09 – LE CONFESSIONI DI PAOLO – Dio è misericordia – C.M. Martini

Dio è misericordia

Siamo giunti al termine del nostro lavoro di riflessione e ci accorgiamo, con sgomento, di avere raccolto solo qualche secchiello d’acqua dal grande mare dell’insegnamento che ci viene da Paolo.
Sarebbe bello, come sintesi, fermarci sul tema della preghiera in Paolo, oppure sulla libertà dalla legge. Sarebbe egualmente stimolante una riflessione sulla visuale cosmica della salvezza, come viene descritta nelle «lettere della prigionia ».
L’imbarazzo della scelta mi fa decidere per una parola di Paolo che può essere commentata come parola conclusiva degli Esercizi. È la finale del discorso pronunciato a Mileto, l’ultima raccomandazione pastorale prima che cominci la sua passione.

Resta vero – secondo gli Atti ~ che Paolo a Mileto dice l’ultima parola della sua vita pubblica. Per quest0ha un significato particolare e riassuntivo di ciò che l’Apostolo pensava e voleva, e di come la Chiesa primitiva se lo raffigurava.
Chiediamo, di fronte all’ultima parola di Paolo, di poterla comprendere nello spirito con cui l’ha pronunciata, dandole tutta la verità che essa ha oggi per noi, come Parola di Dio, viva ed efficace.

Ti ringraziamo, Signore, perché questa Parola, pronunciata duemila anni fa, è viva ed efficace in mezzo a noi.
Riconosciamo la nostra impotenza e incapacità a comprenderla e a lasciarla vivere in noi. Essa è più potente e più forte delle nostre debolezze, più efficace delle nostre fragilità, più penetrante delle nostre resistenze.
Per questo ti chiediamo di essere illuminati dalla Parola per prenderla sul serio ed aprire la nostra esperienza a ciò che ci manifesta, per darle fiducia nella nostra vita e permetterle di operare in noi secondo la ricchezza della sua potenza.
Madre di Gesù, che ti sei affidata senza riserva, chiedendo che avvenisse in te secondo la Parola che ti era detta, donaci lo spirito di disponibilità perché possiamo ritrovare la verità di noi stessi. Donaci di aiutare ogni uomo a ritrovare la verità di Dio su di lui, fa’ che la ritrovi pienamente il mondo e la società in cui viviamo e che vogliamo umilmente servire.
Te lo chiediamo, Padre, per Cristo Gesù, tua Parola incarnata, per la sua Morte e Risurrezione, e per lo Spirito Santo che continuamente rinnova in noi la forza di questa Parola, ora e per tutti i secoli. Amen.

«E ora vi affido al Signore e alla Parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere la eredità con tutti i santificati» (At 20, 32).

È questa la conclusione solenne del discorso, sulla quale vogliamo riflettere. Essa ha anche, come vedremo, un valore di preghiera liturgica, di benedizione. Faccio notare, però, che dopo c’è un’aggiunta, quasi che Paolo voglia insistere su un tema che gli sta a cuore: «Non ho desiderato né argento né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle mie necessità e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” » (At ,20, 33-35).
Cronologicamente, quindi, l’ultima parola meravigliosa e riassuntiva dell’esperienza paolina è: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere ».
Tuttavia noi ci fermiamo sulla finale «ufficiale» che è ugualmente significativa e conclusiva della sua vita pastorale, anche perché corrisponde a ciò che si desidera al termine di un ritiro.
Che cosa rappresenta, infatti, questa parola nella struttura del discorso di Mileto?
Paolo ha parlato ai presbiteri; ora deve abbandonarli e si preoccupa di ciò che faranno, del loro avvenire. A loro volta, i presbiteri si chiedono come porteranno avanti il lavoro vissuto insieme.
Quella parola è, quindi, la risposta di Paolo, la sua raccomandazione, il suo ricordo finale alla comunità.

Può essere utile il parallelo con la vita di Gesù. Secondo il Vangelo di Giovanni l’ultima parola di Gesù, riassuntiva di ciò che ha fatto, è: «E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17, 26). Secondo il Vangelo di Luca, l’ultima parola è un invito alla vigilanza: «Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo» (Le 21, 36). Questo invito corre anche nella penultima parola del discorso di Mileto.
Analoga è la finale in Marco, mentre in Matteo è il giudizio sulle opere di misericordia.
Ogni evangelista fa concludere la predicazione pubblica di Gesù con ciò che è particolarmente significativo per ciascuno.
Così gli Atti fanno concludere la vita pubblica dell’Apostolo con una frase che è significativa per tutto ciò che Paolo è, proclama, crede, vive.
Noi possiamo prenderla come ricordo degli Esercizi affinché ci aiuti a mantenere i propositi e quella intuizione del disegno di Dio che in questi giorni, per sua grazia, abbiamo avuto.

L’ultima parola di Paolo

- «E ora»: il termine greco « kài tà nun » è abbastanza singolare e raro nel Nuovo Testamento.
Vuol dire: «Per quanto, dunque, concerne la presente situazione». La vostra situazione di distacco da me, di incertezza per il futuro, di timore per ciò che vi capiterà.

Si tratta di una formula solenne e conclusiva che troviamo per esempio al termine della preghiera degli apostoli, durante la prima persecuzione. Dopo aver detto: «Signore, tu che hai fatto il cielo, la terra, il mare… tu che hai detto per bocca di Davide:

Perché si agitarono le genti
e i popoli tramarono cose vane?
Si sollevarono i re della terra
e i principi si radunarono insieme,
contro il Signore e contro il suo Cristo”;

davvero in questa città si radunarono insieme contro il tuo Santo servo Gesù» (At 4, 24-27), conclude: «E ora (kài tà nun), Signore, considera le loro minacce e concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta franchezza la tua Parola» (At 4, 29). Analogamente l’espressione di Paolo suppone tutta la situazione precedente che ha delineato: il suo ministero nella comunità, il suo affetto per loro e la loro corrispondenza, i pericoli per l’avvenire e soprattutto il suo timore per ciò che accadrà. Per questo conclude: «E ora… ».

- « vi affido al Signore ». È una parola che ci stupisce. Ci saremmo aspettati che raccomandasse di essere fedeli, di stare uniti, di scrivergli, di fare adunanze, di fargli sapere notizie, di tenere presente la lettura della Scrittura.
Invece Paolo li affida a Dio, sottolineando così che l’avvenire e la perseveranza sono nelle mani di Dio: è Lui che riceve e sostiene. È una conclusione abbastanza comune per la Chiesa primitiva quando si trova in situazioni analoghe. Alla fine del primo viaggio missionario, lungo la strada del ritorno, Barnaba e Paolo rianimarono i discepoli esortandoli a restare saldi nella fede; designarono degli anziani per ogni Chiesa e, dopo aver fatto preghiere e digiuni « li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto» (At 14, 23).
E poco dopo: «Fecero vela verso Antiochia da dove erano partiti affidati alla grazia di Dio» (At 14, 26). Lo stile della comunità, dunque,. è quello di esprimere la parola definitiva come un affidarsi al Signore, alla sua grazia. L’affidare a Dio con preghiera e digiuno è una forma liturgica solenne. Possiamo immaginare che avvenga stendendo le mani e dicendo: «Ecco, vi affidiamo alla potenza di Dio ».
Lo stesso verbo « affidare» ha una storia molto lunga. Nel Nuovo Testamento designa una realtà concreta, l’affidamento di un tesoro prezioso ad uno di cui ci si fida: ho un tesoro, devo partire e lo do in mano a persona fidata. È vero che questo uso del termine che troviamo nel Nuovo Testamento, è un uso profano, però spiega la mentalità che vi sta sotto e ha il suo culmine nella parola di Gesù sulla croce: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23, 46). È l’atto di suprema fiducia: Gesù consegna se stesso, la sua vita e la sua morte nelle mani di Dio sapendo che la custodirà e gliela renderà. Gioca tutto sulla certezza della potenza divina.
Il salmo ripreso da Gesù: «Nelle tue mani affido il mio spirito, tu mi libererai; liberami Signore, Dio fedele» (Sal 31, 6) è l’espressione dell’uomo che dopo aver fatto tutti i calcoli, sa che l’unica cosa che veramente conta è l’affidamento di sé alle mani di Dio. Per riprendere l’immagine che abbiamo posto in una omelia tra il livello dell’operosità e quello dell’ascolto e della contemplazione, possiamo dire che l’uomo, dopo aver messo in opera quanto può, ritorna al suo livello fondamentale sapendo che è la realtà che lo fa essere uomo.
Paolo, pur essendo preoccupato della comunità che gli è carissima, ha la certezza che Dio porterà avanti l’opera, la sosterrà, la illuminerà, la guiderà. Questa parola segna il culmine dell’affetto pastorale e insieme del distacco. Paolo ama molto quella comunità(il commiato avviene fra abbracci, pianti, preghiere sulla spiaggia presso la nave) ma sa che appartiene a Dio e che Dio è infinitamente più potente.

- «e alla Parola della sua grazia ». L’espressione è inconsueta e dobbiamo cercare di chiarirla.
Il Vangelo di Luca la riporta come prima definizione del parlare di Gesù. Nella Sinagoga di Nazareth, infatti, la gente, sentendolo, «gli rendeva testimonianza ed era meravigliata davanti alle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4, 22).
Possiamo allora dire che la Parola della grazia è un sinonimo del Vangelo, della manifestazione della iniziativa divina e gratuita di salvezza. Ecco il senso di questo termine «della grazia» – « chàritos» -. Viene da « chàris », grazia, da cui deriva « charà », gioia e anche la parola «gratis» usata da Paolo ad indicare l’azione di Dio che perdona il peccatore senza alcun suo merito.
Maria sarà salutata dall’angelo come «kecharitoméne» (Lc 1, 28), cioè graziata per eccellenza, oggetto del favore pieno e illimitato di Dio.
È vocabolo tipico del Nuovo Testamento: ricorre 155 volte e circa 100 volte in Paolo. Paolo usa il termine «grazia» insieme con altri: giustizia salvifica, fede, Vangelo, speranza, Spirito, tutte realtà che enuncia quando vuole parlare dell’economia positiva di Dio nei riguardi dell’uomo. Ad essi contrappone: legge, peccato, vanto, carne, che indicano l’economia negativa o restrittiva in cui l’uomo tende a rinchiudersi per orgoglio, per autosufficienza, per debolezza o malvagità.
Per Paolo tutto l’apostolato cristiano è proclamazione della grazia di Dio ricco in misericordia. «Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio – questa è la definizione dell’evangelizzatore! – Dio dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza» (2 Cor 6, 1-2). È la sintesi dell’annuncio apostolico. L’aspetto rinnovativo, trasformante della rivelazione di Dio che con la parola «grazia» viene definito nella sua origine gratuita, libera, spontanea, al di là di ogni nostro merito o resistenza. Dio è più grande del nostro cuore.

La definizione della seconda lettera ai Corinti è seguita dalla descrizione della fisionomia dell’apostolo modellato secondo le caratteristiche di questa grazia: « In ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, con pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri, sconosciuti eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto! » (2 Cor 6, 4-10).
L’Apostolo, proclamando la grazia, vive un’esistenza in cui gli atteggiamenti mondani – depressione, umiliazione, paura, ripiegamento su di sé - lasciano il posto a serenità, gioia, fermezza, capacità di arricchire altri: è il Vangelo vissuto.

È significativo che, dopo essersi sfogato con. quella lunga descrizione che è la sua esperienza, Paolo conclude: «La nostra bocca vi ha parlato francamente, il nostro cuore s, è tutto aperto per voi» (2 Cor 6,11). Ha detto, cioè, tutto quello che aveva dentro: il mistèro di essere Apostolo della grazia e di vivere la contraddizione tra ciò che le circostanze tenderebbero ad ottenere soffocandolo e ciò che invece, con estrema umiltà e modestia, sente che avviene in lui, l’iniziativa divina che rovescia l’evidenza umana che lo schiaccerebbe.
L’Apostolo con la specificazione: «Vi affido alla Parola della grazia », ricorda che Dio si manifesta loro nella Parola-Gesù. Paolo non sarà più con la comunità, non parlerà più ma la Parola di Dio è sempre con loro e la potenza di questa Parola rinnova con una iniziativa gratuita che previene e ripara ogni umana debolezza.
Nel libro degli Atti torna spesso il riferimento alla Parola personificata, come persona che agisce e che ha potere. Luca, anche nel Vangelo, scrive che «il fanciullo (Gesù) cresceva» (Lc 2, 40). La Parola è vista come Gesù stesso che cresce nella comunità, che vive e opera e, attraverso lo Spirito, permane nella Chiesa.

- « … che ha il potere di edificare ». Vengono in mente alcuni testi fondamentali del Nuovo Testamento, soprattutto la lettera ai Romani, dove viene enunciato più esplicitamente il potere di Dio attraverso il Vangelo. È anch’essa una parola di congedo e possiamo leggerla come ampliamento liturgico della benedizione finale di Paolo alla comunità di Mileto: « A colui che ha il potere di confermarvi secondo il Vangelo che io annunzio e il messaggio di Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero taciuto per secoli, ma rivelato ora e annunziato mediante le Scritture profetiche, per ordine dell’eterno Dio, a tutte le genti perché obbediscano alla fede, a Dio che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli dei secoli. Amen» (Rm 16, 25-27); L’affidamento alla potenza divina diviene preghiera, dossologia e indica la solennità con cui l’Apostolo intende la espressione.
La Parola ha il potere di edificare tutta l’attività della comunità. La comunità è un corpo che cresce secondo tutte le sue giunture ben compatte, secondo una gerarchia interna, un ordine, una ricchezza di carismi. È un corpo che si sta formando ed è la Parola di Dio la forza edificatrice. Anche il contenuto e i
messaggi di questa Parola costruiscono l’edificio. E Paolo vede l’avvenire della comunità che, restando fedele al primato della Parola, si costruisce nella ricchezza dei carismi, dei doni, dei servizi, dei ministeri.

- «E di concedere l’eredità con tutti i santificati ». La Parola di Dio opera anche 1′accrescimento della comunità, chiamando molti altri a partecipare e a godere di questa eredità preziosa.

Conclusione

Così Paolo ci lascia, testimoniando la totale dedizione apostolica e il profondo distacco, segno della sua fedeltà all’originaria intuizione: è Dio che salva, è Gesù che gli è apparso sulla via di Damasco e al quale deve tutto. Se Gesù gli è apparso con potenza quando era peccatore, questo vale anche per la comunità e per ogni altro uomo. La comunità è quello che è, non perché Paolo ha fatto qualche cosa, ma perché Gesù con potenza si manifesta e si manifesterà nel cuore di ciascuno.
Già Mosè aveva ascoltato sul monte questa Parola: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò misericordia di chi vorrò avere misericordia» (Es 33, 18-19).

Nella comprensione neo testamentaria significa che Dio è l’origine e la fonte di ogni misericordia. Non è il nostro sforzo, la nostra attenzione: quando avessimo fatto tutto, ancora la bilancia pende dalla parte della misericordia di Dio.
È Lui che ci salva, Lui che ci ama.
Ora Paolo può congedarsi da noi, almeno temporaneamente, dopo averci fatto qualcuna delle sue confessioni e averci comunicato qualcosa della sua esperienza.

 

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