che nel cuore ci sia la vera carità. La carità infatti è il presupposto essenziale della correzione fraterna. Senza di essa ci sarà l’insulto, lo scherno, il rimprovero; tutto, fuorché la correzione fraterna. Occorre inoltre che la carità abbia una grande dose di umiltà e di fortezza: dev’essere umile per non cedere alla tentazione della superbia, forte per sopportare il fastidio della correzione. S. Agostino, nella Regola, è più attento a questo secondo aspetto che al primo. Insiste infatti perché la correzione sia fatta tempestivamente e perché si osservi diligenter et fideliter quanto egli prescrive sul modo di farla; spiega, poi, che la correzione stessa, ancorché la necessità obblighi a manifestare la colpa del fratello a qualche altro, non è delazione o crudeltà, ma amore, soltanto amore. Com’è un atto d’amore e non di crudeltà il manifestare la malattia d’un fratello, quando questi la tiene occulta per paura d’un doloroso intervento. Sarebbe anzi crudeltà il non manifestarla, perché il silenzio si risolverebbe a tutto danno del fratello malato. Altrove il Vescovo d’Ippona torna spesso su questo argomento e insiste nella sincera ed autentica carità che deve ispirare la correzione fraterna 180, nell’umiltà che deve accompagnarla 181, nella preghiera che sola può renderla feconda. Il tema della correzione fraterna e la preghiera è trattato in una celebre opera agostiniana dal titolo: Sulla correzione e la grazia. Vi si legge: “(La correzione fraterna) dev’essere fatta per motivo di carità… e bisogna pregare per quello a cui viene fatta, affinché venga sanato (dalla grazia)” 182. La tecnica poi – chiamiamola così – della correzione fraterna indicata dalla Regola è quella stessa del Vangelo 183, con l’aggiunta d’una seconda correzione segreta da parte del Superiore. L’iter dunque è il seguente. Quando si tratti d’una colpa segreta, il colpevole dev’essere ammonito in segreto: ammoniscilo tra te e lui solo; se ti ascolta avrai guadagnato il tuo fratello. In questo caso manifestare ad altri la colpa del fratello non significa essere correttori, ma delatori. Ma se il fratello cadrà di nuovo nella stessa colpa, bisogna rivelarlo come se si trattasse d’un ferito da sanare. Rivelarlo, prima che ad altri, al Superiore, affinché questi con una correzione segreta ottenga l’emendamento del colpevole ed eviti di manifestarne la colpa ad altri. Se anche questo fosse inutile, si dovrà indicare ad altri due o tre, affinché questi siano in grado di convincerlo davanti alla comunità. Convinto che egli sia, dovrà sostenere la pena riparatrice che gli verrà imposta dal Signore. Ed ecco la conclusione di questo lungo processo che la carità mette in opera per aiutare un religioso colpevole a raddrizzare i suoi passi: Se ricuserà di subire la pena, anche se non se ne andrà via spontaneamente, sia espulso dalla vostra comunità. S. Agostino nota che questa prescrizione, per quanto possa sembrare dura, non nasce da un sentimento di crudeltà, ma nasce dalla pietà; la pietà verso la comunità religiosa, la quale dev’essere difesa dal grave contagio del vizio che proviene inesorabilmente dalla presenza d’un colpevole che non riconosce la sua colpa e non vuole ripararla. Così nella Regola. Ma nel libro Sulla correzione e la grazia, pensando non alla comunità, bensì al colpevole stesso, scrive che la pena, anche la più grave, come la scomunica, che i vescovi qualche volta sono costretti ad infliggere, può tornare con la grazia divina a salutare correzione del colpevole 184. Lo stesso può dirsi dell’espulsione dal monastero. 3. Condono delle offese L’altro esercizio di carità, che la fragilità umana o l’umana cattiveria rende necessario, è il condono delle offese. S. Agostino vi dedica un capitolo della sua Regola. In questo capitolo propone due precetti, che, se fossero osservati, renderebbero inutile, anzi impossibile chiedere perdono: il precetto di evitare le liti – liti non abbiatene mai – e quello di evitare le parole pungenti: astenetevi dalle parole offensive. Ma il Santo sa molto bene che questi precetti non è facile osservarli, che la nostra povera natura, nonostante l’impegno ascetico a cui è sottomessa, è troppo facile a trascendere. Occorre, perciò, ricorrere, per riparare le violazioni della carità, ad un atto di carità, che è appunto il chiedere perdono. Questa riparazione dev’essere fatta tempestivamente e sinceramente. Si notino i due avverbi, sono importanti: tempestivamente, perché l’ira non diventi odio e una paglia non si trasformi in una trave; sinceramente, perché al male dell’offesa non si aggiunga quello, non meno grave, dell’ipocrisia. Per questo S. Agostino rivolge ai suoi religiosi questa grave ammonizione: chi si rifiuta di chiedere perdono o non lo chiede di cuore, sta nel monastero senza ragione alcuna, benché non ne sia espulso. Sta nel monastero senza ragione alcuna. Non ha infatti la carità: e che sta a fare nel monastero, che è scuola di carità, chi non ha la carità? Forse qualcuno si sarebbe aspettato non un’ammonizione, ma un salutare provvedimento, come quello prescritto poco sopra. Se S. Agostino, così attento alle esigenze del Vangelo per ciò che riguarda la carità, non lo ha prescritto, ci dev’essere un motivo. Credo di trovarlo nel fatto che egli è, sì, attentissimo a creare nei monasteri un clima di autentica carità, ma non è meno attento ad evitare che si crei un clima di reale ipocrisia. Non impone perciò – anche se non lo esclude – l’espulsione a chi non vuol chiedere perdono, per non indurre qualcuno a chiederlo senza convinzione, che è, appunto, un atto di ipocrisia bell’e buono. Si limita quindi al rilievo su riferito – pur restando in monastero, non ha più scopo alcuno di starvi – che sul piano disciplinare è meno dell’espulsione, ma sul piano morale, per chi sa capire, è molto di più. Aggiungo infine due rilievi che il testo della Regola suggerisce. Uno psicologico, che è questo: chi, pur tentato spesso dall’ira, è però sollecito a impetrare perdono da chi riconosce d’aver offeso, è certamente migliore di chi si adira più raramente, ma più difficilmente si piega a chiedere perdono. Non v’è chi non veda l’acutezza di questa osservazione. Si tratta di due tipi diversi: uno emotivo e collerico, l’altro tenace e freddo, anche se timido; tutt’e due difettosi, ma nella comunità chi crea maggiore turbamento è certamente il secondo: il suo orgoglio – perché è solo l’orgoglio, cieco e testardo, ad impedire di chiedere perdono – innalza spesso un muro di divisione e mette a dura prova la pazienza dei fratelli. Nulla è più intollerabile dell’intolleranza dell’orgoglio. L’altro rilievo è spirituale. La comunità deve intervenire con la preghiera – una preghiera sempre più fervente e più pura – per ottenere da Dio che il fratello colpevole chieda perdono e che l’offeso sappia perdonare senza indugio. S. Agostino pensa certamente alla preghiera del Padre nostro, che tante volte ha commentato parlando del perdono delle offese 185. La comunità, pregando, deve sentirsi impegnata a riportare l’unità dell’amore là dove un gesto, una parola, un’azione ha portato la divisione, il turbamento, l’offesa. Capitolo quinto DIVERSITÀ DI DONI NELL’UNITÀ D’AMORE Abbiamo parlato dell’esercizio quotidiano della carità, imposto, nella vita comune, dalla fragilità o dalla cattiveria umana. Ma ancorché ciò non fosse, cioè ancorché non ci fossero colpe da perdonare, o non ci fossero difetti da sopportare e da farsi sopportare, ci sarebbero pur sempre tante differenze di origine, di indole, di formazione, di funzione che la carità dovrà ricondurre all’unità della concordia. Ma non potrà farlo se non a prezzo di sofferenze, di rinunce, di morte. Una morte che dà la vita, perché c’inserisce nel piano universale della salvezza. Come la piccola tessera destinata alla composizione di una grande opera musiva non può trovare il suo posto nell’unità del tutto e contribuire così alla bellezza del quadro, se non a condizione di essere ripulita, smussata, infranta. In realtà occorre un ascetismo sincero, profondo, continuo per riportare l’unità là dove la natura semina a piene mani molteplicità e divisione. La vita religiosa, essenzialmente, è complementarietà ed uguaglianza: uguaglianza di doveri, di diritti, di particolari esercizi, complementarietà di doni, di funzioni, di bisogni. Questa complementarietà, nel quadro generale dell’uguaglianza, dev’essere riconosciuta e rispettata, anzi difesa; difesa dalla tentazione sempre rinascente della squallida uniformità di un livellamento totale. Unità non vuol dire addizione di numeri, che crea la massa; ma inserimento vitale, attraverso la conoscenza e l’amore, in un organismo animato dalla grazia; vuol dire, in altre parole, incontro sapiente di perfezioni diverse che cooperano insieme a formare una perfezione più alta e più grande. Il compito di rendere viva ed efficiente questa collaborazione è della carità. La quale, purificando la natura umana dalle storture dell’orgoglio, e conservandone le native ricchezze, solleva tutti nel piano divino della salvezza, dove si scopre l’uguaglianza della vocazione umana e cristiana e ci si sente fratelli, investiti di una nobiltà nuova e in possesso d’una nuova ricchezza, di fronte alla quale la nobiltà e le ricchezze terrene appaiono quelle che sono: cenere ed ombra. Nella vita comune dunque va rispettata la personalità di ognuno, purché ognuno sia impegnato a rivestirsi dell’unica personalità di tutti, che è la personalità di Cristo; va rispettata la libertà dei singoli, purché i singoli aspirino a conquistare l’unica vera libertà, che è la libertà dei figli di Dio proclamata dal Vangelo; va rispettata la coscienza dell’individuo, purché questi informi la sua coscienza, sinceramente e costantemente, alla legge del Vangelo e ai precetti, liberamente accettati, della Regola. Dunque: disparitas claritatis et unitas caritatis; disparità di doni e unità d’amore. A questa perfezione ideale S. Agostino vuol condurre, con sapienza, i suoi figli. 1. Ricchi e poveri La prima disparità a cui rivolge la sua attenzione è quella, allora molto profonda e perciò pericolosa, che esisteva tra le diverse classi sociali da cui provenivano i religiosi: le classi ricchissime dei nobili, dei padroni, dei senatori, e quella poverissima degli schiavi, dei portuali, dei contadini. Solo la carità, che ha risorse inesauribili, poteva compiere il miracolo di unire persone di condizioni tanto diverse e farle vivere gioiosamente insieme. La carità infatti sospinge ciascuno all’esercizio di quelle virtù di cui ciascuno ha bisogno per raggiungere la concordia e la pace. I ricchi li sospinge alla liberalità, che piega l’animo a mettere volentieri in comune i beni posseduti, e all’umiltà, che li preserva da tre gravi mali: a) dal disdegnare la compagnia dei fratelli poveri, b) dal gloriarsi della dignità dei propri parenti, c) dall’insuperbirsi per aver portato alla comunità i propri beni. Inoltre l’umiltà apporta loro un grande bene, quello d’impegnarsi nel lavoro manuale, sia pur corrispondente alla loro formazione e proporzionato alla loro complessione fisica, allo scopo di guadagnarsi il pane, diventato ormai, nel monastero, comune 186. I poveri invece la carità li sospinge all’esercizio della parsimonia, perché non cerchino nel monastero ciò che fuori non potevano avere; della temperanza, perché non si stimino felici per aver trovato quel vitto e quelle vesti che fuori non potevano avere; della laboriosità, perché non diventino oziosi ora che sono nel monastero, quando fuori dovevano guadagnarsi il poco pane che mangiavano, col sudore della fronte; all’esercizio, infine, dell’umiltà, ma per un motivo diverso: perché non cadano nella vanagloria, in quella sciocca vanagloria che può sorprendere l’uomo di umile condizione quando si trova alla pari, nella stessa comunità, di coloro a cui prima non avrebbe osato avvicinarsi. Così la carità unisce quelli che la natura divide e, suggerendo a ciascuno, sulla base della fede, i sentimenti e gli atteggiamenti opportuni, crea la società “nuova” che ha come prerogativa l’unità e la santità. S. Agostino non manca di aggiungere a questo proposito due ammonimenti, di cui nessuno potrà misconoscere l’acume psicologico e l’opportunità. Ai poveri dice: state attenti che i monasteri non diventino utili ai ricchi, ma non ai poveri, se ivi i ricchi si umiliano e i poveri si gonfiano d’orgoglio, oppure, per usare l’espressione del De opere monachorum, se ivi “i senatori si trasformano in lavoratori e i lavoratori in oziosi” 187. Ai ricchi, poi, dice: “a che giova dar via il suo e diventare povero, se l’anima, inorgoglita di questo gesto, diventa più misera perché più superba?”. Infine, il dottore dell’umiltà, toccando quest’argomento non poteva dimenticare un’osservazione generale sulla natura maligna della superbia, la quale non solo, come ogni altro vizio, spinge a commettere azioni cattive, ma ha di proprio che insidia e guasta anche le opere buone. Qualcuno dirà che il discorso agostiniano non è più attuale, perché il contrasto tra ricchi e poveri che chiedono di entrare in monastero non è più, oggi, così acuto come allora; anzi, per lo più, non esiste affatto. La premessa è giusta, ma la conclusione non lo è altrettanto. Se non c’è più il contrasto tra ricchi e poveri ci sono pur sempre molte differenze, quelle stesse che allora erano legate, d’ordinario, a certe condizioni sociali: le differenze di cultura, di formazione, di indole, di costituzione. Queste differenze creano ancor oggi divisioni e contrasti a scapito della concordia, se la carità non è abbastanza generosa e forte da inculcare a ciascuno i pensieri e i sentimenti necessari per stabilire la fraternità e la collaborazione. Di queste differenze derivanti dalla prima – ricchezza e povertà – la Regola ne accenna solo una: la diversa costituzione fisica, che richiede, per alcuni, particolari riguardi nel vitto e nel vestiario. Ma noi vorremmo accennare prima di tutto ad una altra differenza, a quella riguardante la cultura. C’era anche allora. E non sappiamo perché S. Agostino non ne parli. È ovvio infatti che solo quelli provenienti da determinati ceti sociali avevano frequentato le scuole; mentre quelli provenienti dalla classe dei lavoratoti erano ordinariamente analfabeti. Oggi il contrasto non è così stridente; ma anche oggi, in un ambiente agostiniano, dove lo studio in generale e lo studio della teologia in particolare è o dovrebbe essere di casa, e dove non tutti, per le molteplici necessità dell’apostolato e per la diversità dei doni ricevuti da Dio, possono dedicarsi alla scienza, la distinzione tra religiosi impegnati nello studio o impegnati prevalentemente nel ministero sacerdotale e religiosi impegnati nelle opere organizzative o materiali, è inevitabile. Occorre agire tenacemente e ininterrottamente affinché questa necessaria distinzione non diventi divisione, opposizione, contrasto. Il segreto del successo sta di nuovo, come sempre, nella carità, che è l’anima della Regola. 2. Uomini di studio e uomini d’azione Agli uomini di studio la carità suggerisce, come già ai ricchi – e non è la scienza, del resto, una grande ricchezza? – l’esercizio costante della liberalità e dell’umiltà. La prima virtù li fa generosi nel comunicare a tutti, con gioia, i frutti delle proprie ricerche. Ognuno di loro dirà col Savio a proposito della sapienza: Senza oblique mire l’ho appresa e senza invidia la comunico; la ricchezza di lei non tengo nascosta 188. La seconda virtù, l’umiltà, li fa attenti ad evitare la vanagloria, la ricerca della scienza per la scienza, lo stolto sentimento di superiorità, e ricorda loro che il bene più grande non è la scienza, anche se sacra, ma la carità; e la carità può fiorire nel cuore dell’illetterato come in quello del dotto; anzi, spesso, fiorisce più in quello che in questo. L’umiltà, inoltre, che è riconoscimento ed adesione all’ordine delle cose, scopre agli studiosi l’intimo nesso tra conoscenza e amore – conoscere per amare e amare per conoscere – e il valore, anzi la necessità, per la Chiesa, dell’apostolato della scienza. A coloro infine che sono occupati nei lavori organizzativi o materiali la carità infonde la gioia della propria condizione che, senza togliere nulla alla dignità e al merito della vita religiosa, li libera dalla brutta tentazione della vanagloria, accresce in loro la consolante persuasione che l’unico parametro a cui si misurano gli uomini nel regno di Dio è la carità, di cui un solo palpito vale più di tutti i tesori della scienza e dell’arte, e li tiene lontani, la carità, dalla triste presunzione, che s’insinua così facilmente e così pericolosamente nell’animo, di sapere ciò che non si sa. Complementarietà di sentimenti che nasce dalla complementarietà della vita comune e che concorre, convergendo verso la costruzione del regno di Dio, a creare l’unità nella varietà! Ma torniamo alla lettera della Regola. 3. Deboli e robusti Era allora, ed è conseguenza della diversa condizione sociale da cui provenivano i religiosi. Anche a questa differenza, perché non degeneri, ma converga nell’unione dei cuori, provvede la carità. Essa prescrive, innanzi tutto, che a coloro che sono venuti in monastero da abitudini più raffinate e sono perciò, a causa del loro precedente tenore di vita, più delicati, si usino particolari riguardi nel vitto e nel vestiario. Una disuguaglianza, dunque. Senza dubbio. Ma una disuguaglianza suggerita dal buonsenso e da quel sentimento di comprensione e di umanità che non deve mancare mai nei monasteri; quindi, diremo, una disuguaglianza necessaria. Interviene, allora, la carità, la più comprensiva e la più umana di tutte le virtù, e riporta l’unità là dove aveva imposto la distinzione. Ai più robusti la Regola prescrive di non avere a fastidio nel giudicare ingiusto il trattamento riservato agli altri. Per due ragioni: primo perché non è un atto di onore, ma di tolleranza; secondo: perché questi, gli altri, passando dalla loro vita mondana a quella del monastero hanno fatto un gran passo. Son dunque degni di stima anche se non sono in grado ancora di adattarsi alle austerità di quelli che hanno una costituzione più forte. Non li stimino perciò fortunati per il trattamento che hanno – la tentazione di farlo è sempre pronta sulla soglia dell’anima, anzi nascosta nel subcosciente, da cui solo i santi riescono a snidarla – ma si rallegrino con se stessi, perché sono capaci di una maggiore frugalità. Sotto questo precetto c’è un principio luminoso che il Santo enuncia poco dopo e che noi commenteremo a suo tempo. Il principio è il seguente: è meglio aver meno bisogni che aver più cose. Questo principio e le conclusioni che S. Agostino ne tira a proposito del diverso trattamento tra i religiosi deboli o robusti di costituzione, può avere ed ha innumerevoli applicazioni: tante quante sono le abitudini, più o meno permesse o tollerate nel monastero. Coloro che non le hanno contratte o hanno avuto la forza di liberarsene devono stimarsi felici e non invidiare quelli che ne sono servi. Il Santo termina l’argomento con un’ammonizione che gli nasce o dalla conoscenza che aveva della psicologia umana o dall’esperienza, o forse dall’una e dall’altra insieme. Non avvenga, scrive non senza mestizia, quel detestabile disordine per cui in monastero i ricchi – educati non più felicemente, ma certo più delicatamente – si umiliano quanto più possono, mentre i poveri – abituati alle asprezze del lavoro e alle angustie dell’indigenza e perciò più robusti e più abituati alla frugalità – diventino schizzinosi 189. Chi conosce la vita monastica sa bene che l’ammonizione agostiniana aveva, ed ha tuttora, il suo fondamento. 4. Sani e ammalati È un altro binomio intorno a cui deve esercitarsi frequentemente la carità. Vi si esercita in molti modi, ispirando e unificando opposti sentimenti. Prescrive all’ammalato di ubbidire al Superiore e al Superiore di ubbidire al medico; al primo di fare quanto è necessario per la salute, anche se non vuole; al secondo di stare al consiglio del medico senza mormorare; al primo di non volere quanto può essergli dannoso, anche se è piacevole; al secondo di non accondiscendere, in nessun caso, a quel volere. Ai sani comanda di credere agli ammalati, servi di Dio, quando dicono di sentirsi male, anche se il male non è manifesto; agli ammalati poi impone di non dispiacersi, se si consulta il medico nel caso che si sia incerti che, per guarire il male, giovi veramente ciò che piace. Passata la malattia, la convalescenza. La convalescenza mette alla prova la carità fraterna non meno della malattia, anzi di più. Ma la carità ha risorse sufficienti per superare anche questa situazione. Da una parte impone alla comunità di usare un trattamento speciale per i convalescenti, ancorché fossero venuti al monastero dalla più squallida povertà; dall’altra ammonisce i convalescenti di non abituarsi a questo trattamento, cioè di non lasciarsi trattenere da quella vita comoda a cui li porta la necessità della malattia, ma di tornare volentieri, appena ristabiliti, alla vita normale, che è più consona ai servi di Dio, perché più frugale e più austera. È a questo proposito che S. Agostino enuncia il principio che abbiamo ricordato poco sopra, principio che dà la ragione ultima di questo grave ammonimento: è meglio aver meno bisogni che aver più cose. Diversità di situazioni, di doni, di funzioni; ma unità d’amore. Ciò è possibile se non c’è nel cuore l’invidia, e c’è invece una grande umiltà. Infatti “dov’è l’umiltà c’è la carità e dov’è la carità c’è la pace” 190. La pace, secondo la celebre definizione agostiniana, è la tranquillità dell’ordine; e l’ordine altro non è che la disposizione che dà a tutte le cose, pari o dispari che siano, il proprio posto 191. Capitolo sesto CASTITÀ I presupposti della vita comune, che ha nella carità il principio e il fine, sono i voti religiosi di castità, povertà, obbedienza, che nascono anch’essi dalla carità e tendono alla perfezione di essa. Può destare meraviglia che la Regola agostiniana si limiti a parlare della custodia della castità e non dedichi un capitolo e neppure un accenno al voto di castità, al contrario di quanto fa per la povertà e l’obbedienza. La meraviglia è legittima, ma la ragione non bisogna ricercarla molto lontano. Essa sta nel fatto che la Regola è diretta a coloro che abbracciavano la vita comune. Comincia infatti con le note parole: Questi sono i precetti che prescriviamo a voi che vi siete stabiliti nel monastero 192. Ora sulla via del santo proposito – proposito di diventare servi o serve di Dio – questo era il secondo passo, non il primo. Il primo era, e resta, il voto di castità, voto che spesso veniva emesso – ci riferiamo prevalentemente alle vergini – indipendentemente dalla volontà di entrare in un monastero. Nonostante questo silenzio della Regola conosciamo ampiamente il pensiero di S. Agostino intorno ai pregi della castità consacrata e, in particolare, della verginità. Non sarà inutile riassumerlo brevemente. Il santo Dottore ci dà l’esatta nozione della verginità cristiana e ne spiega il valore teologico, psicologico, ascetico e mistico. 1. Significato e merito della verginità consacrata La gloria della verginità non sta nella verginità come tale, ma nella sua consacrazione a Dio: “Non si onora la verginità di per se stessa, ma in quanto essa è dedicata a Dio” 193. Perciò anche se conservata nel corpo è un bene spirituale; un bene che nasce dalla pietà e dall’amore verso Dio. S. Agostino non dubita di scrivere che tra una donna sposata e una che vuole sposarsi è in condizione migliore la prima 194. I pregi della verginità non derivano dalla sua utilità per la vita presente, ma dall’utilità per la vita futura. Coloro che pensano alla verginità in relazione alla vita presente sono “mirabilmente sciocchi”: mirabiliter desipiunt 195. Né ci si deve appellare al propter instantes necessitates di S. Paolo: le “presenti necessità” di cui parla l’Apostolo sono da vedersi in relazione alla vita futura; sono quelle necessità che ci si consiglia di evitare, perché costituiscono un ostacolo ai beni futuri 196. Completa che non è solo quella di indifferenza, come in ogni altro atto cosciente e libero, ma che è inoltre la libertà morale, per cui non si è obbligati da nessuna legge a fare la scelta che si fa, e se ne potrebbe fare una diversa senza venir meno al proprio dovere o deviare dal cammino della salvezza. Questa pienezza di libertà è una feconda sorgente di merito per la verginità consacrata, la quale con questo appare ciò che è in realtà: un puro atto d’amore. Perciò S. Agostino insiste nel ricordare a chi abbraccia la verginità di non disprezzare il matrimonio. Questo atteggiamento negativo contro il matrimonio andrebbe tutto a danno della sua scelta, la quale, se fosse la scelta tra un bene e un male o tra un bene consigliato e un bene tollerato, non avrebbe più il valore che ha. Questa la nozione di verginità consacrata che ci offre il Vescovo d’Ippona. Nessuno vorrà misconoscerne la verità, la modernità, la bellezza. Chiarita la nozione, troviamo illustrate nei suoi scritti le molteplici relazioni che la collegano a Dio, a Gesù Cristo, alla Chiesa, alla vita futura. Anzitutto la verginità cristiana è un sacrificio fatto a Dio: nasce dall’amore, ma comporta una rinuncia, la rinuncia a un bene naturalmente e profondamente amato. “Vero sacrificio, scrive S. Agostino, è ogni opera che si compie per aderire a Dio con santa società d’amore… Perciò l’uomo che si offre e si consacra a Dio, in quanto muore al mondo per vivere a Dio, è un sacrificio”197. È, la verginità, una imitazione più completa di Cristo in quanto ne segue le orme anche nella condizione dello stato verginale 198. È una splendida espressione della Chiesa, la quale, a somiglianza di Maria, è vergine e madre: vergine per l’integrità della fede, madre per la fecondità dell’amore apostolico che genera sempre nuovi figli di Dio. La verginità consacrata esprime mirabilmente questa duplice prerogativa: integrità e fecondità 199. In fine è un segno dei beni futuri, un preannuncio di quel Regno cui sospira la Chiesa nel suo terreno pellegrinaggio, un richiamo costante al soprannaturale e all’eterno. A questo quadro che ha già una straordinaria bellezza – e bisogna proprio dire che S. Agostino aveva mente e cuore preparatissimi per dipingerlo – si devono aggiungere due elementi: quello psicologico e quello mistico. Psicologicamente la verginità è fonte di libertà interiore che permette di dedicarsi con maggiore intensità alle cose del Signore: torna il tema del cuore indiviso di S. Paolo. “Sia confitto in tutto il vostro cuore, scrive S. Agostino, alle vergini, Colui che per voi è stato confitto in croce. Occupi egli nella vostra anima tutto il posto che non avete voluto fosse occupato dal matrimonio. A voi non è permesso di amare poco Colui per amore del quale non avete amato ciò che era permesso” 200. Misticamente, poi, la verginità è una efficacissima disposizione per la contemplazione dei divini misteri e una fonte ineffabile di gioia. “Contemplate la bellezza di Colui che vi ama, scrive ancora S. Agostino, contemplatelo simile al Padre e sottomesso alla madre… contemplatelo anche regnante nei cieli e venuto sulla terra per servire” 201. “Lodate il Signore tanto più dolcemente quanto più abbondantemente egli occupa i vostri pensieri; sperate tanto maggiore felicità quanto più fedelmente lo servite: amatelo tanto più ardentemente quanto più attentamente vi studiate di piacergli” 202. Resta ancora l’aspetto ascetico. È quello trattato diffusamente, pur nella brevità del contenuto generale, nella Regola. S. Agostino vi tocca principalmente due punti: la modestia e l’aiuto fraterno della vita comune. 2. …Nel modo di procedere o di stare Intorno alla modestia enuncia un principio generale, efficacissimo: Nel modo di procedere o di stare, in ogni vostro atteggiamento, non vi sia nulla che offenda lo sguardo altrui ma tutto sia consono al vostro stato di consacrazione 203. Questo principio non varia mai, pur nel variare continuo dei tempi: è fondato nel senso profondo della consacrazione a Dio e nell’intuizione sicura che ne hanno il popolo cristiano e la stessa persona consacrata. La verginità abbracciata per il regno dei cieli dà all’anima una particolare santità, che conferma e rende più luminosa quella del battesimo. Si tratta infatti di un atto che è insieme segregazione e deputazione: segregazione da determinate opere della natura e deputazione a occuparsi solo delle cose di Dio, a preannunciare le realtà future, a rappresentare Cristo nel mondo. Questa particolare santità comporta particolari esigenze anche nell’atteggiamento esteriore; il popolo cristiano, per l’azione interiore dello Spirito Santo, le intuisce, e le intuisce parimenti, per un istinto soprannaturale, che è frutto anch’esso dei doni dello Spirito Santo, l’anima consacrata. Da questa duplice intuizione nasce il dovere e la misura della modestia, che evita quanto può offendere il sentimento altrui e pone in opera quanto corrisponde al sentimento proprio. Per primo aspetto – quello negativo – S. Agostino insiste a lungo e con forti parole sui peccati dello sguardo, che offendono chi li commette e gli altri: ne mette in rilievo la gravità che hanno, poiché lo sguardo impudico è rivelatore d’un cuore altrettanto impudico, e lo scandalo che generano. Non bisogna illudersi infatti, osserva acutamente, che gli altri – e pensa ai membri della comunità religiosa e al popolo di Dio in generale – non notino un tale comportamento; lo notano certamente e perfino quelli a cui non si pensa. Inculca pertanto al religioso, a difesa della castità, il timore santo di Dio; di Dio che vede tutto, anche se è paziente. La pazienza divina nasce dalla sapienza infinita, che invita e muove al ravvedimento, non nasce dall’acquiescenza alla colpa. S. Agostino perciò non esita a ricordare le dure parole della Scrittura: È detestato dal Signore chi fissa lo sguardo 204. Varrebbe la pena di esporre qui la bella dottrina agostiniana intorno al timore che il Santo chiama tanto suggestivamente timore casto. Ma non è possibile. Notiamo solo l’aggettivo, che è un poema, e rivela, come in un lampo, un panorama stupendo. Come la verginità, che è la forma più alta della castità, è l’integrità del corpo incontaminato dalla colpa, così il timore casto è l’integrità del cuore o, più chiaramente, è l’integrità dell’amore incontaminato da quel sentimento servile che ci porta a temere la pena, non ad amare la giustizia. Infatti S. Agostino chiama casto proprio quel timore che non si oppone all’amore, come fa il timore della pena, ma nasce dall’amore stesso e ne è compagno inseparabile: cresce e si perfeziona con esso. Il timore raccomandato dalla Regola è appunto il timore casto che ha paura di far dispiacere alla persona amata; paura che diventa tanto più grande quanto più grande è l’amore. La persona consacrata tema dunque di dispiacere a Dio… 205. Sul dovere della modestia S. Agostino si effonde in maggiori particolari nel De sancta virginitate. Dice: “Le anime consacrate non devono avere il viso accigliato, non svagato lo sguardo, non sfrenata la lingua, non sguaiato il riso, non volgare lo scherzo, non sconveniente il vestito, non borioso o trascurato il portamento” 206. A commento di queste parole riportiamo quanto abbiamo scritto altrove. Non v’è chi non veda quanta ricchezza di particolari e quale profonda psicologia vi siano in questo breve periodo. Non accigliato il viso, perché sarebbe contrario alla dolcezza della carità e segno di un animo agitato da non dominate passioni; non svagato lo sguardo, indizio di vanità e di leggerezza; non sfrenata la lingua, poiché nel multiloquio non manca mai il peccato; non sguaiato il riso, segno di cattiva educazione e spesso d’insipienza; non volgare lo scherzo, indegno di chi col suo tenore di vita si è impegnato a “mostrare agli uomini la vita degli angeli e a portare in terra i costumi del cielo” 207; non sconveniente il vestito, cioè né elegante né trasandato, affinché non avvenga che si richiami l’attenzione altrui o con la ricercatezza o con la sciatteria. Non borioso o trascurato il portamento, perché l’uno sarebbe segno di arroganza, l’altro di mollezza. Dire tutto questo positivamente non è facile. Possiamo dire però che la vigile consapevolezza della propria consacrazione, la gioia continua d’una speranza ineffabile, l’amore degli uomini, l’abitudine di pensieri solenni e benevoli, la pace interiore, che di quella consacrazione sono gli effetti preziosi, non possono non rendere il portamento naturalmente composto e la parola spontaneamente nobile e gradevole, non possono non imprimere nel volto e su tutta la persona “una specie di floridezza verginale ” che merita la stima e incute il rispetto 208. 3. La vita comune e la custodia della castità L’altro punto su cui insiste la Regola per la custodia della castità è l’aiuto che viene alla persona consacrata dalla vita comune. Infatti quel Dio che abita in voi vi proteggerà pure in questo modo, per mezzo cioè di voi stessi 209. Si sa che la castità è un dono di Dio e che Dio solo ne è il custode. Dio la custodisce per mezzo della carità che infiamma l’anima per i beni universali e celesti. S. Agostino lo ha ripetuto tante volte nella controversia pelagiana. Ma già nelle Confessioni, ripensando forse alla sua esperienza personale, lo aveva detto in tutte lettere. La breve, famosa, mirabile preghiera: da’ quel che comandi e comanda ciò che vuoi, si riferisce proprio alla castità. “Ci comandi la continenza, dice il testo delle Confessioni, e qualcuno disse: “Conscio che nessuno può essere continente se Dio non lo concede, era già un segno di sapienza anche questo, di sapere da chi ci viene questo dono”. La continenza in verità ci raccoglie e riconduce a quell’unità, che abbiamo lasciato per disperderci nel molteplice. Ti ama meno chi ama altre cose con te senza amarle per causa tua. O amore, che sempre ardi senza mai estinguerti, carità, Dio mio, infiammami. Comandi la continenza. Ebbene, da’ ciò che comandi e comanda ciò che vuoi” 210. Ma Dio custodisce la nostra castità anche per mezzo di noi stessi, per mezzo, cioè, dell’aiuto che ci viene dalle persone consacrate con le quali viviamo. La prima forma di aiuto è il rispetto mutuo: Quando vi trovate insieme proteggete a vicenda la vostra pudicizia 211. Questo è detto direttamente per l’incontro con persone di sesso diverso; ma vale anche per ogni incontro di persone consacrate. Il rispetto che noi abbiamo per gli altri e quello che gli altri hanno per noi, nascendo dalla stessa fonte, che è la presenza dello Spirito Santo in tutti e in ciascuno, crea un’atmosfera soprannaturale che sostiene e rafforza il santo proposito di essere fedeli a Dio, e ne accresce la gioia. La seconda forma di aiuto sta nell’amicizia. Dice il Concilio: “Tutti ricordino che la castità si può custodire più sicuramente se tra i religiosi nella vita comune vige un vero amore fraterno” 212. Queste parole sono tipicamente, anche se non letteralmente, agostiniane. S. Agostino ha voluto portare nella vita religiosa, lo abbiamo già detto, tutta la carica dell’amicizia; un’amicizia aperta, non gelosa; spirituale, non sensibile; franca, non adulatrice; soprannaturale, non puramente umana; ma, ciononostante, anzi proprio per questo, calda, gioiosa e duratura. Certamente quest’amicizia, che trova nella carità il suo alimento e, quando sia necessario, un correttivo, è un ideale a cui non è possibile arrivare sempre e con tutti; ma quel grado, anche minimo, che è possibile e doveroso, costituisce per tutti una forza straordinaria che sostiene l’animo e gli fa sentire il quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum! La terza forma di aiuto è la correzione fraterna, delicato e fecondo atto di carità di cui abbiamo parlato sopra. Aggiungeremo qui un altro mezzo efficacissimo per custodire la castità, mezzo che la Regola non tocca direttamente, ma che S. Agostino descrive diffusamente nel De sancta virginitate: l’umiltà. All’umiltà dedica infatti tutta la seconda parte – abbiamo detto anche questo – di quell’aureo trattato. Ne riporteremo una sola frase, ma scultorea come un aforisma e indimenticabile, questa: Custos virginitatis caritas, locus autem huius custodis humilitas. Custode della verginità è la carità, ma la casa dove abita questo custode è l’umiltà 213. Capitolo settimo LA POVERTÀ Se in ordine alla nostra consacrazione a Dio la castità occupa il primo posto, in ordine alla vita comune il primo posto spetta alla povertà. S. Agostino infatti, che concepì ed organizzò la vita religiosa intorno al concetto della vita comune, subito dopo aver indicato la ragione stessa di questa vita con le parole: abbiate un’anima sola e un cuor solo protesi verso Dio 214, ne indica il fondamento con queste altre: Non dite di nulla: “È mio”, ma tutto sia comune fra voi. Il superiore distribuisca a ciascuno di voi il vitto e il vestiario, non però a tutti ugualmente, ma ad ognuno secondo le sue necessità 215. Non v’è chi non veda quanto siano sapienti e ricche di contenuto queste parole: non solo stabiliscono il fondamento della vita comune, ma ne indicano due aspetti essenziali, che sono: la comunione dei beni e la distribuzione proporzionale di essi; o, in altre parole, i doveri del religioso verso la comunità e i doveri della comunità verso il religioso. 1. Comunione dei beni È quella forma di povertà evangelica di cui i primi cristiani, a Gerusalemme, diedero uno splendido esempio. C’è infatti nella Regola stessa, come sappiamo, la citazione degli Atti. Come si legge negli Atti degli Apostoli – continua il testo citato – Essi avevano tutto in comune. Di questa povertà evangelica, interpretata dai primi cristiani, S. Agostino illustrò e mise in pratica quattro aspetti: il voto, la rinuncia ad ogni proprietà, la perfetta vita comune, l’attesa fiduciosa della misericordia di Dio. a) Voto Qualcuno afferma che per trovare la nozione del voto di povertà bisogna aspettare almeno un secolo dopo S. Agostino. Non è esatto. Il Vescovo d’Ippona ha chiara non solo la nozione di voto – di questo non si sa chi possa dubitare – ma anche la nozione del voto di povertà. Difatti egli paragona la povertà alla castità e ritiene che la violazione della prima sia altrettanto grave quanto lo è la violazione della seconda. Ecco un testo molto esplicito: ” …chi abbandona la società della vita comune che aveva abbracciato – quella società lodata dagli Atti degli Apostoli – viene meno al suo voto, viene meno ad una santa professione. Stia attento al giudice; non a me, ma a Dio… Io so quanto sia grave fare un voto e non osservarlo. Dice la Scrittura: Fate voti e scioglieteli al Signore vostro Dio 216, e ancora: è meglio non far voti, che farli e non adempierli 217. Una vergine, benché mai entrata in monastero, se è consacrata, non ha il permesso di sposarsi, ma nessuno la obbliga ad entrare in monastero. Se però vi entra e se ne allontana e resta vergine, è caduta per metà. Lo stesso accade a un chierico. Ha professato due cose: la santità e il clericato. Per se stesso la santità, perché il clericato Dio glielo ha imposto sul capo a favore del suo popolo; per lui è più un peso che un onore; ma qual è il sapiente – esclama sospirando S. Agostino – che capisce queste cose? 218. Dunque ha professato la santità, ha professato la vita comune, ha professato come è bello e come è giocondo il convivere di tanti fratelli insieme 219; se recede da questo proposito e resta chierico, anch’egli è caduto per metà” 220. Non si potrebbe desiderare una dottrina più limpida e più netta. Vale la pena d’insistervi un poco. L’esempio della vergine consacrata è trasparente. Se abbandona la vita comune, che ha professato, viene meno per metà ai suoi doveri; questo vuol dire che povertà e castità sono obblighi uguali davanti a Dio. Degno di considerazione è anche il secondo caso, oggi soprattutto, quando un numero non piccolo di religiosi-sacerdoti lasciano con grande disinvoltura la vita religiosa, pensando che, conservato il sacerdozio, nulla hanno perduto davanti a Dio. S. Agostino non era di questo parere: dimidius et ipse cecidit, sentenzia; anch’egli è caduto per metà. b) Rinuncia alla proprietà Il voto di povertà o voto di vivere in comune importa la rinuncia alla proprietà dei beni materiali. Così fece S. Agostino appena tornato a Tagaste, così volle che facessero quanti vivevano con lui. “La vostra Carità – così parla al suo popolo – sa certamente anche questo, che io ho detto ai miei fratelli che vivono con me, che se qualcuno ha qualcosa di proprio o lo venda, e ne dia il prezzo in elemosina, o lo doni e lo metta in comune… Ne facciano quello che vogliono – conclude il Santo con parole di commovente bellezza – purché siano poveri insieme a me, e aspettiamo insieme la misericordia di Dio” 221. È inutile dire che questa rinuncia non riguarda solo ciò che si possedeva prima di entrare in monastero, ma tutto, anche quello che in qualsiasi modo si acquistava dopo; anche i doni che provenissero dai parenti e perfino nel caso che si trattasse di cose ritenute necessarie. Anche in questo caso il dono ricevuto doveva essere messo in comune e la cosa distribuita dal superiore a chi ne avesse avuto bisogno. Anzi, il textus receptus della Regola aggiunge a questo punto una sentenza fortissima: se qualcuno avrà tenuto nascosto l’oggetto donatogli sia giudicato colpevole di furto 222. La sentenza risponde pienamente al pensiero di S. Agostino, estremamente severo in fatto di povertà, ed è riportata da molti manoscritti. Aggiungiamo un’altra osservazione. La rinuncia alla proprietà importava l’impossibilità di esercitare il diritto, universalmente riconosciuto, di far testamento. S. Agostino non lo fece infatti, e provò un acutissimo dolore quando si seppe che uno dei suoi sacerdoti, che vivevano con lui nel monastero, lo aveva fatto. Di lui dice il primo biografo: “Testamento non ne fece, perché, povero di Dio, non aveva di che farlo” 223. Di Gennaro invece, presbitero che, morendo, aveva fatto testamento, dice il Santo: ” … ha fatto testamento. Ha fatto, dico, testamento un presbitero e socio nostro, che era con noi, che viveva della Chiesa, che professava la vita comune; ha fatto testamento, ha istituito gli eredi. Oh dolore di quella società! oh frutto nato non dall’albero che ha piantato il Signore! Ma ha istituito erede la Chiesa. Non voglio questi doni, non amo il frutto dell’amarezza. Io volevo lui per darlo a Dio: aveva professato la nostra vita; doveva restarvi fedele, doveva mostrarsene degno, non doveva aver nulla di proprio, non doveva far testamento. Aveva qualcosa? Non doveva fingersi nostro compagno, quasi fosse povero di Dio (quando non lo era). Il mio dolore è grande, fratelli. Vi dico anzi che per questo dolore ho stabilito di non accettare per la Chiesa quell’eredità” 224. Quando si tratta di principi, S. Agostino non transige. I suoi religiosi devono saperlo. Occorre aggiungere, inoltre, che la rinuncia ad ogni proprietà doveva estendersi a tutti gli effetti civili. S. Agostino lo esige, almeno dopo il caso di Onorato, vescovo di Tagaste, ordinato sacerdote per la chiesa di Thiana, il quale, non avendo fatto la rinuncia della sua proprietà agli effetti civili, diede luogo, dopo la morte, ad una lunga e spiacevole discussione tra il monastero e la parrocchia 225. Occorre infine notare che a proposito della rinuncia, nella vita comune, ad ogni proprietà e all’obbligo conseguente di non fare testamento, S. Agostino ha pronunciato le parole più forti uscite dalle sue labbra e forse dal labbro di un vescovo o di un fondatore di Ordine religioso. Egli si era proposto, com’è noto, di non ordinare chierici della sua chiesa se non coloro che avessero accettato di vivere in comune con lui, in modo di aver diritto poi, qualora qualcuno di loro avesse abbandonato il monastero, di cancellarlo dall’albo del clero. Ma ci fu, pare, un’alzata di scudi sia da parte dei chierici che da parte dei vescovi. S. Agostino stesso, inoltre, si accorse che ciò poteva favorire la simulazione e l’ipocrisia. Cambiò parere. Il 18 (o il 28) dicembre 425 parlò al suo popolo e diede ai chierici la libera opzione: restare in monastero con lui o vivere in casa propria. Tempo per riflettere fino all’Epifania. Dopo il 6 gennaio il vescovo parla di nuovo al popolo, annuncia con gioia che tutti hanno accettato la vita comune e aggiunge: “Ora poi, se qualcuno sarà trovato proprietario, non gli permetto di fare testamento, ma lo cancello dalla tabella dei chierici. Si appelli pure contro di me a mille concili, navighi pure contro di me dove vuole – l’allusione a Roma è qui evidente – se ne stia dove potrà: mi aiuterà il Signore a far sì che dove io sono vescovo, egli non possa essere chierico” 226. Queste parole non hanno bisogno di commento. Il lettore però, per assaporarne la forza, le rilegga. c) Vita comune perfetta S. Agostino spinge il concetto della vita comune fino alle ultime conseguenze: non solo rinuncia ad ogni proprietà, ma uso comune delle cose: comune il vitto, comuni le vesti. Anche le vesti. La Regola è esplicita: Come siete nutriti da una sola dispensa, così vestitevi da un solo guardaroba” 227. Egli stesso, vescovo, faceva così. Sono celebri le sue parole a proposito: ” …io stesso – dice al suo popolo – prendo le vesti dal guardaroba comune, perché voglio avere in comune tutto ciò che ho. Per questo non voglio che mi offriate vesti che io solo in un certo senso potrei portare più convenientemente. Mi offrite, per esempio, un mantello prezioso: forse conviene ad un vescovo, benché non convenga ad Agostino, cioè un uomo povero, nato da poveri. La gente dirà che ora (da vescovo) ho trovato quelle vesti preziose che non avrei potuto avere o nella casa di mio padre o in quella mia professione secolare. Non va: voglio avere una tale veste che possa darla, se ne avrà bisogno, al mio fratello; tale, poiché la prendo dal guardaroba comune, quale possa portare convenientemente un presbitero, un diacono, un suddiacono. Se qualcuno me ne darà una migliore, la vendo – e in realtà sono solito farlo – affinché, se non può essere comune la veste, sia comune il prezzo della veste” 228. Agostino sa, da fine psicologo, che questo metodo, in realtà piuttosto severo, può dare occasione a contese e mormorazioni. Fa perciò due cose: richiama i suoi religiosi al principio dell’interiorità e permette che venga tollerata la loro debolezza, cioè che ciascuno possa riprendere le vesti che ha deposte. Ecco, nel primo punto, le parole della Regola: Se da ciò sorgono tra voi discussioni e mormorazioni, se cioè qualcuno si lamenta di aver ricevuto una veste peggiore della precedente e della sconvenienza per lui di vestire come si vestiva un altro suo confratello, ricavatene voi stessi una prova di quanto vi manchi del santo abito interiore del cuore, dato che litigate per gli abiti del corpo 229. Belle parole che richiamano il religioso alle vere ricchezze, che sono quelle interiori dello spirito. Dimenticare queste e litigare per le vesti è proprio segno di una triste miseria. Sul secondo punto l’eccezione è espressa in modo, da indicarne anche i limiti: Comunque, qualora questa vostra debolezza venga tollerata e vi si consenta di riprendere quello che avevate deposto, lasciate nel guardaroba comune e sotto comuni custodi quello che deponete 230. Ma l’ideale della Regola resta quello che S. Agostino praticò in realtà nei suoi monasteri. Se possibile – e questa condizione già dice che la cosa consigliata può avere difficoltà concrete, reali – non curatevi di quali indumenti vi vengano dati secondo le esigenze della stagione, se cioè riprendete quello smesso in passato o uno diverso già indossato da un altro; purché non si neghi a nessuno l’occorrente 231. In effetti le mutate condizioni sociali e le legittime precauzioni igieniche hanno consigliato o imposto di non insistere, molte volte, sul raggiungimento di questo ideale; ma l’ideale resta, e dev’essere fonte perenne d’ispirazione; una fonte d’ispirazione che impedisca alla persona religiosa di considerare come proprie o di attaccare il cuore a quelle cose – vesti, libri, macchine, oggetti – che gli vengano date in uso. Perché ciò non avvenga occorre coltivare la virtù della povertà evangelica, che consiste nel sentirsi veramente poveri, cioè sprovvisti di tutto, e fiduciosi solo nella misericordia di Dio. d) Spirito della povertà evangelica S. Agostino lo ha posseduto e lo ha espresso in maniera mirabile. Rileggiamo le parole citate sopra: “Facciano quel che vogliono, purché siano poveri insieme a me e aspettiamo insieme la misericordia di Dio” 232. Tali erano in realtà i chierici che vivevano con lui nel monasterium clericorum. Il nostro Santo lo annunzia gioiosamente al popolo dopo aver fatto la “visita” al monastero. Anzi, per tagliar corto con ogni possibile mormorazione, li passa in rassegna uno per uno, chiarendo la loro posizione di fronte alla legge fondamentale della vita comune. “Tutti i miei fratelli chierici che vivono con me – i presbiteri, i diaconi, i suddiaconi e mio nipote Patrizio – li ho trovati come desideravo trovarli… Il diacono d’Ippona è un uomo povero… Il diacono Eraclio lo conoscete… Gli rendo testimonianza che è restato povero e ha conservato il possesso della carità … Gli altri, cioè i suddiaconi, sono poveri e per dono di Dio aspettano la misericordia di Dio… Restano i presbiteri… Ve lo dirò in due parole: sono poveri di Dio. Nulla hanno apportato alla vita comune se non ciò che è più caro di tutti: la carità” 233. Povertà, fiducia in Dio, carità: tre concetti, tre virtù, tre atteggiamenti inscindibilmente uniti. I religiosi dunque alla scuola di S. Agostino devono essere e sentirsi “poveri di Dio”, o, come anche li chiama il Santo “minimi di Cristo” 234. Ma che vuol dire questo? Non aver nulla su cui sperare in questa terra, vivere del proprio lavoro, accontentarsi di poco, essere lieti di possedere Dio, attendere tutto da Lui per mezzo della sua Chiesa. ” … coloro ai quali non basta Dio e la sua Chiesa, stiano pure dove vogliono e dove possono: non toglierò loro il clericato – dice il Santo – non voglio degli ipocriti con me… Ma se uno è pronto a non avere nulla di proprio, ma o a darlo ai poveri o a metterlo in comune, resti con me”; “chi resta con me non ha nulla, ma possiede Dio”: Habet Deum qui mecum manere vult 235. È inutile notare che S. Agostino parla di povertà individuale, non di povertà comune; i singoli religiosi devono essere poveri, non necessariamente il monastero. Nel Concilio di Trento la Chiesa ha fissato sulla povertà religiosa la dottrina già esposta e difesa da S. Agostino 236. 2. Distribuzione proporzionale Al concetto della povertà evangelica, così profondamente inteso dal Vescovo d’Ippona, va congiunto un altro aspetto, che è essenziale anch’esso, della vita comune: l’equa, e perciò proporzionale distribuzione dei beni di cui ha bisogno la necessità passeggera. Si distribuisca a ciascuno di voi il vitto e il vestiario; non però a tutti egualmente, perché non avete la medesima salute, ma ad ognuno secondo le sue necessità 237. Anche qui la prescrizione della Regola è appoggiata sul testo degli Atti, esplicitamente ricordato: … e si distribuisca a ciascuno secondo le sue necessità 238. Questa della distribuzione proporzionale è una questione delicatissima da cui dipende il benessere del monastero ed il successo di una regola monastica. Per risolverla con sapienza occorreva un sicuro intuito della psicologia umana ed un senso profondo di bontà e di moderazione. L’animo di S. Agostino era ben provvisto di simili qualità. Dovunque infatti nelle prescrizioni della sua Regola brilla uno spirito di discrezione e di equilibrio, che sa essere forte senza debolezze, comprensivo senza negligenze, che ricorda ai Superiori di essere più buoni che severi, ed ai sudditi che è meglio aver meno bisogni che possedere più cose 239. Lo abbiamo visto sopra e lo vedremo ancora, fra poco, parlando delle qualità del Superiore. Qui rileviamo soltanto che alla felice riuscita di questo aspetto essenziale della vita comune contribuiscono anche, in parte non minima, tutti coloro che nella casa religiosa hanno un qualche ufficio, che tocca da vicino la vita degli altri. S. Agostino ricorda esplicitamente l’infermiere, il dispensiere, il guardarobiere e il bibliotecario. A tutti dà il comando di servire con animo sereno i propri fratelli: sine murmure serviant fratribus suis 240. Comando breve, ma capace, se osservato, di rendere serena e gioiosa la vita comune. Evidentemente questo servizio di carità fraterna dovrà essere reso secondo le disposizioni generali della Regola e della comunità. Così, secondo la Regola, il bibliotecario non deve dare i libri a chi li chiederà fuori orario 241, mentre il dispensiere deve dare le vesti senza indugio a chi le chiede, quando gli siano necessarie 242. Capitolo ottavo AUTORITÀ ED OBBEDIENZA Il breve capitolo che la Regola dedica all’autorità e all’obbedienza rivela meglio degli altri la profonda rivoluzione che il Vescovo d’Ippona introdusse nella vita monastica. Egli si occupa principalmente del primo termine del binomio, senza trascurare, evidentemente, il secondo. Scrivendo, attinge alle sue intuizioni di fine psicologo, ma anche e soprattutto alle sue esperienze di superiore premuroso, delicato, buono; d’una bontà sempre pronta a servire, ma anche pronta, quando la necessità lo richiedesse, a mostrarsi ferma e decisa. 1. Autorità Possiamo riassumere il suo pensiero così: il superiore dev’essere padre, servo e modello della comunità di cui è responsabile davanti a Dio. Questa responsabilità fa gemere S. Agostino. Si rileggano i suoi discorsi tenuti in occasione dell’anniversario della sua consacrazione episcopale 243. Perciò la sua sentita raccomandazione al superiore: rifletta continuamente che dovrà rendere conto di voi a Dio 244. Il pensiero della propria responsabilità lo indurrà prima di tutto a sentirsi e a mostrarsi padre. a) Superiore-padre Il padre deve congiungere insieme due qualità inseparabili: la bontà che si fa amare e la severità che si fa temere. Queste due qualità sono tutt’e due necessarie, ma soprattutto la prima. ” …sebbene siano cose necessarie entrambe, tuttavia preferisca piuttosto di essere amato che temuto” 245. Così la Regola. Farsi temere è indispensabile: sarebbe un grave errore non crederlo. È indispensabile per due ragioni, che la Regola esplicitamente menziona: imporre l’osservanza della legge e correggere le infrazioni. Sarà compito speciale del superiore far osservare tutte queste norme; non trascuri per negligenza le eventuali inosservanze ma vi ponga rimedio con la correzione 246. Ma egli non potrà assolvere questo compito senza un’autorità riconosciuta, rispettata e temuta. S. Agostino ne è tanto convinto che non comanda al superiore di chiedere perdono ai propri sudditi anche quando si accorga di aver usato troppa durezza nel riprenderli; mentre gli comanda di ricorrere all’autorità del superiore maggiore per imporre la disciplina in quelle circostanze nelle quali non arriva la sua competenza o non bastano le sue forze. Nel primo caso come nel secondo lo scopo della prescrizione è lo stesso, cioè quello di difendere l’autorità, che dev’essere forte per essere efficace. Nel primo caso questo motivo è espresso in tutte lettere: affinché non avvenga – si legge nella Regola – che una troppo grande umiltà verso i sudditi spezzi il prestigio dell’autorità del superiore 247. Non già che sia l’umiltà ad indebolire l’autorità, anzi l’umiltà la rafforza; dà infatti a chi la possiede una superiorità che l’orgoglio non conosce e una maestà che suscita negli altri rispetto e venerazione – ubi humilitas, ibi maiestas 248; ma sono certi modi di manifestare questo nobile e forte sentimento – l’umiltà – che possono generare in alcuni spiriti poco profondi un’idea falsa dell’autorità, quasi che, mostrandosi umile, diventasse debole ed incerta. Perciò, S. Agostino non comanda – anche se non proibisce – di chiedere perdono. Il superiore però deve umiliarsi profondamente davanti a Dio e chiedergli perdono per non aver saputo conservare nella riprensione la giusta misura. Dunque il superiore, anche se dev’essere un padre, anzi appunto perché dev’essere un padre, non può dimenticare che ha l’obbligo di farsi temere, e d’imporre, sia pure, se necessario, col timore il rispetto della disciplina. L’esigenza del rispetto può giungere fino al rimedio estremo, che è l’espulsione dalla comunità. Lo abbiamo visto sopra: S. Agostino stesso – abbiamo visto anche questo – ha dato, nei riguardi della disciplina monastica, rari esempi di fortezza. È necessario farsi temere; ma soprattutto, per un superiore, è necessario farsi amare: preferisca piuttosto, ci dice la Regola, di essere amato che temuto. Splendido e luminoso principio che porta l’impronta del genio e dell’animo di S. Agostino! La ragione di esso sta nelle parole che seguono: riflettendo continuamente che dovrà rendere conto di voi a Dio 249. S. Agostino si appella, come si vede, al senso profondo della responsabilità, non davanti agli uomini, che sarebbe poco, ma davanti a Dio. Se non che questa ragione sembrerebbe dimostrare proprio il contrario; in quanto il senso della responsabilità sembrerebbe spingerlo piuttosto alla severità, da cui nasce il timore, che alla bontà, da cui nasce l’onore. In realtà, invece, è S. Agostino che ha ragione. Il senso della responsabilità spinge il superiore prima di tutto a volere fermamente e a promuovere con tutti i mezzi l’osservanza regolare, che è fonte di santificazione per le anime e di onore a Dio. Ora, considerando attentamente il cuore dell’uomo, l’osservanza della legge si ottiene più con l’amore che con il timore. Il timore infatti entra nell’animo per preparare il posto all’amore: finché il richiamo dell’amore è debole, lo stimolo del timore è necessario; intendiamo per timore il timore della pena. Ma finché per compiere il proprio dovere è necessario il timore, la stabilità della vita spirituale resta vacillante e la fecondità limitata: solo l’amore rende la vita spirituale sicura e feconda. Perciò il superiore libererà tanto più la sua coscienza dalla responsabilità verso Dio, quanto più riuscirà ad infondere nella comunità, che gli è stata affidata, l’amore per l’osservanza religiosa, e perciò anche per il superiore che la rappresenta e la tutela. Ma come farà il superiore a farsi amare senza diventare connivente con l’inosservanza e l’indisciplina? Non è facile rispondere a questa domanda. Più che da uno studio, da un’arte, da un impegno particolare ciò dipende da diverse qualità naturali e soprannaturali, combinate in bella maniera e tanto felicemente da produrre, anche senza che la persona se ne avveda, un effetto singolare di simpatia, di stima, di rispetto. Da questi sentimenti a quello dell’amore il passo è breve. La Regola ne indica due di queste qualità, che sono poi le principali: l’umiltà e la esemplarità. L’umiltà che non ama comandare, ma ubbidire, che accetta il superiorato, non lo desidera; che non cerca in esso l’onore e il potere, ma il volere di Dio e il servizio dei fratelli; che fa, in altre parole, del comando un atto costante di obbedienza. L’esemplarità che crede fermamente nell’ideale religioso, che stima sinceramente le norme che ne assicurano il compimento, che si studia costantemente di mostrarsi modello delle buone opere. b) Superiore-servo “Chi vi presiede non si stimi felice perché domina col potere, ma perché serve con la carità” 250. Queste parole della Regola enunciano un programma – il programma sempre antico e sempre nuovo del Vangelo – che S. Agostino attuò fedelmente per tutta la vita. Enunciano anche una dottrina che, per il Vescovo d’Ippona, sta al centro della spiritualità propria dei sacerdoti e di quanti, nella Chiesa, hanno una responsabilità direttiva. “Nella casa dell’uomo giusto, che vive di fede ed è ancor pellegrino, lontano dalla città celeste – si legge in una bella pagina del De civitate Dei – anche coloro che comandano, servono a quelli cui sembrano comandare. Infatti non comandano per la cupidigia di dominare, ma per il dovere di aiutare, non per l’orgoglio di essere i primi, ma per la misericordia di provvedere 251. S. Agostino ci lasciò rari esempi di questo servizio d’amore; un amore disinteressato, umile, generoso: infatti si sentì e fu in realtà e senza risparmio servo di tutti, vicini e lontani. In merito a questo servizio sviluppò una splendida dottrina che ne svela tutte le ricchezze teologiche e pastorali. Ma di questo ho parlato altrove 252. Qui riporto solo un testo che ci mostra le stupende radici cristologiche di questa dottrina e le sue profonde conseguenze, che impegnano il superiore a cercare non i propri interessi, ma gli interessi di Cristo. “Che altro vuol dire (il Signore con quelle parole a S. Pietro): Mi ami tu? Pasci le mie pecore, se non: se mi ami non pensare a pascere te stesso, ma pasci le mie pecore, come mie, non come tue; cerca in esse la mia gloria, non la tua; il mio dominio, non il tuo; il mio guadagno e non il tuo; se non vuoi essere del numero di coloro che appartengono ai tempi difficili, i quali sono amanti di se stessi, con tutto quel che deriva da questa sorgente d’ogni male”. “Non amiamo dunque – conclude il Santo – noi stessi, ma il Signore; e nel pascere le sue pecore, non cerchiamo i nostri interessi, ma i suoi” 253. Queste parole – non occorre dirlo – hanno una singolare profondità psicologica, in quanto ci avvertono di un grave pericolo, che si traduce spesso in inganno, che consiste nel pensare di servire gli interessi di Cristo, mentre in realtà si servono i propri, o almeno si servono anche i propri. Ciò avviene quando si chiede, sia pure inconsapevolmente, al ministero pastorale – e il superiore come tale è un pastore – di soddisfare non dirò a sordidi interessi, ma alla nostra piccola gloria e alla sete, che tutti più o meno sentiamo, di onore e di potere. In questo caso, non infrequente, si fanno insieme due cose: si servono le anime e ci si serve di loro. Per evitare questo sottile inganno S. Agostino raccomanda a tutti i superiori di pascere le pecore di Cristo, ma come pecore di Cristo, non come proprie; desiderando cioè che esse siano totalmente ed esclusivamente di lui e in nessun modo nostre. c) Il superiore-modello La terza qualità del superiore, descritta dalla Regola, e la seconda di quelle che gli sono più necessarie per farsi più amare che temere, è mostrarsi ed essere modello nell’operare il bene. Si offra a tutti come esempio di buone opere 254. È il precetto della Regola, che è, poi, la traduzione di quello dato dall’Apostolo a Timoteo 255. Tra queste opere vengono ricordate esplicitamente quelle che S. Paolo ricorda ai fedeli di Tessalonica 256: Moderi i turbolenti, incoraggi i timidi, sostenga i deboli, sia paziente con tutti 257. Sarebbe interessante percorrere queste opere una per una e indicare quei suggerimenti che possano aiutare il superiore a compierle con esemplarità; ma si andrebbe troppo per le lunghe. Utili consigli si possono trovare nella terza parte della Regola pastorale di S. Gregorio Magno. Qui basterà rilevare che la radice di tutte queste opere buone è l’amore; un amore forte e generoso, che è lieto di dare senza chiedere, lieto di servire senza voler essere servito. In un discorso, che poco fa ho raccomandato di leggere, S. Agostino riassume così i suoi doveri di pastore: “Dobbiamo moderare i turbolenti, incoraggiare i timidi, sostenere i deboli, riprendere i contraddittori, evitare gli invidiosi, istruire gli indotti, scuotere i pigri, frenare i rissosi, reprimere i superbi, pacificare i litiganti, aiutare i bisognosi, liberare gli oppressi, approvare i buoni, tollerare i cattivi, amare tutti” 258. Molte di queste opere sono proprie anche del superiore, di ogni superiore. La radice di esse sta nell’ultimo inciso: amare tutti. Proprio così. L’amore si conquista con l’amore, e quando in una comunità c’è la gioia dell’amore, la vita spirituale è assicurata. Ricorderemo a questo proposito che la celebre espressione di S. Agostino, così spesso ripetuta e così spesso interpretata male: ama e fa’ ciò che vuoi, è stata scritta a proposito della correzione fraterna, che è uno dei compiti principali, e tra i più difficili, del superiore. “Una volta per tutte dunque ti viene imposto un breve precetto: ama e fa’ ciò che vuoi, sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che tu perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene” 259. Ricorderò poi che la carità è una, ma varia il suo atteggiamento secondo le necessità della persona a cui si rivolge. Non posso fare a meno di citare a questo proposito il seguente testo agostiniano. Vi si parla di chi, per dovere di carità, deve provvedere a tante diverse persone, e a ciascuna secondo il suo bisogno particolare. “Si deve a tutti la stessa carità – scrive il Santo – ma non a tutti la stessa medicina. La carità infatti, pur essendo la stessa, genera gli uni e si conforma alla debolezza degli altri; gli uni si studia di edificarli, gli altri teme di offenderli; di fronte a uno si umilia, di fronte a un altro si erge con fierezza; con alcuni è blanda, con altri è severa; a nessuno è nemica, per tutti è madre” 260. Per tutti è madre! Il segreto d’un superiore pio e saggio non poteva essere espresso più efficacemente. 2. Obbedienza S. Agostino non ebbe occasione di scrivere un trattato intorno all’obbedienza come la ebbe di scriverlo intorno alla verginità, né d’insistere su l’argomento dell’obbedienza come dové insistere su quello della povertà. Perciò la sua dottrina su questo argomento – intendiamo su l’obbedienza religiosa – non è così ricca come è ricca quella su la verginità e la povertà. Anzi abbiamo già osservato che toccando l’argomento relativo al binomio autorità e obbedienza preferisce fermarsi sul primo termine, forse perché, essendo vescovo e mal soffrendo il grave peso della sua responsabilità, credeva più opportuno e più pastorale ricordare a se stesso i suoi doveri che quelli degli altri. Non v’è dubbio però che la dottrina intorno al potere e all’arte del comando illumina anche il dovere e la natura dell’obbedienza. A questo proposito la Regola è brevissima, ma molto efficace. Ai tre doveri del superiore – padre, servo e modello – fa corrispondere tre doveri dei sudditi, che sono: obbedienza, onore e compassione. a) Si obbedisca al superiore come ad un padre L’obbedienza dev’essere filiale e soprannaturale. Anzitutto filiale. Le parole della Regola che abbiamo riferite sono un raggio di luce il cui splendore illumina un vasto panorama. Si obbedisca al superiore come ad un padre 261. Dunque la comunità è una famiglia, dunque in essa v’è uno che ha il compito e l’ufficio di padre, dunque tutti debbono essere, sentirsi e operare come figli. Ma il figlio sa che deve ubbidire a suo padre, ubbidire con amore, con gioia, con spontaneità; ma ubbidire. È un’esigenza di ogni società umana, la cui pace consiste appunto nell’”ordinata concordia dei membri nel comandare e nell’ubbidire”. È un’esigenza della disponibilità di tutti alle opere di Dio. Si ricorderà che S. Agostino accettò il sacerdozio solo per ubbidire e ricordò a tutti e spesso il dovere dell’obbedienza. È un’esigenza della nostra pace interiore, che trova la sua radice nel saper compiere con amore il volere di Dio. “Piace a Dio – dice acutamente il Vescovo d’Ippona – colui al quale piace Dio” 262, piace non già nella sua bellezza, che è troppo naturale, ma nelle sue disposizioni, anche se, spesso, spiacevoli alla natura. Per questo la Regola continua indicando la vera ispirazione dell’obbedienza: … col dovuto rispetto per non offendere Dio nella persona di lui 263. Il superiore che fa le veci di Dio è, intesa rettamente, un’idea evangelica, che S. Agostino riprende. Gioverebbe ripetere qui quanto il santo dottore dice a proposito dell’obbedienza come virtù “radicale” e”fontale”264, e perciò, in questo senso, “origine, madre e custode di tutte le virtù” 265; come pure il paragone che egli istituisce tra l’obbedienza – nel senso predetto – e la verginità 266, ma il lettore vorrà scusare la nostra fretta. b) … sia tenuto in alto per l’onore Al superiore non si deve solo l’obbedienza, ma anche l’onore. Questo sarà per lui un motivo di più per umiliarsi davanti a Dio, ma l’atteggiamento interiore, umile e sincero, del superiore non dispensa gli altri dal compiere il proprio dovere. Certe forme di mal compresa democrazia non entrano nelle categorie agostiniane. Davanti a voi, prescrive la Regola, (il superiore) sia tenuto in alto per l’onore, davanti a Dio si prostri per timore ai vostri piedi 267. Onore e umiltà: umiltà da parte del superiore, onore da parte degli altri. Così, anche sotto questo aspetto, si realizza quella composizione dei contrari che costituisce la mirabile armonia della vita comune. Del resto il dovuto onore prestato al superiore è un aspetto di quello che si deve a tutti i fratelli, ed è un segno di stima, anzi un bene necessario per la comunità. S. Agostino infatti osserva col solito acume che, se al superiore non gli viene prestato il dovuto onore, il male non è per lui, ma per coloro che non lo prestano, cioè per la comunità; allo stesso modo, se il dovuto onore gli viene prestato, chi se ne avvantaggia non è il superiore, ma la comunità 268. Il superiore, poi, solo per questa ragione, cioè per il bene della comunità, può convenientemente accettare o anche volere tale onore 269. A condizione che non lo ami. E se lo amasse? Potremmo rispondere con una forte parola: peggio per lui. Alla comunità non ne viene nessun danno. Quando non sia quello di avere un superiore spiritualmente assai mediocre. Ma anche qui S. Agostino ci ammonisce. Res ista cordis est, iudicem habere non potest nisi Deum 270. È una questione che appartiene al cuore: non può giudicarla se non Dio. c) …obbedendo… mostrerete pietà… anche di lui Il terzo sentimento dei sudditi verso il superiore è la compassione. La Regola lo dice esplicitamente: Perciò, obbedendo maggiormente, mostrerete pietà non solo di voi stessi ma anche di lui 271. È un particolare interessante che basta da solo a qualificare una spiritualità. Obbedire per compassione verso il superiore! È un precetto che commuove per la sua profonda umanità e per la genuinità evangelica che racchiude. Il superiore ha una responsabilità che è sua, ma che ha per oggetto il bene degli altri; una responsabilità che, se è sapiente, non vorrebbe avere; che ha accettato e porta per amore di Cristo, gemendo e sperando. È ovvio allora che obbedendo gli si rende più facile il compito, gli si allevia il peso, lo si aiuta a portarlo con merito e ad evitare i pericoli che gli incombono. Il superiore, dice la Regola, si trova in un pericolo tanto più grande quanto più alta è la sua posizione tra voi 272. Consapevole di questo pericolo S. Agostino chiede al suo popolo di aiutarlo con la preghiera e con l’obbedienza a portare il suo fardello. “Aiutateci pregando e obbedendo… Poiché come noi dobbiamo pensare con grande timore e sollecitudine alla maniera di compiere irreprensibilmente l’ufficio pontificale, così voi dovete stare attenti a prestare umile obbedienza a tutte le cose che vi siano comandate” 273. E altrove: “Le mie uniche ricchezze sono la vostra speranza in Cristo. La mia gioia, il mio sollievo, il mio respiro tra i pericoli e le prove dell’ufficio altro non è che la santità della vostra vita, Fratelli, se non avete pietà di voi stessi, abbiate, ve ne supplico, pietà di me!” 274. Voglio terminare con un pensiero agostiniano che assicura, qualunque sia la condotta del superiore, la coscienza dei sudditi. “Ecco nel nome di Cristo ci apprestiamo ad andarcene – il discorso è tenuto a Cartagine – e diranno (i donatisti) molte cose contro di noi. Ma a quale scopo? Mettete subito da parte la nostra causa. Non rispondete se non a questo: Fratelli, state alla questione; Agostino è vescovo nella Chiesa cattolica, porta il suo fardello di cui renderà conto a Dio, so che è buono, ma se fosse cattivo è affare suo; ma anche se è buono, non ripongo in lui la mia speranza. Questo infatti ho imparato prima di ogni altra cosa nella Chiesa cattolica: a non riporre la mia speranza in un uomo” 275. Capitolo nono LA PREGHIERA Se la castità, la povertà e l’obbedienza sono le condizioni della vita comune e del progressivo fiorire, in essa, della carità; la preghiera, la mortificazione, la lectio divina, lo studio e il lavoro ne sono il continuo alimento. Prima di tutto la preghiera. A chi legge la Regola può sembrare strano che S. Agostino, il quale ha parlato tanto e tanto profondamente della preghiera – è in realtà il dottore della preghiera com’è il dottore della grazia – dedichi ad essa nella Regola un capitolo brevissimo. È vero, il capitolo della Regola sulla preghiera è molto breve, ma occorre aggiungere subito che è molto ricco. Tocca infatti ben cinque temi essenziali: la necessità della preghiera, la interiorità della preghiera, la preghiera comune, la preghiera privata, il canto ecclesiastico. A questi temi se ne aggiunge un sesto, a cui la Regola accenna più tardi, che completa il quadro: la frequenza, e perciò la perfezione della preghiera. Vediamo uno per uno, sia pur rapidamente, questi temi. 1. Necessità Il primo è espresso con le parole dell’Apostolo: Orationibus instate: insistete, perseverate assiduamente nella preghiera, attendetevi con alacrità. Questo vuol dire l’Apostolo 276 e questo dice S. Agostino. Ma dietro queste brevi parole v’è tutta la dottrina sulla necessità della preghiera, che il Vescovo d’Ippona ha difeso ampiamente mostrandone il fondamento teologico, che è costituito dalla necessità della grazia. La preghiera infatti è tanto necessaria quanto è necessaria la grazia. La grazia è necessaria, come è noto, per osservare la legge divina, per vincere le tentazioni, per giungere alla giustificazione, per perseverare in essa fino alla fine: per le stesse ragioni è necessaria la preghiera. Certo, anche la preghiera è un dono di Dio; ma è un dono che Dio dà a tutti, affinché per mezzo di esso ognuno possa ottenere gli altri doni che sono necessari per giungere alla salvezza. “Vi sono dei doni – dice S. Agostino – che Dio dà anche a quelli che non pregano, come l’inizio della fede; e vi son dei doni che dà solo a quelli che pregano, come la perseveranza finale” 277. Dio ha voluto che nella palestra spirituale combattessimo più con le preghiere che con le nostre forze 278. S. Agostino ne era profondamente e teologicamente convinto. Perciò la viva e continua esortazione alla preghiera. La ritroviamo nella Lettera a Proba 279, che è un trattato sulla preghiera. “Combatti con la preghiera, le dice, per vincere questo mondo; prega nella speranza, prega con fede ed amore, prega con costanza e pazienza, prega come una vera vedova di Cristo” 280, cioè come chi si sente sprovvisto di ogni sostegno e lo attende solo da Dio. La necessità della preghiera fu un tema centrale della controversia pelagiana. Il punto di partenza era identico, cioè questo: Dio non comanda l’impossibile. Ma da questa verità i pelagiani concludevano che non è necessaria la grazia per osservare ciò che Dio comanda; mentre S. Agostino ne concludeva, interpretando esattamente il Vangelo, che è necessaria la preghiera per ottenere la grazia ed essere in grado così di fare quello che Dio comanda. Da qui la celebre preghiera delle Confessioni contro cui si scagliò Pelagio: “Dammi (Signore) ciò che comandi e comanda ciò che vuoi” 281. Ma la preghiera non è solo implorazione, è anche, anzi prima di tutto, adorazione, lode, ringraziamento. Anche queste forme sono incluse in quel breve precetto della Regola: orationibus instate. Tant’è vero che il testo dell’Apostolo, da cui queste parole sono tratte, continua così: vigilate in essa – nella preghiera – con azioni di grazie 282. Ma di questo diremo qualcosa a commento del penultimo capoverso della Regola. 2. Interiorità Il secondo tema a cui la Regola accenna è l’interiorità della preghiera; tema espresso con quelle parole: Quando pregate Dio con salmi ed inni, meditate nel cuore ciò che proferite con la voce 283. È inutile dire che il tema dell’interiorità è fecondissimo: è connesso intimamente al dovere, alla natura, all’oggetto della preghiera, e serve a spiegare una moltitudine di questioni che si pongono intorno ad essa. L’interiorità della preghiera vuol dire che Dio non si prega con le labbra, ma col cuore 284, che altro è parlare molto, altro il pregare molto 285, che il grido della preghiera è il fervore della carità, mentre il silenzio della preghiera è il freddo della carità 286. Applicando questo principio S. Agostino, con un colpo d’ala, identifica la preghiera col desiderio. “Il desiderio prega sempre, anche quando la lingua tace. Se desideri sempre, preghi sempre. Quando sonnecchia la preghiera? Quando si raffredda il desiderio” 286. Ed ancora: “La tua preghiera è lo stesso tuo desiderio, se il desiderio è continuo, la preghiera è continua” 287. Questa identificazione è veramente luminosa. Si comprende, allora, perché dobbiamo pregare, ancorché Dio sappia di che cosa abbiamo bisogno. Dobbiamo pregare, perché attraverso la preghiera prendiamo coscienza del nostro bisogno, approfondiamo e dilatiamo il nostro desiderio e ci mettiamo in grado di ricevere in maniera più grande – la grandezza del dono è proporzionata alla grandezza del desiderio – ciò che Dio si prepara a darci 288. Si comprende anche la ragione della preghiera vocale, ancorché la preghiera consista, essenzialmente, non nella voce, ma nell’amore. “Se in determinati intervalli di ore e di tempi preghiamo Dio anche con le parole – scrive S. Agostino a Proba – lo facciamo per ammonire noi stessi con quei segni e renderci consapevoli in tal modo dei progressi fatti nel desiderio di Dio e per spronarci efficacemente ad accrescerlo” 289. La preghiera vocale o è la risultanza di un forte desiderio o il mezzo per suscitarlo. Si comprende infine quale sia la risposta da dare a una questione che spesso ci tormenta: che cosa possiamo chiedere a Dio nella preghiera. Data l’identificazione tra preghiera e desiderio la risposta è facile: ciò stesso che possiamo onestamente desiderare e nell’ordine in cui possiamo e dobbiamo desiderarlo. Se la preghiera infatti s’identifica con il desiderio, l’oggetto della preghiera non può essere altro che l’oggetto del desiderio. Perciò insegnandoci a pregare, Gesù ci ha insegnato a desiderare, cioè ad amare. Il Padre nostro è il paradigma dei nostri desideri: le sette petizioni di esso contengono tutto ciò che possiamo rettamente e convenientemente desiderare, tutto ciò che possiamo e dobbiamo amare 290. Il Padre nostro perciò non è solo una preghiera, ma una fonte di spiritualità, una regola di condotta, una scuola di vita. V’è poi un’altra conclusione – questa volta una conclusione generale – da trarre dal principio dell’interiorità, che è questa: la preghiera non è solo un dovere, anche se è un dovere, ma è soprattutto un bisogno, un bisogno incoercibile dell’animo nostro. Questa conclusione, che rovescia radicalmente le corte vedute che spesso si hanno della preghiera, non si riferisce tanto alla preghiera di domanda – è ovvio che chi domanda sa e confessa di aver bisogno – quanto alla preghiera di lode, di ringraziamento, di adorazione. Questa preghiera infatti non nasce da una condizione morale o fisica d’indigenza, ma dal bisogno profondo, costituzionale dell’anima umana, la quale, fatta per Iddio, cerca, anche senza saperlo, Dio, lo ama e vuole possederlo. Quando dunque la Regola ci prescrive di meditare nel cuore ciò che proferiamo con la voce, ci prescrive di far nostri i sentimenti dei salmi e degli inni che recitiamo. Ora si sa che i salmi sono una scuola di alta spiritualità contemplativa. Se contengono spesso il grido del bisognoso o del sofferente che implora la liberazione dai pericoli, la difesa contro i nemici, il sostegno contro il dolore e contro l’abbandono degli uomini, contengono anche, e in misura maggiore, il riconoscimento della maestà di Dio, la lode della sua provvidenza, il ringraziamento per i suoi benefici, il desiderio di abitare nella sua casa, la contemplazione dei suoi attributi, il senso profondo della mutabilità delle cose e dell’immutabile eternità. Nessuno può recitare i salmi senza vibrare di questi stessi sentimenti. Si sa quanto S. Agostino li amasse. Da quando, a Cassiciaco, imparò ad ammirarne la bellezza e a farne l’espressione preferita della sua preghiera, non se ne staccò più. Si rilegga quanto egli stesso ne dice nelle Confessioni 291. Da vescovo, commentandoli, contribuì a farne scoprire ed amare le ricchezze, particolarmente le ricchezze cristologiche. È Cristo – il Cristo totale – che parla nei salmi: “dobbiamo sentire, nota e familiare, come fosse la nostra, la sua voce in ogni salmo, sia che canti o che gema o che si rallegri nella speranza o che sospiri per la realtà” 292. 3. Preghiera comune Anche a questo proposito la Regola è brevissima: enuncia solo il principio, ma un principio che vale per sempre e che non cambia mai. “Attendete con alacrità alle preghiere nelle ore e nei tempi stabiliti” 293. Spetta ora ad un Regolamento o alle Costituzioni stabilire questi tempi e queste ore. Ma ore e tempi per la preghiera comune ci debbono essere: una vita comune senza preghiera comune non sarebbe più vita comune. In questo, che è l’essenziale, la Regola è perentoria. Conosciamo uno di questi Regolamenti – l’Ordo monasterii di cui abbiamo parlato – che, se fosse stato in uso ad Ippona o in qualche convento agostiniano d’Africa, ci direbbe quale era il modo di pregare in quei monasteri; in ogni modo, essendo antichissimo, ci dice qual era il modo di recitare l’”Uffizio” in qualche monastero d’Occidente già nel secolo V°. Lo riportiamo qui in una nostra traduzione. “Vi descriviamo, poi, come dovete pregare e salmodiare: a) Alle prime ore del giorno – si tratta delle nostre Lodi – si diranno tre salmi: il 62° (Deus, Deus meus, ad te de luce vigilo), il 5° (Verba mea auribus percipe Domine), 1’89° (Domine, refugium factus es mihi). b) A Terza si dirà prima un salmo con responsorio, quindi due antifone, una lezione e la preghiera finale. Similmente si farà a Sesta e Nona. c) Al tramonto del sole – Lucernaio (quando cioè si accendevano i lumi) = ai nostri Vespri – si diranno: un salmo con responsorio, quattro antifone, ancora un salmo con responsorio, una lezione e la preghiera finale. d) Al tempo opportuno dopo il Lucernaio (= Vespri), mentre tutti sono seduti, si leggeranno le lezioni; infine i salmi consuetudinari prima del riposo notturno. e) In quanto poi alle preghiere notturne, queste comprendono nei mesi di novembre, dicembre, gennaio e febbraio dodici antifone, sei salmi e tre lezioni; in marzo, aprile, settembre e ottobre dieci antifone, cinque salmi e tre lezioni; in maggio, giugno, luglio e agosto otto antifone, quattro salmi e due lezioni” 294. Questo testo, preziosissimo per la Liturgia delle Ore – è il più antico che si conosca in Occidente – sotto l’aspetto spirituale non ha bisogno di commenti. Ci si consenta solo un’osservazione: i religiosi che seguivano quest’ordinamento liturgico prendevano davvero sul serio la preghiera in comune! E questi religiosi furono molti. Sappiamo infatti che l’Ordo monasterii dal secolo V° al secolo XIII° ha preceduto, per lo più, il testo della Regola agostiniana. Oggi perciò, quando la Chiesa, attraverso la riforma della Liturgia delle ore, vuole che questa forma di preghiera torni ad essere per tutto il popolo cristiano una fonte viva di spiritualità, i discepoli di S. Agostino, che l’hanno sempre considerata una forma insostituibile della loro pietà comunitaria, debbono essere di esempio e di stimolo ad altri. A Ippona i fedeli andavano in chiesa mattina e sera e pregavano più volte al giorno in casa. A un pio fedele S. Agostino fa dire così: “mi alzerò ogni giorno, mi recherò alla chiesa, dirò un inno al mattino, e un altro alla sera, e il terzo e il quarto nella mia casa; così io sacrifico ogni giorno un sacrificio di lode e lo offro al mio Dio” 295. I fedeli di oggi, sull’esempio dei religiosi, devono tornare, se non a questa frequenza, almeno a questo fervore di preghiera comune. Quanto sia gradita a Dio la preghiera comune è inutile dirlo. Coloro che sono un solo cuore ed un’anima sola protesi verso Dio non possono non avere una sola voce che loda Dio. L’unità della carità suppone ed esige l’unità della preghiera: la suppone perché ne è l’effetto; la esige perché ne è la causa. Tra l’una e l’altra v’è una mirabile causalità reciproca che le fa crescere e decrescere insieme. 4. Preghiera privata La Regola non prescrive soltanto la preghiera comune, ma esorta anche alla preghiera privata. Lo fa indirettamente, ma assai chiaramente. Vuole infatti che nel monastero ci sia un oratorio, che l’oratorio sia destinato solo alla preghiera, che in esso ognuno che lo voglia e che ne abbia tempo possa raccogliersi a pregare anche fuori delle ore stabilite. La prescrizione di destinare l’oratorio esclusivamente alla preghiera – L’oratorio sia adibito esclusivamente allo scopo per cui è stato fatto e che gli ha dato il nome 296 – può aver tratto occasione dall’uso di alcuni monasteri, forse a Roma, di servirsi dell’oratorio – dove allora non c’era il Santissimo – come sala di lavoro. Ma qui non importa la prescrizione in sé, bensì l’intenzione, che è quella di provvedere che ci sia nel monastero un luogo silenzioso e libero, dove il religioso, che lo possa e lo voglia, si raccolga in preghiera senz’essere disturbato. Se perciò qualcuno – continua la Regola – avendo tempo, volesse pregare anche fuori delle ore stabilite, non ne sia ostacolato da chi abbia ritenuto conveniente adibire l’oratorio a scopi diversi 297. Questa sensibilità per la preghiera privata in una Regola destinata ad organizzare la vita comune, è degna in tutto del Dottore che ha tanto insistito sull’interiorità e che ha speso nella preghiera tutte le gocce di tempo che ha avuto disponibili. L’esortazione, così frequente in S. Agostino e così importante, di ritirarsi nella propria anima e di elevarla a Dio quanto più è possibile – “Rifugiati nella tua anima e rivolgila a Dio per quanto puoi” 298 -, altro non è che un’esortazione alla preghiera continua e perciò, in quanto tale, privata. Nella Lettera a Proba S. Agostino loda l’uso dei monaci d’Egitto, dei quali aveva inteso che pregavano spesso, anche se brevemente, saettando a Dio, di corsa, la propria preghiera – da qui la parola giaculatoria – “affinché, dice, l’intenzione vigilantemente eretta, intenzione che è sommamente necessaria a chi prega, non svanisca o non si ottunda a causa del troppo prolungarsi della preghiera”. “Con ciò, continua il Santo, mostrano chiaramente anch’essi che questa intenzione, come non dev’essere sforzata, se non può perdurare, così non dev’essere subito interrotta, se perdura” 299. “Perciò non è insensato né inutile pregare anche lungamente, quando sia possibile, cioè quando i doveri di altre opere buone e necessarie non lo impediscono; ancorché, come ho detto, anche compiendo queste opere dobbiamo, attraverso il desiderio, pregare sempre. Poiché pregare a lungo non vuol dire, come alcuni credono, cadere nel multiloquio. Altro infatti è un lungo discorso, altro un diuturno affetto. Di nostro Signore è stato scritto che passava la notte in preghiera 300, e che pregava più lungamente 301: con ciò che altro faceva se non darci l’esempio, Egli, propizio intercessore nel tempo ed eterno elargitore col Padre?” 302. Del resto la preghiera privata è inseparabile dalla preghiera comune: ne è la migliore preparazione e il migliore risultato. Infatti con la preghiera privata ci prepariamo efficacemente alla preghiera comune, che è, per lo più, la preghiera liturgica, e da questa ci deriva lo stimolo che acuisce il bisogno della preghiera privata. Poiché la preghiera comune non ha solo il compito di esprimere all’unisono la carità dei fratelli, né solo quello di scuotere, attraverso l’orario, la nostra pigrizia, difendendoci dalla nostra negligenza; ma anche il compito di farci sentire più profondamente e il dovere e il bisogno di pregare. Chi dunque, mancandogli la possibilità, per particolari circostanze, di partecipare alla preghiera comune, trascura di fare quella stessa preghiera da solo, mostra di non aver fatto bene, cioè con profonda convinzione, la preghiera comune. Giova notare, poi, che la preghiera privata, nel senso stretto, per il cristiano non esiste: egli è sempre unito a Cristo e alla Chiesa; e quando prega non può non sentire questa misteriosa unione. “Gesù Cristo Figlio di Dio, dice S. Agostino, prega per noi, prega in noi, ed è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio… Non dire nulla senza di Lui ed Egli non dice nulla senza di te” 303. Questo è vero in modo particolare per la preghiera comune, ma è vero anche per la preghiera privata, che perciò non è, propriamente, privata. 5. Canto ecclesiastico L’ultimo punto toccato dalla Regola intorno al tema della preghiera è quello del canto ecclesiastico. Viene toccato in forma negativa, ma non per questo rivela meno efficacemente l’uso del canto sacro nei monasteri e l’importanza che vi annette S. Agostino. E non vogliate cantare se non quanto è prescritto per il canto. Evitate quindi ciò che al canto non è destinato 304. Che cosa abbia dato occasione a queste parole non è facile dirlo: forse abusi già esistenti, forse la preoccupazione che sarebbero potuti nascere, forse l’avversione e la contestazione di alcuni. Suggerisce quest’ultima ipotesi la risposta di S. Agostino al tribuno Ilario, un laico di Cartagine, insorto energicamente contro l’uso, introdotto da poco in quella Chiesa, di cantare i salmi durante la celebrazione eucaristica, sia prima dell’offertorio sia durante la comunione 305. Ma l’ipotesi più vera sembra essere un’altra, cioè gli eccessi dei donatisti, i quali non solo cantavano salmi composti da loro, ma li cantavano con un’eccitazione frenetica, rimproverando i cattolici di essere “troppo sobri nel cantare i divini cantici dei Profeti” 306 In ogni modo le parole della Regola sono una giusta preoccupazione, valida anche oggi – ci si consenta di sottolineare queste parole – che attraverso la necessaria vigilanza della comunità – diciamo pure della Chiesa – tende ad evitare facili abusi e a fare del canto ecclesiastico un’elevazione spirituale, uno stimolo alla pietà, un’espressione lirica dei grandi sentimenti che la carità ispira. Questa in realtà l’esperienza e questa la persuasione di S. Agostino. Sentì la prima volta il canto sacro a Milano: la commozione lo prese, e pianse. “Quante lacrime versai ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici 307, che risuonavano dolcemente nella tua chiesa! Una commozione violenta: quegli accenti fluivano nelle mie orecchie e distillavano nel mio cuore la verità eccitandovi un caldo sentimento di pietà. Le lacrime che scorrevano mi facevano bene” 308. Questa esperienza fu tanto profonda che non potrà più dimenticarla. A Ippona, nella sua basilica pacis, quando sente il clero e il popolo cantare i salmi, si commuove ancora. Qualche volta gli pare di sentirsi più attratto dalla melodia del canto che dalle parole dei salmi, e se ne fa uno scrupolo, e vorrebbe togliere quell’uso che egli stesso ha introdotto; ma ripensa all’esperienza milanese e riconosce l’utilità di quell’uso e lascia correre, anzi se ne rallegra. “Allora – scrive nelle Confessioni, – rimuoverei dalle mie orecchie e da quelle della stessa Chiesa tutte le melodie delle soavi cantilene con cui si accompagnano abitualmente i salmi davidici; e in quei momenti sembra più sicuro il sistema, che ricordo di aver udito spesso attribuire al vescovo alessandrino Atanasio: questi faceva recitare al lettore i salmi con una flessione della voce così lieve, da sembrare più vicina ad una declamazione che a un canto. Quando però mi tornano alla mente le lacrime che i canti di chiesa mi strapparono ai primordi della mia fede riconquistata, e la commozione che oggi ancora suscita in me non il canto, ma le parole cantate, se cantate con voce limpida e la modulazione più conveniente, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica” 309. Anzi loda questa pratica e la raccomanda, vuole cioè che in Chiesa durante la celebrazione della sacra liturgia si canti, e si canti molto. “A proposito di quest’ultima usanza – cioè del canto – tanto utile per commuovere l’animo alla devozione e infiammare il cuore d’amore divino – si notino queste parole – si riscontra una grande varietà”. Così nella risposta a Gennaro. Nella quale, poco dopo, scrive queste altre parole: ” … quando i fratelli si radunano in chiesa, qual è il tempo in cui non si devono cantare le lodi sacre, se non quando si fa lettura e l’omelia relativa, oppure quando il vescovo recita preghiere ad alta voce o viene indetta la preghiera dell’assemblea dalla viva voce del diacono? Negli altri intervalli di tempo non vedo assolutamente che cosa di meglio e di più utile, di più santo possa farsi dai cristiani riuniti nell’assemblea ecclesiale” 310. Anche durante il lavoro manuale S. Agostino vedeva bene che si cantasse. “Quanto al salmeggiare, è una cosa fattibile anche mentre si lavora con le mani. È anzi bello rallegrare così il lavoro quasi col ritmo d’una celestiale cadenza. Chi infatti non sa come tanti lavoratori, senza cioè sospendere il lavoro, col cuore e con la lingua si danno a cantare motivi uditi nelle rappresentazioni teatrali, tanto insulsi e il più delle volte anche licenziosi? Nessuno quindi può proibire al servo di Dio che, mentre lavora con le mani, mediti la legge del Signore e canti salmi a gloria del nome di Dio altissimo. Basta che abbia il tempo riservato per imparare a memoria quel che poi avrà da ripetere” 311. Il canto è l’espressione dei sentimenti più forti. Cantare è proprio di chi ama, dice S. Agostino: cantare amantis est 312. L’esule che ama la patria esprime col canto il desiderio di tornarvi; il viandante che fa ritorno a casa sostiene col canto il suo cammino. Così il cristiano. “Canta, gli dice perciò il Vescovo d’Ippona, come sogliono cantare i viandanti; canta, ma cammina. Mitiga, cantando, la fatica, ma non amare la pigrizia: canta e cammina” 313. 6. Progresso nella preghiera La Regola infine tocca un sesto argomento riguardante la preghiera: è l’argomento della sincerità e della perfezione progressiva con cui dobbiamo farla. Lo tocca in un inciso parlando della collaborazione che tutta la comunità deve dare affinché i fratelli, che si siano offesi a vicenda, si chiedano reciprocamente perdono: lo facciano, dice la Regola, grazie alle vostre preghiere che quanto più frequenti tanto più dovranno essere perfette 314. Si noti prima di tutto l’accostamento tra la frequenza e la perfezione. I religiosi hanno la possibilità e il dovere di dedicarsi alla preghiera con più frequenza e con maggiore regolarità, essendo la preghiera, come nutrimento principale della carità, il fine principale della loro vita consacrata. Occorre però evitare che da questa regolare frequenza nasca la stanchezza, la noia o l’abitudine monotona e senza vita. Deve nascere invece la perfezione. La preghiera importa l’intenzione, l’attenzione e la tensione. Il frequente esercizio deve rendere l’intenzione più pura, l’attenzione più vigile, la tensione più forte. “Nella preghiera si compie – spiega S. Agostino – la conversione del cuore verso Colui che è sempre pronto a darci i suoi doni, se noi siamo pronti a riceverli; con la conversione avviene la purificazione dell’occhio interiore… affinché la pupilla del cuore, diventata pura, possa sopportare la luce; ma possa anche abitare in essa, e vi abiti non solo senza molestia, ma con ineffabile gaudio, in cui consiste appunto la vera ed autentica vita beata” 315. Il progresso dunque nella preghiera segna il progresso nel nostro cammino interiore. Il Vescovo d’Ippona ha descritto spesso i gradi di questo cammino. La prima volta lo ha fatto nel libro scritto a Roma che ha per titolo La grandezza dell’anima. Vi distingue quattro gradi, che sono: la virtù, la tranquillità, l’ingresso nella luce, la dimora nella luce. Nel primo grado la preghiera suscita e sostiene l’impegno di purificazione, che consiste nell’esercizio delle virtù morali – particolarmente della fortezza e della temperanza, le virtù che ci rendono immobili ai terrori e alle lusinghe – nella benevolenza verso gli uomini, nell’umile sottomissione all’autorità della Scrittura e della Chiesa, nel pensiero costante della fugacità delle cose e della morte. Nel secondo è la preghiera che implora la grazia necessaria per consolidare la sanità e l’equilibrio interiore e conformare l’anima all’ideale cristiano attraverso l’esercizio continuo della fede, della speranza, della carità. Nel terzo grado è di nuovo la preghiera che con grande fiducia dirige lo sguardo verso la contemplazione della verità rivelata, cioè verso “quel premio altissimo e segretissimo per raggiungere il quale si è tanto lavorato” 316. Nel quarto infine è la stessa preghiera che, trasformata in contemplazione, lode, compiacenza, unione, diventa la gioiosa dimora dell’anima in Dio 317, dimora che suppone il raggiungimento della beatitudine della pace e la fruizione, in grado eminente, del dono della sapienza 318. Avido di queste altezze, S. Agostino, vescovo, immerso in tante preoccupazioni laceranti ed opprimenti, ha sentimenti di nostalgia e di santa invidia per i religiosi che possono attendere alla preghiera con più frequenza e con più serenità. Ecco un brano della lettera all’abate di Capraria, Eudossio: “Quando noi pensiamo alla pace che voi godete in Cristo, la gustiamo anche noi nella vostra carità, benché viviamo in mezzo a varie dure fatiche… Vi esortiamo dunque, vi preghiamo e vi scongiuriamo per la profondissima umiltà e la eccelsa misericordia di Cristo, di ricordarci nelle vostre sante preghiere, che crediamo siano da voi elevate con maggiore vigilanza e attenzione, mentre le nostre vengono strapazzate e offuscate dalla confusione e dal tumulto degli atti processuali secolari che riguardano non già noi, ma coloro i quali, se ci costringono a fare con loro un miglio, ci si comanda di andare con essi per altri due. Siamo assillati da tante questioni che a stento possiamo respirare”. Ma si consola pensando al premio che il Signore Gesù ha promesso al ministro fedele. “Siamo però pienamente convinti, conclude, che Colui, al cui cospetto arrivano i gemiti dei prigionieri 319, se saremo perseveranti nel ministero in cui si è degnato collocarci con la promessa del premio, ci libererà da ogni angustia con l’aiuto delle vostre preghiere” 320. Capitolo decimo FRUGALITÀ E MORTIFICAZIONE Accanto alla preghiera, e intimamente collegato con essa, v’è un altro mezzo che l’ideale cristiano propone come nutrimento della carità: la frugalità e la mortificazione. La Regola ne parla, ma secondo il solito, brevemente. Domate la vostra carne con digiuni ed astinenza dal cibo e dalle bevande, per quanto la salute lo permette. Ma se qualcuno non può digiunare, non prenda cibi fuori dell’ora del pasto se non quando è malato 321. Sono parole d’una discrezione singolare. Per ammirarne la portata innovatrice occorre ricordare che furono scritte quando nei monasteri d’Oriente e d’Occidente era in vigore la pratica di digiuni lunghi e rigorosi e la pratica di una astinenza severa ed estenuante. I digiuni duravano spesso tre giorni continui senza cibo o bevanda alcuna 322, e molti digiunavano per tutta la vita cinque giorni alla settimana 323, l’astinenza, poi, escludeva non solo il vino e le carni – cosa allora ordinaria – ma ogni genere di cibi cotti. Anche gli infermi, scrive S. Girolamo, usano solo l’acqua; mangiare qualcosa di cotto è ritenuto, poi, un atto di lussuria 324. Perciò non si può non ammirare la discrezione della Regola che enuncia il precetto generale e ne indica i limiti, fa un’eccezione per i deboli e un’altra ancora per gli ammalati. 1. Legge evangelica Il precetto generale, che fa parte del messaggio evangelico, è il seguente: Domate la vostra carne con i digiuni e l’astinenza. Digiuno e astinenza significano, spiega altrove S. Agostino, la mortificazione in genere 325. Ora non v’è chi non sappia che la mortificazione è una legge evangelica 326, legge che S. Paolo ha inculcato ripetutamente e insistentemente 327, come condizione di salvezza: Coloro che appartengono a Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e le sue voglie 328. È noto pure che S. Agostino prese molto sul serio questa legge. Le Confessioni lo documentano. Nella seconda parte del libro 10° troviamo un ampio, minuzioso, spietato esame di coscienza intorno ai peccati della sensibilità, della curiosità e della superbia, che ci dimostra, senza volerlo, a quale alto grado di purificazione interiore il Santo era giunto 329. La necessità della purificazione non nasce dal male del corpo o della materia, poiché nulla è male di ciò che Dio ha creato, e il corpo non è qualcosa di estraneo all’anima, ma è un componente essenziale della natura umana – S. Agostino difende energicamente questa verità contro il platonismo 330 – ma nasce dalla “guerra civile” tra la ragione e i sensi sorta nell’uomo a causa del peccato originale. La purificazione quindi non ha lo scopo di mortificare l’amore, ma quello di liberarlo dalle scorie del male, perché diventi più autentico e più vero, e perciò più forte e più generoso. “Nessuno vi dice – sono parole di S. Agostino al suo popolo – nessuno vi dice: non amate niente. Tutt’altro! Sareste pigri, morti, detestabili, miseri, se non amerete nulla. Amate, ma state attenti a ciò che amate. L’amore di Dio e l’amore del prossimo si chiama carità; l’amore del mondo, l’amore di questo secolo si chiama cupidigia. Sia frenata la cupidigia e sia stimolata la carità” 331. È noto a questo proposito l’aforisma agostiniano: “il nutrimento della carità è la diminuzione della cupidigia: la perfezione il non avere cupidigia” 332. Meta altissima questa a cui non è possibile giungere qui in terra; ma meta necessaria, a cui si deve aspirare di continuo attraverso l’opera della purificazione e dell’ascetismo cristiano. Si tratta in fondo di ristabilire l’ordine e di creare i presupposti della pace: la pace tra l’anima e Dio per mezzo della carità, la pace tra la ragione e i sensi per mezzo della purificazione 333. Inoltre la purificazione è legata strettamente, per S. Agostino, alla contemplazione. Unendo questi due concetti egli si riferisce alla settima delle beatitudini evangeliche che dice: beati i puri di cuore perché vedranno Dio. “Tutto il nostro sforzo in questa vita – così egli al popolo – consiste nel sanare l’occhio della mente con cui si vede Dio. Per questo si celebrano i sacrosanti misteri, per questo si predica la parola di Dio, per questo le esortazioni della Chiesa… L’occhio della mente infatti è simile all’occhio del corpo: come questo, se è disturbato da qualcosa di estraneo, si chiude alla luce e, benché questa gli brilli intorno, se ne allontana e ne resta assente, così l’occhio della mente, turbato e ferito dal disordine delle passioni, si allontana dal sole della giustizia e non osa contemplarlo, né può” 334. Quello della purificazione è un impegno essenziale della vita religiosa, inseparabile dalla preghiera, condizione sine qua non del progresso spirituale. Fa parte di quell’impegno totale che si richiede per raggiungere la sapienza. “Non raggiungerai il vero – ammonisce S. Agostino l’amico Romaniano – se non ti darai tutto alla filosofia” 335. Ed ecco l’ammonimento che dà allo stesso tempo, nel De ordine, ai giovani: “I giovanetti che si applicano al conseguimento della sapienza devono vivere in maniera da astenersi dalla libidine, dalle lusinghe del ventre e della gola, dall’esagerata cura e ornamento della persona, dalle frivole occupazioni nei giuochi, dal torpore dell’accidia e della pigrizia, dall’emulazione, maldicenza e invidia, dall’ambizione agli onori e ai poteri e perfino dal desiderio smoderato della fama. Siano convinti che l’amore al denaro è sicuro veleno di ogni loro nobile aspirazione. Non agiscano né da codardi né da temerari. Nei confronti delle colpe dei soggetti cerchino di superare l’ira o la frenino in maniera da poterla considerare superata. Non portino odio ad alcuno. Trovino rimedio ad ogni vizio” 336. Come S. Agostino stesso fin dal momento della conversione s’impegnò in quest’opera si può vedere dal primo libro dei Soliloqui che è, dopo la lunga, mirabile preghiera a Dio, tutto una considerazione sulla necessità di purificare l’anima per giungere a contemplare la bellezza di Dio. “L’anima, vi si legge, ha bisogno di tre disposizioni: che abbia occhi di cui possa ben usare, che guardi, che vegga. Occhio dell’anima è la mente immune da ogni macchia del corpo, cioè già separata e purificata dai desideri delle cose caduche 337. 2. Digiuno e astinenza In quest’opera di purificazione occupano un posto speciale, per la veneranda tradizione della Chiesa e per l’efficacia pratica, il digiuno e l’astinenza. Per questo la Regola ne parla esplicitamente. S. Agostino, seguendo il consiglio e l’esempio di S. Ambrogio, voleva che ci si attenesse all’uso della chiesa locale 338. Ma sul dovere di attenersi a quest’uso è piuttosto severo. Si ricordi il caso del sacerdote Abundanzio: il grande provvedimento a suo carico fu motivato, fra l’altro, dalla provata infrazione alla legge del digiuno 339. Vale la pena di ricordare qui una norma del monastero dei chierici, che era in vigore certamente anche in quello dei laici: nessuno poteva pranzare o cenare fuori del monastero. “Dico anche questo: se per caso nel nostro monastero o nella nostra comunità qualcuno sia malato o convalescente, ed a questi sia necessario ristorarsi prima dell’ora del pranzo, non proibisco alle pie persone – uomini o donne – di portare loro quanto sembri opportuno: ma che nessuno pranzi o ceni fuori dal monastero” 340. In quanto alla pratica del digiuno e dell’astinenza nei monasteri la Regola indica però un limite: per quanto la salute ve lo permette. La salute: limite doveroso, che preclude gli eccessi e dà una norma sapiente; norma che vale per tutti, e varia per ciascuno; varia secondo la costituzione fisica, le occupazioni, la resistenza. Una norma flessibile dunque che rispetta le condizioni dei singoli, cioè, si direbbe oggi, la personalità. Anzi, a questa norma generale, così sapientemente modulata, la Regola fa un’eccezione generale. L’eccezione è a favore di quelli che non possono digiunare. Si suppone che non lo possano o perché deboli di costituzione o perché occupati in lavori pesanti o anche perché le abitudini della vita precedente non consentono il passaggio immediato alle austerità monastiche. In questo caso però la Regola vuole che non si prenda cibo alcuno fuori dell’ora dei pasti. Ma se qualcuno non può digiunare, non prenda cibi fuori dell’ora del pasto 341. Anche questa prescrizione è molto sapiente e, vorremmo aggiungere, molto moderna. Ai cibi si dovrebbero aggiungere, nello spirito della Regola, anche le bevande. Se le condizioni odierne hanno consigliato la Chiesa e spesso consigliano anche le comunità religiose ad attenuare il rigore dei digiuni, la prescrizione della Regola non solo conserva tutto il suo valore, ma cresce di valore e di attualità. Se non si può digiunare, si stia almeno all’oratio determinato nel prendere i cibi e le bevande necessarie. Anzi questa dovrebbe essere un’abitudine costante della vita del pio religioso. Ma anche a questa prescrizione la Regola fa un’eccezione, che è la malattia: se non quando – aggiunge – è ammalato 342. Vorremmo aggiungere che S. Agostino dà al digiuno anche un significato caritativo, cioè sociale. Ciò che dirà bellamente S. Leone Magno: “diventi refezione del povero l’astinenza del digiunatore” 343, egli lo aveva detto non meno bellamente, anzi, per l’accenno esplicito al corpo mistico, più bellamente, con queste parole: “Riceva Cristo affamato ciò che prende in meno il cristiano che digiuna… La volontaria povertà del ricco diventi la necessaria ricchezza del povero” 344. 3. Frugalità religiosa Occorre dire, infine, che la prima forma di digiuno e di astinenza, e quindi di purificazione, è la frugalità. La Regola lo ricorda con quel principio che abbiamo messo in rilievo più volte: è meglio aver meno bisogni che avere più cose. In realtà l’esempio che dava S. Agostino ai suoi religiosi era eloquente. Del suo tenore di vita nell’episcopio, non diverso certamente da quello che aveva tenuto nel monastero dei laici, dice Possidio: “Usava d’una mensa frugale e parca, che ammetteva talvolta, fra erbaggi e legumi, anche la carne, per riguardo agli ospiti e ai fratelli più deboli”. Possidio aggiunge: “sempre poi aveva il vino” 345, ma i bicchieri, ci fa sapere altrove il biografo, erano stabiliti 346. L’uso della carne e del vino era, per quei tempi, un’innovazione ardita che Possidio sente il bisogno di spiegare citando S. Paolo e un passo delle Confessioni 347. Pensiamo che a questo modo di fare non fosse estranea una ragione d’opposizione ai manichei. Possidio, completa il quadro con queste altre parole: “Solo i cucchiai aveva d’argento; invece i recipienti in cui si portavano le vivande in tavola erano di terracotta o di legno o di marmo; e questo non per necessità o per indigenza, ma per deliberato proposito” 348. Terminiamo ricordando un passo del Contra Academicos, dove si dice che Agostino mangiava quanto era strettamente necessario per estinguere la fame 349 e che talvolta stava tanto poco a tavola che l’inizio del pranzo coincideva con la fine 350. Dalle Confessioni poi citeremo solo queste parole: “Tu mi hai insegnato, o Signore, ad accostarmi agli alimenti per prenderli come medicamenti” 351. Ma qualche volta dimenticava anche questa norma. Dice infatti Possidio che ascoltava con “religiosa diligenza” tutti quelli che andavano da lui “talvolta fino all’ora della refezione, talvolta prolungando anche per tutto il giorno il digiuno” 352. Capitolo undecimo LECTIO DIVINA Alla preghiera e alla mortificazione occorre aggiungere, come terzo elemento insostituibile dell’ascetismo religioso, la lectio divina. La Regola, con la sua brevità consueta, lo ricorda e lo impone. I libri si chiedano giorno per giorno alle ore stabilite 353. Vien fatto di domandarsi: questa prescrizione, che suppone nella casa religiosa l’esistenza della biblioteca ed esige un bibliotecario, si riferisce alla lettura o allo studio? Rispondiamo: a tutt’e due, ma certamente alla prima. Sappiamo che nei monasteri agostiniani pulsava un’intensa vita intellettuale: si studiava, si discuteva, si approfondivano le questioni esegetico-teologiche. Ma questo non poteva essere un lavoro di tutti. Avendo aperto i suoi monasteri a tutte le classi sociali, anche alle più umili, che vi affluivano in gran numero, S. Agostino non poteva pensare che il livello intellettuale restasse quello di Cassiciaco o di Tagaste. Lo ricorda egli stesso ai monaci di Cartagine che dallo studio o dall’istruzione prendevano il pretesto per escludere dalle loro occupazioni il lavoro manuale. “Ammettiamo infine che a qualcheduno venga affidato l’incarico di dispensare la parola di Dio e che tale incombenza lo assorba in modo da non permettergli d’attendere al lavoro manuale. Ma forse che in un monastero tutti sono all’altezza d’un tale compito? Trovandosi con dei fratelli provenienti da differenti condizioni sociali, saranno tutti in grado d’esporre loro le Sacre Scritture o di tenere loro con frutto delle conferenze su punti particolari di dottrina? E se tutti non hanno tali capacità, perché con questo pretesto volersi tutti esimere dal lavoro?” 354. Forse questo fatto ha indotto S. Agostino ad usare, senza distinguere tra lectio divina e studio, un’espressione che lascia ad alcuni la possibilità di dedicarsi all’approfondimento della scienza sacra e ricorda a tutti l’obbligo comune. L’uso di dedicare determinate ore del giorno alla lettura edificante era allora, ed è restato poi, un uso generale nelle case religiose, non solo maschili, ma anche femminili. S. Atanasio raccomanda alle vergini consacrate di meditare assiduamente la Sacra Scrittura di modo che il sole, nascendo, veda nelle loro mani il libro santo 355. S. Girolamo, non meno poeticamente, pensa alle ore vegliate alla lucerna e dice alla vergine Eustochio, sua cara discepola: “Il sonno ti sorprenda con il libro in mano: siano le pagine sante a ricevere il tuo volto cadente” 356. Pelagio, su questo punto in armonia con la tradizione, consiglia la vergine Demetriade di stabilire un certo numero di ore da dedicare alla lettura delle Scritture sacre 357. S. Agostino non poteva essere da meno. Dietro le brevi parole della Regola c’è il suo esempio, le sue frequenti raccomandazioni, le sue spiegazioni profonde e deliziose. Ai monaci di Cartagine che si opponevano al lavoro manuale, trincerandosi dietro le occupazioni della preghiera, del canto dei salmi, della lettura, dell’ascolto della parola di Dio, S. Agostino risponde esclamando: “O vita veramente santa e cristianamente lodevole e soave! Ma, continua, se mai dobbiamo lasciarci distrarre da queste occupazioni, non dobbiamo neppure mangiare, né si dovranno preparare ogni giorno i pasti” 358. Dunque ci siano nei monasteri ore stabilite per il lavoro manuale, ma non si crei nessuna opposizione tra il lavoro e le occupazioni spirituali, compresa la lectio divina. Se l’ordinato lavoro d’un monastero non basta a sopperire alle necessità di quanti si sono ivi riuniti, si dovrà ricorrere alla generosità dei fedeli. S. Agostino è esplicito. “Basta che abbia il tempo riservato per imparare a memoria quel che poi avrà da ripetere. E intanto, durante le ore che egli passa ad imparare questi salmi, e non può lavorare, non gli debbono mancare gli aiuti dei fedeli per supplire ai suoi bisogni ed evitargli che cada in miseria” 359. Ci permettiamo di richiamare su queste parole l’attenzione di chi legge. Esse vogliono dire che la preoccupazione del lavoro non deve togliere ne ridurre al minimo il tempo della lettura: se il lavoro è necessario per nutrire il corpo, la lettura è necessaria per nutrire lo spirito. Senza di essa anche la preghiera languisce. In un monastero ben ordinato mai il tempo del lavoro andrà a scapito, abitualmente, del tempo – i Santi Padri, e S. Agostino tra essi, parlano di ore – della lectio divina. Se in conseguenza di ciò venissero a mancare i mezzi di un onesto sostentamento, si dovranno, secondo il consiglio di S. Agostino, interessare i fedeli e chiedere la loro collaborazione. Inutile dire che tra i libri da leggere viene, prima di tutto, il libro per eccellenza, la Scrittura. Sappiamo già quanto S. Agostino l’abbia amata, quanto l’abbia meditata. Ai suoi figli ha insegnato a fare altrettanto. Le Scritture sono “le caste delizie” dell’anima 360, superiore, per chi ami la sapienza, ad ogni altra delizia 361; sono “i pascoli fertilissimi” che ci nutrono 362; lo “specchio” fedele che ci mostra quali siamo 363; la “medicina” che guarisce le nostre malattie 364; la manifestazione della carità 365; la rivelazione di Cristo: “Tutta la Scrittura… parla di Cristo e raccomanda l’amore” 366. Possiamo riassumere dunque il pensiero di S. Agostino con queste belle parole di S. Gregorio Magno al medico Teodoro: “Che cos’è la Sacra Scrittura se non una lettera di Dio onnipotente alla sua creatura?… il Signore degli uomini e degli Angeli ti manda per il tuo bene le sue lettere e tu, figlio benedetto, trascuri di leggerle con ardore? Studiati dunque, te ne prego, di meditare ogni giorno le parole del tuo Creatore. Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio, affinché aneli più ardentemente verso le cose eterne e la tua mente si accenda di maggiori desideri per i gaudi celesti” 367. Questa dottrina dei Santi Padri che vede un complemento necessario tra la preghiera e la lettura della Sacra Scrittura, in quanto che pregando parliamo a Dio, leggendo la Scrittura Dio parla a noi, è in perfetta armonia con quella esposta dal Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione, che “esorta con ardore ed insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere la sublime scienza di Gesù Cristo 368, con la frequente lettura delle divine Scritture”. “Infatti, continua il Concilio citando S. Girolamo, la ignoranza della Scrittura è ignoranza di Cristo” 369. Dopo la Sacra Scrittura vengono, per ordine d’importanza, le opere dei Santi Padri. Per questo S. Agostino raccomandava che fossero conservate gelosamente nella biblioteca le loro opere. Tra esse brillano, per numero ed importanza, e per l’affetto che i figli debbono al Padre, le opere di S. Agostino “dalle quali si conosce quale sia stato il suo merito e la sua grandezza nella Chiesa, e nelle quali i fedeli sempre lo trovano vivo” 370. Se non tutti possono leggerle tutte – anzi, se questi fortunati, data la mole e la profondità degli scritti, saranno sempre pochi – nessuno, almeno di quelli che militano alla sua scuola, può omettere di leggerne alcune. Suggeriamo quelle che abbiamo indicato sopra come fonti – storiche e dottrinali – del monachismo agostiniano, specialmente le Confessioni e La santa verginità. Inoltre il Commento al Vangelo di S. Giovanni o almeno il Commento alla prima Lettera; l’Esposizione sui Salmi e i Discorsi. Leggerle con una lettura continuativa, o, se ciò non fosse possibile, antologica. Ma omettere di farlo, no: si, risolverebbe in un grave danno spirituale e comunitario. Per confermare la grande utilità, anzi il posto insostituibile che la Lectio divina deve occupare nella vita religiosa agostiniana, ricorderemo l’esempio di Santa Melania e l’autorevole parola di Paolo VI. “La beata – scrive l’anonimo autore della preziosa biografia di S. Melania -, leggeva il Vecchio e il Nuovo Testamento tre o quattro volte nel corso dell’anno; e scrivendo elegantemente quanto bastava, ne dava ai Santi gli esemplari di proprie mani. Dopo poi aver finito l’ufficio divino insieme alle vergini che erano con sé recitava a memoria in privato altri salmi. Leggeva poi con tale assiduità i trattati dei Santi Padri che nessun libro di quelli che poteva trovare le era sconosciuto. E, sia che li comprasse o li prendesse in prestito, li percorreva con tanta applicazione che non le sfuggiva nessuna espressione e nessun pensiero” 371. Con piacere riportiamo tre passi molto significativi nei quali Paolo VI rivolgendosi a Religiosi o Religiose agostiniani si esprime così: “Tutte le volte che noi sentiamo nominare S. Agostino abbiamo quasi un fremito di gioia e di grande devozione e di grande simpatia; ci sembra un’anima universale così viva, così interprete dei due mondi che dobbiamo unire: quello dell’uomo e quello di Dio, che abbiamo per lui una venerazione tutta speciale e speriamo che ancora faccia scuola nella nostra santa Chiesa Cattolica; e ci pare che la faccia anche per merito vostro, proprio della vostra Famiglia Religiosa che sappiamo in grande risveglio… Non aggiungiamo altro perché avete tutto a vostra disposizione; S. Agostino ha tutto, è un’enciclopedia di vita spirituale e cristiana; non avete che da sfogliare bene le pagine di questo vostro impareggiabile maestro e troverete le espressioni più felici, più invitanti e confortanti che si possano cercare nel dizionario del nostro linguaggio con Dio e con l’anima” 372. “…siete Agostiniani! Per noi S. Agostino è una miniera sempre viva, diremo anzi una fontana sempre zampillante: non si è mai finito di ammirare e di cavare dalle sue parole, dalle sue intuizioni, dalla ricchezza di questo spirito – veramente è stato lui a parlare del Maestro interiore meglio di qualsiasi altro – tesori che possono essere di grande importanza non solo per l’erudizione, non solo per la vita religiosa della vostra Famiglia spirituale, ma del mondo moderno! Vogliate bene a S. Agostino, voi Agostiniani! e sappiate divulgare qualche cosa della sua grande sapienza, della sua esperienza, della sua stessa vita… Noi siamo pieni di venerazione e di ammirazione, e speriamo che voi l’abbiate più di Noi stessi…” 373. “… avete per voi i testi del vostro grande Patrono e Istitutore, S. Agostino. Noi vorremmo pensare che voi avrete letto le 90 e più opere di S. Agostino. Un po’ difficile! Ma qualcheduna sì, non è vero? qualche pagina sì; e questo, diremmo, basta per darvi la fierezza di appartenere a una Famiglia che ha una radice così antica e così viva e sempre moderna, da alimentare chi si fa alunno di questo Maestro. Vorremmo che davvero le pagine di S. Agostino vi fossero care e in parte conosciute, perché sono la sorgente d’acqua viva e zampillante, profonda e quieta, per indirizzare la vostra vita sul duplice binario dell’apostolato in favore delle anime e della preminente vita di unione con Dio… Chi più di lui fu attivo nell’impegno quotidiano per l’edificazione della Chiesa; e chi meglio di lui fu attento alla voce del Maestro interiore, che parla nel fondo dell’anima in un segreto e continuo e amoroso colloquio? Quale esempio, figliole, quale scuola, quale forza per voi che ne siete le figlie spirituali! Non lasciate, pertanto, di leggere qualche cosa di S. Agostino” 374. Come può ben notare il benevolo lettore, tali parole sono così chiare che ci dispensano da ogni commento. Capitolo dodicesimo OSSERVANZA DELLA REGOLA L’ultimo capoverso della Regola non è meno ricco di quello precedente, anche se diversamente. Contiene infatti, con la solita concisione, il precetto di un esame di coscienza, frequente ed attento, circa l’osservanza della Regola stessa e una sintesi rapida, ma efficace, della dottrina sulla necessità della grazia. 1. Esame di coscienza S. Agostino vuole che la Regola sia presa sul serio, cioè come una norma stabile a cui si deve uniformare la vita. Per questo prescrive due cose: primo che sia conosciuta bene, secondo che si confronti con essa costantemente la nostra condotta. Perché poi possiate rimirarvi in questo libretto come in uno specchio onde non trascurare nulla per dimenticanza, vi sia letto una volta la settimana 375. La lettura è un mezzo; il fine è la conoscenza della Regola in modo che non sia dimenticata in nessun particolare, perché ogni particolare è importante. La conoscenza poi, a sua volta, è un mezzo che tende a un fine ulteriore che è rimirarsi nella Regola come in uno specchio. L’immagine dello specchio è quella stessa usata frequentemente da S. Agostino per la Sacra Scrittura. Questo fatto ci consente di applicare alla Regola, con le dovute proporzioni, ciò che S. Agostino stesso dice della Sacra Scrittura. “La Sacra Scrittura ti sia quale specchio – dice il Santo in un discorso al popolo -. Questo specchio ha una lucentezza non fallace, una lucentezza che non adula, che non ha preferenze per nessuno. Sei bello? Ti vedrai bello. Sei brutto? Ti vedrai brutto. Ma se ti appresserai a lui in stato di bruttezza e ti vedrai brutto, non accusare lo specchio; torna in te stesso, lo specchio non t’inganna. Non devi ingannarti neppure tu” 376. L’esame di coscienza, dunque, dev’essere umile, sincero, coraggioso. Nessuno pensi che la Regola, non abbondando in prescrizioni particolari, sia un paradigma poco utile per un severo esame di coscienza. S. Agostino vuole appunto che l’esame verta non tanto sui particolari, che sono conseguenza di certi principi, quanto sui principi stessi da cui quei particolari dipendono. Quando questi principi siano profondamente radicati nell’animo in modo da creare in esso una disposizione abituale e un’inclinazione costante e forte, si può essere certi che l’osservanza della Regola, e con ciò la spinta verso la perfezione, è assicurata. Ma occorre che l’esame sia fatto con sincerità, senza inganni. Se troviamo che la nostra condotta non è conforme alla Regola, non dobbiamo accusare la Regola, ma noi stessi. In questo modo la Regola raggiunge lo scopo per cui è stata scritta, che è quello di esserci luce, norma e guida. Tra le norme che la Regola ci offre vengono in primo luogo – è inutile ricordarlo – l’ascesa verso Dio, l’esercizio della carità fraterna, la fedeltà alla preghiera, l’amore per il bene comune della Chiesa, dell’Ordine, della comunità, la gioia e la santità della consacrazione a Dio, la povertà convinta e sentita che attende tutto dalla misericordia divina, il servizio dei fratelli, il condono delle offese, la correzione fatta con umiltà ed amore, l’aspirazione costante alla contemplazione. Basti questa rapida enunciazione. Essa dimostra che l’esame di coscienza di chi prende la Regola sul serio è lungo, impegnativo, sconvolgente. Anche sconvolgente. Non è possibile essere mediocri quando ci si confronta senza orpelli con un ideale tanto esigente e tanto alto. Nulla è più esigente e più alto della carità con cui amiamo Dio e il prossimo. Ma la carità, lo ripetiamo ancora una volta, che sarà l’ultima, è il segreto, la forza, l’anima della Regola agostiniana. 2. La grazia Il tema dell’osservanza della Regola richiama al pensiero di Agostino un altro tema, che è legato strettamente ad esso, quello della grazia. Non c’è bisogno qui di ricordare quanto il Vescovo d’Ippona abbia contribuito ad approfondire, illustrare e difendere la dottrina della grazia: fu questo uno degli impegni più grandi che ebbe dalla conversione alla morte, particolarmente negli ultimi venti anni quando dovette insorgere contro i “nemici della grazia di Dio”, i pelagiani. Per questo il titolo, che la storia gli ha riservato, di Dottore della grazia. La Regola non ha sull’argomento che poche parole, ma bastano per ricordare tre grandi principi che riassumono la dottrina sulla necessità dell’aiuto divino per compiere il bene ed evitare il male. Possiamo enunciarli, rapidamente, così: se siamo buoni è dono di Dio, se non lo siamo è colpa nostra, se vogliamo diventarlo e continuare ad esserlo dobbiamo pregare perché il Signore ci sostenga con la sua grazia. Il primo e il secondo principio sembrano alla nostra corta ragione contrari tra loro, ma non lo sono. Enunciano soltanto il mistero della grazia che s’innesta sul mistero della nostra natura, la quale, essendo creata, è limitata e defettibile. Ne segue che quanto v’è in noi di negativo, di difettoso, di peccato è nostro, cioè nasce dalla nostra condizione di creature – l’uomo, direbbe qui S. Agostino, non ha di suo se non “la menzogna e il peccato” 377 – mentre quanto vi è in noi di buono, di positivo, di perfetto è dono di Dio, cioè è anch’esso nostro, ma è nostro in quanto ci è stato donato. Per portare un esempio diremo che l’occhio può non vedere quando brilla la luce, ma non può vedere quando la luce non c’è. L’esempio è di S. Agostino. “Dio non ci aiuta a peccare – scrive il Santo – ma non possiamo compiere il bene se Dio non ci aiuta. Come l’occhio del corpo non ha bisogno della luce perché si chiuda e si allontani da essa, ma ha bisogno della luce per vedere, né può affatto vedere senza la luce; così Dio, che è la luce dell’uomo interiore, aiuta l’occhio della nostra anima affinché operiamo il bene non secondo la nostra, ma secondo la sua giustizia. Allontanarsi però da Dio è opera nostra… Dio aiuta quelli che si convertono a Lui, abbandona quelli che se ne allontanano, ma anche per convertirci a Lui, egli ci aiuta” 378. Ma torniamo alla Regola. a) Se vi troverete ad adempiere tutte le cose che vi sono scritte ringraziatene il Signore, datore di ogni bene 379 Perché ringraziare il Signore, se non perché è un dono suo l’aver osservato ciò che la legge prescrive? Ringraziare infatti altro non è che il riconoscere di aver ricevuto un favore e mostrarsene grati a chi ce lo ha fatto. È dono di Dio, dunque, osservare la legge di Dio. Abbiamo ricordato sopra la breve preghiera di S. Agostino, che costituì uno scandalo per i pelagiani: Dammi ciò che comandi e comanda ciò che vuoi 380, preghiera contenuta nelle Confessioni, ma che S. Agostino conferma e commenta più tardi nella controversia pelagiana 381. Egli ne è tanto convinto che ringrazia il Signore non solo per avergli perdonato le colpe che ha commesso, ma per avergli perdonato anche quelle che non ha commesso. Ecco le sue parole: “Attribuisco alla tua grazia e alla tua misericordia il dileguarsi come ghiaccio dei miei peccati – dice al Signore nelle Confessioni – attribuisco alla tua grazia anche tutto il male che non ho commesso. Cosa non avrei potuto fare, se amai perfino il delitto in se stesso? Eppure tutti questi peccati, e quelli che di mia spontanea volontà commisi, e quelli che sotto la tua guida evitai, mi furono rimessi, lo confesso. Quale uomo conscio della propria debolezza osa attribuire alle proprie forze il merito della castità e dell’innocenza che serba, e quindi ti ama meno, quasi che meno abbia avuto bisogno della misericordia con cui condoni i peccati a chi si rivolse a te?” 382. Questo stesso sentimento, che è umiltà insieme e sapienza, S. Agostino lo inculca agli altri, particolarmente alle vergini. Vale la pena di rileggere alcune pagine del libro su La santa verginità 383. Ne riportiamo due tratti significativi. “Ritenete come a voi perdonato in una maniera più perfetta, vi si legge, tutto il male che non avete commesso per esserne stati preservati da lui” 384. Ed ancora: “(La vergine di Dio) penserà con piena convinzione che, quando Dio impedisce a certuni di cadere in peccato, costoro han da considerare che tutti i peccati sono stati loro perdonati in maniera più radicale. Ne sono testimoni certe espressioni di supplica devota che troviamo nella Sacra Scrittura: quelle, cioè, in cui appare che gli stessi comandamenti di Dio non possono tradursi in pratica senza il dono e l’aiuto di chi li aveva impartiti” 385. Da questa dottrina S. Agostino tira una conclusione generale: Dio, coronando nel cielo i nostri meriti, corona i suoi doni: i doni della fede, della giustificazione, della perseveranza finale, senza i quali o non ci sono meriti o non hanno nessun influsso per la vita eterna 386. Quando dunque la coscienza ci assicura d’aver osservato la Regola, se non ricorre sul nostro labbro l’espressione Deo gratias, espressione che era in uso presso i primi discepoli di S. Agostino i quali, incontrandosi, si salutavano con essa 387, almeno ciò che questa espressione suggerisce ed esprime deve essere sempre nel nostro cuore. Che cosa v’è infatti di più nobile, di più bello, di più santo che il sentimento umile e sincero di gratitudine a Dio? “Che cosa di meglio potremmo recare nel cuore – scrivono Agostino e Alipio al vescovo di Cartagine Aurelio – e pronunciare con la bocca e manifestare con la penna se non “Sia ringraziato Dio”? Non potrebbe dirsi nulla di più conciso, nulla udirsi di più lieto, nulla comprendersi di più significativo, nulla compiersi di più utile di questa esclamazione. Sì ringraziamo Dio … ” 388 per il suo ineffabile dono 389. b) Quando invece, continua la Regola, qualcuno si avvedrà di essere manchevole in qualcosa, si dolga del passato 390. Riconosca cioè la sua colpa, senza cercare scuse, senza attribuirla ad altri che a se stesso. “Molti – osserva S. Agostino – confessano la propria iniquità, ma non contro se stessi, bensì contro Dio; quando si trovano in mezzo ai peccati dicono: Dio lo ha voluto”. Non proprio, con queste parole, ma certamente con un ragionamento che, volere o no, porta a questa conclusione. Si appellano infatti alle stelle, al fato – oggi si direbbe alla natura – al diavolo. “Spazza via queste scuse per i tuoi peccati” ammonisce S. Agostino. Il ragionamento giusto, il ragionamento vero è un altro, precisamente questo: “Dio mi ha creato con il libero arbitrio: se ho peccato, io ho peccato. Non soltanto dunque confesserò la mia iniquità, ma la confesserò contro di me, non contro Dio. Io ho detto: Signore abbi pietà di me, grida il malato al medico. Io ho detto. Perché io ho detto? Sarebbe sufficiente: ho detto. Dice Io per dare enfasi al discorso: io, io, non il fato, non la fortuna, non il diavolo, perché neppure esso mi ha obbligato, ma io ho acconsentito a lui che tentava di persuadermi 391. Il riconoscimento della propria colpa è l’inizio della “conversione”, l’inizio di ogni mutamento in meglio. “Tu cerchi la bellezza, cerchi una cosa buona. Ma perché cerchi la bellezza, o anima? Perché il tuo sposo ti ami. Poiché se sei brutta gli dispiaci. Egli infatti chi è? Il più bello tra i figli degli uomini… Tu vuoi piacergli… Ma non lo puoi finché sei deforme. Che cosa farai per diventare bella? Prima di tutto ti dispiaccia la tua deformità e allora da Colui, per piacere al quale vuoi diventare bella, riceverai in dono la bellezza. … Dunque, o anima, non potrai essere bella se non avrai confessato, davanti a Colui che è sempre bello, la tua bruttezza” 392. Sono queste alcune espressioni di un lungo brano d’un discorso agostiniano che nessuno vorrà privarsi della gioia di leggere. Si tratta dunque di evitare una grave perversione, quella di attribuire il bene che facciamo a noi stessi e il male che commettiamo a Dio. No. Occorre rovesciare le posizioni: il bene va attribuito a Dio, il male a noi. Questo è l’ordine. S. Agostino vi insiste 393. Forse a causa dei manichei, forse a causa dell’orgoglio umano, che si gloria volentieri del bene, ma non è in grado, perché cieco, di riconoscere il male; forse, infine, a causa della controversia pelagiana, che lo induceva a mettere in rilievo l’efficacia della grazia. In ogni modo, l’insistenza del vescovo d’Ippona su questo argomento è ammonitrice e rivela uno dei cardini più fermi della vita spirituale. Solo se ci riconosciamo colpevoli davanti a Dio possiamo incominciare a non esserlo più. Il secondo riguarda il futuro: occorre cioè premunirsi per non commettere più peccati. Ci premuniamo in due modi: implorando, con umiltà e dolore, il perdono dei peccati commessi e chiedendo a Dio la grazia di non cadere in nuove tentazioni. c) La Regola infatti continua e conclude: …si premunisca per il futuro, pregando che gli sia rimesso il debito e non sia ancora indotto in tentazione 394. Questa conclusione, che ci ricorda il posto che occupa la preghiera nella vita cristiana e ce lo ricorda con le parole del Padre nostro, è in tutto degna del Dottore della grazia e del contenuto della Regola. Il Dottore della grazia ha tanto insistito su quelle parole del Vangelo: Vigilate e pregate, affinché non cadiate in tentazione! 395. Nella prima opera contro i pelagiani ha scritto queste forti parole: “Respingiamo lontano dalle nostre orecchie e dalla nostra mente coloro che dicono che, una volta ricevuto il libero arbitrio, non dobbiamo pregare affinché Dio ci aiuti a non commettere peccati” 396. Vi ha insistito particolarmente commentando il Padre nostro, di cui le ultime tre domande contengono il piano divino per la nostra liberazione dal male, che è quello di liberarci dal peccato, di aiutarci a non commettere peccati, di toglierci finalmente, nella resurrezione, ogni possibilità di peccato. Altro infatti non vogliono dire quelle tre domande se non questo: perdonaci, Signore, le colpe che abbiamo commesso lasciandoci vincere dalla tentazione, aiutaci a non lasciarci più vincere da essa, toglici la tentazione 397. E quando ci sarà tolta, se non nel cielo? La Regola, poi, trova in queste ultime parole il suo degno coronamento. Se i religiosi si sono uniti insieme per tendere insieme verso Dio, essi non possono raggiungere lo scopo della loro vita se non pregando. La preghiera, e solo la preghiera, vive di Dio e per Iddio, perché è, essenzialmente, come già sappiamo, conversione, tensione, adorazione, amore.

Agostino Trapè

Agostino nello Studio

(Vittore Carpaccio)

SANT’AGOSTINO:
INTRODUZIONE
ALLA DOTTRINA
DELLA GRAZIA

Grazia e Libertà

Città Nuova Editrice

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