OPZIONI ’70 – Centro Studi Fatebenefratelli – Erba (CO)

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UNO SPEZZONE DI STORIA CONTEMPORANEA DEI FATEBENEFRATELLI

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San Giovanni di Dio 

 (Vittorio Trainini – Mompiano, 6.3.1888 – 19.8.1969)

OPZIONI ’70 

Centro Studi Fatebenefratelli – Erba (Como)

Gennaio 1970  -  Anno I  -  N. 1

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SOMMARIO

  1. Editoriale (dionigi  nocent)

  2. Ai nostri fratelli (équipe)

  3. “Regula aurea” (carlo  medaglia)

  4. Comunità e individuo (fausto  zecchini)

  5. La formazione della personalità nella vita religiosa (a cura di Tiziano Quadri)

  6. l dialogo (saverio manera)

  7. Per una sana educazione affettiva (pierdamiani  zamborlin)

  8. Una certa coscienza di Povertà

  9. Dall’Osservatore Romano (Maria Soledad Torres Agosta sugli altari)

  10. Preghiera di uno che non sa più pregare.

  

EDITORIALE

Non ci è dato di sapere  che cosa ci riserveranno gli anni ’70. Saranno certamente di grandi impegni e decisioni. Forse anche di successi.

  • La scienza è impegnata nella lotta contro il cancro;

  • i politici  nel ristabilimento di una pace e sicurezza mondiale e nell’impostazione di una economia di sviluppo del terzo mondo;

  • la Chiesa deve dare una risposta vitale ai grandi problemi del Concilio Vaticano II.

  • Anche la nostra Fraternità dovrà fare una profonda revisione di vita per mettersi in sintonia con la storia e tradurre vitalmente i “segni dei tempi”. Con il Capitolo Generale speciale, ma non soltanto.

“OPZIONI  ‘ 70″ perche?

Dire opzione è dire scelta, preferenza deliberata. Questa scelta si presenta come una ricerca e una interpretazione; è legata a una certa lettura – sempre discutibile – di un mondo in evoluzione e della vita religiosa in trasformazione.

A ciascuna epoca appaiono linee di sensibilità profonda che generano comportamenti e modi di essere: questi tratti fondamentali indicano alla nostra fede qual è il conntrassegno dello Spirito  sul nostro tempo, il suo cammino e il suo campo d’azione più favorevole.

“OPZIONI  ‘ 70″, che non ha niente di esclusivo, vorrebbe tentare di rispondere a questi “segni”.

Più volte ci ha tormentato il pensiero della sua accoglienza nelle comunità. Sarà inteso come strumento di contestazione giovanile?

Ebbene: vuol essere semplicemente un periodico di opinioni e confronti,scritto nella libertà e nella carità e aperto a tutti i Fratelli, in comunione e responsabilità.  Palestra di idee, vuol essere costruttore e apertamente impegnato nella riscoperta del Vangelo, particolarmente di Cristo medico, offerto alla giovane generazione ed anche a quanti giovani non sono forse ormai più, ma conservano freschezza di spirito e tensioni giovanili. Più che di noi, vogliamo parlare di ciò che non siamo e non vogliamo essere . Più che definire (assurda impresa), intendiamo precisare.

“OPZIONI  ‘ 70″, si colloca al centro di tutti gli slanci che vengono dalla periferia. Vuol  essere

  • punto di convergenza della chiamata  del Signore in tutti i fratelli,

  • vincolo di fratellanza,

  • perno della ricerca comunitaria di perfezione evangelica,

  • momento di verifica della fedeltà allo Spirito.

Tra uomini, ogni comunione vera esige il rispetto più assoluto della intrinseca dignità dell’altro. Per noi questa dignità non è altro che la qualità di “figlio adottivo del Padre”  con la liberta dello Spirito che essa conferisce. E lo Spirito è inventivo, creatore, soffio di un perpetuo rinnovamento.

Chi scrive e chi legge faranno bene a tenere un atteggiamento di povertà e schiettezza:

  • Povertà dello scrittore che si mette in ascolto dello Spirito e, considerandosi servo della fraternità, riversa in essa il suo carisma.

  • Povertà del lettore che accoglie ogni cosa, senza sospetti, senza nemmeno disprezzo, come una parola che il Padre gli rivolge nello Spirito, attraverso i suoi fratelli e per essi.

  • E schiettezza: piedi a terra e fronte alta , con gl’occhi spalancati sulle cose e sul Cielo.

Giudicare, discutere, consultare, accettare o rifiutare o modificare devono essere il frutto della fraternità vissuta, non un gesto macchiato da autarchia o autocrazia. Una fraternità non è infatti una semplice agglomerazione di persone, ma esige una osmosi delle intelligenze e dei cuori.

Noi crediamo all’obbedienza. Essa ci appare ancora una virtù. A patto che i singoli e le comunità siano interessati in un modo attivo e personale nella lettura e nell’interpretazione di questa chiamata di Dio per l’ oggi. Allora diventa più grande  la dignità dell’atto di obbedienza perché è adesione cosciente e amante a un volere divino che si sa incarnato in qualcosa di concreto, percettibile attraverso il segno degli eventi, e di cui si coglie più chiaramente la relazione col mistero della salvezza.

C’è un domani per i Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio?

Crediamo di sì. A patto che le nostre mani non taglino i ponti delle grandi strade del domani. Dice don Primo Mazzolari che “un uomo d’onore non lascia agli altri la pesante eredità dei suoi “adesso” traditi “.

Iniziamo con speranza perché la causa ci sembra buona. Proseguiremo con gioia se sapremo di aver servito, almeno un poco, agli ideali che abbiamo dichiarato.

Dionigi  Nocent o.h.

  

 

OPZIONI ’70

Il clima che si respirava era quello del  ’68.  Ma anche del post Concilio Vaticano II.

Mentre i voli spaziali occupavano la mente degli scienziati e delle cronache, il Papa faceva quotidianamente i conti con “l’aggiornamento” della Chiesa che sembrava avere dei costi elevatissimi.

Le sue parole sono sintomatiche delle tensioni presenti nella Chiesa di allora ma illuminanti anche per il nostro tempo, con vecchie e nuove contraddizioni.

 

 

AI NOSTRI FRATELLI

Le nostre comunità, oggi, come del resto sempre, si trovano di fronte a problemi molto gravi. Però, ad analizzarli, si vede che alla fine essi si riducono a un solo problema di fondo che sta alla base ditutti. E’ l’eterno problema di risolvere il rapporto fra l’individualità che ciascuno di noi sente fortemente, e la socialità, della quale pure non può fare  a meno, perché è anch’essa essenziale all’uomo.

Nella circolare del 9 Gennaio 1969 il nostro Provinciale P. Pierluigi Marchesi giustamente affermava che “non si realizza un’autentica vita comunitaria, unicamente perché si prega assieme, ci si nutrisce assieme, si dorme nello stesso ambiente, si fa ricreazione insieme.”

Purtroppo notiamo che spesso nelle nostre comunità manca proprio qualche cosa che ci leghi fra noi, che permetta di stabilire fra noi un rapporto in cui ciascuno non si senta più solo, per cui la vita comunitaria non sia solo formalmente comunitaria, ma sia veramente e concretamente la manifestazione di persone che mettono in comune le gioie e i dolori, che lavorano uniti, vivono insieme, studiano insieme, e quindi realizzano insieme una umanità completa, non una semplice mescolanza di indivisui che si trovano per caso o per forza a dover operare e vivere nello stesso gruppo. E proprio perché si prescinde da quella che è la chiave di questo problema fondamentale, cioè l’amore, i nostri problemi individuali e sociali che si radicano tutti su di esso, finiscono per diventare insolubili; anzi finiscono per moltiplicarsi ed approfondirsi.

Realmente ci sono delle difficoltà che forse per la natura stessa dell’uomo, non saranno mai risolte, ma resta indubbio che la forma con cui la Comunità si presenta, ha delle gravi deficienze. Ancor oggi, nonostante qualche tentativo,  le nostre comunità si presentano con una staticità, con un nichilismo inflitto all’individuo con forme di soggezione (anche se non sempre aperta e cosciente), di depauperamento del singolo che sono frequentemente il grave peso e la grave deficienza della vita religiosa. E’ una reale difficoltà di troppi giovani ad accettare la nostra vita proprio per queste ragioni. Sono ancora troppi coloro che nelle nostre comunità sono incapaci di accettare nuove fecondità.

La forma attuale di vita delle nostre fraternità rispecchia ancora uno stile tipicamente monastico, accolto però nelle sue forma esteriori e meno vitali e perciò impoverito, e applicato a degli uomini che vivono la loro giornata in un altro contesto completamente differente, qual è appunto il mondo ospedaliero in fase di continua evoluzione. Crediamo che ogni esemplificazione sia superfrua.

Preghiera, silenzio, contemplazione, lavoro, sono essenziali ad ogni uomo che sceglie il Vangelo. Il modo di vivere questi momenti deve essere però dinamico, deve nascere all’interno della Fraternità, come espressione di uomini adulti in Cristo, non come ripetizione di atti sempre uguali tsabiliti da un orario una volta per sempre e che, a lungo andare, conduce a un mortificante infantilismo. Si pesi, ad esempio, alle mille meditazioni stupide che si fanno in un anno! Eppure, l’importante è che duri mezz’ora e si svolga in quel momento preciso della giornata che può essere anche il meno indicato, almeno per alcuni.

Superiori e no, siamo tutti troppo poco convinti che colui che entra nella nostra Fraternità lo fa per realizzare una vita battesimale veramente adulta. Il Padre Tillard sostiene che questo è certo il fine dell’entrata in religione, come anche la ragion d’essere del superiore: “Non si fa infatti professione formalmente con lo scopo di vivere costantemente sottomesso a dei capi, ma al contrario, per condurre a piena maturità e a libertà perfetta l’essere-cristiano che il battesimo ha deposto in noi”.

Perché l’adulto è colui che, giunto al termine della sua crescita, della sua educazione, è d’ora innanzi capace di esercitare la sua responsabilità personale di cretura libera. E ciò senza aver di continuo di essere spinto da un altro. La vera spinta gli viene dall’interno“.

Fra Pierluigi Marchesi, Provinciale

Nella circolare già citata, il P. Provinciale diceva ancora che “la vera sicurezza che si vive una vita comunitaria la si ha quando ognuno tende alla propria santificazione nella ricerca tormentata di un bene comune sempre più vasto e sicuro“. Ma noi pensiamo che l’attuale vita comunitaria, così come si presenta, non permette, o per lo meno rende difficile la realizzazione di questo bene comune. Senza toccare le strutture e i metodi esistenti, senza sperimentare forme nuove di convivenza, nuove nel senso della novità e semplicità evangelica, è come pretendere che un bambino si sviluppi in un vestito stretto.

Siamo soliti dire che alla base delle nostre crisi di oggi c’è una grave crisi di amore. Ed è vero. Ma ci convinciamo sempre di più che è un discorso fatto a metà. E’ come se dicessimo al popolo affamato dell’India che la sua è una crisi di fede e di sfiducia nella Provvidenza del Padre che sta nei cieli, il quale nutre persino gli uccelli dell’aria, e fermassimo qui il discorso, senza tentare delle radicali riforme sociali.

Sentiamo fortemente il bisogno di fare un’esperienza  CRISTIANA che sia autentica nei suoi contenuti e in accordo con il nostro tempo, esperienza sempre più ecclesiale, per la responsabile appartenenza al Popolo di Dio, esperienza sempre più escatologica perché chiamati per elezione divina a questa testimonianza nella comunità universale, nella ricerca di sbocchi concreti nel servizio alla Chiesa locale cui ciascuno di noi appartiene.

Noi avvertiamo che i quadri istituzionali non favoriscono i nostri desideri di una esperienza effettivamente comunitaria della comunione ecclesiale. Siamo tuttavia sinceramente disponibili a collaborazioni che non siano strumentalizzate ad un superficiale aggiornamento delle strutture e delle attività della Comunità-Chiesa-locale. Vorremmo quindi approfondire tra noi l’esperienza ecclesiale, senza preclusioni o pregiudizi verso le strutture istituzionalizzate, ma in atteggiamento di critica disponibilità.

Ci auguriamo che anche altri sentano il bisogno di mettersi in questa direzione e si stabilisca tra le varie comunità uno scambio di esperienze e di idee, nell’intento di portare un po’ di speranza e di luce a noi stessi e a tutti quelli che oggi sono nel turbamento.

Ci siamo limitati a dire onestamente e francamente quello che pensiamo. E ammettiamo che i nostri puunti di vista sono, sotto diverse angolature, soggetti a revisione. In fondo, queste riflesssioni non vogliono essere, per tutti, che un invito al coraggio.

F.to: Carlo Medaglia – Dionigi Nocent – Fausto Zecchini – Filippo Borse – Pierangelo Paitoni – Pierdamiani Zamborlin -Pietro Donadelli – Tiziano Quadri -  F.Saverio Manera -

REGOLA AUREA

Carlo Medaglia o.h..

Una  delle regole fondamentali per una serena e pacifica convivenza è la libertà di opinione che scatturisce ineluttabilmente dalla ragione stessa d’essere dell’uomo. In una comunità umana non è affatto possibile che regni un dogmatismo, per cui l’opinione vanzata da alcuni privilegiati diventi per tutti regola di vita.

Lungo i secoli di storia si è ben dimostrato che i governi assolutisti ed oligarchici hanno sempre più o meno violato la libertà di coscienza dell’individuo e lo hanno persino a volte portato a ribellioni e in genere a malcontenti. La presa di coscienza che oggi ciascun uomo ha di sè dovrebbe portare a riflettere assai su questo campo e invitare a instaurare un governo più democratico e fondato sulla responsabilità dell’individuo.

Qualcuno potrebbe  forse obiettare che l’individuo deve meritarsi questa responsabilità: questa, secondo me, è una visione pessimistica dell’uomo per cui si cerca di vedere in esso solo il lato negativo, lo sbaglio che per debolezza o dappocaggine potrebbe commettere. Ma se basassimo i nostri rapporti con gli altri su una reciproca fiducia, se tutti ci impegnassimo a lavorare assieme, a mettere insieme le forze e collqaborare reciprocamente per il bene comune, certamente ci sentiremmo tutti più responsabili, più impegnati e tesi verso la conquista di un ideale; invece sembra che le diversità di opinione, anziché portare ad una saggia sintesi, ad un equilibrio armonico, di tutti gli aspetti della realtà, porta piuttosto ad una sciocca reazione di frontr al fratello, ci trinceriamo nel nostro castello e chiudiamo orecchi e cuore di fronte agli altri.

Sembrerebbe che solo noi abbiamo ragione, mentre la ragione non è mai di nessuno, per cui tutto quello che si fa dovrebbe cadere sulla responsabilità di tutti i i membri costituenti una comunità. Per convincerci che è necessario aprire la nostra mente a tutte le tendenze di pensiero, è necessario comprendere appieno che la vita è difficile, non si risolve con delle formule di matematica o con studi statistici, bensì considerando uomo per uomo nella sua più profonda entità di essere ragionevole e percuiò capace di vedere una parte del vero.

Da qui nascerà poi il desiderio di sentire tutte le opinioni avanzate dai singoli, di farne tesoro, per dirigere meglio una comunità. E’ ormai da tutti assodato che visioni unilaterali e stereotipe della vita portano fatalmente a chiudersi in una visione esclusiva che resti poi per tutta la vita, determinando atteggiamenti dogmatici conformisti e intolleranti.

Chi ascolta sistematicamente una sola campana, spesso finisce col credere che quella è la verità sacrosanta e respinge a priori ogni altra interpretazione della vita, già di per se stessa assai complessa e difficile da spiegare.

Un ottimo antidoto a sì incivili costumi è la discussione, il dialogo che è la “regola aurea” della convivenza umana, il “mèghiston agaton” del vecchio Socrate, il bene più grande della vita, che dà a ciascuno la possibilità di vedere se le proprie idee sono vere o false, di correggerle e di migliorarle; il metodo che persuade che il vero e il bene non stanno sempre dalla stessa parte, e non sono il monopolio di nessuno ma il risultato della continua ricerca di tutti gli uomini.

Non con divido affatto la preoccupazione dei dogmatici che il sentire più campane possa portare allo scetticismo e al disorientamento; sono invece convinto che la strada che porta al meglio e al vero è il libero cimento delle idee.

La riflesione, la valutazione attenta delle idee degli uni e degli altri sollecitano a giudicare liberamente e a convincersi che gli oppositori sono più utili di quelli che ci danno sempre ragione. Sono qyueste tutte frasi scritte d’un getto, con uno stile povero e disorganico, ma penso che per chi sappia e voglia comprendere, siano sufficienti per un serio esame e per una presa di posizione onesta, sincera ed autentica di fronte alla realtà.

OPZIONI ’70

 

IL PERIODICO DELLE NOSTRE FRTERNITA’

DOVE IL LETTORE PUO’  INTERVENIRE

COME CO-AUTOREO

 

 

COMUNITA’ E INDIVIDUO

Fausto Zecchini o.h.

Comunità e individuo possono sembrare due termini antitetici e che si escludono a vicenda; ma in realtà ad un esame più approfondito o meno superficiale, risulterà chiaro come i due termini siano complementari.

Tanto per cominciare nessuno potrà negare che una comunità è formata o si forma soltanto dall’unione di più individui. Per cui esaminare il problema della comunità, vuol dire prendere in considerazione anche il problema dell’individuo, mettere in discussione un certo modo di concepire la vita comunitaria vuol dire ricercare un nuovo senso dell’individuo.

Se un membro di una comunità qualsiasi è stato sfruttato o frustrato dai pregiudizi di gruppo, è certo che questo individuo non sarà mai disponibile per quella comunità, ed è giusto che costui rivendichi i suoi diritti inalienabili.

Ogni comunità sociale, e potremo illustrare questa tesi con esempi concreti, tanto più si può chiamare tale, quanto più ha acquisito il valore dell’individuo. Noi vediamo che dove ci si batte per un concetto troppo astratto di comunità e si concepisce l’individuo soltanto come una funzione cieca di questa situazione, anche il bene comune sia ben lontano dall’essere realizzato.

E se questo è valido per qualsiasi comunità sociale, qualunque sia lo scopo che essa si prefigge, tanto che perfino nel campo del lavoro si reclama sempre più la personalizzazione dell’attività umana, perché non dovrebbe valere anche per le comunità religiose?

Certo sarebbe fare confusione il non ammettere che la vita religiosa ha una sua finalità propria, distinta da quella di altre comunità sociali, ma bisogna tener presente che il valore della personalità è imprescindibile dalla natura umana, in qualsiasi stato essa si trovi. Anzi, il rispetto della personalità degli altri dovrebbe essere maggiormente avvertito dagli uomini di religione, i quali professano fra l’altro anche l’amore al prossimo.

Invece c’è proprio da meravigliarsi come talvolta il rispetto della personalità sia proprio deficitario da parte di coloro che abusano nel parlare di carità. Se si vogliono comunità più vitali, più funzionanti, più disponibili, occorre formare delle personalità mature su tutti gli aspetti: intellettuale, morale, psicologico; occorre sviluppare le potenzialità latenti degli individui secondo le più sane norme psicologiche.

Fino a che si impartisce una istruzione morale e religiosa puramente formalistica, intesa solo come ripetizione stereotipa di gesti e di atti sempre uguali, mentre d’altra parte si nota spesso, proprio da parte di coloro che si credono più osservanti, freddezza e insensibilità verso coloro che stanno loro accanto, non dicendo mai loro una parola che esca dal puro atteggiamento di convenienza, e un atteggiamento di perenne scandalo per tutto ciò che dicono e fanno agli altri, – in breve, fino a che si favorirà un tipo di religiosità che ha più a che fare con un caso di patologia che con un’espressione sincera di virtù – sarà impossibile ottenere una vera fraternità.

Tante volte si ha l’impressione che da questa religiosità sia esclusa l’unica cosa necessaria: l’amore. Un uomo religioso deve essere anche profondamente umano, altrimenti fa nascere il dubbio che ci si trovi di fronte a un’infatuazione di natura nevrotica.

“La formazione del cristiano e tanto più del religioso, non deve essere qualcosa di separato o aggiunto alla formazione dell’uomo. Chi forma il cristiano forma anche l’uomo, non si può formare il cristiano non formando l’uomo. Né si pensi che l’azione umana e l’opera divina della grazia possano costituire delle forze indipendenti, i cui effetti si manifestino in due fasi successive; si tratta invece di due elementi completamente integrati di cui luno non sopprime l’efficienza dell’altro. Il soprannaturale non è già annientamento delle energie individuali, non è frigidità psicologica, ma consiste nel potenziamento di tutte le risorse della personalità” (Zavalloni: Educazione e personalità).

E come è possibile un’autentica vita comunitaria fondata sull’amore quando si impartisce un formalismo morale, in cui si insegnano soltanto i nomi delle virtù e non si permette ai membri di fare quelle esperienze che sono necessarie per una formazione morale autentica ed esistenziale, mettendoli in contatto con la realtà, affinché si rendano conto del bene da operare e del male da combattere.

Un altro problema di fondamentale importanza, il quale si può dire venga quasi completamente trascurato, è il problema psicologico. Riguardo a questo problema si spendono e spandono molte parole sulla carta, ma nella realtà si continua a impiegare metodi contro cui continuamente psicologi e psichiatri ci mettono continuamente in guardia.

Spesso quando si parla di questi problemi si rimane allibiti nel constatare il senso di stupore sconcertante che si suscita, come se si stesse parlando di stregonerie. Purtroppo, da parte di molti si guarda ancora oggi a questi problemi con forti pregiudizi e non si vuole assolutamente comprendere la loro fondamentale importanza. Ecco allora che l’unico sforzo che si compie è di mantenere un ordine esteriore, senza mai tener in considerazione le condizioni concrete delle persone, cioè delle loro sofferenze, del loro equilibrio fisico e morale, dei loro bisogni materiali e spirituali.

“Si è pronti a prendere in considerazione lo stato di salute fisica di un individuo, ma più raramente siamo disposti a tenere conto dei suoi squilibri psichici. Comprendiamo il dolore fisico degli altri, ma non sappiamo altrettanto comprendere le loro pene morali. Questa mancanza di comprensione delle sofferenze altrui mette in rilievo la necessità di una maggiore formazione psicologica.” (Zavalloni).

Da questa assoluta incomprensione del problema psicologico nasce come conseguenza l’incapacità di giudicare alcune situazioni che si verificano nell’ambito delle comunità religiose. Si vogliono personalità disponibili, responsabili, e si dimentica l’assoluta irresponsabilità dei metodi educativi impiegati nella formazione dei singoli. Si minimizzano gli effetti che scaturiscono da un’educazione rigorista e puritana, quando le persone competenti in questo campo ci accertano che le conseguenze sono gravi, e che il superarle richiede da parte degli individui una buona dose di eroismo.

E per tener buoni fgli individui si ricorre continuamente alle frasi fatte e ai soliti slogan, invero molto ipocriti: “Acqua passata non macina più” o “quello che è successo è successo”, come che il passato non sia, se questo è stato negativo, un pesante handicap sulle spalle dell’individuo. Si pretende che un individuo logorato da questo iter psicologico così frustrante, si rimetta ipso facto a nuovo, per mettersi al servizio della comunità con una personalità straripante. Si implora un apporto dell’individuo, ma non ci si rende conto che troppo spesso lo si rende schiavo di pesanti pregiudizi prima che questo possa fare qualcosa.

Ecco allora la grave confusione nel distinguere il piano morale da quello psicologico. Si interpretano invero, assai farisaicamente, molte defezioni, ricollegandole a fantasticherie moralistiche, mentre appare chiaro anche una considerazione psicologica dilettantistica che il più delle volte si tratta di disadattamento psicologico e di usura morale, mentre dall’altra parte basta un po’ d’invadenza, un po’ di servilismo, molto movimento e fracasso, anche se accompagnati da insensibilità morale e spirituale, per fare apparire qualcuno uno stinco di santo.

Invero questa è una concezione assai materialistica della vita anche se giustificata dall’alibi della religione, è una concezione assai proammatista di valutare il comportamento degli individui, riconoscendoli degni di stima soltanto in base a una gretta valutazione di rendimento produttivo.

Invero, bisognerebbe fare entrare nella vita religiosa un soffio di vera spiritualità, di amore autentico aperto ai bisogni di ognuno che ci sta vicino; basterebbe accettare l’altro per quello che esso è e non per quello che noi vogliamo che esso sia, essendo noi stessi dei modelli poco da imitare, se vogliamo ottenere collaborazione e anche qualche risultato pratico.

Ispirarsi a un concetto pessimistico della persona umana, ritenerlo solo capace di male, vuol dire rassegnarsi a far diventare le comunità religiose delle caserme. Tutti gli sforzi sono inutili senza un autentico amore.

Per necessità di chiudere il discorso, che si sta ormai dilungando oltre i limiti concessi, tralascio di parlare dell’importanza della formazione intellettuale, che di per sé è già implicita nel problema educativo.

Con quanto ho scritto non ho preteso do aver esaurito la problematica riguardante la vita comunitaria; comprendo che molti altri fattori vanno presi in considerazione; e nemmeno di aver parlato con molta competenza e precisione; ho avuto solamente la piccola pretesa di dire, con sincerità e spontaneità, ciò che ritenevo importante dire.

 

PER UNA SANA EDUCAZIONE AFFETTIVA

Di Pierdamiani Zamborin o.h.

Esiste oggi in seno alla nostra società una buona educazione affettiva?

“Da educatori nevrotici – afferma Wintley – provengono quasi di regola uomini nevrotici”. Da questa affermazione ci si rende conto quanto sia indispensabile la preparazione dell’educatore specie nel campo affettivo. Da una errata educazione possono derivare conseguenze tali da rovinare la futura esistenza di un individuo. Gli psicologi più esperti enumerano alcune gravi conseguenze scaturite da una educazione sbagliata: e così ad esempio, che da una educazione narcisistica, cioè eccessivamente amorosa, si può avere una deviazione molto grave, l’omosessualità; mentre da un’educazione autoritaria o comunque punitiva, il giovane può tendere all’onanismo, cioè alla masturbazione perpetua come unica forma di attività sessuale.

Si giunge in questo modo ad una vera e propria perversione sessuale, che può sfiorare la psicosi, infatti da questa incontinenza abituale, ne deriva una tale distorsione della vita affettiva, che può creare un distacco dalla realtà, tipico delle psicosi.

Frank Wintley ci indica quali possono essere gli errori fondamentali che gli educatori possono evitare: “Non rendere difficile ai giovani l’emancipazione affettiva, non sfruttare la dipendenza materiale come tema di rimproveri o mezzo per l’influenza o di costrizione, non rendere impossibile il frequente contatto con l’altro sesso, non far valere proprie preferenze nella scelta dell’impiego”.

A quest’ultimo punto è bene tenere presenti due dati di fatto psicologicamente giustificati:

  • primo, che il valore di una professione non sta sui vantaggi materiali o sull’altrui considerazione;

  • secondo, che per un duraturo successo professionale hanno importanza decisiva, non l’esperienza dei più anziani o amici, e le contingenze del momento, ma la dedizione piuttosto, e lo zelo con cui un’attività viene svolta.

Indispensabile è pure, per una adeguata formazione del giovane, l’uso delle scuole miste, dell’università e delle associazioni culturali e sportive giovanili.. Attraverso tali istituzioni i giovani dei due sessi si incontrano in un’ atmosfera che riduce a secondaria la valutazione dal punto di vista strettamente fisico e sessuale, esaltando invece i rapporti basati su quanto di comune ai due sessi è solamente umani, cioè la capacità, i meriti personali e le qualità del carattere.

Il giovane sente la necessità di costruirsi liberamente e rifiuta ogni coercizione educativa; tuttavia non ha la capacità critica e la forza necessaria per riuscire da solo, pertanto l’appoggio cercato deve essere offerto nel pieno rispetto dell’altrui persona, in modo che il giovane possa assumere la coscienza  dell’umano, e acquisire una libertà che si fronteggia dalla responsabilità, scegliersi e quindi costruirsi.

Per ogni tipo di educazione esiste sempre un margine di impreparazione, ma soprattutto nel campo affettivo si avverte fortemente la necessità di educatori sempre più preparati per poter diminuire tante deviazioni oggi esistenti e costruire l’uomo integro affettivamente che possa esprimersi nel mondo che lo circonda, senza complessi.

 

DA AFAGNAN – Hospital Sanint Jean de Dieu

Afagnan – Ospedale Saint Jean de Dieu

STUDENTATO

FATEBENEFRATELLI

OSPEDALE S. FAMIGLIA

22036 ERBA (Como  – ITALIA

Afagnan, 15/01/70

Carissimi tutti,

mi scuserete se non scrivo tanto, d’altra parte a farlo con i vostri lunghi scritti…

Scherzi a parte, io sto molto bene, benissimo. Sono più che mai contento. Il lavoro è un po’ enorme ma bellissimo.

Vi mando la foto di questo “bocia” affinché non vi dimentichiate nè di lui nè di me.

Un ricordo per tutti nel Signore io ce l’ho sempre.

Con Fraterno affetto tutti saluto e abbraccio in Xto.

Fiorenzo Priuli o.h.

deserto

TUTTI COINVOLTI

Di Angelo Bertoglio o.h.

Ho qui sul tavolo (come non dubito di ogni altro confratello) i primi tre numeri di OPZIONI ’70.

Non ho ancora avuto il tempo di leggerli tutti. Ma lo debbo fare senz’altro in questi giorni, lo prometto, lo ritengo anzi un dovere.

Sfogliandoli, quello che ho potuto raccogliere subito, è che il lettore di questa nuova arma letteraria può diventare co-autore. Mi sono affrettato cosìma scrivere subito qualcosa.

La mia anima avrebbe tante cose da dire solo leggendo l’editoriale del primo numero che porta la firma di D. Nocent, amico carissimo. Ho promesso che leggerò interamente i numeri finora usciti per poter dire con cognizione di causa le mie impresioni, suggerimenti e critiche.

Per il momento, solo due parole, così, di primo acchito, come me le suggerisce l’articolo suaccennato e che mi piace trascrivere: “La Chiesa deve dare una risposta vitale ai grandi problemi del Concilio Vaticno II. Anche le nostre Fraternità dovranno fare una profonda revisione di vita per mettersi in sintonia con la storiae tradurre vitalmentei “segn dei tempi”. Senza dubbio!

Credo che dobbiamo cominciare con l’intenderci subito sulla parola “Fraternità”, la “nostra Fraternità”.

Domandiamci:

  • l’abiamo noi questa entità morale, questa base di partenza, questo primo gradino di una lunghisima scala da percorrere?

  • Siamo disponibili noi nel nostro ambiente religioso (limitiamolo pure ai 150 membri della cosidetta “Provincia” Religiosa – che non dovrebbe voler dire “gente di provincia”) ?

  • Abbiamo questa tensione, questo desiderio di potenziare ogni legame fraterno magari attraverso ad “una profonda revisione di vita” ?

  • In una parola: siamo uniti? “Ogni regno diviso in se stesso cadrà in rovina” (Matteo 12,25)

Beh! Capisco, non è posibile rendere omogeneo un gruppo di centocinquantapersone sul piano psicologico, dove solo la disparità di età gioca un ruolo determinante; però… C’è un punto sostanziale e unificatore ed è la Fraternità. Oggi dobbiamo trovarci tutti coinvolti nella sua realizzazione attraverso una buona (retta, sana, santa) volontà. Essa è la disposizione alla benedizione del Signore sul nostro impegnativo lavoro. “Il Signore bendice i buoni e i retti di cuore”, dice il Salmista, e ancora: “Fativco invano quelli che costruiscono senza di Lui”.

Questa buona volontà si traduce per noi in sincerità, chiarezza, manifestazione generosa e aperta della propria personalità. Fuori dunque dalla trincea nella quale è comodo nascondersi e avvilente rifugiarsi per sparare (colpendo e uccidendo) senza essere visti, mantenendo l’anonimato.

Oggi la guerra di trincea è sorpassata. Tutti dunque sono chiamati a cobattere in campo coperto, disponendosi coraggiosamente (se necesario anche eroicamente) a tutti gli attacchi, che si esige di ricevere però a viso aperto o fronte a fronte.

E’ bello scambiarsi lealmente le proprie opinioni, contrastanti fin che si vuole, poterle dire alla luce del sole, metterle in comune per un vero dialogo, spesso solo reclamizzato fino all’usura. Assemblee, conferenze, dibattiti, convegni, giornate di studio, tavole rotonde, stampa, sono questi i metodi moderni per affrontare seriamente i problemi. Non è certo con quel vecchio e insulso metodo di critica da salotto (per noi leggi “refettorio”) che in medioevale linguaggio ascetico si chiama mormorazione, sussurro.

Attraverso la strada del dialogo si risponde all’angoscioso appello della Chiesa post-conciliare. E con il dialogo, più che la “democrazia” si realizza la “comunione”.

Guardate però, cari confratelli, che a qesta fraterna lotta costruttiva non basta più portare il solo bagaglio intellettuale dell’atico trattato di perfezione evangelica di felice memoria: il RODRIGUEZ; non regge più una critica che si basi sulla cultura fatta di soli libri d lettura spirituale, anche se fatta in Coro, davanti al SS. Sacramento. Lo stesso Gesù ci chiede oggi qualcoa di più impegnativo o forse anche di maggior sacrificio, ci chiede di rinunciare persino a un comodo pietismo sterile. Altrimenti, non riteniamoci capaci e nemmeno autorizzati a criticare, intaccando e danneggiando la buona volontà di coloro che sono seriamente impegnati e ritardando la traduzione vitale dei “segni dei tempi”.

Ecco come noi dobbiamo incominciare a concepire la nostra Fraternità. Ed è urgente.

Non si arriva subito ad un accodo sul piano ideologico, si creeranno senz’altro delle correnti, dei contrasti di gruppo, ci cozzeremo perfino, però…sarà tutto su un piano di amicizia e di carità, con un unico ideale: l’avvento del Regno di Dio.

Noi che siamo il Nuovo Popolo di Dio dobbiamo dare al mondo contemporaneo l’esempio di questa disponibilità.

Da OPZIONI ’70 – Aprile – N.4

OPZIONI ’70

 

Ciò che i fedeli attendono da noi è una povertà che si traduce in una libertà totale di fronte alle potenze terrene: potenza economica, politica, ecc

Bisogna che la Chiesa sia libera, bisogna che sia povera, povera in spirito, ditaccata dai beni terreni: quei beni della terra che sono il desiderio di potenza, il desiderio di dirigere tutto” (P. E. Léger)

 

 

CANONIZZAZIONE DI

MARIA SOLEDAD TORRES ACOSTA

Maria Soledad Torres

OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI

Domenica, 25 gennaio 1970

File:Paolo VI.jpg

Venerati Fratelli e diletti Figli!

In quest’ora di tribolazione per la Chiesa e di amarezza per Noi, ecco un momento di grande consolazione: Maria Soledad Torres Acosta è riconosciuta e proclamata Santa, è iscritta nell’albo dei Santi, è presentata a tutta la Chiesa terrestre come appartenente alla Chiesa celeste, ella è dichiarata degna del culto di venerazione, perché per sempre e totalmente unita a Cristo risorto e partecipe della sua gloria.

Questo vuol dire l’atto straordinario e solenne, che ora abbiamo compiuto; abbiamo canonizzato questa beata figlia della Chiesa, e Noi sentiamo la luce, il fascino, il mistero della santità irradiare sopra di noi, sopra questa assemblea esultante, sopra la terra, che fu patria della nuova Santa, la Spagna, sopra la famiglia religiosa da lei fondata, le Serve di Maria Ministre degli Infermi, sopra la Chiesa intera, sopra il mondo. Benediciamo il Signore.

Ascoltiamo la voce che discende dalle profondità dei cieli, e facciamole eco con la nostra: «Alleluia! Perché il Signore Iddio nostro onnipotente vuole regnare. Rallegriamoci ed esultiamo, e diamo a lui gloria; poiché sono giunte le nozze dell’Agnello, e la sua sposa s’è abbigliata, e le fu dato d’indossare bisso splendente e candido. Il bisso (questa nitida e finissima veste), infatti, sono le opere giuste dei Santi» (Apoc. 19, 6-8). È questa la voce della Apocalisse, dell’ultima rivelazione, che svela il senso estremo delle cose, e la sorte della nostra salvezza finale. È una voce misteriosa, ma chiara, la quale ci dice finalmente il segreto, il valore della santità.

La santità si manifesta finalmente come pienezza di vita, come felicità sconfinata, come immersione nella luce di Cristo e di Dio, come bellezza incomparabile ed ideale, come esaltazione della personalità, come trasfigurazione immortale della nostra esistenza mortale, come sorgente di ammirazione e di letizia, come conforto solidale con il nostro faticoso pellegrinaggio nel tempo, come nostra pregustazione inebriante della «comunione dei santi», cioè della Chiesa vivente, che, sia nel tempo sia nell’eternità, è del Signore (Cfr. Rom. 14, 8-9).

Un fenomeno di questa visione ci sorprende specialmente in questo momento; ed è il duplice aspetto della santità: l’aspetto che essa acquista in paradiso, e l’aspetto, ch’essa presenta nella scena del mondo attuale. Sono due aspetti d’una medesima realtà morale, delle opere della santità, come ci indica il testo della Sacra Scrittura, ora da Noi citato. Le opere compiute in questa vita conservano il loro valore nell’altra: Opera enim illorum sequuntur illos, dice ancora l’Apocalisse di coloro che sono morti nel Signore (Apoc. 14, 13); ma esse, le opere, rivestono ben diversamente chi le compie quaggiù, che non lassù; lassù di splendore e di gaudio; quaggiù invece: come appariscono? come sono? È il perenne Vangelo delle beatitudini, che lo dice nel suo drammatico linguaggio: quaggiù la santità è povertà, è umiltà, è sofferenza, è sacrificio; cioè imitazione di Cristo, Verbo di Dio fatto uomo, nella sua Kénosis, nella sua duplice umiliazione dell’Incarnazione e della Redenzione.

Maria Soledad

VITA SEMPLICE E SILENZIOSA

Questo confronto fra i due aspetti della santità produce in noi un vivissimo interesse, quello di conoscere prima, d’imitare poi la vita temporale di chi, proprio per merito di essa, gode ora della vita eterna. Nasce di qui l’agiografia, cioè lo studio delle biografie dei Santi, studio che faremmo bene tutti a riprendere con maggiore passione, e con le discipline moderne della critica storica, dell’analisi psicologica, mistica e ascetica, dell’arte narrativa, della valutazione ecclesiale. Ne abbiamo ancor oggi tanto bisogno, e ne possiamo trarre istruzione e conforto.

Viene spontanea la domanda:

  • com’è la vita di Maria Soledad?

  • Com’è la sua storia?

  • Com’è diventata Santa?

Impossibile, senza dubbio, per Noi dare risposta a questa domanda e fare qui il panegirico di Maria Soledad. Troverete nei libri, che narrano la sua vita, come soddisfare questa legittima e lodevole curiosità. Si tratta del resto d’una vita semplice e silenziosa, che due grandi parole possono riassumere: umiltà e carità. Una vita tutta tesa nell’intensità della vita interiore, nella fatica della fondazione d’una nuova famiglia religiosa, nella imitazione di Cristo, nella devozione alla Madonna, nel servizio degli Infermi, nella fedeltà alla Chiesa.

Ma se la biografia di Maria Soledad non ci offre le singolarità spesso avventurose e prodigiose, né la ricchezza di parole e di scritti, che distinguono altre figure di Sante, il suo mite e puro profilo presenta alcune caratteristiche, a cui ci sembra doveroso qui accennare.

Maria Soledad è una Fondatrice, la Fondatrice d’una Famiglia religiosa, molto numerosa e molto diffusa. Ottima e provvida Famiglia. Così che Maria Soledad si inserisce in quella schiera di Sante ed intrepide Donne, che nel secolo scorso fecero scaturire nella Chiesa fiumi di santità e di operosità; interminabili processioni di vergini consacrate all’unico e sommo amore di Cristo, e tutte rivolte al servizio intelligente, indefesso, disinteressato del prossimo. Voi le conoscete, le trovate dappertutto; superfluo che Noi ora ve ne descriviamo la magnifica espansione.

La vitalità della Chiesa, la sua fecondità, la sua audacia, la sua bellezza, la sua poesia, la sua santità sono splendidamente documentate in questa irrompente fioritura di Famiglie religiose, femminili specialmente, che hanno intessuto la storia, si può dire, della vita cattolica in questi ultimi tempi.

Fra queste Famiglie elette ed operose si inserisce quella delle Serve di Maria di Santa Maria Soledad. Si inserisce a tal punto che potremmo considerare in essa il tipo di questa immensa e multiforme espressione di vita religiosa, che, nonostante le specifiche peculiarità di ogni singolo Istituto, sembra ricalcata sopra un modello comune, una formula sostanzialmente eguale per tutte le nuove fondazioni dell’ottocento, così che oggi, nel fervore e nella eccitazione del rinnovamento della vita religiosa e nella ricerca, alle volte troppo critica e alquanto fantasiosa, di nuove formule di consacrazione alla sequela di Cristo, sorge la questione se il paradigma, di cui stiamo ammirando un insigne esemplare, sia esatto in se stesso e ancora valido per il nostro tempo.

Davanti alla figura di S. Maria Soledad ed alla legione delle sue figlie Noi siamo felicemente in dovere di rispondere affermativamente. Senza escludere che l’interpretazione della vocazione alla perfetta e totale sequela del Maestro Gesù ammetta, con quelle storiche e classiche, che hanno preceduto lo schema di vita religiosa come quello che abbiamo davanti, altre nuove espressioni degne di fiorire nel giardino della Chiesa e di misurarsi con i bisogni e nelle forme del nostro tempo, Noi confermiamo il Nostro suffragio al paradigma di vita religiosa realizzato principalmente nel secolo scorso e in quello presente.

I caratteri peculiari, che lo descrivono specificamente, giustificano e glorificano questo tipo di ricerca della perfezione cristiana; e cioè: il distacco pratico ed ascetico dalla comune vita secolare, alla quale oggi invece molti danno la preferenza; la vita comune organizzata nella osservanza dei consigli evangelici della povertà, della castità e dell’obbedienza; il primato gelosamente conservato alla vita interiore, alla preghiera, al culto divino, all’amor di Dio, in una parola, la dedizione senza limiti e senza calcoli egoistici a qualche opera di carità; e finalmente l’adesione profonda ed organica alla santa Chiesa.

Questi caratteri basilari, che costituiscono uno stato di vita qualificato dallo sforzo verso la perfezione cristiana, sono autenticamente conformi alle esigenze del Vangelo, e sono tuttora validi a definire e ad avvalorare la vita religiosa per il nostro tempo. La Congregazione delle Serve degli Infermi, nel nome e nell’esempio della sua Santa Fondatrice, merita questo Nostro riconoscimento.

UN CAMPO NUOVO PER LA CARITÀ

Maria Soledad - reliquiaE ne merita un altro, quello che specificamente la definisce come Istituto religioso dedicato all’assistenza degli Infermi. Questa è la scelta che esprime, impegna ed illustra la carità di Maria Soledad e della sua progenie spirituale.
Si potrà dire: non è scelta nuova, non è scopo originale.

La cura della sofferenza fisica, e con quella fisica la cura quasi da sé risultante della indigenza spirituale, ha interessato la carità di molte altre istituzioni religiose immensamente benemerite nell’esercizio amoroso e generoso delle «opere di misericordia». È vero; e perciò classificheremo le Ministre degli Infermi nell’eroico esercito delle Religiose consacrate alla carità corporale e spirituale; ma non dobbiamo trascurare un rilievo specifico proprio del genio cristiano di Maria Soledad, quello della forma caratteristica della sua carità, e cioè dell’assistenza prestata agli Infermi nel loro domestico domicilio; forma questa che nessuno, a Noi pare, aveva ideato in maniera sistematica prima di lei; e che nessuno prima di lei aveva creduto possibile affidare a delle Religiose appartenenti a Istituti canonicamente organizzati.

La formula esisteva, fin dal messaggio evangelico, e quale! semplice, scultorea, degna delle labbra del divino Maestro: Infirmus, et visitastis me; Io, dice Cristo, misticamente personificato nella umanità sofferente, Io ero ammalato, e voi mi avete visitato (Matth. 25. 36).

Ecco la scoperta d’un campo nuovo per l’esercizio della carità, ecco il programma di anime totalmente consacrate alla visita del prossimo sofferente. Non è in questo caso il prossimo sofferente che va in cerca di chi lo assista e lo curi, non è lui che si lascia trasportare nei luoghi e nelle istituzioni, dove l’infelice è accolto e circondato dalle premure sanitarie saggiamente e scientificamente predisposte; è invece l’angelo della carità, la Serva volontaria che va in cerca di lui, nella sua dimora, nel focolare dei suoi affetti e delle sue abitudini, dove la malattia non lo ha privato dell’ultimo bene superstite, la sua individualità, la sua libertà.

Non è questa una semplice finezza della carità; è un metodo che indica una penetrazione acuta sia della natura propria della carità, ch’è quella di cercare il bene altrui, e sia della natura del cuore umano, geloso, anche quando riceve, della propria sensibilità, della propria personalità.

Qui è un lampo di sapienza sociale, che precede le forme tecniche e scientifiche dell’assistenza sanitaria moderna, e che, per essere gratuitamente effusa a chiunque abbia per chiederla il titolo del bisogno e del dolore, ci dimostra, ancora una volta, l’incomparabile originalità della carità evangelica.

Maria Soledad diventa precorritrice e maestra della più consumata sollecitudine assistenziale e sanitaria del nostro umanesimo sociale. Tutti le dobbiamo essere riconoscenti; tutti dobbiamo benedire il servizio provvidenziale, ch’ella, seguita poi da non poche similari iniziative, ha inaugurato.

PREGHIERA DI UNO

CHE NON SA PIU’ PREGARE

 

 

Signore, non so più pregare.

Ho perduto questa scienza, per la quale non c’è più maestro, non c’è pù scuola.

 

Conoscessi una chiesa in cui la Domenica

Si insegni a pregare, in cui si preghi,

dove ci si senta come sollevati da un movimento di preghiera!

 

E’ molto raro, Signore.

Io prego così poco, così raramente, così male.

Ne sono dolente e tuttavia mi sembra impossibile poter cambiare.

Come potrò?

 

Sono anzitutto un uomo tanto occupato,

ho la vita talmente piena di attività,

di distrazioni, perfino di opere buone,

sono troppo preso, non ho più il tempo di far niente.

 

Risultato: sono completamente in balia della mia debolezza,

della mia viltà, del mio capriccio:

poiché ho sempre da fare la scelta fra mille cose,

trovo sempre dei pretesti , degli ottimi pretesti,

dei pretesti pii e caritatevoli

per non fare quello che non ho voglia d fare,

ciò che ho paura di fare: fermarmi, raccogliermi, pregare.

 

Preferisco occuparmi di tutto piuttosto che occuparmi di Te.

Quel trovarmi davanti a Te mi spaventa,

perché temo di annoiarmi,

di conoscere quello di cui non ho voglia di sapere,

di dover sacrificare qualcosa a cui non ho nessuna voglia di rinunciare.

 

 

Ma soprattutto non ho tempo per Te.

Con Te, Signore, che sei onnipotente,

bramerei spicciarmi un po’ di più,

capirmi in un batter d’occhio,

finirla in un minuto secondo.

E invece mi fai scappare la pazienza

Per la lentezza con cui Ti riveli, agisci, ti spieghi.

 

Ma ora mi metto veramente a tua disposizione, Signore,

perché Tu possa fare in me almeno per un momento

ciò che vuoi fare da sempre e che io non ti lascio mai il tempo di fare.

 

Ecco. Sto innestandomi sulla tua corrente,

la sento circolare in me e una profondità vertiginosa

e mi ritrovo totalmente diverso da quel che ero al principio.

 

“Signore, nelle Tue mani affido il mio spirito”.

“Non la mia volontà ma la tua”.

 

UDIENZA GENERALE DI PAOLO VI

Mercoledì, 15 luglio 1970

P. Gabriele Russotto o.h. Postulatore Generale e storico dell’Ordine, ricevuto da Paolo VI

 

Abbiamo parlato tante volte, in queste Udienze generali, del Concilio, sempre in termini elementari per adeguarci alla natura di questi incontri brevi e familiari, e ci accorgiamo che molto, per non dire tutto, resterebbe da dire. Avremo sempre modo, a Dio piacendo, di ritornare a questa grande scuola per trarne insegnamenti antichi e nuovi, e specialmente per avere lumi direttivi all’opera di «aggiornamento» (secondo la celebre parola del nostro venerato predecessore Papa Giovanni XXIII, nel suo discorso di apertura del Concilio ecumenico), cioè all’opera di adattamento della vita e della esposizione della dottrina della Chiesa, sempre salva l’integrità della sua essenza e della sua fede, alle esigenze della sua missione apostolica, secondo le vicende della storia e le condizioni dell’umanità, a cui tale missione si rivolge.

Ma siamo tutti desiderosi di spostare lo sguardo dal Concilio al Post-Concilio, cioè ai risultati che da esso sono stati generati, alle conseguenze che ne sono derivate, all’accoglienza che la Chiesa ed il mondo hanno fatto agli avvenimenti e agli insegnamenti conciliari. Il Concilio, come episodio storico, è già di ieri; il nostro temperamento moderno ci porta a guardare al presente, anzi all’avvenire. Il Post-Concilio assume ora grande interesse. Quali effetti ha prodotto il Concilio? quali altri può e deve produrre? Tutti siamo convinti che cinque anni dalla conclusione del Concilio non bastano per dare su di esso e sulla sua importanza, sulla sua efficacia un giudizio esatto e definitivo; e siamo tuttavia tutti parimenti convinti che il Concilio non si può dire concluso allo scadere della sua durata, come succede di tanti avvenimenti che il tempo, passando, seppellisce e consente che solo gli studiosi delle cose morte ne conservino viva la memoria. È il Concilio un avvenimento che dura, non solo nella memoria, ma nella vita della Chiesa, e che è destinato a durare, dentro e fuori di lei, per lungo tempo ancora.  

TENSIONI, NOVITÀ, TRASFORMAZIONI

 Questo primo aspetto del Post-Concilio meriterebbe lunga considerazione, non foss’altro per determinare se l’eredità del Concilio è semplicemente una permanenza, o se è anche un processo in via di sviluppo; per stabilire cioè quali insegnamenti esso ci ha lasciati da ritenere stabili e fissi, come in genere succedeva dopo gli antichi Concili conclusi con delle definizioni dogmatiche, ancora oggi e per sempre valide nel patrimonio della fede; e quali altri esso ci ha annunciati da svolgere e da sperimentare in una successiva fecondità, come è da supporre che principalmente lo siano quelli del Vaticano secondo, qualificato piuttosto come Concilio pastorale, cioè rivolto all’azione. Esame questo importante e difficile, che non senza l’assistenza del magistero ecclesiastico può essere via via compiuto.

Un secondo aspetto, che impegna oggi l’attenzione di tutti, è lo stato presente della Chiesa, posto a confronto con quello anteriore al Concilio; e siccome lo stato presente della Chiesa si può dire caratterizzato da tante agitazioni, tensioni, novità, trasformazioni, discussioni, eccetera, subito i pareri si dividono: chi rimpiange la supposta tranquillità di ieri, e chi gode finalmente dei mutamenti in corso; chi parla di disintegrazione della Chiesa e chi sogna il sorgere d’una nuova Chiesa; chi trova che le novità siano troppe e troppo rapide, e quasi sovversive della tradizione e dell’identità della Chiesa autentica; e chi invece accusa lento e pigro e forse reazionario lo svolgimento delle riforme già compiute o iniziate; chi vorrebbe ricostituire la Chiesa secondo la sua figura primitiva, contestando la legittimità del suo logico sviluppo storico; e chi vorrebbe invece sospingere questo sviluppo nelle forme profane della vita corrente fino a dissacrare e a secolarizzare la Chiesa, disgregandone le strutture a vantaggio d’una semplice, gratuita e inconsistente vitalità carismatica; e così via. L’ora presente è ora di tempesta e di transizione. Il Concilio non ci ha dato, per adesso, in molti settori, la tranquillità desiderata; ma piuttosto ha suscitato turbamenti e problemi, certamente non vani all’incremento del regno di Dio nella Chiesa e nelle singole anime; ma è bene ricordare: questo è un momento di prova. Chi è forte nella fede e nella carità può godere di questo cimento (Cfr. S. TH. IIª-IIæ, 123, 8).  

È NECESSARIO VIGILARE  

Non diciamo di più. Le riviste e le librerie sono inondate di pubblicazioni circa la fase feconda e critica della Chiesa nella stagione storica Post-conciliare. Occorre vigilare. Lo Spirito di scienza, di consiglio, di intelletto e di sapienza è oggi da invocare con particolare fervore. Fermenti nuovi si agitano d’intorno a noi; sono buoni, o nocivi? Tentazioni nuove e doveri nuovi balzano davanti a noi. Ripetiamo le esortazioni di San Paolo: «Sempre siate lieti. E pregate senza smettere mai. In ogni cosa rendete grazie (a Dio); perché questa è la volontà di Dio, a voi manifestata in Gesù Cristo. Non spegnete lo spirito. Le profezie non le trascurate. Tutto esaminate; ritenete ciò ch’è buono. Da ogni specie di male astenetevi» (1 Thess. 5,16-22).

Aggiungeremo semplicemente la raccomandazione ad una triplice fedeltà.

Fedeltà al Concilio: procuriamo di conoscere meglio, di studiare, di esplorare, di penetrare i suoi magnifici e ricchissimi insegnamenti. Forse la loro stessa abbondanza, la loro densità, la loro autorità ha scoraggiato molti dalla lettura e dalla meditazione di così alta e impegnativa dottrina. Molti, che parlano del Concilio, non ne conoscono i meravigliosi e poderosi documenti. Alcuni, a cui preme più la contestazione e il cambiamento precipitoso e sovversivo, osano insinuare che il Concilio è ormai superato; serve, essi osano pensare, solo per demolire, non per costruire. Invece chi vuol vedere nel Concilio l’opera dello Spirito Santo e degli organi responsabili della Chiesa (ricordiamo la qualificazione teologica del primo Concilio, quello di Gerusalemme: Visum est Spiritui Sancta et nobis, è parso allo Spirito Santo e a noi . . . . ) (Act. 15, 28) prenderà in mano con assiduità e riverenza il «tomo» del recente Concilio, e procurerà di farne alimento e legge per la propria anima e per la propria comunità.

Seconda fedeltà. Fedeltà alla Chiesa. Capirla bisogna, amarla, servirla, promuoverla. Sia perché segno e perché strumento di salvezza. Sia perché oggetto dell’amore immolato di Cristo: Egli dilexit Ecclesiam et se ipsum tradidit pro ea, amò la Chiesa e diede se stesso per lei (Eph. 5, 25). E sia perché noi siamo la Chiesa, quel corpo mistico di Cristo, nel quale siamo vitalmente inseriti, e nel quale avremo noi stessi la nostra eterna fortuna. Questa fedeltà alla Chiesa, voi lo sapete, è oggi da molti tradita, discussa, interpretata a modo proprio, minimizzata; cioè né compresa nel suo profondo e autentico significato, né professata con l’ossequio e la generosità che, non per nostra mortificazione, ma per nostro esperimento e nostro onore, essa si merita.

E finalmente: fedeltà a Cristo. Tutto è qui. Non vi ripeteremo soltanto le parole di Simone Pietro, del quale siamo miseri, ma veri successori, e sulla tomba del quale ora qui ci troviamo: «Signore, a chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna» (Io. 6, 69).
Fedeltà a Cristo. Questo deve essere il Post-Concilio, Fratelli e Figli carissimi. Con la Nostra Apostolica Benedizione.

 

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