05 -LE CONFESSIONI DI PAOLO – Esame di coscienza pastorale – C.M. Martini

Esame di coscienza pastorale

A questo punto del corso di Esercizi, tutti, più o meno, ci disponiamo per fare la confessione sacramentale. Tenendo conto dell’importanza dell’argomento, riprendo brevemente alcuni punti secondo lo schema che parte da una riflessione sul nuovo « ordo paenitentiae ». È uno schema suddiviso in tre parti:

- «confessio laudis »,
- «confessio vitae »,
- «confessio fìdei ».

- Confessio laudis. Occorre iniziare la confessione con un atto di ringraziamento, rispondendo alla domanda: di che cosa devo ringraziare Dio principalmente in questo tempo?

- Confessio vitae. Si tratta di rispondere alle domande: «Che cosa in me vorrei che non fosse stato davanti a Dio? Che cosa mi pesa maggiormente in questo momento? ». La risposta va estesa dalle mancanze agli atteggiamenti interiori da cui le mancanze derivano: antipatie, risentimenti, sospetti, delusioni, amarezze; cose tutte che forse non costituiscono un peccato vero e proprio ma sono la radice ordinaria dei peccati. Messe con umiltà davanti a Dio e alla Chiesa, ci danno la possibilità di lasciarci medicare dalla grazia.

Confessio fidei. È la certezza che Dio, nel suo amore, mi accoglie e mi risana. L’atto di dolore diventa allora una manifestazione di fede.

La meditazione che ha come titolo « esame di coscienza pastorale », sarà un’ulteriore riflessione su come Paolo ha vissuto i diciannove anni dopo la conversione. Avremo in tal modo materia abbondante per prepararci alla confessione sacramentale.

Signore Gesù, tu sai quanto desideriamo servirti e come ci sentiamo spinti dallo Spirito nell’impegno pastorale. Conosci che spesso, in questo servizio, siamo presi da dubbi, da timori e ci domandiamo se ciò che stiamo facendo è veramente importante, se lo facciamo nel modo migliore. Ti chiediamo, Signore Gesù, pastore supremo del gregge della Chiesa, Vescovo delle nostre anime, di illuminarci perché in ogni cosa imitiamo te pastore, e imitiamo Paolo pastore del tuo gregge.
Medica il nostro cuore da ciò che lo turba e gli impedisce di comprendere le parole dell’ Apostolo. Fa’ che, dimenticando le nostre pesantezze, possiamo cogliere con animo libero il senso di quelle parole e la verità di amore e di salvezza che racchiudono. Tu vedi che non sappiamo esprimere queste realtà e non sappiamo comprenderle se tu non ci illumini nello spirito, nella mente e nella parola. Lo chiediamo a te, Signore Gesù, che con il Padre e lo Spirito Santo vivi e regni in eterno per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Partiamo dalle prime battute del discorso di Paolo a Mileto. Quel discorso corrisponde un po’ a quello che stiamo facendo noi in questi Esercizi. Molto prima di noi l’evangelista Luca, nel libro degli Atti, riferendo le parole di Paolo a Mileto, ha cercato di richiamare i punti che l’Apostolo avrebbe avuto maggiormente a cuore ricordando il suo passato in relazione ad una comunità.
Questo discorso che si chiama anche il « testamento pastorale di Paolo », oppure il « discorso di addio », è un capolavoro insuperato.
Come discorso di addio si colloca nella linea di tanti simili discorsi di addio che la Scrittura ci presenta: il cap. 49 della Genesi con il discorso di addio di Giacobbe ai suoi figli; il Deuteronomio con i discorsi di addio di Mosè; gli ultimi due capitoli di Giosuè, 23 e 24, con il testamento di Giosuè; e così via per Samuele, Davide, Tobia, Mattatia. Gesù stesso, nell’ultima cena (Gv 13-17), fa un lungo discorso di addio che è anche uno sguardo retrospettivo alla sua vita. Il discorso di Paolo si colloca in questa linea.
È interessante notare che il Nuovo Testamento ci dà soltanto due discorsi conclusivi: di Gesù e di Paolo. In tal modo sottolinea l’importanza di queste due figure.

Il testamento di Paolo è impostato, dal punto di vista di analisi logica, sul rapporto io-voi: io mi sono comportato…; voi sapete…; io vado a Gerusalemme…; voi non vedrete più il mio volto…
Un linguaggio come questo non gli è abituale: nel discorso ad Antiochia di Pisidia, il soggetto è sempre Dio, ciò che Dio ha fatto. Per questo, appunto, il discorso di Mileto è un discorso pastorale in cui Paolo riflette sui rapporti fra sé e coloro che per tre anni egli ha guidato nella via di Dio.
È quindi adattissimo per un esame di coscienza pastorale. Qui scorgiamo le cose che a Paolo sono sembrate importanti, quelle che più hanno caratterizzato la sua azione verso la comunità.
Con questo spirito cerchiamo di approfondire il discorso. Non potendo medi tarlo tutto, mi limito ad un esempio di analisi del primo versetto e mi servo di un libro molto bello: «Il testamento pastorale di San Paolo », di Jacques Dupont. È un commento ricchissimo di riflessioni su questo testo pastorale fondamentale del Nuovo Testamento.
Il metodo con cui il Dupont procede è molto semplice: prende le singole parole, le soppesa attentamente, lungamente, rimettendole nella luce della storia di Paolo e di tutte le affermazioni simili che si trovano nelle lettere. In questo modo si riesce a cogliere il discorso come sintesi della pastoralità paolina e del suo modo di riferirsi alle comunità.

Il versetto su cui ci soffermeremo: «Ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime» (At 20, 19) sottolinea un atteggiamento pastorale importante per la Chiesa di tutti i tempi.

«Essere con»

Con le parole introduttive del discorso Paolo abbraccia in sintesi il suo ministero di circa tre anni ad Efeso: «Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo» (v. 18). E lo abbraccia con una formula che rimanda immediatamente il gioco agli uditori. Non ha bisogno di descrivere prima di tutto se stesso; si riferisce all’esperienza che gli altri hanno fatto.
Fin da questa battuta introduttiva, comprendiamo che Paolo si sente uno con la sua comunità, si sente conosciuto, familiare. Non deve raccontare niente perché: «Voi sapete, mi avete visto, sono stato con voi ». Il suo ministero si può riassumere con: «è uno che è stato fra la gente », uno che la gente conosce, di cui sa tutto, e può renderne testimonianza.
È un ministero fondato sull’« essere con», sul comunicare, sul convivere. Paolo sa benissimo che guardavano a lui come ad un esempio e sente perfettamente la responsabilità non soltanto delle parole che ha detto, ma di ciò che ha fatto. Non: «voi ricordate ciò che vi ho detto in questi anni… », ma: «voi sapete come mi sono comportato ». La gente ha guardato a ciò che lui era, a come viveva, prima ancora di giudicare se le sue parole erano interessanti, belle, vere, pratiche.
E lui si è comportato servendo.

«Ho servito il Signore»

Il suo modo di essere nella comunità è definito con: « Ho servito il Signore, tra le lacrime, in tutta umiltà ». Servire il Signore è la prima realtà. Paolo si vede, e sa che gli altri lo vedono prima di tutto come un servitore di Cristo e non come un servitore della comunità. Questa qualifica caratterizza il suo attaccamento a Cristo e la sua libertà verso la comunità. Talora, noi parliamo del ministero come un « servizio» e lo intendiamo come un « servire la Chiesa », la diocesi, la gente. Il Nuovo Testamento parla di servizio e di servo in rapporto a Cristo Gesù. È vero che in qualche occasione Paolo dice: «Sono servo vostro per Cristo» (Gal 5, 13), ma ordinariamente è « servitore di Cristo».
Quindi il pastore deve vivere primariamente a servizio della persona di Cristo. Soltanto così può servire la Chiesa, la gente, il popolo.
Stupenda questa libertà che Paolo vive: non deve niente a nessuno se non a Cristo; e attraverso lui, poi, a tutti. Non deve piacere a nessuno, non deve rispondere a nessuno, se non a Cristo e la comunità sa benissimo che lui non è lì per piacere, per accontentare, per rispondere alle attese, ma è lì per servire Cristo.

«Tra le lacrime»

Se avessimo dovuto completare noi la frase, avremmo aggiunto: con zelo, con fervore, con intelligenza, con coraggio, con competenza, con perseveranza.
La sua esperienza gliene fa dire altre: «tra le lacrime, con tutta umiltà». Rimaniamo stupiti davanti ad una sottolineatura che appare negativa e ce ne chiediamo il perché.
Indubbiamente c’è da considerare che è un discorso di addio. Ed è un addio che non lo porta verso una nuova missione importante. Ciò che lo attende è chiaramente la persecuzione e le sofferenze. È un saluto pieno di nostalgia e che giustamente fa emergere elementi di sofferenze già vissute e che preludono a quelle future.
Al di là di questo bisogna però dire che, se emergono l’umiltà e le lacrime come modo di servire il Signore, vuol dire che questa era l’esperienza di Paolo, che nella sua vita risaltavano umiltà, lacrime, prove, insidie, difficoltà.
Si presenta come si sente: l’Apostolo mentirebbe, in questo caso, se sottolineasse elementi che non gli sono così presenti al cuore e allo spirito.
Proviamo a pensare attentamente alla sua azione apostolica ad Efeso, per meglio capire il senso della sua umiltà e delle lacrime. Di lacrime parla molte altre volte: è un tema che ricorre sia nel discorso di Mileto, che nelle lettere. Ritorna nel testo degli Atti: « Vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi» (v. 31). Sono lacrime versate nello sforzo affettuoso, amoroso e insistente di convincere qualcuno.
Dalle lettere possiamo citare: «Vi ho scritto in un momento di grande afflizione e col cuore angosciato, tra molte lacrime» (2 Cor 2, 4). È un’esperienza-limite quella delle lacrime, per Paolo. Non sembra che fosse un uomo facile al pianto, eppure si trovava in situazioni di tale tensione, di tali violente difficoltà, di tali amarezze e delusioni che scoppiava in pianto sia parlando con la gente, sia scrivendo.

Tutto questo fa vedere l’intensità emotiva con cui Paolo viveva la sua missione pastorale. Esattamente l’opposto del funzionario, del burocrate, del programmatore intelligente.
Paolo è un uomo di intensissima partecipazione emotiva, che ha evidentemente riscontro nelle profondissime gioie. Proprio perché partecipava cosi emotivamente alle sofferenze del suo ministero poteva avere delle gioie e degli entusiasmi grandiosi di cui parla ancora più spesso nelle sue lettere.
Scriveva: «Quale ringraziamento possiamo rendere a Dio riguardo a voi, per tutta la gioia che proviamo a causa vostra davanti al nostro Dio? » (1 Ts 3, 9). Le intense sofferenze sono compensate da gioie profondissime, da entusiasmi straordinari: «Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi di voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7, 4). Sono cosi contento di voi che le sofferenze non le sento più se penso alla vostra corrispondenza, al vostro affetto e alla vostra fede. Tutti sappiamo cosa significano queste esperienze: chi ama molto, soffre molto, gode molto; chi ama poco, soffre meno e gioisce meno.

L’immagine del pastore che Paolo ci dà, in queste prime battute, è di un uomo profondamente, affettivamente, emotivamente coinvolto in ciò che fa. Ama moltissimo la gente e non con un amore generico: ha presente i nomi, le situazioni personali, di famiglia, di lavoro, di malattia. Uno per uno quei cristiani gli stanno davanti, conosciuti, uno per uno sono fonte di amarezza, di tristezza, di lacrime oppure di gioia intensa.
Ecco il senso del suo aver servito il Signore tra le lacrime.

«Con tutta umiltà»

Anche qui vogliamo capire come mai tra le mille altre qualifiche del suo ministero Paolo sceglie questa, sottolineandola come fondamentale atteggiamento pastorale.
Il termine greco con cui si esprime può essere inteso « in ogni genere di umiliazione », con riferimento non all’atteggiamento ma alle situazioni. Cosi va inteso nel Magnificat là dove Maria dice: «Il Signore ha guardato all’umiltà della sua serva ». Indica l’insignificanza, l’abiezione, la piccolezza, il non contare nulla, e non la virtù dell’umiltà. Ma mentre nel Magnificat il vocabolo greco è esattamente «tapéinosis », qui è « tapeinofrosune »: sentimento di umiltà. Paolo qui si riferisce all’atteggiamento di umiltà con cui ha servito il Signore nell’attività pastorale. Umiltà è una parola che ripetiamo mille volte, ma di cui non è sempre facile cogliere tutte le implicazioni che ha per l’Apostolo.
In senso generale si potrebbe dire che l’umiltà è l’opposto di ciò che è detto nel Magnificat: «Dio ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore ». I superbi sono quelli che credono di essere qualcuno, che hanno di sé un concetto così alto da fame quasi una ragione di vita, per cui gli altri devono piegarsi al loro servizio, e neppure vanno ringraziati perché fanno ciò che è dovuto. È l’atteggiamento che Paolo stigmatizza altre volte nelle sue lettere. Ad esempio scrivendo ai Romani: «Non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi» (Rm 12, 16). L’atteggiamento umile è quello di chi non si gonfia e non si illude.
È importante riflettere su questo atteggiamento di non-sapere: esso è utile sempre, ma è indispensabile soprattutto nel rapporto con Dio. Infatti « noi non sappiamo neanche pregare, non sappiamo neanche cosa chiedere» (cf. Rm 8, 26).
Spesso non riusciamo a pregare bene perché incominciamo con la presunzione di saper pregare, mentre dovremmo partire sempre confessando: «Signore, non so pregare; so di non sapere pregare ». Già questa è preghiera, perché fa posto allo Spirito che dobbiamo chiedere.
L’umiltà come atteggiamento che qualifica l’attività pastorale di Paolo si può descrivere secondo tre aspetti:

- aspetto sociale: un modo di comportarsi;
- aspetto personale: una certa coscienza di sé;
- aspetto teologale: un certo rapporto verso Dio.

a) L’aspetto sociale è da una parte assenza di pretese e, dall’altra, attenzione agli altri. «Ho cercato di essere tra voi senza pretese, non pretendendo per me niente di speciale, ma stando molto attento a ciascuno di voi », direbbe Paolo.
Si descrive così anche nella prima lettera ai Tessalonicesi, dando uno sguardo retrospettivo al suo rapporto con la comunità: «Come Dio ci ha trovati degni di affidarci il Vangelo, così lo predichiamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori. Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete, né avuto pensieri di cupidigia: Dio ne è testimone. E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (1 Ts 2, 4-8).
L’umiltà è socievolezza senza pretese, colma di affetto, di attenzione, amorevolezza, prevenienza. Paolo sente che, per grazia di Dio, è stato così e che il suo modo di essere è modello per ogni pastore. L’umiltà come virtù sociale comporta anche distinzione, correttezza, un certo riserbo, un’educazione profonda, finezza sacerdotale che conquista il cuore, perché non è espressione semplicemente di un’affettazione esteriore. Niente commuove di più le persone che sanno di contare poco nella società, che il vedersi trattate con estremo rispetto e con grande valorizzazione di ciò che sono. I cristiani di Paolo erano in gran parte schiavi, abituati ad essere maltrattati, presi in giro, disprezzati, trascurati, e possiamo immaginare cosa volesse dire per loro sentirsi rispettati e sinceramente amati. Come doveva sconvolgerli il metodo apostolico di Paolo!

b) L’aspetto personale è un giudizio di valore semplice dato su di sé. Paolo ritorna diverse volte su questa capacità di valutarsi giustamente e secondo ciò che le nostre debolezze e fragilità ci fanno comprendere.
Nella prima lettera ai Corinti parla della apparizione di Gesù a lui: «Ultimo fra tutti apparve anche a me. lo sono l’infimo degli apostoli, non sono degno di essere chiamato apostolo» (1 Cor 15, 8-9). Lo dice con verità e con sincerità: non è affettazione, è chiarezza di giudizio su di sé.
E questo giudizio, è una maniera di comportamento che ha acquisito attraverso la scuola della vita, che gli ha fatto conoscere la sua fragilità e povertà. Ha imparato a pensare di sé in maniera umile, distaccata, tranquilla, senza colpevolizzarsi, con pace.
«Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpito oltre misura, aldilà delle nostre forze, si da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte per imparare a non riporre fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti» (2 Cor 1, 8-9). Ci stupisce un apostolo che parla di sé in quèsto modo, a rischio quasi di scandalizzare.
L’umiltà personale, venendo da una storia vissuta, difficilmente può averla un giovane. Magari avrà meditato queste cose, ma non potrà sentirle come naturali, perché non è passato per quella scuola di prove e di esperienza della propria debolezza che ci mettono al posto giusto e ci liberano da ogni presunzione.
È doloroso vedere come a volte passiamo per queste prove senza saperle vivere. Se Paolo di fronte alle tribolazioni che gli sono venute in Asia si fosse messo ad imprecare contro tutto e tutti, invece di riconoscere la propria debolezza e fragilità, non avrebbe tratto alcun profitto dalla prova. Invece si è formato come vero pastore perché ha saputo accogliere dal dolore quella umiltà vissuta, che poi espresse nella sua vita.

c) Aspetto teologale. Paolo si esprime cosi perché vive profondamente la sua verità davanti a Dio: «Chi dunque ti ha dato questo privilegio? Che cosa mai possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto? » (1 Cor 4, 7). Al fondo dell’atteggiamento di umiltà, che è uno dei segreti della sua capacità di conquistare la gente, stava un senso profondo di Dio ‘creatore, padrone, signore, misericordioso, datore di ogni bene. Di fronte a Lui Paolo è un povero peccatore che riceve grazia, misericordia, salvezza. La stessa Parola è Parola di Dio, non di Paolo: a lui è stata data nella misura del dono di Cristo. Lo stesso zelo apostolico non è di Paolo, ma gli è stato dato da Cristo che vive in lui.
Questa umiltà è trasparenza del divino che vive in lui, una trasparenza cristologica, di Cristo come lui l’ha conosciuto e capito, di Cristo Servo di Jahvè, di Cristo umile, umiliato, che non ha scelto di primeggiare, di buttarsi dal pinnacolo del tempio per fare scalpore, di cambiare le pietre in pane, di dominare sui regni della terra, ma che ha scelto di essere servo di tutti.
L’umiltà di Paolo è quella di Cristo che egli ha recepito e che esprime lasciandolo vivere in sé.
Per questo egli può presentarla come l’atteggiamento fondamentale di chi serve il Signore, così come il Signore ha servito. Cristo ha servito con tutta umiltà e il suo servo sceglie la sua stessa via esercitando l’autorità con l’umiltà, la mansuetudine e la mitezza del Maestro.
Questa è certamente una delle caratteristiche che distinguono radicalmente il potere pastorale da quello politico. Il potere pastorale è fondato sulla mitezza di Cristo e proprio per questo può assumere, come in Paolo, anche atteggiamenti duri, taglienti, risoluti, basati non sulla pretesa di difendere la propria personalità ma sulla mitezza e l’umiltà di Cristo che sa prendere posizione di fronte alla vita.
Ciascuno di noi deve meditare profondamente, con la coscienza che siamo molto lontani da questo ideale. Istintivamente il personalismo interviene tutte le volte che è in gioco il potere e noi siamo continuamente tentati di inserire nel servizio del Signore il nostro prestigio personale.
Abbiamo bisogno di essere purificati sull’esempio dell’Apostolo e soprattutto di essere purificati dalla forza di Cristo in noi.

Chiediamo per intercessione di Maria, di cui Dio ha guardato l’umiltà, di saper seguire Cristo come Paolo lo ha saputo seguire, con la coscienza che è un compito arduo e che siamo lontani da questa meta.
Con la grazia di Dio cerchiamo di metterci di fronte ad essa, di riconoscere le nostre mancanze, di chiedere che la potenza di Cristo, che vive in noi, ci renda simili a lui.

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