n. 03 – DARE AL DOLORE LE PAROLE CHE ESIGE – A. Nocent

San Giovanni-di-Dio-porta-la croceGiovanni di Dio mette sulle sue spalle la croce degli altri
C’ERA UNA VOLTA IL CONVENTO-OSPEDALE

Appunti di bordo di Angelo Nocent

n. 03DARE AL DOLORE

LE PAROLE CHE ESIGE


Un passo indietro per avanzare da innamorati


Ho sotto gl’occhi “L’iSOLa della SaLuTe”, il bimestrale della Curia Generalizia e dell’Ospedale “San Giovanni Calibita – Isola Tiberina,  giugno-luglio 2009.
.
Commissioni, sottocommissioni, viaggi intercontinentali, meeting,  canali satellitari, risonanze magnetiche, SKY, e perfino Marzullo…Che meraviglia!
.
Confrontando grafica, foto, titoli e contenuti con le mie povere indagini su una vecchia storia che si tramanda da secoli, mi par di essere  un sopravissuto cavernicolo o quel soldato giapponese disperso nella foresta  che non si era ancora accorto della guerra finita da un pezzo. Eppure, nulla di quella vivacità spettacolare che infiamma gli abitanti dell’Isola, è paragonabile allo stupore che sto provando mentre rimugino su quella “folgorazione” che, nell’anno del Signore 1538, è caduta sulla testa di un uomo di nome Giovanni mentre si trovava internato nel manicomio di Granada, senza riflettori e telecamere puntate.
.
La premessa è una scusante per chiedere in anticipo benevolenza a quei lettori che avranno il coraggio di buttarsi su questo caso clinico che ha fatto storia e che potrebbe aprire un nuovo capitolo. Non escludo che, lettura facendo, si rendano conto di perdere tempo con uno che non si è accorto che il mondo è cambiato. Ma potrebbe succedere anche il miracolo di una Pentecoste che si posa sulla testa e nel cuore di contemporanei, dispersi ma pur sempre comunicantes in Unum .

*   *   *
La Storia della vita e sante opere di Giovanni Di Dio -  Prima biografia di S. Giovanni di Dio (di Francisco de Castro)” è il compendio della tradizione orale tramandataci dai contemporanei del Santo che hanno condiviso con lui l’Opus Dei, suscitata dallo Spirito e posta nelle sue mani perché la portasse a compimento nella Chiesa del suo tempo.

I sociologi da tempo hanno messo in luce la forza e il carattere irripetibile di un movimento collettivo nel suo status nascendi. Parlando degli stati di effervescenza collettiva, Durkheim ha scritto: “L’uomo ha l’impressione di essere dominato da forze che non riconosce come sue, che lo trascinano, che egli non domina…Si sente trasportato in un mondo differente da quello in cui si svolge la sua esistenza privata. La vita qui non è soltanto intensa, ma è qualitativamente differente”. Per Max Weber la nascita di tali movimenti è legata alla comparsa di un capo carismatico che, rompendo con la tradizione, trascina i suoi seguaci in una avventura eroica, e produce in chi lo segue l’esperienza di una rinascita interiore, una metanoia, nel senso di san Paolo.
.
Premesso che la prospettiva di questi autori è sociologica, anche se non è  in grado di spiegare da sola i movimenti religiosi, aiuta tuttavia a capirne la dinamica. Secondo Francesco Alberoni, sono i momenti del nascere delle religioni, della riforma protestante, della rivoluzione francese o bolscevica. E della comparsa dell’Ordine dei Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, aggiungiamo noi. Secondo lui vi è una indubbia analogia tra la nascita di questi movimenti e il fenomeno dell’innamoramento. E’ proprio quanto è accaduto a  Giovanni di Dio ed ai suoi seguaci: un innamoramento. Né più né meno. I testi comprovanti, estrapolabili dalla prima biografia, abbondano. Uno per tutti: ” Era tanta e tanto grande la carità, della quale nostro Signore aveva dotato il suo servo, ed erano così singolari le opere che da essa derivavano, che alcuni, giudicandolo con spirito vano, lo ritenevano per prodigo e dissipatore, non comprendendo che nostro Signore lo aveva messo nella cantina del vino ed ivi aveva stabilito in lui la sua carità1[33], e che egli si era in tal modo inebriato del suo amore, che non negava nessuna cosa che gli venisse chiesta per lui, fino a dare molte volte, quando non aveva altro, la povera roba di cui era vestito, e rimanere ignudo, essendo pietosissimo con tutti e molto austero e rigoroso con sé.” (Cap. 14)
.
Entrare nella mente di una qualsiasi persona è impossibile. Tutto si complica se si tratta, per giunta,  di un innamorato-santo come Giovanni di Dio. Ma qualche segreto lo si riesce a carpire osservando i suoi gesti, il suo parlare, il suo scrivere. In questo tentativo mi farò aiutare dallo psichiatra Prof. Eugenio Borgna, maestro riconosciuto, ora anche collaboratore di questa rivista, uomo che riesce a parlare per ore di Dio senza mai nominarlo. Esperto in “Emozioni ferite” (Feltrinelli, 2009), con la sua ultima fatica letteraria permette di leggere un Giovanni di Dio inedito al quale bisognerà rivolgere più attenzione, se si vuole che significhi qualcosa per noi che dalla sanità pubblica riceviamo tutto, rispetto ad allora. Quel di più che manca a noi sono proprio i guaritori di emozioni ferite. In Giovanni di Dio possiamo vedere un precursore al quale ispirarci.
.

Nato per la gente dal cuore spezzato

Chi fa giardinaggio sa bene che vi sono  fiori che non si riproducono piantando il loro seme o un ramoscello della pianta ma solo a partire dal bulbo che misteriosamente si ridesta e torna a germogliare in primavera, vedi tulipani, gigli, calle, gladioli. Quando si parla di ri-fondazione io credo che anche l’ Ordine debba sforzarsi di ripartire dal bulbo. E per bulbo intendo la primitiva intuizione – o meglio ispirazione – che Giovanni di Dio ebbe nel 1538: “«Gesù Cristo mi conceda il tempo e mi dia la grazia di avere io un ospedale, dove possa raccogliere i poveri abbandonati e privi della ragione, e servirli come desiderio io». E nostro Signore lo esaudì pienamente.” (Cap. 9)
.
Da questa lucida-mente sono nati i “conventi-ospedale” che si sono moltiplicati lungo i secoli sui cinque continenti. Solo che per troppo tempo si è rimasti legati al senso letterale dell’affermazione, non dando peso al significato traslato, metaforico. Quando si dice che ha del rivoluzionario l’aver inventato l’ospedale concepito come casa, luogo di accoglienza calorosa, letti singoli, bagni e pulizia, biancheria candida, pasti caldi, cure adeguate… preghiere, sacramenti…non si dice solo una verità storica ma si vuol sottolineare che queste erano cose notevoli e inconcepibili per l’epoca e geniale l’autore. Ma nel mutato contesto sociale dove ormai tutto questo è dato fortunatamente per scontato, oggi quelle parole devono assumere un significato “altro”, ancor più rivoluzionario, che proverò ad evidenziare. Se ben compreso, ci si renderà conto che si  va ben oltre il concetto di “umanizzazione” che ha spopolato in questi anni.
.
L’ “Ospedale” che vuole Giovanni di Dio non può essere mai disgiunto da “poveri abbandonati e privi di ragione”, pena tradirne l’ispirazione . Ciò che lui chiede a Gesù, il Signore della Vigna per il quale lavora, è uno spazio geografico. Ma solo per riuscire ad aprirsi un varco nella direzione del profondo dell’uomo che, proprio nella fase della malattia, solo con le sue inquietanti domande di senso, si sente come un povero abbandonato e privo di ragione. Quando pronuncia queste parole, il santo sta facendo l’esperienza del manicomio. Ha posato i suoi occhi nelle pupille dei suoi compagni di sventura. E’ in preda a grandi emozioni, le sue, e quelle condivise. E’ un miscuglio di “emozioni ferite”, di disperazione partecipata. Kafka doveva ancora nascere ma i castelli kafkiani di tante solitudini già esistevano. Egli chiede di abitarli. E lo chiede come “grazia”, dono. Vuole impegnare le sue ventiquattro ore quotidiane per “servire” con viscere di misericordia, sull’esempio del suo Maestro. Perché lui è in azione anche quando dorme ed il “riposatevi un poco”  del Vangelo (Mc 6, 30-34) lo sperimenta nell’abbandono orante.
.
Un San Giovanni di Dio che dedica molto del suo tempo alla questua, potrebbe far pensare che la sua attenzione sia umanitaria, prevalentemente rivolta ai bisogni vitali di una persona: la mensa, un tetto, qualche medicina. In realtà egli tra il dentro e il fuori ospedale non fa distinzione. Quando gira non va solo per questuare ma per snidare il dolore nascosto: il suo ricevere è sempre accompagnato dal dare che gli garantisce nuove entrate. Un piccolo aneddoto, ricavabile da una sua lettera: Dovete sapere che l’altro giorno, quando stavo a Cordova, andando per la città, ho trovato una casa nella più grande necessità, dove vi erano due ragazze che avevano il padre e la madre ammalati a letto e rattrappiti da dieci anni; li ho visti così poveri e così malconci, che mi spezzarono il cuore: seminudi, pieni di pidocchi, avevano come letto dei fasci di paglia; li soccorsi come potevo, perché andavo di fretta per trattare con il maestro Avila, ma non diedi loro come avrei voluto…”. (Prima Alla Duchessa di Sessa, 15). Se ciò che ha potuto fare gli sembra inadeguato, a noi appare notevole: è riuscito a frantumare le resistenze e ad aprire un varco alla luce in quella tana di sepolti vivi; una trasfusione di globuli rossi di speranza nell’asfittica realtà di quattro persone gravemente anemiche.
.
Uno che ha fatto di tutto nella vita, dal pastore al militare, dallo spaccapietre al venditore di legna raccolta nei boschi, fino ad ambulante di libri ed immagini, quest’uomo da marciapiede per divina chiamata, è cuore che si commuove. Frequenta contrade, visita tuguri, entra nei postriboli, senza disdegnare i salotti e i palazzi principeschi perché ormai è uomo di Dio per gli uomini. E, se con essi, specie gli emarginati, condivide pane e dolore fisico e morale, verso i ricchi, non esenti da pene, ha sentimenti di riconoscenza sincera:Sono molto obbligato a tutti i signori dell’Andalusia e della Castiglia, ma molto più al buon duca di Sessa e a tutte le sue proprietà: è molto, molto grande la carità che ho ricevuto dalla sua casa”. (idem 5).
.
La sua arma segreta è l’essere cristiano in comunione con il mondo, una comunione di destino. I suoi occhi sono buoni, privi di malizia. Perciò il suo sguardo è terapeutico e la sua bocca sa proferire parole capaci di curare ferite d’ogni genere, perfino l’egoismo dei ricchi o l’odio degli offesi. Il suo non è mai un contatto psichico ma un incontro. “Incontro” – dice il Borgna – inteso come un essere-insieme nelle diverse modalità consentite dal destino all’uno e all’altro” (p.32).
.
Lavoro terapeutico dotato di senso
Giovanni di Dio nei rapporti con le persone è anticipatore di quei comportamenti timidamente assunti dalla psichiatria di matrice fenomenologica soltanto nel ‘900, quella che “si propone di avvicinare medico e paziente sulla base di un essere-nel-mondo comune a “sani” e a “malati” “ (p.32). La sua “non è vita contrassegnata dalla distrazione, dalla noncuranza, dalla indifferenza e soprattutto dalla incapacità ad immedesimarsi nella situazione psico(pato)logica e umana della persona che, stando male, chiede disperatamente aiuto: non di rado solo tacendo” (idem). Giovanni di Dio proprio durante l’ internato nel reparto psichiatrico dell’Ospedale Regio, dà prova a se stesso e agli altri di “come accostarsi emozionalmente ad un paziente divorato dai suoi fantasmi di angoscia e di persecutività, di colpa e di condanna”.
.
Egli possiede un curriculum assai modesto. Appare istintivo, intraprendente ma è fortemente carismatico. Non ha studiato la medicina sui tomi ma ha sperimentato il dolore fisico e morale, sa tutto della vita è perciò ha dovuto essere medico di se stesso. Lo si direbbe terapeuta nato al quale andrebbe attribuita almeno una laurea honoris causa, perché è uomo che, ad un certo momento, sa dare al dolore le parole che esige, come dice Shakespeare nel Macbeth [137]. Il prof. Borgna che lo cita, ci svela cosa accade  nel segreto di chi soffre: “Il dolore che non parla, a un cuore troppo affranto sussurra bensì l’ordine di schiantarsi”. Capite? Il dolore muto non scherza: stimola pensieri suicidi. Quella capacità di Giovanni di captare oltre il sentire comune, quel sesto senso che lo contraddistingue e mette stupore, è talento ma anche sintonia con il divino, un legame che gli allarga gli orizzonti e gli permette di vedere il mondo con gli occhi di Dio che per lui è “sopra tutte le cose del mondo”. Ecco svelato il segreto di quella sua arte maieutica che fa partorire, ossia “sgorgare dal silenzio, o dalla chiacchiera indistinta e acquatica, le parole che i pazienti custodiscono, e imprigionano, nel loro cuore”. Questo – secondo il Borgna – è già un realizzare “un lavoro terapeutico dotato di senso”.
.
Invito a riprendere in mano la prima biografia e le lettere per provare a rileggerle con questa particolare attenzione. Non sarà difficile intravederlo e riconoscerlo nelle affermazioni che prendo in prestito dalla mia guida:

- “Le parole, che curano, sono tali quando si accompagnano alla voce, agli occhi, agli sguardi, che confermino le
parole ascoltate.
- Le parole, che curano, non possono non essere animate dalle emozioni che sono in noi;   ma, ovviamente, non tutte le
emozioni ci ispirano parole terapeutiche.
- In ogni caso, anche le parole incrinate dall’ansia, e dall’incertezza, e che vorremmo   rimuovere, o almeno
mascherare, in noi, sono più utili ai pazienti che non quelle ghiacciate e sottratte alle incrinature emozionali: al di là di ogni loro contenuto, e di ogni   loro intenzione” (pag. 31).
.
Voce, occhi, sguardi, parole, emozioni… In un punto della biografia si legge: “Con la sua voce lamentevole la virtù che gli dava il Signore, sembrava che trapassasse l’animo di tutti. Ed insieme commuoveva molto il suo aspetto debole e affaticato, e l’austerità della sua vita…”. Ecco gli strumenti terapeutici che fanno emerge in lui quel di più che mi pare oggi ignorato. Quando Luca dice di Gesù che “tutti cercavano di toccarlo perché da Lui usciva una forza che guariva ogni genere di malattia”(6,19), osservando il santo, noi possiamo cogliere lo stesso messaggio che lo ha  plasmato: il Gesù che assumo nell’Eucaristia deve emanare attraverso la mia persona, dal mio intimo, sia fisicamente che psichicamente questa misteriosa energia che, pur impercettibile ai sensi, riflette una sensibilità che si materializza: il mio essere-in-comunione sa dare al dolore le parole che esige. Se la mia personalità e i miei stati d’animo la riflettono, la gente se ne accorge subito ed io incido sull’ambiente circostante non meno delle azioni. Contrariamente, se il mio è un ipocrita volto di facciata, solo la guarigione della durezza del cuore può farmi disponibile alla gratuità del dono di me stesso.  Gesù ha detto chiaramente cosa produce questa mia ipocrisia di sepolcro imbiancato: “è dal dentro, cioè dal cuore degli uomini, che escono le intenzioni di male: l’immoralità, i furti, gli omicidi, le infedeltà, le avidità, la cattiveria, la menzogna, la disonestà, l’invidia, il pettegolezzo, la presunzione, l’imbecillità” (Mc 7,21). E chi di noi non è  produttore d’imbecillità?

A contare non è il numero dei Centri

Sulla scia di Rahner si può  dire che il cristiano del futuro – Fatebenefratelli inclusi – o sarà un mistico o non sarà un cristiano. La sua tesi dà forza alla nostra: se la struttura non è “convento-ospedale”, ossia luogo dove la forza della ragione e il coraggio della fede sfociano nella contemplazione ad occhi aperti, quella dimensione contemplativa della vita che il neo arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini ha messo al primo posto del suo piano pastorale, allora l’ingranaggio s’inceppa. Perché, se così non è, viene meno la missione del cristianesimo in sanità, una missione che non può essere esercitata solo scientificamente ma che è fatta anche di amicizia, emozioni, comprensione, incoraggiamento, promozione, elevazione: una missione di salvezza molto impegnativa. Se tutto ciò deve sussistere, è proprio in funzione di un obiettivo audace quale la condivisione delle infinite emozioni ferite, producendo emozioni che curano, e anelando a quelle che, nel dolore e nella follia, attendono di essere riconosciute.
.
Ma se questo afflato sinergico tra religiosi e laici si fa impercettibile, allora la struttura non è che una delle tante. In tal caso, non dovrebbe sorprendere l’eventuale sua esclusione dai Piani Regionali. Il caso che mi sembra emblematico è proprio l’Ospedale San Giuseppe di Milano.
.
Sacrificato per necessità, in esso i subentrati continuano a fare ciò che si faceva e gli utenti, dopo qualche borbottamento iniziale, continuano a frequentarlo come prima. Tra coloro che non hanno messo l’ anima in pace, come se mi toccasse di persona, sono io e non so chi altro. Parlo per me: a Milano bisognava restare. O si dovrà tornare. Non per orgogliosi motivi nostalgici ma per almeno una ragione fondamentale: perché s’è lasciato un grande vuoto ideale nella città, dopo quattro secoli di presenza. ù
.
L’Ospedale San Giuseppe c’è ancora e funziona più o meno bene, come sempre. Apparentemente è cambiata solo la  gestione e, pur essendo rimasta ogni cosa al suo posto, il Convento-Ospedale voluto da San Carlo non c’è più. Nel precedente articolo è stato largamente illustrato il senso di tale affermazione. Sono certo che il Borromeo darà ancora una mano per riparare la falla. Solo che si dovrà ricomparire sulla scena con uno spirito nuovo, magari per fare altro: caricarsi di alcuni gravi disagi della metropoli che la Chiesa avverte e che la “Casa della Carità”, voluta dal Card. Martini, affronta ogni giorno. Il nome per un luogo complementare già l’avrei: “Villa fiorita”, icona primaverile che rimanda alla Pasqua, spazio inteso come punto di riferimento per chi vuole ri-suscitare, ossia ri-farsi una vita, ri-nascere. Si può fare. Non so quando. Ma si farà, perché la città desolata lo implora!
.
San Giovanni di Dio si è posto nell’ottica del Signore: “sanabat omnes”. Epperò, più che a fare i taumaturghi nel senso letterale, egli ci sollecita a ricavare degli spazi su fronti diversi, conformi alle nostre attitudini, ma che devono avere un denominatore comune: aprire varchi per scoprire Dio tra le fessure del territorio, farsi carico del disagio altrui, raccogliere i silenzi, leggere nel cuore, condividere “Le emozioni ferite”. E’ un ritornello, ma necessario, perché è l’aspetto ancora troppo velato del Mendicante di Granada che i Padri Capitolari sono chiamati a s-velare, in questo nostro tempo di grandi sforzi della psicologia e della psichiatria per risalire la china delle stagnazioni in cui sono finite, trascinandosi dietro legioni di sventurati sempre in bilico.
.
Il Prof. Borgna è psichiatra, non poeta o letterato, ma vive anche di poesia e di letteratura che gli hanno permesso di collezionare un corposo album di ricordi e di “pagine terapeutiche”. In una di queste rimembranze che riporta nel libro menzionato, ci tratteggia la “comune vocazione“ di esploratori di orizzonti di senso. Commentando una poesia di Georg Trakl, ci spiega:  La solitudine e il silenzio, il silenzio interiore, ci consentono di intravedere forme di vita altrimenti inclini a sfuggire nei deserti della noncuranza e della disattenzione; e, senza solitudine e senza silenzio interiore, come potremmo rinnovare in noi, nel nostro cuore e nella nostra immaginazione, la mirabile esperienza interiore descritta da Dante, nel Purgatorio, quando Beatrice invita il poeta ad avvicinarsi, e i suoi occhi riflettono in quelli di Dante abbagliandoli? Sulla scia di questa splendida immagine si muove il capitolo incentrato sulla fenomenologia degli occhi e degli sguardi. Sono gli occhi che ci rivelano l’essenza, altrimenti insondabile, di una persona; e, in essi, come dice Edith Stein, si vede anche il modo radicalmente personale con cui una persona sia buona, affettuosa, o invece gelida e indifferente. Gli occhi si fanno fonte di delirio, e si riflettono nei modi di essere delle allucinazioni; ma gli occhi si aprono anche alla visione mistica…” (pag.15). Ecco perché fin dalle origini il convento è stato posto come un tutt’uno con l’ospedale: lo “spazio monastico” favorisce la solitudine e il silenzio interiore che consentono di intravedere…
.
Mi sovviene in questo momento la figura del novantasettenne discepolo di Giovanni di Dio, Fra Patrizio, la “perfetta letizia” francescana. Settantuno anni di consacrazione religiosa, quasi tutti  trascorsi a condividere il disagio psichico giunto agli estremi. Quando l’ho conosciuto, nel suo reparto aveva più di cento presenze. Nel giorno del funerale, a Brescia (19 Agosto 2009), a riflettere su quella bara c’ero anch’io. Mai una carica. Solo l’incarico di addetto a quel “lazzaretto” che fu la psichiatria fino ad anni recenti.
.
Chapeau! caro Patrizio, frate gioiosamente pneumatico, giullare canterino per Dio. Bene. Quel pomeriggio – forse sono stato chiamato lì per questo -  toccando il suo scapolare, prima della sepoltura, ho prontamente ricevuto una grazia che provo a raccontare perché destinata non soltanto a me. Uscito di chiesa, in un breve lasso di tempo, ho avuto modo di sperimentare la fenomenologia degli occhi e degli sguardi. Incontrando diverse persone, ho vissuto, forse non solo io, le une e le altre emozioni: le poche affettuose, le tante indifferenti, e quelle gelide che sono le più brucianti. Questa riflessione ha preso corpo da quell’amaro in bocca, pensando a quanti nelle strutture socio-sanitarie, non importa di chi, fanno questa esperienza.
.
Se è vero che lo scrivere, come voleva Kafka, è una forma di preghiera, dopo essermi rivolto a Dio, vorrei suggerire al nostro Direttore, designato Vocale al Capitolo Generale Straordinario, di farsi portavoce di questo malessere che spopola. A togliere il senso all’umanizzazione, concetto che considero ormai sempre più stucchevole perché sfuggito di mano, è proprio questo “mal sottile” che andrebbe sorvegliato. Quando è stato lanciato il messaggio, non è stato supportato dalla spiritualità di comunione che, come s’è detto in altra parte, non è astrazione, ma vita fatta di ascolto, scambio e donazione reciproci: communicantes in Unum, grazie all’unico Spirito (cfr. Efesini 4,4-6). Purtroppo è andata per un altro verso. E adesso pesa.
.
Non ho titoli per fare né il moralizzatore né il docente; solo occhi per vedere e una bruciante passione nel cuore. I miei anni giovanili sono stati forgiati da uomini come Paolo VI che pativa una grande e sofferta coscienza del distacco del Mondo dalla Chiesa. Ed il mio vescovo, il Cardinale Martini, mi ha insegnato che Dio entra nelle persone umane per renderle simili a Lui, ossia divinizzarle. Perciò, se nei momenti di oscurità non possiamo non addolorarci, dobbiamo ricordarcelo: Chiesa e Mondo dipendono anche da noi. Da qui la libertà di osare che mi prendo con la parola e lo scritto, superando il concetto  di convenienza. Il comunicare nella fede è l’antidoto  contro l’isolamento che produce chiusure ermetiche e distrugge a poco a poco. Molti hanno alle spalle una stagione euforica.
Negl’anni pregressi lo slogan dell’umanizzare ha fatto presa. A chi ne vanta la paternità o a coloro che se ne sono fatti portavoce, sarebbe ingiusto sottrarre il merito di aver risvegliato il mondo sanitario dal torpore e di aver anche messo in moto la macchina di tante ristrutturazioni che necessitavano. Per qualcuno ha significato soltanto una interessantissima opportunità di business. Pazienza!
.
Ma sarebbe ingenuo nascondersi che, con tutte le buone intenzioni, il concetto, frainteso, ha contestualmente prodotto, in nome di fumogeni ideali, uno sciagurato fenomeno che mai avrebbe dovuto accadere: sottrarre i “fratelli ospedalieri” dal capezzale dei malati. E, se non sono lì, a contatto diretto delle “emozioni ferite”, in un ospedale cosa ci starebbero a fare? Tonino Bello vescovo: “evangelizzatori di pratiche”.
.
L’ alternativa di volerli trasformare in improvvisati animatori e profeti, vocazione abbastanza incomprensibile ai più, – non sono io a dirlo – ha prodotto laceranti segrete ferite di frustrazione che sfuggono probabilmente a chi è gratificato dalla concretezza di  cariche istituzionali. Vorrei che la provocazione venisse raccolta in positivo: risvegliare l’orgoglio.
I laici hanno bisogno di vedere incarnata l’ identità originaria, non raccontata sui libri o sollecitata nelle omelie. Il futuro che è già cominciato, vorrebbe tornar a vedere i frati nelle corsie, non più solamente distributori di pastiglie o estensori di turni di servizio del personale, ma come infermieri laureati, medici, meglio ancora psicologi e psichiatri, oltre che sacerdoti…Uomini di Dio che, sull’esempio della guida che mi accompagna,  fanno tesoro anche della filosofia e della letteratura.
.
Un corpus di consacrati, -  e mi auguro di “donne dello stesso abito”, com’era alle origini – donne e uomini specializzati nell’ascolto, organizzati per santificare e scientificare, come direbbe il Don Luigi Verzé del San Raffaele. Certo, anche con qualche esperto negli uffici, perché vigili sui conti e controlli i controllori, ossia i laici amministratori delegati. Messa così, la loro funzione porterebbe equilibrio all’ambiente affinché non prevarichi l’arrivismo dei non consacrati che, essendo maggioranza quasi assoluta nella nuova “Famiglia Ospedaliera” che va delineandosi, potrebbero mettersi l’uno contro l’altro. Fenomeno prevedibile, se non già in azione.

Il messaggio che proviene dalla scoperta di un San Giovanni di Dio, cui sta sì a cuore la struttura ma in funzione di un progetto terapeutico mirato, potrebbe cambiare la vita dell’intera comunità terapeutica, se non si vuole piegare la parabola del Samaritano alle esigenze funzionali del gruppo, del Centro, forzandone il senso a discrezione e convenienza.
.
Mi rende perplesso sentir parlare di “Scuola di Ospitalità”, corsi di una settimana che si svolgono or qua or là in giro per il mondo. Leggo che sarebbe in elaborazione anche un libro di testo. Per quanto voluminoso, risulterà sempre un bigino del Bignami da sfogliare in metropolitana. Ben venga un sussidio. Ma non potrà mai esaurire questo lungo e complesso discorso che presume la frequentazione di quanti più possibile di una scuola di teologia per laici, ormai presente in tutte le Diocesi.
.
La struttura FBF o si pone come “modello”,  in funzione di questo obiettivo di condivisione delle infinite emozioni ferite, producendo emozioni che curano, e anelando a quelle che, nel dolore e nella follia, attendono di essere riconosciute, o è una delle tante. Appare evidente allora che la forza non è nel numero dei Centri che si possiedono ma nella condivisa nuova concezione del fare “terapia, di coloro che non solo mettono in comune le scienze mediche ma frequentano anche lo “spazio monastico”, in un mirabile scambiano di emozioni. A cominciare dalla più grande di tutte: Gesù,  detto il Cristo.
.

Ma la percezione delle “emozioni ferite”  potrebbe avvenire senza contatto tra pazienti e terapeuti? Mai più!  Le emozioni che rinascono in chi cura, e quelle che rinascono in chi è curato, sono reciprocamente intrecciate in un dialogo senza fine che non può mai essere ignorato nella sua decisiva significazione terapeutica. Se è così, o la “Nuova ospitalità” è questa o non vedo in cosa possa differenziarsi davvero dalle limitate e biasimate altrui esperienze. Sulle labbra di Giovanni di Dio stanno a proposito le parole dell’Apostolo: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1Cor 11,1).
.
O lo siamo o ci riduciamo a un goffo scimmiottare, illusi che nessuno lo noti. Il messaggio per tutti, con o senza tonaca, ce lo manda Benedetto XVI: “In Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5,6). Come a dire: non è l’abito che fa il monaco, né il titolo accademico che mi qualifica, ma l’arte di amare, ossia del vicendevole comunicare e recepire le emozioni dello Spirito. Altrimenti è narcisismo, amore che provo per la mia immagine. Un  baciarmi da solo nello specchio. Il massimo della frustrazione.
.
Questa crisi senza precedenti, con i giochi di parole la si può solo mimetizzare, non risolvere. Certo, terapeuti non ci si può improvvisare. Preoccupante sarebbe il non avvertire almeno il bisogno di orientare gli sforzi per preparare un domani di persone all’altezza del carisma istituzionale. Ad accendere il fuoco è lo Spirito. Ad alimentarlo tocca a ciascuno con il sapere scientifico, la fede teologica e la frequentazione della città, pullulante di portatori di emozioni ferite. Se il mondo è cambiato, allora bisogna attrezzarsi per gestire, non per subire il cambiamento.

Angelo Nocent

n. 03DARE AL DOLORE
LE PAROLE CHE ESIGE

Un passo indietro per avanzare da innamorati
Nell’anno del Signore 1538, una “folgorazione” è caduta sulla testa di un uomo di nome Giovanni mentre si trovava internato nel manicomio di Granata.
La “Storia della vita e sante opere di Giovanni Di Dio -  Prima biografia di S. Giovanni di Dio (di Francisco de Castro)” è il compendio della tradizione orale tramandataci dai contemporanei del Santo che hanno condiviso con lui l’operosità suscitata dallo Spirito e posta nelle sue mani perché la portasse a compimento .
I sociologi da tempo hanno messo in luce la forza e il carattere irripetibile di un movimento collettivo nel suo status nascendi.
Secondo Francesco Alberoni, i momenti del nascere delle religioni, della riforma protestante, della rivoluzione francese o bolscevica e della comparsa dell’Ordine dei Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, sono paragonabili al fenomeno dell’innamoramento. Abbondano I testi che lo provano.. Uno per tutti: ” Era tanta e tanto grande la carità, della quale nostro Signore aveva dotato il suo servo, ed erano così singolari le opere che da essa derivavano, che alcuni, giudicandolo con spirito vano, lo ritenevano per prodigo e dissipatore, non comprendendo che nostro Signore lo aveva messo nella cantina del vino ed ivi aveva stabilito in lui la sua carità1[33], e che egli si era in tal modo inebriato del suo amore, che non negava nessuna cosa che gli venisse chiesta per lui, fino a dare molte volte, quando non aveva altro, la povera roba di cui era vestito, e rimanere ignudo, essendo pietosissimo con tutti e molto austero e rigoroso con sé.” (Cap. 14)
Nel tentativo di spiegare questo fenomeno mi farò aiutare dallo psichiatra Prof. Eugenio Borgna, uomo che riesce a parlare per ore di Dio senza mai nominarlo. Esperto in “Emozioni ferite” (Feltrinelli, 2009), con la sua ultima fatica letteraria permette di leggere un Giovanni di Dio,  precursore come guaritore di emozioni ferite.
Nato per la gente dal cuore spezzato
Chi fa giardinaggio sa bene che vi sono  fiori che non si riproducono piantando il loro seme o un ramoscello della pianta, ma solo a partire dal bulbo che misteriosamente si ridesta e torna a germogliare in primavera.
Quando si parla di ri-fondazione io credo che anche l’ Ordine debba sforzarsi di ripartire dal bulbo, cioè la primitiva intuizione che Giovanni di Dio ebbe nel 1538: “«Gesù Cristo mi conceda il tempo e mi dia la grazia di avere io un ospedale, dove possa raccogliere i poveri abbandonati e privi della ragione, e servirli come desiderio io». E nostro Signore lo esaudì pienamente.” (Cap. 9)

Da questa lucida-mente sono nati i “conventi-ospedale” che si sono moltiplicati lungo i secoli sui cinque continenti. Quando si dice che ha del rivoluzionario l’aver inventato l’ospedale concepito come casa, luogo di accoglienza calorosa, letti singoli, bagni e pulizia, biancheria candida, pasti caldi, cure adeguate… preghiere, sacramenti…non si dice solo una verità storica ma si vuol sottolineare che queste erano cose notevoli e inconcepibili per l’epoca e geniale l’autore.

L’ “Ospedale” che vuole Giovanni di Dio non può essere mai disgiunto da “poveri abbandonati e privi di ragione”, pena tradirne l’ispirazione . Ciò che lui chiede a Gesù, il Signore della Vigna per il quale lavora, è uno spazio geografico. Ma solo per riuscire ad aprirsi un varco nella direzione del profondo dell’uomo che, proprio nella fase della malattia, solo con le sue inquietanti domande di senso, si sente come un povero abbandonato e privo di ragione. Quando pronuncia queste parole, il santo sta facendo l’esperienza del manicomio. Ha posato i suoi occhi nelle pupille dei suoi compagni di sventura. E’ in preda a grandi emozioni, le sue, e quelle condivise. E’ un miscuglio di “emozioni ferite”, di disperazione partecipata. Vuole impegnare le sue ventiquattro ore quotidiane per “servire” con viscere di misericordia, sull’esempio del suo Maestro. Perché lui è in azione anche quando dorme ed il “riposatevi un poco”  del Vangelo (Mc 6, 30-34) lo sperimenta nell’abbandono orante.

Un San Giovanni di Dio che dedica molto del suo tempo alla questua, potrebbe far pensare che la sua attenzione sia umanitaria, prevalentemente rivolta ai bisogni vitali di una persona: la mensa, un tetto, qualche medicina. In realtà quando gira non va solo per questuare ma per snidare il dolore nascosto: il suo ricevere è sempre accompagnato dal dare che gli garantisce nuove entrate. Un piccolo aneddoto, ricavabile da una sua lettera: Dovete sapere che l’altro giorno, quando stavo a Cordova, andando per la città, ho trovato una casa nella più grande necessità, dove vi erano due ragazze che avevano il padre e la madre ammalati a letto e rattrappiti da dieci anni; li ho visti così poveri e così malconci, che mi spezzarono il cuore: seminudi, pieni di pidocchi, avevano come letto dei fasci di paglia; li soccorsi come potevo, perché andavo di fretta per trattare con il maestro Avila, ma non diedi loro come avrei voluto…”. (Prima Alla Duchessa di Sessa, 15).
E’riuscito a frantumare le resistenze e ad aprire un varco alla luce in quella tana di sepolti vivi.
Uno che ha fatto di tutto nella vita, dal pastore al militare, dallo spaccapietre al venditore di legna raccolta nei boschi, fino ad ambulante di libri ed immagini, quest’uomo da marciapiede per divina chiamata, è cuore che si commuove. Frequenta contrade, visita tuguri, entra nei postriboli, senza disdegnare i salotti e i palazzi principeschi perché ormai è uomo di Dio per gli uomini. E, se con essi, specie gli emarginati, condivide pane e dolore fisico e morale, verso i ricchi, non esenti da pene, ha sentimenti di riconoscenza sincera:Sono molto obbligato a tutti i signori dell’Andalusia e della Castiglia, ma molto più al buon duca di Sessa e a tutte le sue proprietà: è molto, molto grande la carità che ho ricevuto dalla sua casa”. (idem 5).
La sua arma segreta è l’essere cristiano in comunione con il mondo, una comunione di destino. I suoi occhi sono buoni, privi di malizia. Perciò il suo sguardo è terapeutico e la sua bocca sa proferire parole capaci di curare ferite d’ogni genere, perfino l’egoismo dei ricchi o l’odio degli offesi. Il suo non è mai un contatto psichico ma un incontro. “Incontro” – dice il Borgna – inteso come un essere-insieme nelle diverse modalità consentite dal destino all’uno e all’altro” (p.32).
.
Lavoro terapeutico dotato di senso
Giovanni di Dio è anticipatore di quei comportamenti timidamente assunti dalla psichiatria di matrice fenomenologica soltanto nel ‘900, quella che “si propone di avvicinare medico e paziente sulla base di un essere-nel-mondo comune a “sani” e a “malati” “ (p.32). La sua “non è vita contrassegnata dalla distrazione, dalla noncuranza, dalla indifferenza e soprattutto dalla incapacità ad immedesimarsi nella situazione psico(pato)logica e umana della persona che, stando male, chiede disperatamente aiuto: non di rado solo tacendo” (idem). Giovanni di Dio proprio durante l’ internato nel reparto psichiatrico dell’Ospedale Regio, dà prova a se stesso e agli altri di “come accostarsi emozionalmente ad un paziente divorato dai suoi fantasmi di angoscia e di persecutività, di colpa e di condanna”.
Egli possiede un curriculum assai modesto. Appare istintivo, intraprendente ma è  fortemente carismatico. Non ha studiato la medicina sui tomi ma ha sperimentato il dolore fisico e morale, sa tutto della vita è perciò ha dovuto essere medico di se stesso. Lo si direbbe terapeuta nato , perché è uomo che sa dare al dolore le parole che esige, come dice Shakespeare nel Macbeth [137]. Il prof. Borgna ci svela cosa accade  nel segreto di chi soffre: “Il dolore che non parla, a un cuore troppo affranto sussurra bensì l’ordine di schiantarsi”. Il dolore muto non scherza: stimola pensieri suicidi. Quella capacità di Giovanni di captare oltre il sentire comune, quel sesto senso che lo contraddistingue e mette stupore, è talento ma anche sintonia con il divino, un legame che gli allarga gli orizzonti e gli permette di vedere il mondo con gli occhi di Dio che per lui è “sopra tutte le cose del mondo”, parole che sgorgano dal silenzio, o dalla chiacchiera indistinta e acquatica, le parole che i pazienti custodiscono, e imprigionano, nel loro cuore”. Questo – secondo il Borgna – è già un realizzare “un lavoro terapeutico dotato di senso”.
- “Le parole, che curano, sono tali quando si accompagnano alla voce, agli occhi, agli sguardi, che confermino le parole ascoltate.
- In ogni caso, anche le parole incrinate dall’ansia, e dall’incertezza, e che vorremmo   rimuovere, o almeno mascherare, in noi, sono più utili ai pazienti che non quelle ghiacciate e sottratte alle incrinature emozionali: al di là di ogni loro contenuto, e di ogni   loro intenzione” (pag. 31).
.
Voce, occhi, sguardi, parole, emozioni… In un punto della biografia di S Giovanni di Dio si legge: Con la sua voce lamentevole e la virtù che gli dava il Signore, sembrava che trapassasse l’animo di tutti. Ed insieme commuoveva molto il suo aspetto debole e affaticato, e l’austerità della sua vita…”. Ecco gli strumenti terapeutici che fanno emerge in lui quel di più che mi pare oggi ignorato. Quando Luca dice di Gesù che “tutti cercavano di toccarlo perché da Lui usciva una forza che guariva ogni genere di malattia”(6,19), osservando il santo, noi possiamo cogliere lo stesso messaggio che lo ha  plasmato: il Gesù che assumo nell’Eucaristia , dal momento che sono una cosa sola con Lui, deve emanare attraverso la mia persona, dal mio intimo, sia fisicamente che psichicamente questa misteriosa energia che, pur impercettibile ai sensi, riflette una sensibilità che si materializza: il mio essere-in-comunione sa dare al dolore le parole che esige. Se la mia personalità e i miei stati d’animo la riflettono, la gente se ne accorge subito ed io incido sull’ambiente circostante non meno delle azioni.
.
Contrariamente, se il mio è  un ipocrita volto di facciata, solo la guarigione della durezza del cuore può farmi disponibile alla gratuità del dono di me stesso.  Gesù ha detto chiaramente cosa produce questa mia ipocrisia di sepolcro imbiancato: “è dal dentro, cioè dal cuore degli uomini, che escono le intenzioni di male” (Mc 7,21).
Ma perché dalla Comunità Terapeutica scatturisca questa ricchezza di acqua viva, bisogna che essa si metta in discussione. A tal proposito, varrebbe la pena di far tesoro di quanto ha suggerito il Padre Cantalamessa al Capitolo Generale dei Cappuccini:…
Qualcuno obietterà che queste sanno di fanatismo, qualche altro dirà che la gente non è preparata ad ascoltarci. Aveva ragione il Card. Suenens: “siamo noi che non siamo preparati a parlare”.  Proviamo a chiederci: San Paolo per chi ha scritto la Lettera ai Romani, il trattato più difficile di tutta la Rivelazone ? Forse per i teologi delle università di Roma, che ancora non c’erano, o piuttosto per i semplici cristiani, quasi tutti illetterati, che venivano dal paganesimo?
Se siamo tempio dello Spirito Santo, ognuno deve riempirlo con la Sua pienezza e annunziare “Colui che batezza in Spirito Santo e fuoco”. La fase due è scomparire: perché è Lui che deve crescere in chi ha ricevuto l’euanghelion, inteso non soltanto come Buona Notizia, ma nei significati che Paolo attribuisce al termine. Illuminante è il gesuita Ugo Vanni  che provo a sintetizzare:
(1) annuncio di Cristo morto e risorto “per” me;

(2) l’annuncio mi interpella raggiungendomi dove sono. L’annuncio del Cristo morto e risorto che  mi viene notificato mi mette in una situazione dalla quale  non posso fuggire ma pronunciarmi ;

(3) di fronte all’annuncio sono chiamato a decidere per il sì o per il no: se dico “sì”  mi  apro  al vangelo e questa apertura è la fede. Il sì della fede è come girare un interruttore per cui si dà spazio all’energia, si dà spazio al contenuto del vangelo (Cristo morto e risorto) che diventa contenuto agente nell’uomo.

(4) da questa accettazione dipende la mia situazione escatologica, l’oltre, la mia salvezza o la mia perdizione. Più che semplicemente l’“al di là” nella linea del tempo, Paolo sottolinea la situazione cdell’“al di più”, ossia l’ottimale per l’uomo. La prospettiva escatologica è qui la prospettiva positiva per cui l’uomo è visto in un coefficiente infinito, al massimo grado. Accettando il vangelo l’uomo diviene sozomenos, una persona “che si sta salvando”, in cui la salvezza comincia a realizzarsi. Questo uomo è sulla via della realizzazione ottimale, che Paolo chiama “salvezza”. Il rifiuto del vangelo porta, invece, alla perdizione, non come abisso infernale in cui l’uomo va a cadere, ma come vuoto assoluto che si realizza all’interno dell’uomo. L’uomo che si apre a Cristo si realizza, chi lo rifiuta si perde. La salvezza è così intesa come realizzazione piena e totale della persona, la perdizione come il vuoto ed il fallimento. Per Paolo l’inferno è l’uomo fallito, nel senso del progetto di Dio rimasto irrealizzato.

Così la morte e la resurrezione di Cristo sono dei fatti, ma che dimostrano una spinta transitiva in colui che ascolta. Non provocano tanto una compassione, quanto una “giustificazione”, una vita comunicata attraverso l’evento della Risurrezione: la morte di Cristo è offerta per togliere le lacunosità (il peccato) dell’uomo, la risurrezione di Cristo per trasferire il contesto attivo della sua vitalità all’uomo.

Infine, per Paolo il vangelo è Vangelo tou Tseou, “di Dio”, sottolineando così la trascendenza di questo annuncio. Ma Paolo, accogliendo il Vangelo di Dio, può anche affermare che è   “euanghelion mou“, ossia il “mio vangelo”. L’Apostolo non si limita ad accoglierlo, ma lo personalizza, lo fa “suo”.

Un’Equipe Terapeutica sintonizzata su quest’onda, indubbiamente possiede una marcia in più. Ma a una condizione: che faccia sua la consapevolezza di Paolo: ” Io mi trovo tra voi in uno stato di debolezza, di timore e di trepidazione; e il mio parlare come pure la mia predicazione, non si basa su persuasivi argomenti di sapienza. E’ la forza dello Spirito a convincervi. Così la vostra fede non è fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (1Cor 2, 3-5).

http://www.gliscritti.it/approf/2006/saggi/vanni01.htm


*****
n. 04 –???????????????????

Non conta il numero dei Centri
Sulla scia di Rahner si può  dire che il cristiano del futuro – Fatebenefratelli inclusi – o sarà un mistico o non sarà un cristiano. La sua tesi dà forza alla nostra: se la struttura non è “convento-ospedale”, allora l’ingranaggio s’inceppa. Deve essere un luogo dove la forza della ragione e il coraggio della fede sfociano nella contemplazione ad occhi aperti, quella dimensione contemplativa della vita che il neo arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini aveva messo al primo posto del suo piano pastorale.

Se così non è, viene meno la missione del cristianesimo in sanità, una missione che non può essere esercitata solo scientificamente ma che è fatta anche di amicizia, emozioni, comprensione, incoraggiamento, promozione, elevazione: una missione di salvezza molto impegnativa. Se tutto ciò deve sussistere, è proprio in funzione di un obiettivo audace quale la condivisione delle infinite emozioni ferite, producendo emozioni che curano, e anelando a quelle che, nel dolore e nella follia, attendono di essere riconosciute.
Quando la comunione di intenti tra religiosi e laici si fa impercettibile, allora la struttura non è che una delle tante. In tal caso, non dovrebbe sorprendere l’eventuale sua esclusione dai Piani Regionali. Il caso che mi sembra emblematico è proprio l’Ospedale San Giuseppe di Milano. Sacrificato per necessità, in esso i subentrati continuano a fare ciò che si faceva e gli utenti continuano a frequentarlo come prima. Personalmente ritengo che a Milano bisognava restare. O si dovrà tornare. Non per orgogliosi motivi nostalgici ma per almeno una ragione fondamentale: perché s’è lasciato un grande vuoto ideale nella città, dopo quattro secoli di presenza. L’Ospedale San Giuseppe c’è ancora e funziona più o meno bene, come sempre. Apparentemente è cambiata solo la  gestione e, pur essendo rimasta ogni cosa al suo posto, il Convento-Ospedale voluto da San Carlo non c’è più. Se  si vorrà ricomparire sulla scena bisognerà farlo con uno spirito nuovo: caricarsi di alcuni gravi disagi della metropoli che la Chiesa avverte e che la “Casa della Carità”, voluta dal Card. Martini, affronta ogni giorno. Il nome per un luogo complementare già l’avrei: “Villa fiorita”, icona primaverile che rimanda alla Pasqua, spazio inteso come punto di riferimento per chi vuole ri-nascere.
San Giovanni di Dio si è  posto nell’ottica del Signore: “sanabat omnes”. Egli ci sollecita a ricavare degli spazi su fronti diversi che devono avere un denominatore comune: aprire varchi per scoprire Dio tra le fessure del territorio, farsi carico del disagio altrui, raccogliere i silenzi, leggere nel cuore, condividere “Le emozioni ferite”.
Il Prof. Borgna vive anche di poesia e di letteratura che gli hanno permesso di collezionare un corposo album di “pagine terapeutiche. Commentando una poesia di Georg Trakl, ci spiega:  “La solitudine e il silenzio, il silenzio interiore, ci consentono di intravedere forme di vita altrimenti inclini a sfuggire nei deserti della noncuranza e della disattenzione; e, senza solitudine e senza silenzio interiore, come potremmo rinnovare in noi, nel nostro cuore e nella nostra immaginazione, la mirabile esperienza interiore descritta da Dante, nel Purgatorio, quando Beatrice invita il poeta ad avvicinarsi, e i suoi occhi riflettono in quelli di Dante abbagliandoli? …. Sono gli occhi che ci rivelano l’essenza, altrimenti insondabile, di una persona; ” (pag.15).
Ho avuto modo di ripensare alla figura del novantasettenne Fra Patrizio, la “perfetta letizia” francescana, Settantuno anni di consacrazione religiosa, quasi tutti  trascorsi a condividere il disagio psichico giunto agli estremi. Nel giorno del funerale, a Brescia (19 Agosto 2009), a riflettere su quella bara c’ero anch’io. Mai una carica. Solo l’incarico di addetto a quel “lazzaretto” che fu la psichiatria fino ad anni recenti. Patrizio,  giullare canterino per Dio. Quel pomeriggio in un breve lasso di tempo, ho avuto modo di sperimentare la fenomenologia degli occhi e degli sguardi. Incontrando diverse persone, ho vissuto le une e le altre emozioni: le poche affettuose, le tante indifferenti, e quelle gelide che sono le più brucianti. nelle strutture socio-sanitarie si fa questa esperienza.. A togliere il senso all’umanizzazione, è proprio questo “mal sottile” che andrebbe sorvegliato. Quando è stato lanciato il messaggio, non è stato supportato dalla spiritualità di comunione che, come s’è detto in altra parte, non è astrazione, ma vita fatta di ascolto, scambio e donazione reciproci: communicantes in Unum, grazie all’unico Spirito (cfr. Efesini 4,4-6).
I miei anni giovanili sono stati forgiati da uomini come Paolo VI che pativa una grande e sofferta coscienza del distacco del Mondo dalla Chiesa. Ed il mio vescovo, il Cardinale Martini, mi ha insegnato che Dio entra nelle persone umane per renderle simili a Lui, ossia divinizzarle. Chiesa e Mondo dipendono anche da noi. Da qui la libertà di osare , superando il concetto  di convenienza. Il comunicare nella fede è l’antidoto  contro l’isolamento che produce chiusure ermetiche e distrugge a poco a poco. Molti hanno alle spalle una stagione euforica.  Negl’anni pregressi lo slogan dell’umanizzare ha fatto presa. A chi ne vanta la paternità o a coloro che se ne sono fatti portavoce, sarebbe ingiusto sottrarre il merito di aver risvegliato il mondo sanitario dal torpore e di aver anche messo in moto la macchina di tante ristrutturazioni che necessitavano. Ma sarebbe ingenuo nascondersi che spesso si sono sottratti i “fratelli ospedalieri” dal capezzale dei malati.
L’ alternativa di volerli trasformare in improvvisati animatori e profeti, vocazione abbastanza incomprensibili ai più, – non sono io a dirlo – ha prodotto laceranti segrete ferite di frustrazione che sfuggono probabilmente a chi è gratificato dalla concretezza di  cariche istituzionali.
I laici hanno bisogno di vedere incarnata l’ identità originaria, non raccontata sui libri o sollecitata nelle omelie. Il futuro che è già cominciato, vorrebbe tornar a vedere i frati nelle corsie, non più solamente distributori di pastiglie o estensori di turni di servizio del personale, ma come infermieri laureati, medici, meglio ancora psicologi e psichiatri, oltre che sacerdoti…Uomini di Dio che, sull’esempio della guida che mi accompagna,  fanno tesoro anche della filosofia e della letteratura. Un corpus di consacrati, -  e mi auguro di “donne dello stesso abito”, com’era alle origini – donne e uomini specializzati nell’ascolto, organizzati per santificare e scientificare, come direbbe il Don Luigi Verzé del San Raffaele. Certo, anche con qualche esperto negli uffici, perché vigili sui conti e controlli i controllori, ossia i laici amministratori delegati. Messa così, la loro funzione porterebbe equilibrio all’ambiente affinché non prevarichi l’arrivismo dei non consacrati che, essendo maggioranza quasi assoluta nella nuova “Famiglia Ospedaliera” che va delineandosi, potrebbero mettersi l’uno contro l’altro.
La struttura FBF o si pone come “modello”,  in funzione di questo obiettivo di “condivisione delle infinite emozioni ferite, producendo emozioni che curano, e anelando a quelle che, nel dolore e nella follia, attendono di essere riconosciute”, oppure è solo una delle tante. Appare evidente allora che la forza non è nel numero dei Centri che si possiedono ma nella condivisa nuova concezione del fare “terapia, di coloro che non solo mettono in comune le scienze mediche ma frequentano anche lo “spazio monastico”, in un mirabile scambiano di emozioni. A cominciare dalla più grande di tutte: Gesù Cristo.
Ma la percezione delle “emozioni ferite”  potrebbe avvenire senza contatto tra pazienti e terapeuti? “Le emozioni che rinascono in chi cura, e quelle che rinascono in chi è curato, sono reciprocamente intrecciate in un dialogo senza fine che non può mai essere ignorato nella sua decisiva significazione terapeutica”. Questa deve essere la “Nuova ospitalità” . Sulle labbra di Giovanni di Dio stanno a proposito le parole dell’Apostolo: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1Cor 11,1). Non è l’abito che fa il monaco, né il titolo accademico che mi qualifica, ma l’arte di amare, ossia del vicendevole comunicare e recepire le emozioni dello Spirito.
Angelo Nocent

Leave a Reply

You must be logged in to post a comment.