ALLA SCUOLA DELL’AMORE – Divo Barsotti

 Posted on Novembre 16th, 2008 di Angelo |

  

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Divo Barsotti mistico del ’900

 

ALLA SCUOLA DELL’AMORE

Libro donato ai naviganti dalla Comunità dei figli di Dio

 

http://www.figlididio.it/com/index.htm

 

 Avvertenza

Queste meditazioni sono state dettate da don Divo Barsotti alle suore della Visitazione di Quinto al Mare (GE). Trascritte direttamente dal registratore, non sono state rivedute dall’Autore. Il lettore intuirà senza dubbio il calore appassionato con cui le meditazioni sono state pronunciate, anche se fatalmente la parola scritta non riesce e riprodurlo

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1.

IL MISTERO DELLA VISITAZIONE

 

Una visita personale

 

È un mistero dolcissimo. È il mistero della carità di Maria che va da sua cugina Elisabetta, per assisterla negli ultimi mesi della sua gravidanza. Mistero della carità di Maria, che è un continuo venire ad ogni anima, per assistere ogni anima nel suo cammino verso Dio.

Come Nostro Signore, anche Maria Santissima nei suoi misteri vive una missione, che non termina se non con la fine del tempo. Non solo la grazia di quella carità che porta la Regina del cielo dalla cugina Elisabetta si fa presente oggi nella Chiesa per ogni anima, ma, di più, si fa presente la visita stessa della Vergine ad ogni anima.

Nella sua vita terrena la Vergine, come noi, era condizionata dal tempo e dallo spazio; non poteva nel medesimo tempo andare da Elisabetta e rimanere con Giuseppe o andare al Tempio di Gerusalemme, vivere cioè in molteplici luoghi, come molteplice invece poteva essere il desiderio dell’anima sua di soccorrere tutti coloro che potevano avere bisogno di lei. Così anche Gesù. Non appare nel Vangelo che nella sua vita mortale abbia voluto usare del dono di una bilocazione, ad esempio: anche lui se era a Betlemme non era a Nazaret, se era a Gerusalemme non era in Samaria. Condizionata come noi, Maria non poteva vivere che in un solo luogo, non poteva vivere che un solo atto di amore.

Non così dopo la sua glorificazione. Come il Cristo dopo la sua risurrezione gloriosa si fa presente ad ogni anima, si unisce a ciascuno di noi e vive in ognuno di noi “Dimorate in me ed io in voi”, dice Gesù, così la Vergine; ella è là dove ama, ella è dunque in un continuo visitare ciascuno di noi, nella sua carità. Non è soltanto una presenza di ricordo, non è soltanto una presenza spirituale come potrebbe essere la presenza, in noi, del nostro affetto e del nostro amore per tutti coloro che amiamo. Non è così, è una presenza reale; la Vergine non è più condizionata né dal tempo né dallo spazio. Ella vive soltanto la pienezza di un amore, che rende possibile alla sua natura di donna glorificata di vivere con ciascuno di coloro che ama, di vivere venendo a ciascuno che ama. Perché la visita di Maria Santissima, non più legata ai luoghi, ma legata alle anime, viene a ciascuna anima che particolarmente è disposta ad accoglierla.

 

Una fede che apre gli occhi e il cuore

 

È vero che ella viene, ma è anche vero che noi dobbiamo aprirle le porte, e si aprono le porte della nostra anima alla Vergine, nella misura di una nostra fede semplice, pura, viva.

Crediamo davvero che Maria Santissima è qui con noi? Crediamo davvero che Maria Santissima vuole venire, e ci chiede di aprire la porta del cuore perché possa vivere con noi questi giorni, possa aiutarci a rispondere a Dio, anzi più ancora: aiutarci ad ascoltare la sua parola? È la visita di Maria santissima a santa Elisabetta che portò a Giovanni Battista Gesù; è la visita di Maria santissima a santa Elisabetta che portò anche ad Elisabetta Gesù, perché anche Elisabetta sentì che con la Vergine veniva a lei anche il Figlio di Dio.

La prima cosa dunque che si impone entrando in questo Ritiro è che nella fede noi prendiamo coscienza di questo mistero.

Certo: dobbiamo essere buoni, dobbiamo essere santi, ma è secondario tutto questo, è molto secondario. Primario nel cristianesimo è l’atto di fede che accoglie un Dio che si comunica in Cristo ad ogni uomo. E Cristo viene a noi, mediante la maternità verginale di Maria. Primario è vivere il mistero; è nel vivere il mistero di questa presenza che noi saremo anche buoni e santi. La santità sarà una conseguenza naturale di un incontro reale con la Vergine pura, con il suo Figlio divino.

S’impone dunque per prima cosa una fede vera, umile, semplice e pura che ci apra gli occhi e faccia esclamare anche a noi quello che Elisabetta esclamò: «A che debbo che la Madre di Dio, la Madre del mio Signore venga a me?».

La Vergine viene! La visita di Maria Santissima a noi non è meno vera dell’incontro che ella ha vissuto con Melania Calvat e con Massimino sul monte della Salette o con Bernardetta alla grotta di Massabielle. Non è meno vera, anche se i nostri occhi non la vedono. E noi non la vediamo, non perché lei voglia rimanere invisibile, ma perché i nostri occhi non possono captare la sua luce. Siamo come le civette, diceva san Giovanni della Croce, che ci vedono di notte e di giorno non possono vedere; perché la luce della divina Presenza, la luce della gloria di Dio, la luce della Presenza del Cristo, la luce anche della gloria della Vergine, sono tali che i nostri occhi rimangono come accecati, non vedono più. Noi non possiamo vedere per eccesso di luce, ma ella è qui, ella viene, porta a ciascuno Gesù.

Come saranno belli questi giorni di ritiro se noi li vivremo con lei, se li vivremo con lui! Non vi sembra? Non si tratta di viverli soltanto insieme tra noi; si tratta di vivere qualche cosa di più grande, qualche cosa di immensamente più bello: la nostra comunione con la Vergine pura. Non si tratta di imparare da lei come si vive, il modello si può avere anche attraverso la lettura o la meditazione di quello che ella ha vissuto, e voi lo conoscete. Ma è più bello vivere nella presenza pura di chi si ama piuttosto che ricevere e leggere una cartolina che ci viene da lontano. Ella è qui! Dobbiamo saperlo, ella è qui!

Non c’è luogo dove ella non sia, se in ogni luogo vi è un’anima che ella ama. Finché era sulla terra, condizionata dalla sua natura umana, non poteva essere nello stesso tempo ad Ain-Karem dove era Elisabetta, e a Nazaret dove era Giuseppe, non poteva essere nello stesso tempo a Betlemme e a Gerusalemme; ma ora è là dove ama, ed ella ama ogni suo figlio. Potete voi dubitare che Maria Santissima vi ami? Voi potete dubitare di amarla, ma non che ella vi ami; e forse neppure dubitate di amarla, e allora voi pensate che se lei vi ama di più di quanto voi l’amate, voglia stare lontano da voi?

Ella è con voi! Noi dobbiamo vivere questa presenza materna della Vergine. Se ella è mediatrice di ogni grazia, è perché da lei abbiamo ricevuto Gesù, e in ogni istante è dalle sue mani verginali e dal suo Cuore di Madre, che noi dobbiamo accogliere il Cristo.

 

La realtà del mistero

 

In questi giorni dobbiamo dunque vivere la realtà di questo mistero. Non si tratta di meditare su qualche virtù, si tratta piuttosto di percepire nella fede una presenza: presenza della Vergine, presenza del Cristo, presenza dello Spirito di Dio. Perché è mediante lo Spirito Santo che noi possiamo vivere la presenza stessa della Vergine e del Cristo. Infatti è mediante lo Spirito che noi siamo introdotti nel Regno di Dio. Dice il Vangelo che lo Spirito Santo è come un vento che non sai né donde venga, né dove vada. Ma noi sappiamo che lo Spirito viene da Dio e a Dio conduce. E allora ecco che lo Spirito Santo che viene da Dio vi porta a Dio, o piuttosto vi porta nella realtà di questo mondo divino che è Cristo Signore e la Vergine Santa. Perché non è più vero che la Vergine fa parte di questo mondo, non è più vero che Gesù fa parte di questo mondo; siamo noi ed è questo mondo che deve entrare in questo «nuovo mondo» che è il Cuore del Cristo, in questo <<nuovo mondo» che è il Cuore di Maria.

Vivere la realtà di questo mistero vuol dire vivere già in Paradiso. E voi vivete già da lungo tempo in Paradiso; infatti, la vita religiosa nella teologia cattolica è stata sempre ritenuta come una anticipazione della vita del cielo. Dicono che voi vivete in clausura, ma non è vero, perché una monaca che vive totalmente per Iddio vive la libertà pura di un’anima che spazia nell’immensità divina. Non è forse vero che il vostro luogo è l’immensità di Dio? Siete davvero chiuse? Sono chiusi quelli che vanno al mare e non vivono altro che la loro piccola vita. Ma la vostra anima, quale respiro non ha! Vivete in Dio e Dio è l’immenso, vivete nel Cristo e Cristo è l’Amore!

È lo Spirito Santo che vi ha condotto a vivere in questo «mondo nuovo» che è il Seno del Padre, il Cuore del Cristo e di Maria.

Ecco, durante questo ritiro non vivrete qualche cosa di nuovo in senso assoluto, ma cercherete di vivere con una consapevolezza nuova, quella che è la vostra vita di ogni giorno: vivere in Dio, vivere per Dio, vivere di Dio; e vivere per Dio, in Dio, di Dio vuol dire vivere in Cristo, per la mediazione della Maternità di Maria, e vivere in Dio, per Dio e di Dio vuol dire abbandonarsi alla potenza dello Spirito, perché lo Spirito operi in voi quello che ha operato un giorno nel seno della Vergine. E lo Spirito in Maria ha operato l’Incarnazione del Verbo! Per l’azione dello Spirito Santo deve prolungarsi in noi questo mistero, in tal modo che viva in noi Cristo, viva solo Cristo, e vivendo in noi Cristo e solo Cristo, vivremo di Dio, in Dio e per Dio come ha vissuto il Verbo incarnato nella natura umana, assunta.

 

Esperienza di comunione

 

Ecco, mie care Sorelle, quello che mi sembra debba essere questo incontro reale con Dio, per la mediazione della Vergine pura: una esperienza più intima e dolce di questa comunione di vita che, mediante la mediazione di Maria, la Madre, noi vivremo col Cristo, una comunione reale con lui, anzi con lui una sola vita. E in questa comunione anche la nostra comunione con Dio, perché il Cristo è, sì, uomo, ma l’umanità del Cristo è la via che ci conduce a Dio, ed egli è anche Dio, come dice Agostino: Via e Vita.

Per entrare in questo mistero dunque si impone prima di tutto la fede! Se noi non crediamo, tutto quello che abbiamo detto diviene soltanto parole, che possono essere belle, ma che lasciano il tempo che trovano. E d’altra parte non è la fede che realizza questo mistero, ma è la fede che ci rende partecipi di questo mistero. Perciò quanto più pura e grande sarà la fede nella presenza del Cristo, nella presenza della Vergine, tanto più grande sarà l’esperienza di questa realtà nella quale Dio ci introduce.

Noi dobbiamo, in una fede pura, credere veramente che la Vergine è qui; ma noi lo dobbiamo vivere realmente questo incontro con lei, dobbiamo sentirla, riconoscerla come mamma, perché noi siamo tutti suoi figli, dobbiamo sentirei abbracciati da questa tenerezza di amore, dobbiamo sentirci invasi dalla dolcezza della sua carità.

Si diceva all’inizio di questa introduzione che Maria Santissima è continuamente in visita verso ciascuno di noi. La visita a santa Elisabetta l’ha fatta una volta sola, ma a ciascuno di voi Maria santissima è venuta in visita innumerevoli volte nella sua vita e anche stasera. Apriamo gli occhi della fede per vederne il volto, per ascoltarne la parola. Sia lei in questi giorni a parlarvi, e sarà lei che vi disporrà sempre di più non solo ad accogliere Cristo, ma ad accoglierlo in modo tale da divenire una sola cosa con lui, un solo corpo con lui, perché siete le sue spose.

Che ella vi insegni anche come ci si abbandona allo Spirito, perché soltanto nell’abbandono allo Spirito Santo si compie il mistero di questo prolungamento dell’Incarnazione che è la vita cristiana, di questo prolungamento di Incarnazione divina, che è il mistero stesso della Chiesa e della santità di ciascuno.

 

Una triplice presenza

 

Questa realtà del mistero implica una triplice presenza: presenza della Vergine, per la presenza della Vergine la presenza dello Spirito cui vi abbandonate, e per l’abbandono allo Spirito Santo la presenza stessa del Cristo, che vi prende e vi possiede come uno sposo la sposa, perché diveniate con lui un solo corpo, perché possiate vivere con lui una medesima vita, e possiate dire con l’apostolo Paolo: «Vivo io, ma non sono più io che vivo, il Cristo vive in me».

Non è questo già il Paradiso? Sì, il Paradiso non è nulla di più; noi viviamo questo nella fede, lo vivremo domani nella visione, quando i nostri occhi saranno capaci di vedere quello che oggi noi crediamo. Ma la realtà rimane la stessa, è comunione dolcissima con la Vergine pura, è abbandono totale di noi allo Spirito di Dio, è amore infinito del Cristo, che ci assume per divenire con noi un solo corpo vivo: questo è il Paradiso! Allora noi lo vedremo Dio, lo vedremo con gli occhi stessi del Verbo, perché divenuti una sola cosa con lui; una sarà la vita del Cristo con l’anima, una la lode del Cristo e dell’anima al Padre celeste. Lo facciamo già qui, perché ogni tempo per l’anima veramente fedele si apre nell’eternità di Dio, ogni luogo per l’anima veramente fedele si apre alla divina immensità. Ogni tempo e ogni luogo è per noi il segno e il sacramento che fa presente la realtà di questo mirabile mistero, il mistero di un amore infinito che si comunica al mondo, del Cristo e dello Spirito di Dio.

Ma questo mistero di comunione divina, di comunicazione divina, indubbiamente esige la presenza della Vergine, perché è la Vergine che ha creduto e deve insegnare anche a noi come si crede. Ricordate quello che dice Elisabetta alla Vergine, proprio quando la Vergine va a visitarla? «Beata tu che hai creduto, perché si compiranno in te tutte le cose che ti ha detto il Signore». Se dunque dobbiamo vivere questa comunione con Dio e con lo Spirito, noi vivremo questa comunione se parteciperemo alla fede stessa della Vergine, che ha creduto alla parola dell’Angelo. Che anche voi, possiate credere come Maria. Ecco perché Maria si fa presente, per donarvi e per parteciparvi qualche cosa della sua fede, e per vivere della medesima unione di amore. Fede, ma fede pura, fede semplice; ed è la fede che anche renderà possibile a voi, nella comunione della vostra anima con Cristo, di vivere l’amore stesso di Maria, la purezza di Maria, la semplicità di Maria, l’umiltà della Vergine pura.

 

I frutti di questa presenza

 

Si diceva all’inizio che le virtù sono secondarie; non perché siano meno importanti, ma perché vengono in seconda luogo, sono il frutto soltanto di una vita di amore e di fede. Prima dobbiamo vivere la realtà del mistero: nella misura in cui vivremo la realtà del mistero noi parteciperemo di quelle virtù che hanno distinto la vita della Vergine; allora vivremo la sua semplicità, e vivendo la semplicità sparisce la molteplicità di tutte le cose. Non è la stessa cosa essere in portineria o essere sacre stana? Non è la stessa cosa vivere in una cella piuttosto che in un’altra? Non è la stessa cosa essere la superiora o essere l’ultima della casa? È la stessa cosa perché l’amore di Dio rende tutto uguale.

Se si vive la comunione con Dio, c’è poca differenza tra essere Papa o essere spazzino. Che aggiunge essere Papa a quello che sono, se Dio vive in me? Ogni missione che io ricevo nella Chiesa, ogni grandezza umana, piuttosto che aggiungermi mi toglie qualcosa, perché mi dà l’impressione che quella sia la vera grandezza, mentre la vera grandezza è questa fede per accogliere il dono di Dio, questa semplicità dell’anima che vive l’unica cosa necessaria, la divina Presenza.

Ma si vivrà con la Vergine anche la sua purezza, e tutta l’anima nostra sarà data a lui solo; non soltanto una verginità fisica, ma una verginità anche spirituale che rifiuta ogni pensiero, ricordo e affetto che non sia per lui; tutto l’essere nostro si consuma in un atto di amore che ci unisce al nostro Sposo divino. E non solo la purezza, non solo la semplicità, ma anche l’umiltà; infatti, vivendo nella luce divina, avviene quello che avviene quando a mezzogiorno si vogliono guardare le stelle, e non si vedono più. E così io nella luce di Dio non mi vedo più, ho perso me stesso, non sono più nulla: egli solo è, lui solo l’Amato!

Non è questa la vera umiltà, l’oblio di noi stessi fino in fondo, fino a non saper più nulla di noi, nascosti, anzi cancellati dalla luce divina? Come dovremmo vivere le virtù di Maria! Vivremo le virtù di Maria se vivremo la nostra unione con Cristo, se vivremo il nostro abbandono allo Spirito, se impareremo dalla Vergine come si crede e come si ama.

Tutto qui; è tutto qui, ed è il Paradiso! Che il Signore ce lo faccia vivere oggi, e domani, e sempre; sia la nostra vita un crescere di questa luce, e sia la nostra vita un crescere della nostra fede, per accogliere sempre più la Vergine che viene, lo Spirito che ci investe, il Cristo che ci afferra e ci possiede. Sia questo il nostro cammino nella vita presente.

 

2.

LA MATERNITÀ DI MARIA E LA NOSTRA MATERNITÀ

 

(Omelia nella Messa in onore di Nostra Signora della Guardia Prima Lettura: Sir 24,1 – 2.5 – 7.12 – 16; Vangelo: Le 1,39 – 47)

 

Ci piace stamane meditare la prima lettura. Perché questa lettura è stata assegnata a una festa della Vergine? Il Siracide non parla forse della sapienza di Dio? Non è applicabile letteralmente il testo soprattutto al Verbo di Dio? Certo, ma il Verbo di Dio in quanto si incarna getta le sue radici in un terreno propizio, in una città che egli sceglie. Ora nella officiatura della Madonna noi vediamo che la Santa Chiesa sempre applica a Maria i salmi della santa città di Gerusalemme, della terra di Israele.

 

Essa è la terra da cui Dio ha tratto il nuovo Adamo, Gesù; essa è la santa città in cui dimorano i figli di Dio, secondo il salmo sulle fondamenta di Sion. Dunque giustamente la liturgia della Chiesa applica il testo anche alla Vergine, oltre che al Verbo Incarnato, perché il Verbo si incarna in lei, perché la Sapienza divina in lei prende carne e sangue per farsi presente nel mondo.

 

Dunque possiamo dire che la prima lettura praticamente ci parla della maternità di Maria, di quella maternità per la quale il Verbo di Dio, come si è detto, trasse da lei la carne e il sangue, dimorò nel suo seno, pose le radici e nell’anima sua germinò.

 

 

La nostra maternità

 

Questo testo, se si applica direttamente alla Vergine, indirettamente si applica ad ogni anima. Se Maria santissima è la Madre di Dio, questo non toglie che ciascuna anima sia partecipe di una divina maternità. È uno dei temi fondamentali della spiritualità cristiana, questa partecipazione alla maternità di Maria. In noi tutti il Cristo deve nascere, in noi tutti deve crescere e da noi tutti deve essere in qualche modo partorito e donato al mondo; e noi tutti dobbiamo imparare dalla lettura che abbiamo ascoltato stamane quello che importa questa maternità divina.

Che cosa dobbiamo vivere, perché possiamo partecipare a questo mistero? Certo, prima di tutto si impone la scelta di Dio. È Dio che sceglie, è Dio che elegge; fin dall’eternità ha eletto la Vergine pura per essere concepito nel suo seno e nascere da lei, ma l’elezione di ciascuno di noi non è meno vera della elezione di Maria. Certo, l’elezione di Maria è singolarissima, ma ciò non toglie che Dio ami anche noi, che abbia scelto anche noi fin dall’eternità. Una vocazione divina ci ha fatto suoi figli fin dalla nascita, e una volta battezzati, e una volta fatti figli di Dio, crescendo abbiamo ascoltato la sua Parola che ci invitava a una particolarissima unione con lui, ci invitava a vivere più intensamente la nostra vocazione cristiana chiamandoci alla divina intimità.

 

L’ascolto della Parola

 

È ben questo che inizia una divina maternità: l’ascolto della Parola. Perché che cosa è la Parola di Dio, secondo il Vangelo? «Semen est Verbum Dei», la Parola di Dio è «seme» che deve essere concepito nel cuore dell’uomo. La Parola di Dio non è vana, ma è il seme in cui si contiene la vita, e che attende soltanto di essere seminato in un terreno fertile e buono, perché possa attecchire, germinare e nascere.

Che cosa dice la Sacra Scrittura della vita spirituale della Vergine? San Luca lo ripete due volte: ella accoglie la Parola e la va meditando nell’intimo del suo spirito. Anche voi avete accolto la Parola di Dio. Avete ascoltato Dio che vi chiamava, avete ascoltato la Parola nel vostro cuore, avete risposto a questa Parola di Dio. Perché possiate, come Maria, essere partecipi a una divina maternità, si impone per voi di fare quello che ha fatto la Vergine: ascoltare la Parola, accogliere la Parola nel cuore, custodirla gelosamente nell’intimo. È la Parola stessa che in sé è efficace di vita, non siete voi a dare la vita alla Parola di Dio, ma siete voi che potete impedire questa vita così come un terreno non fertile, come un terreno non lavorato, come un terreno sassoso, come un terreno in cui germinano innumerevoli altri semi, che possono impedire il germinare, l’attecchire, il crescere di questa Parola in voi.

S’impone dunque, prima di tutto, che la vostra anima rimanga sgombra di ogni altra parola, si offra a Dio in purezza di amore, e si offra a Dio senza altro desiderio, altra volontà che quella di offrirsi alla efficacia di questa divina Parola. Allora la Parola di Dio in voi prenderà carne e si prolungherà in voi l’incarnazione del Verbo, non nel senso che si rinnovi l’Incarnazione – il mistero dell’Incarnazione è uno solo -, ma questo mistero coinvolgerà anche la vostra anima, così come coinvolge la vostra anima il mistero della divina maternità.

Il Cristo non sarà più soltanto il Figlio di Maria, sarà il figlio di tutta la terra, sarà il figlio di ogni anima che avrà accolto in sé la Parola. Mie care Sorelle, la grandezza della donna, la perfezione della donna è di essere sposa e madre. Voi non avete rinunciato né all’unione nuziale, né alla maternità; sarebbe una mutilazione della grandezza e della dignità della donna, e nemmeno Dio può chiedere tale mutilazione; può chiedere invece soprattutto un espandersi, un dilatarsi di questa stessa grandezza. Questa grandezza e questa dignità in voi non sarà una maternità umana, sarà l’unione nuziale con il Verbo, perché da voi nasca il Verbo medesimo, come vostro figlio.

 

Spose e madri

 

Voi dovete essere spose e madri: spose del Verbo, e madri del Cristo. Dovete essere madri, non solo nei riguardi di Gesù, Figlio di Dio, ma nei riguardi anche della Chiesa intera, perché il Cristo non è soltanto Gesù Figlio di Maria, è tutto il mistico corpo che egli unisce a sé, nell’unione di tutti i figli di Dio.

Non so se avete notato che nella Liturgia la Chiesa contempla il suo mistero non tanto negli apostoli o nei pastori della Chiesa, quanto nelle vergini e martiri nei primi secoli. È tipo della Chiesa intera la Vergine santa, è tipo delle Chiese locali, molto spesso, una beata o una santa: Lucia per Siracusa, Agata per Catania, Agnese per Roma, Blandina per Lione. Comunque è certo che la Chiesa si riconosce soprattutto nell’anima sposa e nell’anima madre, madre per una sua missione di maternità, nei confronti dei figli di Dio. Perché è vero che il Pastore della Chiesa deve guidare il gregge ai pascoli eterni, ma è vero che vi è una missione più segreta, e non per questo meno efficace, della donna che è madre.

La madre sta in casa, ma è lei che dona la vita; la madre non vive una vita pubblica come il Pastore di una Diocesi, ma è lei che ottiene e dona la vita ai suoi figli. Ed è per questo che in ogni Diocesi come è importante l’Episcopio così è importante il Monastero. Nella Curia Vescovile e nell’Episcopio sta il Pastore che guida, nel Monastero sta l’anima verginale, che non solo ottiene per sé che il Cristo viva nell’anima sua, ma ottiene per tutta quanta la Chiesa una fecondità che da lei soltanto può derivare, da lei in quanto è la Sposa del Cristo, da lei in quanto nell’unione col Cristo deve generare i figli di Dio.

Voi celebrate oggi la festa di Maria. La celebrate non solo perché è la vostra Madre, ma perché è il modello della vostra medesima vita, perché dovete contemplare in lei il vostro stesso mistero, perché noi tutti siamo partecipi della grazia cui ella è stata chiamata. Certo, in lei questa grazia è piena, in lei questa è la grazia di una maternità che si estende a tutta la Chiesa: ella è Madre di tutta la Chiesa.

Ma anche voi dovete essere in qualche modo partecipi di questa divina maternità. Pensate a Teresa di Gesù Bambino; è vissuta nel monastero, nascosta agli occhi degli uomini, è vissuta pochi anni e la sua pura maternità si estende a tutte le Missioni. Pensate alle vostre Sante; esse esercitano su tutta la Chiesa una missione di grazia per la quale, in qualche misura, la vita delle anime dipende dalla loro preghiera e dalla loro carità.

Come dunque vivere questa maternità divina? Si tratta di sgombrare il terreno perché la vostra anima accolga soltanto la Parola di Dio. Non avete bisogno di altre parole, solo la Parola di Dio viva in voi. Questa Parola ha tale potere da trarre a sé tutta la vostra vita, tutto l’essere vostro; ha bisogno, per nutrirsi e vivere in voi, di tutto quello che siete, di ogni vostro pensiero, di ogni vostro affetto, di ogni vostro sentimento. Non vi può essere sentimento, pensiero, non vi può essere affetto di cui egli non voglia nutrirsi: tutto dovete riservare a lui. Ecco l’esigenza viva di una divina maternità, che vi fa in qualche misura partecipi del privilegio stesso della Vergine pura: riservare a Dio tutta la vostra forza, riservare a Dio ogni vostro amore, ogni vostro pensiero. Tutto quello che sottraete a Dio, lo sottraete all’amore! Tutto quello che sottraete a Dio vi fa in qualche misura colpevoli di adulterio, rende impossibile in voi una divina maternità.

 

I santi sono necessari

 

Il Verbo di Dio, una volta asceso al cielo, si è reso invisibile al mondo; una volta asceso al cielo non opera più nella sua umanità, nella storia del mondo, e tuttavia il mondo ha necessità di vederlo, ha necessità di essere in qualche modo raggiunto dalla sua azione, dalla sua morte. Egli può essere reso visibile, egli può ancora operare attraverso di voi se in voi egli vivrà.

Ecco la necessità dei Santi. Il Santo non dice se stesso, dice Gesù; non è altro che una immagine vera del Cristo, non è altro che una presenza viva di Cristo Signore. Presenza viva, in cui egli si rende visibile al mondo, presenza viva in cui egli è operante ancora nella storia degli uomini. Se voi non dite Gesù, voi avete mancato alla vostra vocazione divina. Se voi non dite Gesù, voi non avete adempiuto quello che il Signore si aspettava da voi. Se attraverso la vostra vita non vivrà il Cristo, per le anime che a voi si avvicinano, voi non avrete vissuto fino in fondo quello che Dio vi chiedeva, perché Dio chiede a voi quello che ha chiesto a Maria: «Ecco, concepirai nel tuo seno, e darai al mondo un Figlio, e lo chiamerai Gesù».

Questa medesima parola è stata rivolta oggi a voi, e che cosa aspetta da voi il Signore se non il puro abbandono della Vergine all’azione della Spirito, perché in voi si compia la divina volontà? Fiat, ecco l’unica parola dell’anima: «Si faccia di me … ». La parola di Maria è un verbo al passivo, non dice: «Farò» … Che cosa possiamo fare noi nei confronti di quella vocazione divina a cui Dio ci ha chiamato? Troppo grande è quello che Dio ci chiede. L’unica cosa è il puro abbandono all’onnipotenza dello Spirito di Dio, perché in voi si prolunghi il mistero di questa Incarnazione divina, e voi siate oggi nel mondo sacramento vivo di Cristo, presenza vera e viva di Cristo Signore, perché questo è il mistero di una divina maternità.

Come il mistero della paternità di Dio: il Padre genera il Verbo, lo genera nel suo seno; così il Verbo divino è concepito e si incarna in voi, ma non viene partorito come qualcosa di distinto da voi, diviso da voi, voi dovete essere lui. Ascolto della divina Parola, umile custodia di questa Parola divina nel cuore, abbandono di noi stessi alla forza di questa Parola, tutto qui. Dio non ci chiede altro.

La vita cristiana, come vedete, è una cosa ben semplice; difficile perché noi siamo dispersi, difficile perché noi siamo superficiali, difficile sì, ma non complicata; è un atto di amore che sempre più ci stacca da noi stessi per donarci a lui, per essere posseduti da lui, perché egli possa fare di noi secondo la sua volontà, come dice la Vergine all’Angelo: si faccia di me secondo la tua volontà, secondo la forza della tua Parola, secondo la onnipotenza della tua Parola, secondo l’universalità di questa Parola.

 

Abbandonarci alla potenza di Dio

 

Quale misura può avere in noi la Parola di Dio se non la misura della nostra fede? In sé la Parola di Dio ha l’immensità stessa di Dio, ha l’onnipotenza stessa di Dio, ma siamo noi a dare una misura a questa Parola secondo la nostra fede. Ecco perché Elisabetta può dire alla Vergine: «Beata, tu che hai creduto, perché si compirà in te tutto quello che ti ha detto il Signore». E voi, mie care Sorelle, avete fede? Sì certo, una qualche fede l’avete; ma avete una fede grande, come è grande il dono che Dio vuole fare di sé alla vostra anima? Nessuno di noi ce l’ha! Perché? Perché il dono di Dio supera sempre la possibilità umana di aprirsi ad accoglierlo. Dio è l’infinito, Dio è l’immenso, e la creatura non potrà mai aprirsi tanto da accogliere l’immensità divina, così come essa è.

Tuttavia se non possiamo dilatarci nella misura di Dio, possiamo però crescere ogni giorno più nella fede. Ed ecco quello che si impone nella vita spirituale; il progresso dell’anima nella vita spirituale è il progresso della fede, come dice san Paolo nella Lettera ai Romani: «Ex fide in fidem». Tutto qui è il progresso, da una fede imperfetta a una fede più perfetta, ogni giorno più perfetta.

Voi tutte forse avete rinunziato ad essere sante come Margherita Maria, ad essere sante come Giovanna Francesca Frémyot di Chantal, ad essere sante come Francesco di Sales. Se avete rinunziato, non va bene, non potete rinunziare a nessuna santità. Forse non sarete sante come san Francesco, ma quello che si impone è che voi, cominciando il vostro cammino verso Dio, non poniate una misura al vostro crescere in lui. Voi dovete andare oltre, oltre ogni santo, oltre ogni coro degli Angeli, dovete salire fino al Trono dell’Altissimo, dovete divenire veramente le Spose del Verbo, dovete divenire veramente come la Madre; e della Madre di Dio è detto che è esaltata al di sopra del coro degli Angeli. Il nostro cammino tende a trascendere ogni limite, ogni misura. Forse poi, come ho detto prima, non raggiungeremo neppure la santità di quelli che oggi veneriamo quaggiù sulla terra, ma questo non è di per sé un motivo per rinunciare fin da oggi ad essere santi, come i più grandi santi della Chiesa, ad essere santi anche più dei santi canonizzati.

Non possiamo rinunziarvi, farà Dio. Se abbiamo questa fede, non è per presunzione e orgoglio, non è per ambizione umana, ma perché sentiamo nel cuore l’esigenza di un Dio che ci impedisce di dare una misura del suo crescere in noi. Non è per noi che vogliamo la santità, è per lui che vuole vivere in noi, perché nella misura in cui poniamo una misura alla nostra santità, in qualche modo contristiamo lo Spirito di Dio, soffochiamo lo Spirito di Dio in noi, lo costringiamo nelle nostre misure umane, lui che è l’infinito.

La Vergine, ecco il modello della vita dell’anima consacrata che sta in ascolto di Dio; che custodisce in un raccoglimento profondo la Parola che ha ascoltato e che si abbandona totalmente a questa Parola. È difficile l’ascolto perché la nostra anima troppo spesso è in ascolto di altre parole; non vogliamo ascoltare soltanto il Signore. Ma se difficile è l’ascolto, più difficile è custodire nel cuore questa Parola. Ci sembra di impoverire la nostra vita nel custodire soltanto quella Parola che abbiamo ascoltato.

Anche Eva, anche Adamo in un primo tempo ascoltarono la Parola di Dio, ma poi Eva ascoltò anche la parola del serpente. E noi dobbiamo mantenerci aperti soltanto alla divina Parola, per custodire questa sola Parola. Difficilissimo però, più difficile di qualsiasi altra cosa è questo abbandono puro nelle mani di Dio; un abbandono che esige una fede assoluta; una fede assoluta nei momenti di stanchezza, una fede assoluta nei momenti di aridità, una fede assoluta nelle tenebre, nella desolazione dello spirito, nel vuoto interiore, un abbandono totale alla onnipotenza divina. Credere sempre all’amore, credere anche quando tutto ci sembra vuoto, anche quando tutto ci sembra irreale, abbandonarci all’amore di Dio, non dubitare mai di Dio.

Spesso noi adattiamo Dio alla nostra anima, piuttosto che adattare la nostra anima a Dio, spesso noi adattiamo Dio, costringiamo Dio negli stretti confini della nostra piccola anima, della nostra piccola volontà, dei nostri desideri, ambizioni anche; ma tutte le ambizioni dell’uomo sono nulla, in paragone di quello che Dio vuole fare di un’anima che in lui si abbandona.

Certo, si paga la grandezza a cui egli ci chiama, come l’ha pagata la Vergine. Esaltata sopra tutti i cori degli Angeli, ella ha vissuto sulla terra una vita di nascondimento, di povertà, di martirio. Certo si paga, ma la vita di povertà, di nascondimento, di martirio non ha impedito alla Vergine di credere e di abbandonarsi totalmente all’amore. Così anche voi, se vivete una vita povera e umile, se vivete anche una vita di desolazione interiore, di aridità e di vuoto, tutto questo non vi impedisce di abbandonarvi, con un abbandono totale, a un amore che rimane onnipotente, che rimane infinito ed ha per termine voi, perché ciascuno di noi è amato da Dio, come se fosse unico per il suo amore infinito.

Abbandonatevi a Dio, di questo abbandono umile e pieno; non dubitate di Dio, ma tanto più cresca in voi la fede nell’amore divino quanto più Dio vi sottopone alle prove perché la vostra fede sia pura.

 

Le consolazioni di Dio

 

È facile credere quando Dio ci dà le sue consolazioni, ma questa fede che è facile, è una fede impura, perché noi crediamo che l’amore di Dio abbia un suo corrispettivo, una sua prova, una sua misura nelle consolazioni che egli ci dà. Quanto è più bello che Dio ci privi di ogni consolazione, perché allora la nostra fede può maggiormente adattarsi a Dio di quando egli ci dà le consolazioni. Quasi fatalmente noi adattiamo Dio alle consolazioni che riceviamo, e lo rendiamo abbastanza meschino, infatti, le consolazioni che Dio può darci su questa terra sono un nulla, paragonate alla gloria che egli ci riserva nel cielo. E proprio perché sono nulla non solo le tribolazioni, ma anche le gioie, dobbiamo saper rinunciare a queste consolazioni; chiederle soltanto nella misura nella quale ci sono necessarie per la povertà della nostra anima, convinti che è infinitamente più grande il peso di gloria che ci attende domani.

Viviamo questo mistero di una divina maternità come l’ha vissuto Maria, nell’umiltà, nella semplicità di una vita nascosta; viviamo la grandezza di questo mistero anche nella tribolazione di una vita che forse non conosce le gioie che hanno conosciuto altre anime. Facciamo credito a Dio anche nei momenti più duri della nostra esistenza; facciamo credito a Dio, egli ci ama. Non dubitiamo del suo amore, non dubitiamo della sua presenza, non dubitiamo della vocazione che egli ci ha dato alla santità. Lasciamoci possedere da lui, perché in noi viva lui solo. «In te ho posto le mie radici», dice la Sapienza nel libro del Siracide, come abbiamo ascoltato stamane.

Che in noi davvero getti le sue radici profonde, e nessuno possa più svellere questo albero della divina Sapienza che di noi si nutre, per vivere in noi. E non si tratta soltanto di un crescere del Cristo in noi; la Sapienza ha posto la sua dimora nella Santa Città, ognuna di voi è anche la santa città. San Pier Damiani dice che la Chiesa è una in tutti, ma è anche tutta in ciascuno. Perché voi, che dovete partecipare alla maternità di Maria, non dovete in qualche modo essere responsabili di questa Diocesi, di questa città, che Dio vi ha affidato? Ognuna di voi è la città, come Maria è la Città nella quale tutti nascono; ognuna dirà: sono nata in essa, ricordate il Salmo? Che tutte le anime possano dire di essere nate in voi, di ricevere la vita per la vostra preghiera, per il vostro sacrificio, per la vostra umiltà.

 

Responsabilità

 

È ben grande la vostra responsabilità davanti al Signore, grande come la dignità a cui Dio vi ha chiamate.

Non importa se il mondo non vi conosce. È così di fatto che Dio opera, così non altrimenti; solo quando il Cristo apparirà; apparirà anche la vostra grandezza, solo allora. Ora d6\!de vivere questa grandezza nel sacrificio, nella semplicità,e nell’umiltà, nel nascondimento più fondo, come Maria. Chi la conobbe fin tanto che visse quaggiù sulla terra? Ma ella è creazione nuova, che in sé tutti ci aduna perché tutti siamo nel suo seno, perché tutti siamo nel suo cuore.

E così tutti devono ricevere da voi la vita, che è Cristo Signore. Viviamo la partecipazione al mistero della Vergine; a questo ci chiama la nostra vita consacrata.

 

3.

IL SEGRETO DELLA SANTITA’

 

Si è detto che l’atto supremo della Vergine per divenire Madre di Dio è stato il suo abbandono allo Spirito divino; è in questo abbandono il segreto di ogni santità, perché santo è e rimane Dio solo, Dio che viene nel cuore dell’uomo, se l’uomo lo lascia vivere in sé.

Allora noi dobbiamo comprendere come il segreto della santità importi prima di tutto la presenza dello Spirito, e poi l’abbandono alla sua azione. Come si vive perché vi è in noi un primo principio semplice che ci dona la vita, l’anima, così possiamo vivere una vita soprannaturale se lo Spirito di Dio anima la nostra anima, la vivifica, ed è principio primo delle nostre operazioni soprannaturali.

Secondo il Concilio di Trento lo Spirito Santo è la causa «quasi» formale della nostra vita soprannaturale. È una espressione estremamente ardita, e la si comprende solo se noi ci ricordiamo che l’anima è considerata, dalla teologia e dalla filosofia scolastica, la forma del corpo, cioè il principio vitale che dona la vita all’uomo.

Se dunque lo Spirito Santo è la causa «quasi formale della nostra vita soprannaturale, ne viene che il principio primo delle nostre operazioni soprannaturali è lo Spirito Santo; e perché non sembri un cadere nell’eresia del panteismo, il Concilio di Trento non dice: «la causa formale», ma: la «causa quasi formale»: infatti le operazioni soprannaturali sono insieme dell’uomo e dello Spirito Santo.

San Paolo nella Lettera ai Galati (4,6) scrive: «Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo che grida Abbà, Padre!». Invece nella Lettera ai Romani (8,15) dice: «Avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!». Chi è che grida? È l’uomo o è lo Spirito Santo? È lo Spirito Santo, ma è anche l’uomo. Pur essendo lo Spirito Santo il principio delle nostre operazioni soprannaturali, esse sono anche nostre. Il soggetto sembra essere duplice, e ciò dice quanto lo Spirito Santo è intimo alla vita del cristiano. Sant’Agostino afferma che lo Spirito Santo è quasi l’anima della nostra anima.

 

Docilità allo Spirito Santo

 

Se dunque il segreto della santità è nell’abbandono all’azione dello Spirito, ne viene che tanto più saremo santi quanto più lasceremo che lo Spirito Santo viva in noi. Secondo l’autore principale della mistica della Compagnia di Gesù, Luigi Lallemant, la legge della santità è una sola: la docilità all’azione dello Spirito. Tanto questo è vero che san Giovanni della Croce poteva dire della Vergine: «In nostra Donna non vi fu operazione che non fosse di Spirito Santo». Queste parole fanno paura, perché in ogni ora che viviamo compiamo migliaia di atti fra esterni e interni. Pensare che nessun atto, in tutta la sua vita, non fu che di Spirito Santo, vuol dire che veramente Maria santissima viveva in Dio; la sua vita era in una pura e assoluta dipendenza dall’azione dello Spirito Santo, anche per ogni movimento intimo della sua immaginazione, del suo sentimento, della sua volontà, della sua intelligenza; in tutto viveva questa dipendenza assoluta dallo Spirito di Dio.

Dicevo che queste parole ci fanno anche paura, perché noi viviamo una vita così dispersa, così superficiale …

A me sembra più che straordinario il fatto che santa Gemma Galgani potesse dire che il suo peccato più grande era stato quello di dimenticarsi per un minuto di Dio, mentre aiutava il figlio dell’avvocato Giannini a fare un compito di matematica. Io penso che anche per voi, che pure vivete in monastero, passi qualche volta qualche minuto senza che vi sia il pensiero attuale di Dio. Se non altro la cuoca quando ‘attende al soffritto, perché non bruci, oppure una che sta alla ruota e deve ascoltare una persona che le parla di là … Ma non si tratta di stare un minuto senza pensare a Dio, si tratta invece di non vivere nessun atto interno ed esterno, se non in dipendenza dello Spirito di Dio.

Dobbiamo allora capire come è che questo Spirito vive in noi, e in che modo possiamo vivere la nostra dipendenza da lui. Prima di tutto, come è che lo Spirito vive in noi? Qui la teologia ha due soluzioni. Una soluzione, fino a poco tempo fa, la più comune, insegnava che tutta la Santissima Trinità vive in noi, ma senza che la distinzione delle Persone importasse un particolare rapporto dell’anima con ogni Persona divina. Tutto quello che si attribuisce al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo è per appropriazione, diceva la teologia fino poco tempo fa, comunemente. Oggi si preferisce dire che la Santissima Trinità abita in noi per il dono ipostatico dello Spirito Santo (non si tratta dei doni dello Spirito Santo: essi sono una conseguenza e un frutto del dono di lui stesso alla nostra anima).

 

L’inabitazione divina

 

Il mistero della Trinità noi possiamo concepirlo sia in un circolo chiuso, sia in una linea discendente. Quale è la concezione più vera? Anche qui i teologi possono essere di diversa opinione. Secondo la concezione teologica dell’Occidente, specialmente quella che deriva da sant’Agostino, il mistero della Trinità è concepibile, tanto per capirei, in un circolo chiuso. TI Padre genera il Figlio, il Padre e il Figlio come da unico principio spirano lo Spirito Santo, che è la loro unità. Secondo la concezione greca, e anche quella di san Basilio e di altri Padri dell’Oriente, che è stata riconosciuta ortodossa dalla Chiesa cattolica nel Concilio di Firenze, la Santissima Trinità può pensarsi in linea discendente. Dal Padre il Figlio, dal Padre per il Figlio lo Spirito Santo; è nello Spirito Santo che Dio si comunica al mondo. Non è che Dio debba donarsi; lo Spirito Santo viene chiamato dono -lo dice anche l’inno «Veni, Creator» -, non in quanto egli necessariamente debba donarsi; il dono è sempre gratuito, ma lo Spirito Santo è dono in quanto è donato. Se Dio si vuole donare, è nello Spirito Santo che si dona.

Naturalmente però, donandosi lo Spirito Santo, non possono non venire a noi anche il Padre e il Figlio, perché le Persone divine sono inseparabili fra loro; ma il dono è nel dono dello Spirito, è nello Spirito Santo che Dio si dona alle anime. Nel dono dello Spirito tutta la Santissima Trinità inabita, dimora nel cuore dell’uomo. Ricevere il dono dello Spirito vuol dire che noi ne diventiamo in qualche modo i possessori. Lo Spirito Santo diviene in qualche misura la nostra proprietà, noi possiamo usarne, ed egli può usare di noi. È proprio di qui che deriva la vita soprannaturale, per il fatto cioè che lo Spirito Santo, donandosi all’uomo, diviene in noi una capacità nuova di vita e di operazione.

 

Come arrivare a Dio

 

Con le potenze puramente naturali dell’intelligenza, della volontà, del sentimento, possiamo vivere una vita umana, ma né la nostra intelligenza può conoscere Dio, né la nostra volontà può veramente amarlo così da unirsi a lui, perché Dio è inaccessibile. Come è possibile per una creatura umana, e anche per gli angeli, superare l’infinita distanza che separa la creatura dal Creatore? Dio è inaccessibile, non possiamo mai arrivare a lui, né con la conoscenza né con l’amore. Dice il Concilio Vaticano che noi possiamo arrivare a conoscere che Dio è, cioè l’esistenza di Dio, ma non che cosa Dio sia, la natura di Dio. Se Dio non si rivela, noi possiamo capire che c’è un primo principio, un primo motore, una prima causa di questo mondo, ma non lo conosciamo: la conoscenza di Dio è conoscenza di fede, l’amore di Dio è dono della carità.

Le virtù teologali sono tali proprio perché non soltanto hanno per oggetto Dio, ma in qualche modo hanno come soggetto Dio. Nella fede è Dio che ci comunica la conoscenza che egli ha di se stesso, nella carità è Dio che vive nei nostri cuori. L’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani dice che la carità di Dio è stata diffusa nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ci fu dato: senza lo Spirito Santo dunque in noi non vi è la carità. Vi può essere la filantropia, vi può essere una benevolenza verso i poveri, vi può essere anche un certo desiderio inefficace di Dio, ma non l’amore di Dio, che a lui ci unisce.

Le virtù teologali suppongono lo Spirito Santo, che agisce in noi. Dio si è donato a noi nel suo Spirito, e con questo dono le nostre potenze spirituali hanno una nuova capacità, la capacità di raggiungere Dio, di unirsi a Lui, di conoscerlo, di amarlo, di vivere per lui.

Tutta la vita del cristiano è animata da questo divino Spirito, affinché le sue operazioni possano accostare Dio, raggiungere Dio, unirlo a Dio. Dobbiamo dunque prima di tutto comprendere che senza l’azione dello Spirito noi siamo totalmente avulsi a Dio, separati da lui, non solo in forza del peccato, ma in forza del fatto che siamo creature, e fra la creatura e il Creatore l’abisso è infinito. Rendiamoci conto che nemmeno gli astronauti riescono a raggiungere gli estremi confini della creazione, perché la vastità della creazione è sconfinata; chi potrebbe mai abbracciarla, chi potrebbe mai raggiungere il fine della creazione? Che presunzione stupida e assurda che la creatura possa raggiungere Dio per sé! È nello Spirito di Dio che questo è possibile.

Allora prima di tutto dobbiamo comprendere la necessità di questa presenza dello Spirito in noi. Vi è una differenza qualitativa infinita tra chi possiede la grazia e chi non la possiede, perché chi possiede la grazia possiede Dio, e Dio è infinito. Che cosa sono tutte le grandezze del mondo nei confronti di una piccola suora che vive in unione con Dio? Può aggiungere qualche cosa l’essere Presidente della Repubblica Italiana? Sono sciocchezze tutte le grandezze umane, sono pure sciocchezze nei confronti di questa grandezza: Dio è in me, egli vive in me e io vivo in lui!

Si tratta di crederlo davvero, questo, per viverlo: Dio vive in noi! E la presenza di Dio in noi imprime nelle nostre potenze spirituali una capacità nuova, la capacità della fede, la capacità dell’amore, la capacità della pura speranza, le virtù teologali.

Si parlava stamane della semplicità, ieri della purezza, si può parlare dell’umiltà, tutte queste virtù morali non sono che espressioni delle virtù teologali, perché in fondo non si vive la fede se non si vive l’umiltà, non si vive l’amore di Dio se non si vive la purezza del cuore; sono frutto ed espressioni della nostra vita teologale, della nostra unione con Dio.

 

Capire il dono di Dio

 

La prima cosa dunque che dobbiamo cercare di comprendere è questo magnifico dono che Dio ci ha fatto di se stesso. Se Dio è in noi, e noi siamo in lui, siamo già in Paradiso. Importa poco che siamo nella luce o nelle tenebre, non cambia nulla essenzialmente. Siamo gli stessi sia che viviamo nella fede e sia che viviamo nella visione, perché Dio è con noi e noi siamo con lui.

Sì, siamo già in Paradiso; se ancora non possiamo vivere pienamente la luce di questa visione, non per questo il nostro stato è diverso. Siamo compagni degli angeli, siamo amici dei santi, viviamo con loro. La vita spirituale altro non è che una anticipazione nella fede della vita beata, perché la vita beata è il possesso di Dio e noi già lo possediamo: abbiamo ricevuto il dono dello Spirito. Se crediamo realmente che Dio si è donato a noi nel suo Spirito, già possediamo il cielo, nulla di meno, e quello che importa è questo, che ora possediamo Dio, proprio perché venga trasformata tutta la nostra natura, perché nella vita presente tutte le nostre operazioni divengano operazioni divine.

Il Battesimo ci dona il dono dello Spirito e col dono dello Spirito avviene che noi siamo fatti figli di Dio, riceviamo come una nuova natura, una partecipazione, dice san Pietro, alla natura divina; ma per vivere secondo questa natura divina che abbiamo ricevuto, ci vorrà tutta la vita, se basta. Per i santi è sufficiente questa vita, la maggior parte dei cristiani devono passare attraverso il Purgatorio …

Chi di noi può dire di vivere pienamente come Dio, la vita stessa di Dio? Lo Spirito Santo che vive in noi può agire in noi solo se cresciamo in Dio. Bisogna crescere, come il bambino deve crescere per camminare, deve crescere per andare a scuola, deve crescere per arrivare ad essere professore d’Università. Ugualmente per la nostra vita soprannaturale abbiamo bisogno di tutta la vita per crescere in tal modo che l’azione dello Spirito Santo operi nelle nostre potenze. Fin tanto che le nostre potenze non sono capaci di accogliere l’azione dello Spirito, lo Spirito è in noi, ma noi non viviamo la vita divina. Lo Spirito Santo vive anche in un piccolo bambino, ma il bambino non è capace di vivere secondo la sua azione; lo Spirito Santo trova in lui delle potenze inadatte alla vita divina. Bisogna crescere, e nella misura in cui cresciamo lo Spirito agisce.

Quanto più l’anima nostra cresce non solo nella vita umana sul piano della intelligenza, ma sul piano della volontà, cioè delle virtù morali, tanto più acquista malleabilità e docilità all’azione dello Spirito. Per questo il cammino per giungere alla santità non è soltanto la docilità allo Spirito Santo. Lallemant diceva che, sì, la legge della santità è la docilità allo Spirito Santo, ma per essere docili allo Spirito Santo bisogna purificare il nostro cuore.

 

La purificazione del cuore

 

C’è dunque la necessità non soltanto di crescere nell’età per essere docili allo Spirito, ma anche di crescere nella virtù, che implica la liberazione da tutti i pesi, una libertà da tutti i legami. Nella misura in cui l’anima si purifica diviene capace di essere docile a Dio.

Allora il cammino dell’anima verso la santità prima di tutto esige una purificazione del cuore, una purificazione delle nostre potenze, sia del sentimento, sia dell’intelligenza, sia della volontà. Nella misura in cui purificheremo le nostre potenze, esse diverranno atte ad essere spinte, portate e sollevate dallo Spirito di Dio. È la purezza totale dell’essere che dobbiamo raggiungere, se vogliamo diventare docili allo Spirito. Fintanto che non avremo acquistato questa purezza potremo vivere una certa attenzione allo Spirito, una certa docilità, ma ci muoveremo faticosamente, con grande stanchezza e con grande fatica.

Il più grande maestro della spiritualità antica, Cassiano, diceva che la purità del cuore si identifica con l’agàpe, la carità; cioè, saremo portati dallo Spirito nella misura in cui saremo purificati; perché la vita cristiana è faticosa all’inizio, ma via via che si procede diviene sempre più facile, e al termine è un purissimo volo: «Qui Spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei» (Rm 8,14): sono figli di Dio quelli che sono guidati dallo Spirito Santo. È questo che dobbiamo vivere!

Ma come facciamo a riconoscere l’azione dello Spirito, per abbandonarci a lui? Questo è un problema grave per la vita spirituale, perché possiamo abbandonarci anche allo spirito del male, potremmo abbandonarci anche allo spirito naturale, al nostro spirito, piuttosto che allo Spirito Santo. Come facciamo a riconoscere lo Spirito Santo? Mediante la purificazione del cuore. Nella misura in cui non ci saremo purificati, possiamo sempre sbagliarci sull’origine di quelle mozioni che proviamo interiormente; crediamo di rispondere a Dio, di abbandonarci a Dio e invece ci abbandoniamo alla nostra natura. Non è sempre lo Spirito Santo che ci chiama a mortificarci, per esempio: può essere che sia proprio lo spirito del male che ci impone di mortificarci, per poi stancarci in questo cammino e farci rinunziare a tutti i nostri propositi per vivere la nostra vita, perché è troppo pesante quello che abbiamo intrapreso. È un problema molto grave questo, è una questione importante da affrontare, se vogliamo tendere verso il Signore.

 

I nostri peccati

 

La prima condizione necessaria per essere ben certi dell’azione dello Spirito, è che la nostra anima raggiunga una certa purezza interiore. Prima di tutto la purezza abituale dal peccato, non solo dal peccato grave, ma anche dai peccati veniali pienamente deliberati. Quello che ostacola enormemente l’azione di Dio non sono le nostre mancanze, egli sa che siamo delle povere creature, ma l’amore che abbiamo alle nostre mancanze. Diceva santa Bernardetta che a Dio non dispiacciono i nostri peccati, purché non li amiamo.

Come possono non dispiacere a nostro Signore i nostri peccati? Perché quello che dispiace a Dio è il peccato, sia pure leggero, quando è amato, quando l’anima antepone la sua volontà alla volontà del Signore. Le mancanze di pura fragilità forse il Signore le permetterà nella nostra vita fino alla morte, ed è una grande provvidenza” è una grande bontà che egli permetta le nostre mancanze, altrimenti alzeremmo subito la cresta. E invece no, ci sentiamo così poveri, così meschini anche dopo tanti anni di vita religiosa; ci fa molto bene, perché dobbiamo sapere che Santo unicamente è il Signore. Però se queste mancanze non sono volute, se non sono amate, se sono puri atti di fragilità, atti primo-primi della nostra natura, tutto questo non impedisce il nostro cammino verso il Signore. L’ostacolo fondamentale alla docilità allo Spirito Santo, all’azione dello Spirito Santo in noi, è una volontà che si rifiuta, e non dico nelle cose gravi, ma anche nelle cose leggere.

Il peccato veniale deliberato, pienamente deliberato, pienamente cosciente, questo è l’ostacolo formidabile a un avanzamento nella vita spirituale. Non vi dico che perdete la grazia, vi dico però che non avanzate fin tanto che non c’è in voi quello che san Francesco di Sales chiamava «la santità del cuore». La santità della condotta potete averla forse dieci giorni prima di morire, perché è soltanto l’espressione esterna di quello che Dio opera nell’intimo. Spesso la scorza esterna rimane un po’ rozza. Ma è bellissimo questo, è meravigliosa l’azione di Dio che lascia proprio la scorza e lavora nell’intimo; così si vive soltanto per lui e non per le consorelle, per farci da loro venerare. Lasciate pure che le Sorelle vi vedano imperfette; l’importante è che Dio lavori nella vostra anima e trasformi il vostro cuore.

È dunque questa la prima cosa che dovete vivere, la santità del cuore; questo donarvi a Dio pienamente, questa purezza di un’anima che non vuole consentire a nulla che si opponga alla volontà divina. Se possedete questa purezza, e la dovete possedere, allora si renderà in voi sensibile l’azione dello Spirito Santo.

 

Con Dio c’è tutto

 

La cosa più importante è che Dio si dona all’anima; una cosa meravigliosa! Si può desiderare di più? Diceva la beata Maria dell’Incarnazione: è ben avara quell’anima che non si contenta di Dio. Che cosa mi rimane da desiderare se Dio è tutto per me? Ricordate la preghiera di san Giovanni della Croce: miei sono i cieli, mia è la terra, mia è la Madre di Dio, miei gli angeli e i santi. .. perché Gesù è tutto mio e tutto per me, e prima di Gesù è lo Spirito Santo che mi è stato donato, Dio stesso. Non posso desiderare più nulla, non posso volere più nulla, già posseggo ogni cosa. La mia gioia è già immensa anche se vivo nella pena; è certo una gioia tutta dello spirito, perché rimane la sofferenza fisica, può rimanere anche l’angoscia interiore sul piano psicologico, ma lo spirito, almeno il vertice dello spirito, già è toccato dalla luce indefettibile di Dio: Dio è mio, è tutto per me!

Vivere questa consapevolezza, e poi capire che Dio si è dato a noi per fare di noi, del nostro corpo, del nostro essere, lo strumento delle sue operazioni. Il <<Veni, Creator» dice che lo Spirito Santo è il dito della destra dell’Altissimo: «Dextrae Dei tu digitus». Ebbene, l’uomo è come un’arpa. Avete mai sentito suonare l’arpa da sé? Bisogna che ci passi un dito, allora emette un suono meraviglioso; ognuno di noi è questa arpa su cui passa il dito di Dio. Lo Spirito Santo ci è donato perché attraverso di noi si elevi a Dio un canto di lode, un canto di amore. Il dono dello Spirito ci è dato per trasformare tutta la nostra vita in un canto di pura lode al Signore, come la vita degli angeli, come la vita dei santi. Ma perché tutto questo avvenga bisogna accordare l’arpa, bisogna acquistare la purezza di cuore.

Prima di tutto bisogna crescere, crescere anche umanamente, e non solo sul piano fisico del corpo ma sul piano morale delle virtù, liberarci dunque da tutti i vizi, purificarci da tutto quello che è impedimento e ostacolo a Dio: l’impurità del cuore, la deviazione dell’intelligenza, la deviazione della volontà; tutto deve sciogliersi, dobbiamo liberarci da ogni legame che ci impedisca di correre, di essere portati via dallo Spirito.

La purità di cuore: il cammino dell’anima per raggiungere Dio è questa purificazione. Questa è attiva, certo, ma in ordine a una passività. La nostra attività nell’esercizio delle virtù è soltanto una preparazione perché poi Dio intervenga e prenda il timone della nostra nave e ci porti. L’esercizio della nostra attività è dunque in ordine a questa purificazione, purificazione dei sentimenti, purificazione della volontà, purificazione dell’intelligenza, purificazione di tutte le nostre potenze interne; della memoria, per non vivere che la pura presenza di Dio, perché Dio non è nel passato e non è nel futuro, egli è il presente, egli è l’eterno presente.

 

Sulle ali dello Spirito

 

Per quanto riguarda l’intelligenza, bisogna che sia totalmente illuminata da Dio. Avete mai visto le stelle di giorno? Le sapete contare di giorno? Così la presenza di Dio, la luce divina, deve cancellare ogni altro pensiero: Dio solo!

E come la vostra intelligenza non deve conoscere che Dio, così la vostra volontà non deve amare che lui.

Raggiunta questa purezza, interviene lo Spirito e ci porta e ci solleva. È necessario che sia lo Spirito a sollevarci, perché per giungere al cielo bisogna volare, essere portati via dallo Spirito, che conosce una sola dimora, il Seno del Padre, in modo da ascendere al di sopra di tutti i cieli, nell’ascensione stessa del Cristo, come Maria. E si noti bene, Gesù ascende ed è attivo, è lui che ascende, invece Maria santissima non ascende, è assunta. Anch’io devo essere assunto, debbo essere portato via, devo essere totalmente abbandonato all’azione dello Spirito, perché lo Spirito mi porti con sé: «Qui Spiritu Dei aguntur ii sunt Filii Dei!».

Bisogna volare come tanti aquilotti portati sulle ali dell’Aquila Reale, che è lo Spirito Santo. È quello che cantiamo con Mosè nelle lodi del sabato della seconda settimana della Liturgia delle Ore: «Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali» (Dt 32,11).

Attente a stare ferme, perché se vi movete e volete guardare in basso, abbandonate le ali dell’aquila e precipitate giù nel fondo. Per camminare bene, per volare bene voi lo sapete quale è la legge fondamentale: quella di stare fermi; tanto più si vola quanto più si sta fermi, in Dio però, in Dio. Sono le ali dell’Aquila divina che ci sollevano a Dio, fermi in Dio; questa è la prima legge che si impone all’anima che veramente vuole ascendere fino al cielo.

Che il Signore ci doni questa purificazione del cuore, e poi questo rimanere fermi in Dio, questo abbandonarci a Dio e non riprenderci più, perché Dio ci sollevi a sé. Mi sembra che sia questa la prima condizione per vivere la nostra risposta al Signore.

 

4.

L’AZIONE DELLO SPIRITO SANTO IN NOI

 

Il discernimento degli spiriti

 

Se vogliamo capire come Dio agisce in noi, per riconoscere la sua azione, dobbiamo ricordare che lo Spirito di Dio è Creatore. Con questa parola si intende dire che l’azione dello Spirito Santo in noi ha i caratteri di una creazione, che si dilata e cresce. Quali sono i caratteri propri dell’azione dello Spirito Santo, come possiamo riconoscerli, e sapere se veramente siamo condotti dallo Spirito di Dio?

La dottrina che risponde a questa domanda è antica quanto il cristianesimo, anzi più del cristianesimo, perché si trova già negli scritti di Qumran e nel Vangelo. Dopo il Vangelo, uno degli scritti fondamentali della prima letteratura cristiana è «Il Pastore» di Erma, scritto nel 140; poi la troviamo in sant’Agostino e in tanti altri Padri della Chiesa, fino a san Bernardino da Siena, all’Imitazione di Cristo, a sant’Ignazio di Loyola e altri santi: È la «discretio spirituum», il discernimento degli spiriti.

Un grande scrittore di spiritualità cristiana del quinto secolo, Diadoco di Foticea, in un libro di cento capitoli sulla perfezione spirituale ci aiuta a capire quando e come lo Spirito Santo agisce in noi. È importantissimo, perché noi possiamo essere condotti dallo spirito del maligno anziché dallo Spirito di Dio.

Come conoscere dunque l’azione dello Spirito Santo in noi? Rispondo: lo Spirito è Creatore, l’azione dello Spirito di Dio in noi è un’azione che continua la creazione dell’uomo. Questa continuità di creazione importa una fedeltà. Noi dobbiamo dubitare delle anime instabili, delle anime che oggi vogliono essere contemplative e vivere soltanto nell’estasi, e domani vogliono invece vivere un servizio al prossimo che non le lasci più in riposo. Evidentemente qui non vi è lo Spirito di Dio.

Lo Spirito di Dio esige continuità, cioè la fedeltà ai suoi impulsi, che portano l’anima in una data direzione.

Nella vita spirituale non si può pretendere di giungere a nessuna mèta se andiamo vagando qua e là, diretti ora da una parte ora dall’altra, se ora vogliamo una cosa e ora un’altra. Per questo, in tante Congregazioni religiose è legge che non si prenda mai una persona che venga da un’altra Congregazione, da un altro Istituto. Ci possono essere casi eccezionali, lo si è visto anche nella storia della santità cristiana: persone che appartenevano a un certo Istituto e poi Dio le ha portate a fondare altre Congregazioni. Ma anche in questo caso conservano lo stesso spirito; è indubbio, per esempio, che la beata Anna Michelotti, cresciuta alla spiritualità salesiana, l’ha mantenuta nella fondazione della sua Congregazione di vita attiva. È indubbio che Luisa Margherita Claret de la Touche ha conservato la spiritualità salesiana, anche se ha fondato Betania. Dio può anche volere che escano da una Congregazione delle anime, ma per una particolare missione, che non potrebbe essere vissuta rimanendo nello stesso Istituto.

Ma la vita è una sola, e anche se voi siete venute fuori dalla vostra famiglia, non vi hanno cambiato il sangue; voi rimanete figlie di una certa famiglia con un certo tipo sanguigno, perché l’uomo non può cambiare sostanzialmente; e se non cambia sostanzialmente sul piano biologico per quanto riguarda la vita fisica, non può cambiare nemmeno spiritualmente per quanto riguarda la vita spirituale. La spiritualità è una sola. Non si può essere Carmelitana e poi diventare Salesiana, altrimenti non è né Salesiana né Carmelitana. Lo spirito è uno, quando veramente lo si possiede.

 

Unità e fedeltà

 

Vivere in dipendenza dallo Spirito Santo vuol dire perciò mantenere la propria fisionomia. Evidentemente la vita implica una continuità, una fedeltà, e vi sono delle famiglie di anime che hanno particolari caratteri. Non è detto che i santi, pur essendo tutti perfetti nella carità, si somiglino; al contrario, quanto più divieni santo, tanto più hai caratteri propri. I bambini più o meno si somigliano tutti; fanno capricci, giocano … È crescendo che le diversità si manifestano, ma queste diversità di carattere implicano una continuità nel cammino. Fin da bambino si vedono le predisposizioni; così avviene anche nella vita spirituale. La continuità!

Voi avete ricevuto una vocazione, che probabilmente affonda nella vostra puerizia, nella vostra infanzia. Certo non vivete oggi quello che vivevate trent’anni fa, se avete vissuto siete cresciute; è mai possibile arrestare la vita? Così anche nella vita spirituale, certamente se si vive si cresce; ma il crescere non vuol dire che diveniamo diversi: cresciamo in una certa direzione, perché fin da giovani avevamo una certa vocazione, non carmelitana, non benedettina; una vocazione che poi si è chiarita, per esempio alla spiritualità salesiana, che vi ha realizzate sul piano cristiano.

Continuità nel cammino, fedeltà alla stessa vocazione. Non saremo mai santi se non saremo fedeli alla prima vocazione che ci ha dato Dio, perché Dio non cambia, siamo noi che cambiamo; ma il cambiamento nostro vuol dire sottrarci alla mano di Dio. Quello che Dio ha voluto per noi fin dall’eternità, quello rimane: egli ci ha chiamati con un nome fin dall’eternità, e soltanto realizzando quel nome noi saremo santi, non altrimenti, in nessun modo. Il cammino nostro verso Dio è uno, ed è la realizzazione di quella Parola, di quel nome con cui ci ha chiamati quando ci ha creati. La nostra vocazione è la creazione medesima, che poi si compie nel tempo; ecco perché dicevo che la creazione dell’uomo è un atto continuo che dura per tutta la vita.

Fedeltà, ecco la prima esigenza dello Spirito di Dio. Siamo sicuri che non è lo Spirito di Dio che ci chiama se oggi vogliamo essere un’anima di austere mortificazioni e ci mettiamo addosso chili di ferro tra cilici, corde e catenelle, e domani vogliamo essere un’anima di fuoco predicando a tutto il popolo cristiano, e il terzo giorno vogliamo essere un’anima contemplativa che vive soltanto nelle nuvole; così non viviamo né la vita contemplativa, né la mortificazione, né l’apostolato, ma soltanto la nostra volontà, anche se questa volontà si esprime in una vita di mortificazione, o in una vita di apostolato, perché non abbiamo cercato che noi stessi, non siamo stati in ascolto di Dio.

Non c’è un essere più santi qui, un essere più santi là; la carità può assumere tutte le forme, può seguire tutte le vie, ma una cosa sola si impone all’anima che vuole avere carità: il dono totale di sé e l’abbandono totale di sé all’azione dello Spirito Santo, che porta un’anima per una via e l’altra anima per un’altra via. Non possiamo essere gelosi degli altri o invidiosi di un’altra anima che Dio chiama per un’altra strada; sarebbe un amare noi stessi, il nostro pensiero, la nostra volontà, non Dio.

La fedeltà è la prima cosa che si impone; senza la fedeltà non c’è continuità di un cammino, e senza la continuità di un cammino non c’è nemmeno un progresso.

È evidente che la strada rimane unica e si deve proseguire per quella, perché l’instabilità non viene da Dio; da Dio viene la fedeltà, non l’instabilità. Ecco il primo carattere in cui si riconosce l’azione dello Spirito Santo, se il nostro cammino è continuo; certo, siamo cresciuti, ma rimaniamo gli stessi. Come nella vita naturale si cresce, ma si rimane gli stessi, così anche nella vita spirituale: si cresce, ma sempre mantenendo lo stesso spirito; cresce in noi il possesso che lo Spirito ha di noi stessi, ma nella continuità e nella fedeltà allo stesso ideale.

 

Gioia e pace

 

Ma non si tratta soltanto di fedeltà; il crescere implica anche la dilatazione dell’anima: crescere vuol dire dilatarsi, vuol dire divenire più grandi, più grandi nel nostro spirito, più grandi nel nostro amore … e la dilatazione implica la gioia. Il freddo, diceva san Serafino di Sarov, è il segno del demonio; e san Francesco di Sales: un santo triste è un tristo santo, e san Francesco di Assisi: la tristezza è il male di Babilonia. Ecco perché il carattere proprio dell’azione dello Spirito è la dilatazione dell’anima nella gioia, una gioia pura, una gioia spirituale, se volete, ma una gioia vera, l’anima si dilata nella libertà, si sente più sciolta, più libera via via che cammina verso Dio. Non è appesantita, affaticata, non si sente prigioniera, non si sente legata; nella misura in cui risponde a Dio acquista un senso di libertà e di gioia, si dilata nell’amore.

Rispondere allo Spirito vuol dire conoscere sempre più questo crescere di vita, questo crescere di gioia, questo crescere di libertà interiore. È il secondo carattere della vita divina in noi.

Il terzo carattere è la pace: l’anima sente la pace, l’anima ha l’ansia di una perfezione sempre maggiore, tuttavia nel suo intimo vive una pace, una serenità mirabile, perché ha trovato il suo riposo, il suo fondamento: «Deus meus firmamentum meum», mio Dio fermezza mia, mia roccia su cui io ho fondato la mia vita; si sente non sospesa nel vuoto, ma sorretta dalle mani di Dio.

Avete presente quello che dice Gesù al termine del sermone della montagna. «A chi paragonerò l’uomo che compie quelle cose che vi ho detto? A un uomo che costruisce la casa sulla roccia; vennero venti e venne la tempesta e la casa non si scosse. A chi paragonerò colui che non obbedisce a queste parole? A chi costruisce sulla rena; vennero i venti e vennero le piogge e fu grande la sua rovina» (cf Mt 7,24 – 27).

Il terzo carattere dell’azione dello Spirito è precisamente il sentire che quanto più tu rispondi, tanto più la tua anima trova la pace, trova la sua stabilità, la sua fermezza, la sua sicurezza interiore; non oscilla più, ma rimane ferma, immutabile come immutabile è Dio. Sono questi i caratteri propri dell’azione dello Spirito in un’anima in quanto è creatura.

Ma questi caratteri possono anche essere i caratteri dell’orgoglio; la testardaggine può apparire come la fedeltà a un ideale, una certa facilità nella gioia può essere anche segno di leggerezza e di superficialità. E allora come riconoscere l’azione dello Spirito? Vi è un particolare segno più grande e più sicuro ancora di quelli che vi ho dato, perché dopo che l’uomo ha peccato la creazione stessa diviene ambigua. Non è il fatto del crescere nella creazione che ci assicura una vita spirituale e la santità, perché il crescere, dal momento che abbiamo deviato con il peccato dalla via che ci conduce a Dio, può portarci anche più lontani da Dio.

 

I segni dell’azione dello Spirito

 

Quale è dunque il segno più sicuro dell’azione dello Spirito? Certo, Dio è creatore, ma soprattutto è salvatore, dopo che l’uomo ha peccato; egli ci redime e ci salva, eliminando l’ambiguità del peccato, risanando la nostra natura.

E il nostro Redentore è Gesù. Per sant’Ignazio di Loyola il carattere più proprio dell’azione dello Spirito è il «sentire cum Ecclesia», sentire con la Chiesa, il vivere dei sentimenti stessi della Chiesa, inserirsi sempre più profondamente nella Chiesa. È il carattere specifico di un apostolo che lavora per la Chiesa nel ministero. Per un’anima contemplativa il medesimo carattere si concentra nell’amore per Cristo: non amare nulla al di sopra di Cristo, non amare che Cristo, non volere che lui.

È l’insegnamento che vi dà proprio la storia del vostro Ordine. Non avete tra le vostre Sorelle santa Margherita Maria Alacoque? Non ha insegnato lei quanto Gesù ci ha amato e come noi dobbiamo riamarlo? Non è precisamente questo l’insegnamento fondamentale anche del vostro Padre e Fondatore, il Dottore dell’Amore? L’amore per Cristo! Ecco quello che distingue l’azione dello Spirito; l’azione dello Spirito è quella di operare l’incarnazione del Verbo, lo dice anche il Credo: «Per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine».

Se dunque la nostra vita spirituale non può essere altro che una identificazione progressiva col Cristo, lo Spirito Santo non può vivere in noi che in quanto ci unisce a Gesù, in quanto ci porta a Gesù, in quanto rende sempre più esclusivo in noi l’amore per Cristo Signore. Ed è questo il carattere proprio dell’azione dello Spirito, da questo noi riconosciamo se siamo animati dallo Spirito del Signore, da questo noi riconosciamo se le ispirazioni che riceviamo, le mozioni interiori che riceve il nostro spirito, vengono dallo Spirito Santo, o dipendono dallo spirito naturale, o dipendono dallo spirito maligno.

Prima di tutto verifichiamo se queste mozioni implicano un crescere della nostra vita spirituale nella fedeltà, nella gioia e nella pace; e poi se questo crescere nella fedeltà, nella gioia e nella pace ci unisce sempre più a Cristo Signore, ci fa identificare sempre più a lui, e rende sempre più viva in noi la passione per Cristo e per la sua Chiesa. Questa in poche parole è la dottrina del discernimento degli spiriti.

La vita spirituale è prima di tutto rapporto di amore, e il rapporto di amore come suppone l’amante suppone l’amato: si può amare se non c’è uno da amare? Se dunque tutta la vita cristiana è amore, l’amore suppone la presenza dell’amato, del Cristo. Tutta la vostra vita implica di per sé la presenza di lui; senza questa presenza noi andiamo vagando qua e là, possiamo vivere le virtù, ma solo come esercizio di etica naturale, come esercizio di morale. No, la vita cristiana non è esercizio di moralità, è un rapporto di amore, e le virtù che esercitiamo sono espressione di questo amore per lui. Ma non sì può amarlo se lui non c’è. Perciò è necessario per noi che il Cristo sia reale, divenga sempre più reale e sempre più vivo.

 

Cristo nostra vita

 

Vivere il Cristo, sentire la realtà del Signore, vivere questa realtà, questa presenza, questa concreta realtà di un Dio che ci ama e che noi vogliamo riamare, ecco quello a cui ci porta lo Spirito Santo. Per lo Spirito Santo il Figlio di Dio si è fatto uomo e gli uomini lo hanno veduto, lo hanno toccato, lo hanno ascoltato. Lo dice san Giovanni nella sua prima Lettera: « … quello che i nostri occhi hanno veduto, quello che i nostri orecchi hanno udito, quello che le nostre mani hanno toccato, il Verbo di Dio, questo noi annunciamo». Ed è questo che voi dite al mondo; non dite che siete buone, che siete umili, che siete modeste … tutto questo verrà da sé, ma voi dite al mondo: io ho conosciuto Gesù, io lo ho amato, Gesù, la mia vita non è che lui!

Gesù è più reale di voi stesse, Gesù è veramente la vita e la realtà unica; vivere con lui, vivere di lui, ecco ciò a cui vi porta lo Spirito. È soltanto lo Spirito che vi dà gli occhi per vederlo; se lo Spirito Santo non vive in voi, il Signore rimane nascosto, segreto, rimane invisibile; se lo Spirito Santo non vi apre le orecchie voi non ascoltate la sua Parola. Ma se vivete in dipendenza dallo Spirito di Dio, voi avete nuovi occhi per contemplare una nuova realtà, e la realtà è il Signore che vi ama, voi avete nuovi orecchi per ascoltare, e ascoltate una Parola che vi chiama, il Signore; voi avete, sì, un nuovo gusto: «gustate e vedete quanto è buono il Signore», per gustare la dolcezza di Dio. Voi conoscete un profumo che vi inebria e vi porta via: è il passaggio del Signore! Non è così? Al mondo di quaggiù, ecco, è subentrato per voi un mondo nuovo. Come è piena la vostra vita della sua Parola, come è dolce l’ascoltare la voce di Colui che vi ama ed è con voi. La voce, noi l’ascoltiamo … Tutta la nostra vita è piena di una voce dolcissima, di una Parola che continuamente risuona ai nostri orecchi e chiama per nome.

La nostra vita spirituale è veramente questo aprirsi dei sensi spirituali a una presenza reale, la presenza reale del Cristo. Sì, è vero, lo Spirito Santo è fedeltà, è gioia, è pace, ma è soprattutto questa presenza del Cristo, che si fa sempre più viva, più reale per noi; questa presenza del Cristo al quale lo Spirito Santo ci unisce sempre più intimamente, ora come un maestro col discepolo, poi come un amico, poi come un fratello, poi come uno sposo per divenire con lui un solo corpo, per vivere con lui una medesima vita.

 

Cristo nostro amore

 

Questa è la vita dello Spirito, questa unione ineffabile col Cristo, questa realtà di una presenza sua, questa nostra identificazione sempre più piena con Cristo Signore. Noi siamo portati dallo Spirito del Signore se veramente Gesù diviene sempre più vivo e reale per noi; e questa è la vita del cielo: una bellezza, una gioia, una purezza di amore che ci trasporta fuor di noi stessi; è come un’estasi continua la vita dello Spirito in noi, perché di fatto lo Spirito ci trasporta fuor di noi stessi in lui, ci fa vivere in Cristo.

Questa è l’azione dello Spirito, un aprirsi dei sensi spirituali, una esperienza totalmente nuova, che è l’esperienza di Dio, ma di un Dio fatto carne per me, non di un Dio nei suoi attributi essenziali, che potrebbe essere soltanto una contemplazione filosofica dell’Essere; un Dio che è tutto amore e mi ha scelto per sé, un Dio che è tutto amore e mi dona se stesso, un Dio che è tutto amore e mi unisce a sé, perché io viva con lui una medesima vita.

È ben altra la gioia che ci dona lo Spirito dalla gioia che nasce soltanto dalla superficialità di un’anima che non riesce nemmeno ad essere turbata, è ben diversa la fedeltà di un’anima a Cristo dalla fedeltà di un’anima a se stessa per testardaggine o per orgoglio; è ben altra la pace di un’anima che si sente amata da Dio, che riposa nelle braccia di Dio, dalla pace di un’anima che non si lascia turbare da nulla perché è come insensibile a tutto.

Altra è la pace di Dio, altra è la gioia di Dio, altra è la fedeltà di Dio: è la fedeltà, è la gioia, è la pace dell’amore, di un amore che non soltanto a noi si dona, ma in sé ci trasforma. E come Dio è veramente l’Amore che ci ama, così noi diventiamo l’amore che ama; trasformati da lui noi diventiamo amore, come Egli è l’Amore!

San Paolo ce lo ha detto: la carità di Dio, l’amore cioè, è diffuso nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ci fu dato (cf Rm 5,5). Si tratta di vivere questo, e lo vivremo scartando tutto quello che dal Cristo ci allontana, tutto quello che ci impedisce di vederlo. Spesso siamo distratti non tanto dalle cose umane, quanto da noi stessi: ci guardiamo troppo allo specchio. Ma diceva già il libro delle Odi di Salomone, scritto nel primo secolo dell’èra cristiana, che il nostro specchio è Gesù! Se ci guardiamo in lui immediatamente vediamo che cosa ci manca; ma questo non ci impedirà di volgerci a lui, di guardare soprattutto a lui, di vederci in lui, in tal modo che ci dimentichiamo di noi stessi, per imparare come in lui dobbiamo trasformarci.

Spesso l’anima non fa che girare intorno a se stessa, invece di vedere Gesù. Se crediamo davvero abbandoniamo a lui i nostri peccati, abbandoniamo a lui le nostre miserie; egli le ha prese tutte: vuole da noi quello che siamo, e siamo soltanto miseria e povertà; ma egli ci dona se stesso, che è l’Infinito!

Guardiamo il Signore. Egli sia il nostro mondo. Dimentichiamo noi stessi, le nostre virtù come i nostri peccati; impariamo a vivere fuor di noi stessi la visione pura del suo Volto divino.

Dobbiamo far sì che lo Spirito Santo, trasportandoci fuori di noi stessi, ci faccia vivere in Cristo, in Cristo puramente, in Cristo soltanto, e tutto il nostro mondo per noi sia Gesù. Dovremmo arrivare a vivere quello che dice santa Teresa di Gesù: «Vivo in tale oblio di me stessa, che non ricordo nemmeno di esistere».

Impariamo dalla Vergine, viviamo in tale oblio di noi stessi, così rapiti dall’amore del Cristo da non vedere più che il Signore, da non amare più che lui. Questa deve essere in noi l’opera dello Spirito Santo.

 

5.

I DONI DELLO SPIRITO SANTO

 

Abbiamo detto che l’azione dello Spirito Santo si manifesta a noi, ed è garantita dal fatto che lo Spirito Santo è creatore, perciò dilata la nostra anima, dona alla nostra anima di seguire un cammino di fedeltà, dona alla nostra anima la pace.

Ma la garanzia più perfetta è il fatto che l’azione dello Spirito Santo ci porta a Gesù, ci fa conoscere il Cristo, ci fa amare Gesù, ci mette in rapporto sempre più vivo e reale con Cristo Signore, fino a una nostra identificazione con lui. Tutto questo è vero, ma in che modo lo Spirito Santo opera in noi?

L’azione dello Spirito investe le nostre potenze e fa sì che esse, l’intelligenza, la memoria, la volontà e il sentimento, divengano organi di una vita divina.

 

L’azione dello Spirito

 

Vi è un’azione della grazia ordinaria che santifica il nostro agire umano. Il nostro agire non supera il modo proprio della nostra natura, ma lo Spirito Santo, risanando la nostra natura, fa sì che le nostre operazioni, pur essendo pienamente umane anche nel loro modo, siano conformi alla volontà di Dio e perciò siano anche azioni di grazia. Ma in questo caso non è l’azione dello Spirito di Dio, è la grazia ordinaria che fa tutto questo; invece l’azione dello Spirito tende di per sé a rendere le nostre operazioni quasi divine, come dice san Tommaso d’Aquino: chi è animato dallo Spirito di Dio agisce «ultra humanum modum», in modo sovrumano, più alto, superiore alle possibilità proprie dell’uomo ordinario.

Le nostre potenze sono tante; lo Spirito di Dio agisce in esse attraverso quelli che si chiamano i doni dello Spirito Santo. Per capire la differenza che esiste tra il dono dello Spirito e i doni dello Spirito Santo possiamo proporre un esempio, di per sé comune, ma molto efficace per comprendere.

Il Deuteronomio dice che Dio è fuoco, «Deus ignis consumens est» (Dt 4,24). Dice la prima lettera di Giovanni che Dio è luce, «Deus lux est» (l Gv 1,5). Lo Spirito Santo che vive in noi è come fuoco e luce.

Il fuoco che cosa fa? Riscalda. E che cosa fa la luce? Illumina. Essere illuminati ed essere riscaldati sono gli effetti del fuoco e della luce. Il riscaldamento non è il fuoco, essere illuminati non è la luce; si subisce la luce, non siamo la luce, o se volete, siamo come la luce riflessa. Altra è la luce del sole, altra è la luce della luna; la luna non ha luce propria, ma illuminata dal sole rifrange questa luce, riflette questa luce anche sulla terra.

Così è l’anima; l’anima non è lo Spirito Santo, lo Spirito Santo non è l’anima anche se egli è la «quasi forma», la causa quasi formale della nostra vita spirituale; però non si confonde mai con l’anima nostra, altrimenti si cadrebbe nel panteismo. Lo Spirito Santo rimane lo Spirito Santo e noi rimaniamo noi, però lo Spirito Santo che vive in noi è come un fuoco che ci riscalda, è come una luce che ci illumina e in qualche modo ci trasforma in luce.

Questa azione mediante la quale le nostre operazioni divengono quasi divine, certo superiori al modo umano di agire, non è operata direttamente dallo Spirito Santo, ma dai suoi doni: cioè lo Spirito Santo agisce sulle nostre potenze trasformandole nel loro potere, nella loro capacità.

Noi siamo uomini perché abbiamo l’intelligenza, ma il cristiano normale vive una fede che è adesione a verità che egli non comprende; e vi aderisce perché la Chiesa lo insegna, vi aderisce perché la rivelazione ce le ha comunicate. Ma con i doni dello Spirito Santo l’intelligenza acquista un certo potere di penetrare la verità, ha come una intuizione semplice di questa verità. Certo, il mistero rimane per sé incomprensibile, e tuttavia diviene come traslucido; non si vede ancora chiaramente Dio, non si vede ancora immediatamente Dio, tuttavia in qualche modo egli traspare come attraverso un velo che appena appena nasconde, ma anche rivela.

 

Il dono dell’Intelletto

 

Come agisce lo Spirito Santo nella nostra intelligenza per penetrare i misteri di Dio e dare a noi una conoscenza più viva dei divini misteri? Col dono dell’Intelletto. L’intelligenza da sola non avrebbe questa capacità, ma con il dono dello Spirito Santo ecco che l’intelligenza di un’umile suora diviene capace di penetrare i misteri divini più di quanto non possa l’intelligenza umana da sola, ed ecco che una povera suora può conoscere Dio meglio di un teologo. Lo vedete in santa Caterina da Siena, che è stata dichiarata Dottore della Chiesa e non sapeva scrivere; ottenne questo per un miracolo dello Spirito Santo, come pure santa Teresa di Gesù.

In generale i Dottori della Chiesa non sono i più grandi sapienti; ci sono anche delle intelligenze solari come sant’Agostino e san Tommaso, ma spesso i Dottori della Chiesa non erano grandissime intelligenze sul piano umano. Quanti teologi erano più sapienti anche di san Francesco di Sales, ma in tutto il ‘600 lui solo è Dottore della Chiesa. Dio dava alla sua anima un sicuro intuito della verità. mentre gli altri vagavano nelle tenebre, e attraverso tanti ragionamenti cercavano di interpretare i misteri divini, di penetrarli, egli con intuito felicissimo e sicuro andava diritto alla verità cristiana; era quasi come una visione, un intuito semplice, reso possibile per l’azione di Dio dal dono dello Spirito Santo. Egli era vescovo, era laureato, aveva studiato a Padova, ma quanti altri erano poveri e umili, anche povere e umili suore, e hanno avuto una conoscenza di Dio più grande di quella che potevano avere i teologi.

In Italia i più grandi mistici sono tre donne, e la prima delle mistiche è una sposa, infermiera all’Ospedale di Pammatone, Caterina da Genova (1447 – 1510). È certamente la più grande mistica che ha avuto l’Italia e non ha studiato teologia, non è vissuta nemmeno in un chiostro, ma è di una sublimità senza pari. La sua intelligenza ha il volo rapido di un’aquila, penetra gli abissi di Dio in un modo che ci lascia veramente sbalorditi. Anche oggi i testi che riporta il Marabotto, nella sua vita, ci lasciano senza fiato, sono di una sublimità senza confronti.

È lo Spirito Santo che agisce sull’uomo in modo che l’intelligenza acquisti un potere di penetrare i misteri, e la penetrazione diviene così semplice che sembra quasi naturale. Nei teologi e nei filosofi il pensiero è contorto e faticoso; quanto più grande è il mistero e più sublime la dottrina, tanto più si muovono con lentezza, con grande circospezione e con fatica, la fatica del ragionamento. Pensate invece a san Tommaso; egli parla delle cose più alte con una tale semplicità e naturalezza che lo capirebbero i bambini. Il suo linguaggio è trasparente come l’acqua pura di una fonte. Questa connaturalità con l’Essere divino nasce dal fatto che la sua anima era presa come strumento docile dall’azione dello Spirito, per penetrare il mistero; è il dono dell’Intelletto, ma non è solo questo dono.

 

Il dono della Sapienza

 

L’intelligenza è anche a servizio dell’amore e vi è un dono che riguarda proprio questo aspetto dell’intelligenza e trasforma tutta la nostra vita in un gusto di Dio; è il dono della Sapienza. Dio per molti è come il nulla; credono in lui, ma egli rimane come estraneo alla loro vita profonda; invece per il dono della Sapienza, particolarmente necessario alla contemplazione, l’anima nostra gode di Dio, lo gusta, lo assapora, è come inebriata da lui, qualche volta si distende nella sua pace; il gusto di Dio può essere dolcezza e pace, può essere gioia; pace e gioia nello Spirito Santo, secondo san Paolo, è il regno di Dio. Tutto questo è il dono della Sapienza.

Come l’uomo gode di un giorno sereno, come gusta dei cibi prelibati, così l’anima si inebria di questa luce che la inonda, si sente come sciogliere da questa pace divina che la penetra tutta. Diceva il santo Curato d’Ars che il cuore dei santi è liquido, non c’è più in esso nessuna durezza; si discioglie la dolcezza di Dio nell’ anima in tal modo che l’anima tutta ne rimane come conquistata, posseduta e disciolta. Quanto spesso l’anima prova questo gusto di Dio in sé, non solo nella pace, ma in una sovrumana dolcezza, non solo nella dolcezza, ma in qualche cosa che sembra sciogliere tutta la sua purezza interiore, non ha più nessuna rigidità, diviene malleabile come la cera liquida. È il dono della Sapienza, il sapore di Dio!

Perché l’anima può vivere una vita di mortificazione? Voi credete alle mortificazioni? lo non ci credo! Quando la mortificazione è veramente tale, Dio non la vuole; il Signore non soltanto vuole, ma ti fa vivere la mortificazione quando ti separa dalle cose, ti rende intollerabili i beni, i piaceri di questo mondo, perché egli subentra in te e ti dona una soavità, una pace e una dolcezza che il mondo ignora.

Non si tratta di rinuncia, Dio non vuole la rinuncia, egli vuole che si scelga lui!

Nella vita spirituale Dio non vuole chi pensa alla rinunzia, perché chi pensa troppo a soffrire, vuol dire che non ama. Che mortificazione si può sentire se si ama? Le mortificazioni non ci sono, c’è soltanto una scelta di Dio, al di sopra di tutto. Che cosa ve ne fate del mondo? Il mondo per voi è sparito all’orizzonte, Dio è il vostro mondo … Dio è la vostra gioia! … Ed ecco il «Donum Sapientiae»!

Senza questo dono della Sapienza voi sentireste ancora il rimpianto di quello che avete lasciato, il rimpianto della vostra libertà, di non avere la vostra famiglia, il rimpianto della ricchezza e di non poter disporre dei vostri beni. Come è possibile senza il Donum Sapientiae vivere la povertà, la castità e l’obbedienza come vita di amore? È evidente che i voti religiosi non si vivono senza una partecipazione a questo Donum Sapientiae, che sostituisce ai beni del mondo il Bene infinito di Dio. Chi veramente ha scelto Dio non sente la rinuncia, perché è come avesse rinunciato a dieci lire per avere qualche miliardo.

Così è per l’anima che ha scelto il Signore. Se veramente sceglie Dio, l’anima non trova nessuna mortificazione, ma gode del Bene che ha scelto, gode del Bene che ha ricevuto, Dio stesso; la vita dell’anima religiosa è una vita di pace e di gioia. Agli occhi degli altri può sembrare rinuncia, mortificazione, ma per lei sarebbe mortificazione piuttosto il possedere le cose di quaggiù, come impedimento al possesso di Dio.

Ricordate san Francesco di Assisi? Una volta fu invitato a pranzo dal cardinale Ugolino; accettò, ma prima volle andare a questuare qualche tozzo di pane secco, che poi portò alla mensa del cardinale dicendo: «Questa è l’imbandigione di Dio!». Non so se il cardinale fosse contento dei tozzi di pane secco, ma per san Francesco erano migliori di tutti i manicaretti che il cardinale gli aveva preparato. Poi Francesco deve dormire nel palazzo del cardinale; la mattina si alza e getta via il guanciale dicendo: «Questo guanciale è pieno del demonio»! Egli poteva . dormire solo posando il capo sulla dura pietra, e il guanciale troppo soffice era per lui la mortificazione più grande. Per lui era veramente riposo il fare a meno di tutto, per lui la vera mortificazione erano i beni di questo mondo. Ed è così anche per voi!

Se voi foste necessitate a lasciare il Monastero non provereste pena? Per le persone del mondo sarebbe una gioia, finalmente siamo libere – direbbero – possiamo andare al cinema, possiamo andare a spasso, e per voi sarebbe la maggiore mortificazione; nessuna mortificazione più grande potreste ricevere dallo Stato che la chiusura dei vostri Monasteri; eppure tante volte Dio lo ha permesso. Effettivamente, attraverso la rinuncia, voi non vivete che il possesso di Dio e nel possesso di Dio l’anima vostra gode di una pace che le cose umane non potrebbero dare, gode di una gioia che tutti i beni del mondo non potrebbero sostituire; è la gioia di Dio e l’intimità col Signore: Donum Sapientiae!

 

Il dono della Scienza

 

Ma voi dovete anche apprezzare le cose, perché o le cose e le creature vi portano a Dio, o sono un impedimento nel vostro cammino verso il Signore. Ora è vero che la vostra vita si è fatta povera di cose umane, però anche voi vi dovete vestire, dovete vivere in una casa, dovete usare delle cose umane, perché vivete ancora una vita terrena, e questa implica di per sé l’uso delle creature. Chi è che dona a voi la capacità di usare delle creature in tal modo da non essere ostacolate nel vostro cammino verso il Signore? Come provvede per voi lo Spirito Santo in tal modo che le cose umane che dovete usare non siano un impedimento alla vita divina? Ecco il dono della Scienza! Scienza vuol dire conoscere, renderei conto, aver coscienza di come le cose possono essere, per voi, mezzo di santificazione e non impedimento alla vita spirituale.

Come è necessario questo dono! Certo è minore del dono della Sapienza e del dono dell’Intelletto, e tuttavia è di una importanza eccezionale, specialmente quando si tratta dell’uso dei beni presenti, il vestito, la casa, la vita comune. Come è importante e come è necessario che l’anima si attenga veramente al carisma del Fondatore con la più grande fedeltà e il più grande amore!

Siate fedeli al vostro carisma! lo amo che voi abbiate conservato la vostra veste, amo che abbiate conservato le vostre tradizioni; è un grande pericolo abbandonare tradizioni e costumi, anche usanze, senza un discernimento che viene da Dio. Non crediate di poter fare con leggerezza certe cose; la leggerezza si paga, e in poco tempo tutto si disgrega e si disfà. Quale discernimento ci vuole; tante volte per leggerezza, per mania di novità si distrugge, e quando si è distrutta la vita religiosa di una Congregazione, ci vuole un miracolo più grande della fondazione stessa per farla rifiorire.

Rendiamoci conto che è necessario il massimo dono di discernimento, che deriva proprio dal «Donum Scientiae», per saper usare i beni terreni, le cose, le creature, perché tutte le creature per sé hanno una ambiguità: possono portare a Dio e possono strappare da Dio, possono allontanarci da lui; non sono mai indifferenti nemmeno il bere, nemmeno il mangiare, nemmeno l’atteggiamento del corpo. È importantissimo che i Benedettini rimangano fermi anche in un certo modo di celebrare l’Ufficio divino, e che voi siate ugualmente ferme nella fedeltà alle vostre usanze.

Ma poi non bastano questi doni, che intervengono nella vita contemplativa, sia per quanto riguarda la conoscenza diretta di Dio, sia per quanto riguarda il gusto di Dio, sia per quanto riguarda l’uso dei beni creati, in ordine alla vostra santificazione.

 

Il dono della Fortezza

 

Vi sono i doni dello Spirito che intervengono nella vita attiva, e notate bene che la vita attiva non è una vita diversa dalla vostra. Noi troppo spesso contrapponiamo la vita attiva alla vita contemplati va; in realtà la vita cristiana implica sempre una dimensione contemplativa e una dimensione attiva. La dimensione attiva è l’esercizio delle virtù, non è il ministero, il ministero è apostolato, non è vita attiva; la vita attiva è l’esercizio delle virtù.

Nell’esercizio delle virtù abbiamo bisogno dell’aiuto della Fortezza, e ce ne vuole per mantenerci fedeli a Dio, ce ne vuole per vincere ogni tentazione, ce ne vuole per compiere opere grandi nel nome del Signore. Dio ci chiede sempre la virtù della magnanimità, e la magnanimità importa, di per sé, l’impegno dell’anima a cose grandi. Non si tratta come per san Francesco Saverio di andare a predicare il Vangelo in tutte le parti del mondo, ma Dio può esigere da voi, per queste opere grandi, l’esercizio di una virtù eroica, di una virtù che supera dunque l’umano, e voi non avreste certamente la forza di compierla se lo Spirito Santo non vi desse questa forza.

Vi è una forza naturale che basta per una vita ordinaria, ma per vivere una vita eroica occorre la fortezza di Dio; fortezza per aggredire cose grandi, fortezza per sopportare cose grandi, fortezza per sopportare tentazioni, persecuzioni, desolazioni di spirito, incomprensioni.

Voi dovete sopportare il peso del vuoto, il peso del peccato profondo; quanto più sarete sante, tanto più Dio vi assocerà alla sua Passione, perché quanto più sarete sante tanto più dovrete vivere lo stesso mistero del Cristo, l’Agnello che porta sopra di sé il peccato del mondo. E tutto questo importa persecuzioni, desolazioni di spirito, incomprensioni, prove interiori e prove esteriori, difficoltà, tentazioni di ogni genere. Ma siete delle povere donne, siete delle umili donne, potete portare sulle vostre spalle il peso del mondo?

Come facciamo a portare il peso del mondo, il peso del peccato umano attraverso le sofferenze a cui Dio ci sottopone? Egli infatti non può dispensarci dal vivere una partecipazione alla sua Passione. Ecco qui come deve intervenire il dono della Fortezza, di una fortezza che ci rende capaci di sopportare questo enorme peso del peccato del mondo, non commettendo noi il peccato, ma sopportandone il castigo; il castigo è la Passione del Cristo, il castigo è la desolazione di spirito, il castigo è la tentazione, le difficoltà, le prove, le persecuzioni, le incomprensioni; il sentirsi abbandonati da Dio e dagli uomini, vivere come sospesi nel nulla.

Come è possibile vivere tutto questo? È terribile anche pensarlo! Ma Dio vive in te, per dare a te la forza di accettare e di superare ogni prova nell’umiltà, nella semplicità, nell’amore. È necessario per noi questo dono della Fortezza! Nostro Signore è stato forte nell’aggredire il male, ma è stato ancora più forte nel sopportarlo sopra di sé; l’eroismo più alto del Cristo si manifesta nella sua Passione dolorosa, quando egli, abbandonato dal Padre, abbandonato dai discepoli, ha vissuto l’agonia di sentirsi il peccatore vivente, dinanzi agli occhi di Dio.

 

Il dono della Pietà

 

Ci vuole ancora il dono della Pietà. Vivere la vita cristiana vuol dire vivere il nostro rapporto con Dio; ma se Dio è fuoco, come possiamo gettarci in lui? Viene lo sgomento! Anche nell’Antico Testamento c’era lo sgomento quando Dio voleva apparire, perché nessuno può vederlo e vivere. La visione di Dio brucia l’anima; come è possibile accostarci a lui? Da questo incendio di fuoco noi ci difendiamo, facciamo come Adamo che si nascose perché Dio non lo trovasse. Anche noi ci nascondiamo, ci nascondiamo nelle nostre virtù, poniamo le nostre virtù davanti a Dio, perché Dio non si accosti troppo, e diciamo: «Guarda, noi ti diamo questo, ma lasciaci un po’ in pace!». Dio invece non ci lascia in pace, le esigenze di Dio crescono nella misura in cui cresce l’amore.

Come possiamo dunque vivere questo rapporto? Ecco il dono della Pietà; la pietà è il rapporto dei figli coi genitori, un rapporto di semplicità, un rapporto di abbandono: Dio, pur essendo fuoco, è il mio Padre celeste! Gesù ci insegna come si esprime il dono della Pietà. Quando pregate dite: «Padre!». Ma non dice Padre, Padre è una parola troppo alta, troppo solenne; dice «Abbà» che in ebraico significa «Papà»; è il linguaggio più semplice del bambino, che riposa nelle braccia di Dio.

Il dono della Pietà ci fa sentire a nostro agio nel parlare con Dio. Sappiamo che Dio è l’Infinito, sappiamo che Dio è l’Immenso, e tuttavia in questa immensità ci immergiamo, lo guardiamo e sorridiamo beati come un bambino nelle braccia della mamma. Avete visto come sorride un piccolo tra le braccia della sua mamma? Così anche l’anima nelle braccia di Dio. La serenità, la semplicità di un rapporto filiale col Padre, ecco quello che ci insegna il «Donum Pietatis», e come è necessario! Viste le esigenze di Dio, visto quello che Dio ci chiede nelle sue azioni interiori, quanto è necessario che noi possiamo vivere con lui la semplicità del bambino, che nelle sue braccia riposa.

 

Il dono del Timore di Dio e del Consiglio

 

Ma anche il dono del Timore di Dio è necessario, il senso della riverenza per la grandezza di Dio, il senso dello stupore; il timore filiale, intendiamoci, non il timore che ‘dà luce e allontana, ma il timore che ci fa sentire la sua grandezza e dà a noi il senso dell’adorazione senza fine. E poi il dono del Consiglio; questo è necessario soprattutto per la Madre. Saper vedere che cosa è giusto, che cosa è meglio per ogni anima, per sapere indirizzare le anime, guidarle nella via del Signore; saper essere forte con una, dolce con l’altra, saper dare a tutte il nutrimento necessario, ed è diverso per ciascuna: non si può dare a tutte il medesimo cibo! Con alcune ci vorrebbe la sferza, con le altre ci vogliono le carezze, con l’una basta un sorriso e con l’altra ci vuole un rimprovero. E come saperlo? Noi non lo indoviniamo; diamo un sorriso e lo si prende subito come una complicità alla debolezza, diamo un rimprovero e l’anima si chiude, si irrigidisce e magari diventa amara con noi. Il dono del Consiglio, come è necessario! Ma è necessario soprattutto a chi guida le anime, a chi ha la responsabilità nei confronti degli altri.

Di quanti doni abbiamo bisogno, di tutti i doni dello Spirito Santo! Ma quanti sono i doni dello Spirito Santo? Ne ho richiamati sette, ma non sono sette; sette è un numero di plenitudine, vuol dire che sono settantamila volte sette, sono tanti quante sono le potenze dell’anima che devono essere portate a Dio, guidate e sorrette da lui. Noi siamo come un’arpa che riposa in un angolo, ma ci passa il dito dello Spirito Santo e ne trae melodie dolcissime, ne trae un canto di amore sempre più puro e più alto verso Dio.

Lasciate che le vostre corde siano sempre intonate, in modo che passando il dito dello Spirito attraverso le vostre potenze, la vostra intelligenza lo veda, lo comprenda, lo conosca, la vostra volontà lo ami e aderisca a lui, e la vostra anima conosca le cose in modo tale da usarne nel suo cammino verso il Signore. Viva la vostra anima in tale consonanza con lo Spirito, così che divenga forte nelle imprese divine, forte nel sopportare ogni tribolazione, dolcissima nel riposare in Dio, nell’abbandonarsi alla sua Paternità, intimamente presa dallo stupore della sua grandezza, nell’adorazione, e viva poi anche in questa capacità di guidare, di portare gli altri verso il Signore.

Che la nostra vita sia tutta illuminata, tutta trasfigurata, tutta penetrata dai doni divini, in modo che sia veramente una vita «ultra humanum modum», una vita sovrumana, perché è la vita di Dio in noi.

 

6.

LA REALTÀ DEL NOSTRO PECCATO

 

(Omelia nella Messa del Martirio di San Giovanni Battista Prima lettura: Ger 1,17 – 19; Vangelo: Me 6,17 – 28)

 

Nei primi secoli della Chiesa san Giovanni Battista era venerato più di qualsiasi altro santo; nella Liturgia condivideva con la Vergine un posto di privilegio che anche oggi mantiene. Nell’Avvento alcune domeniche celebrano proprio il mistero di Giovanni, come colui che in qualche modo riassume in sé tutto l’Antico Testamento, e con l’Antico Testamento la preparazione compiuta dal Signore, dallo Spirito di Dio alla nascita del Cristo.

C’è poi nell’anno liturgico un fatto singolare. Al solstizio d’inverno, in cui viene celebrato il Natale del Signore, 25 dicembre, corrisponde il solstizio d’estate in cui viene celebrata la nascita di san Giovanni Battista; all’equinozio della primavera, verso cui si celebra la morte e risurrezione del Cristo, risponde l’equinozio dell’autunno, verso cui vengono celebrati il martirio e la morte di san Giovanni Battista. È un fatto singolare, che ci dice l’importanza che ha avuto nella vita della Chiesa e nel pensiero dei Padri la missione e la figura di Giovanni il Battista.

 

Uno che non conosciamo

 

I cristiani hanno oggi una devozione a Giovanni il Battista paragonabile a quella dei nostri Padri? Non sembra, e tuttavia ci insegna Origene, e lo ripete anche sant’Ambrogio, che la missione di Giovanni Battista continua sino alla seconda venuta del Cristo. Quello che egli disse alle folle che si accalcavano lungo le rive del Giordano per ascoltarlo, lo ripete anche oggi a noi: <<Vi è in mezzo a voi uno che voi non conoscete!» (Gv 1,26).

Chi di noi può dire veramente di avere una conoscenza viva, reale di Gesù salvatore? Eppure egli è in mezzo a noi, egli vive con noi. La sua ascensione gloriosa non l’ha allontanato dagli uomini, anzi ha reso possibile la sua presenza a ciascuno di noi. Ma noi molto spesso non sappiamo vivere fino in fondo l’esperienza di questa presenza, che dovrebbe essere per noi tutta la vita. Abbiamo bisogno continuamente che il mistero di Giovanni ce la ricordi, la faccia presente a noi e al nostro spirito, sì che noi viviamo non tanto in questo mondo, non tanto in rapporto con gli uomini, non tanto in tutte le occupazioni della nostra giornata, ma in questa presenza del Cristo, che è veramente il nostro mondo e la nostra vita di cristiani.

 

L’uomo è bugiardo?

 

Ma il mistero di Giovanni Battista non è soltanto inteso a dare a noi il senso della presenza del Cristo; questo mistero ci insegna una cosa ugualmente importante. Dice il Salmi sta che ogni uomo è bugiardo: «Omnis homo mendax», e Nostro Signore a coloro che l’ascoltano, specialmente ai farisei e agli scribi, dice: «Ipocriti!». Il linguaggio di Gesù sembra duro e qualche volta anche ingiusto. L’ebraismo ha reagito e si è difeso contro le parole di Gesù, specialmente contro il cap. 24 del Vangelo di Matteo. In realtà il linguaggio di Nostro Signore sembra di una durezza terribile contro i farisei, i migliori israeliti di allora, perché indubbiamente erano quelli che volevano vivere di più secondo la legge di Dio; e se Nostro Signore condanna questi uomini che meglio rappresentavano la fedeltà alla legge divina, che cosa doveva dire degli altri?

In un altro testo del Vangelo, parlando alla folla, Gesù dice: «Se voi che siete cattivi, date buone cose ai vostri figlioli» … (Mt 7, Il). Il male dunque contamina tutti gli uomini; Gesù non eccettua nessuno, e in realtà l’unica persona che poteva essere salvata da quella condanna era sua Madre, concepita Immacolata da Dio. Gli altri sono tutti cattivi e i farisei sono ipocriti!

Meritiamo anche noi questa condanna del Signore? Siamo consapevoli di quello che siamo davvero davanti al Signore? Ecco una domanda che dobbiamo farei, e dobbiamo farcela con serenità, ma con verità. Meritiamo anche noi le parole del Salmo: «Ogni uomo è bugiardo»?

Teresa di Gesù una volta chiese al Signore che le manifestasse l’intimo suo; era santa, e tuttavia ebbe tanto spavento di sé che pregò il Signore di nasconderle la propria anima, perché non ne avrebbe sopportato la visione, tanto era per lei sconcertante e penosa. Dio solo veramente sa quello che siamo. Noi nel nostro orgoglio, sia pure inconsapevole, ci andiamo più o meno rivestendo delle penne del pavone, come il corvo della favola di Esopo che non voleva apparire così nero e perciò si rivestiva delle penne del pavone. Così anche noi, non riusciamo a vedere chiaramente il fondo della nostra anima. Lallemant, che è il più grande autore mistico della Compagnia di Gesù, dice che la purificazione del cuore è una cosa temuta, difficile e penosa; è come lavare il pozzo da ogni immondezza: in principio l’acqua che si tira su è abbastanza chiara, poi via via che si procede viene sempre più torbida e nel fondo è soltanto melma.

Così anche l’uomo; non dico che in noi ci sia la coscienza del nostro peccato, tanto meno che ci sia la libera volontà di peccare; ma nel fondo della nostra anima siamo anche noi putredine e morte! Ci vorrebbe forse la psicanalisi per far riconoscere all’uomo il fondo tenebroso dell’essere suo. Noi cerchiamo quasi normalmente di coprirlo, di non vederlo, perché non sopporteremmo la consapevolezza di essere così pieni – diceva Nostro Signore ai farisei – di putredine come i sepolcri imbiancati.

 

Fermenti di male

 

Ora non dico che tutto questo sia peccaminoso; non è peccaminoso, perché il peccato suppone la coscienza del male e la volontà di compierlo e noi di solito non abbiamo né questa coscienza né questa volontà. Tuttavia per raggiungere la purezza del cuore di cui si parlava ieri bisogna scavare nel fondo melmoso della nostra natura e trarre alla luce tutto quello che fermenta nel subconscio dell’anima nostra. Quanto di cattiveria, di ambizioni segrete, di gelosie e di sensualità, quanto di male fermenta nel più profondo di noi stessi! Non sarà peccato, ma dice quanto noi siamo vicini al male, quanto il male ancora può compromettere la nostra risposta al Signore.

Acquistare la purezza del cristallo è impresa impossibile all’uomo; non per nulla una volta che abbiamo lavorato anni e anni per la purificazione del nostro cuore, si impone la purificazione passiva, e voi sapete quanto le purificazioni passive sono dolorose e lunghe e terribili per l’anima che le vive. Pensate ai santi che le hanno dovute subire; santi che avevano già raggiunto l’unione piena, magari l’estasi, e che poi sono dovuti passare per anni e anni nella desolazione più intima, nelle tenebre più fonde. Caterina da Siena, Carlo da Sezze, anche pochi mesi prima della loro morte hanno provato la violenza di tentazioni terribili. La loro natura, pur dopo l’esercizio eroico delle virtù, era ancora suscettibile di provare i morsi della sensualità e dell’orgoglio.

Noi crediamo di essere già santi, ma dopo magari venti anni di vita religiosa se cerchiamo di togliere il coperchio che chiude e nasconde il fondo della nostra natura, ci accorgiamo che da quel fondo ancora salgono miasmi di violenza, di orgoglio, di sensualità; non volontà di peccato, ma istinto del male nel più fondo di noi, come nell’inferno dantesco vi è cerbero, un cane con tre teste che abbaia e pretende affamato il suo cibo.

Chi potrà purificarci totalmente così da essere pura verità nella luce di Dio? San Giovanni Battista è colui che ci insegna come dobbiamo essere testimoni della verità, non di una verità estranea, ma di quello che siamo, e noi siamo ciechi e mendaci, e noi siamo menzogna; menzogna perché se apparentemente siamo e vogliamo essere con Dio, in realtà nel fondo della nostra natura ancora qualcosa ci impedisce di essere pura luce, liberi da ogni sentimento segreto di orgoglio, di amor proprio, di gelosia. Non ci illudiamo, perfino nei Monasteri possono pullulare sentimenti di invidia, di gelosia, possono nascere lotte segrete di partiti, e anime che sembrano sante sono di tormento per altre Sorelle.

Ho conosciuto in un monastero un’anima che per trent’anni è stata rifiutata dalle sue Consorelle con un’acredine certamente non volontaria, non pienamente cosciente, e tuttavia reale. Lo vediamo anche nella vita dei Santi. Pensate a santa Teresa di Gesù Bambino. Pensate a santa Teresa di Avila; proprio nell’imminenza della morte, viene allontanata dal Monastero dove era Priora una sua nipote, per motivi di eredità, ed ella dovette morire non in Monastero, ma nella casa della Duchessa di Alba. Pensate alla morte di san Giovanni della Croce a Ubeda, dove era superiore padre Francesco Crisostomo. Costui era stato ammonito da Giovanni perché parlava con troppa vanità e cercava soltanto di farsi bello attraverso i suoi discorsi, anziché esercitare le sue doti per una maggiore efficacia di salvezza. Padre Francesco Crisostomo non perdona a Giovanni che è quasi moribondo; lo rimprovera e gli fa mancare tutto. È terribile a quale cattiveria si possa giungere pretendendo di agire in nome di Dio, mentre si agisce in nome del proprio orgoglio, della propria invidia, della propria gelosia, dei sentimenti più bassi che albergano tante volte anche nelle anime che si credono più degne e sante. Non dico che tutto questo sia colpevole, e posso anche pensare che il padre Francesco Crisostomo, che tanto ha umiliato Giovanni della Croce proprio nell’imminenza della morte, non abbia commesso peccato, ma certamente dimostrava di coltivare ancora sentimenti di amor proprio mal repressi.

 

Purificazione continua

 

Chi di noi può dire di essere totalmente puro dinanzi al Signore? Noi cerchiamo troppo presto di crederci santi! Il cammino della santità è infinito, soltanto lo Spirito Santo può sollevarci fino a sé, ma in noi quanta miseria ancora e quanta povertà; povertà tanto più grande quanto meno la conosciamo, miseria tanto più profonda quanto più ci rimane nascosta, perché nel nostro orgoglio istintivo non sopportiamo di conoscerei quali siamo.

Intendiamoci, riconosco che di quello che siamo nel profondo non siamo responsabili, però è vero che la santità implica la purezza anche di quello che nel subconscio si muove e fermenta di cattiveria, di imperfezione, perché una sola imperfezione, se coltivata, può portare a conseguenze molto gravi.

Dobbiamo essere anime piene di amore, piene di carità! Ma l’amore e la carità costano la morte di noi stessi, perché esigono l’anteporre gli altri a noi, l’essere veramente morti a ogni ricerca di sé. Non è facile essere veri, non è facile vivere la limpidezza e la purezza dell’amore, perché la purezza dell’amore esige la morte a noi stessi, la morte dell’amor proprio, e san Francesco di Sales diceva che questa avviene tre giorni dopo la nostra morte fisica.

Sentiamo di essere ancora contaminati dalla ricerca di noi stessi? Sentiamo ancora di essere in qualche modo legati alle nostre imperfezioni, sia pure inconsciamente? Non dico che tutto questo sia peccato, tuttavia può essere un velo che ci nasconde il volto di Dio, un velo che impedisce alla grazia divina di penetrarci, di illuminarci e di trasformarci in sé. Per essere divinizzati, dobbiamo diventare come il cristallo che non ha macchia, e tutto penetrato dalla luce diviene come un sole nel sole. I vetri delle finestre colpiti dal sole morente divengono luminosi come il sole lontano che in essi si riflette. Così è l’anima: se diviene come un cristallo puro, tutta si illumina di Dio. Ma sono poche le anime così illuminate da Dio da essere come un sole nel sole! Come è difficile che l’anima giunga a questa purezza!

 

Dio solo

 

San Giovanni Battista è testimone della verità; anche noi possiamo essere testimoni di questa verità divina. La verità divina dice che noi siamo menzogna, che Dio solo è la luce: «Deus lux est», e manifestare la luce di Dio vuol dire scomparire noi stessi: fin tanto che noi siamo, noi impediamo a Dio di essere. Lo dicevano i Santi: se io sono, Dio non è, se Dio è, io non sono! Perché Dio sia in noi, perché Dio sia Dio in noi, bisogna che noi siamo totalmente morti a noi stessi, a ogni amor proprio, a ogni vanità, a ogni orgoglio, a ogni sentimento di noi stessi; bisogna ridurci al nulla, perché il nulla da cui la Parola di Dio ci ha fatto emergere possa accogliere la luce infinita di Dio.

Questo è l’insegnamento di oggi: san Giovanni il Battista rende testimonianza alla verità, cioè rende testimonianza che Dio solo è; la creatura è menzogna, è peccato, e se vuole rendere testimonianza di Dio, bisogna che scompaia nella luce come il cristallo. Quando il cristallo è ben pulito. da ogni sua macchia, non si vede. Così deve avvenire in noi. Per raggiungere questa purezza bisogna abbandonarci alla potenza di Dio che distrugga il male in noi. La nostra santità è una risurrezione dalla morte, e prima bisogna che l’azione di Dio ci consumi, perché risorga l’anima pura che riflette la luce di Dio.

La santità è partecipazione alla risurrezione del Cristo, ma non si può risorgere se prima non siamo morti. Se la santità è risurrezione, la prima cosa che si impone per noi è morire, morire a noi stessi, a ogni nostro volere, a ogni nostro sentimento, a ogni nostro pensiero; che non vi sia in noi un nostro pensiero, un nostro sentimento, una nostra volontà, e in noi non viva più che la luce infinita di Dio.

Tutto questo non è facile, anzi è impossibile; ma, ha detto il Signore, ciò che è impossibile all’uomo è possibile a Dio, anche lasciarci consumare dal fuoco dello Spirito per divenire una pura fiamma. Quando il fuoco si apprende a un legno verde, questo subito comincia a sfrigolare, diventa brutto perché diventa nero; fintanto che il fuoco non si apprende al legno, il legno rimane bello verde, ancora vivo; ma quando è bruciato dal fuoco comincia a sfrigolare e diventa brutto.

Così anche l’anima lavorata da Dio; all’inizio sembra divenire più brutta, perché Dio fa emergere tutto quello che dal fondo dell’essere viene di più brutto e di cattivo. Emerge, e noi siamo spaventati, emerge, e noi che non ci conoscevamo abbiamo paura di noi stessi, cerchiamo di coprire, ma Dio scopre di nuovo queste brutture fintanto che, consumate dal fuoco, esse scompaiono e non rimane più che la fiamma, una fiamma senza fumo.

Dobbiamo rendere testimonianza alla verità, e la verità implica precisamente questo: Dio solo è! Tu non devi rendere testimonianza che dell’essere di Dio, non di te stesso; fintanto che rendi testimonianza di te, tu sei un velo che nasconde l’Essere divino, che nasconde l’Essere assoluto di Dio. Non si può unire l’Infinito alla creatura! Quanto fa l’infinito più uno? Infinito! Nulla si aggiunge all’Infinito, e a Dio la creatura non si può aggiungere. Dire che anche la creatura è Dio, che la creazione è Dio, è già una bestemmia, perché solo Dio è l’Infinito; così diceva san Giovanni della Croce: Dio e la creazione è Dio, non perché la creazione sia Dio, intendiamoci bene, ma perché la creazione non aggiunge nulla a Dio. La creazione è in Dio, è per Dio, è da Dio, in sé e per sé non è, perciò non si può aggiungere a Dio: Dio e la creazione è Dio, Dio solo.

 

Tutto in Dio

 

La creazione è per attestare Colui che è l’Unico. «Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo». Questa è la professione di fede che fa Israele tutti i giorni, e anche Nostro Signore per tutta la sua vita tre volte al giorno ha proclamato questa unità di Dio. Dio solo è, tu non sei che per attestarlo. Anzi nel mondo più puro, quando avremo la visione di Dio, non conosceremo più noi stessi, non ricorderemo più noi stessi e non potremo mai più riflettere su noi stessi.

Nell’atto stesso che noi togliamo il nostro sguardo a Dio precipitiamo nell’inferno. La vita del cielo deve essere rapita nella visione dell’Unico. Egli soia è! È certo che noi vedremo anche noi stessi, ma in lui e solo in lui. Vedremo gli altri, solo in lui; non si moltiplica la visione di Dio con la visione degli altri, non si moltiplica l’amore di Dio con l’amore di noi stessi: l’amore di Dio è unico ed è totale!

Ricordiamo anche il precetto dell’amore di Dio: amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore con tutta la tua anima, con tutte le tue forze. Se si ama Dio di questo amore totale, come si può amare il prossimo? Si ama il prossimo col fegato o coi piedi? È solo nell’amore di Dio che può essere amato anche il prossimo; non è un altro amore, se tu devi amare Dio con tutto te stesso: Dio solo! Ecco la grande parola dei Santi. Che questa sia la parola e il programma della nostra vita: Dio solo! E Dio solo vuol dire: io non sono più, io non voglio che la mia morte, io non voglio che sparire; è l’umiltà profonda dell’essere, che permette a Dio di essere Dio.

Ecco la vita dei santi, l’umiltà di chi nella luce divina sparisce, per lasciare a Dio tutto il suo posto: ecco la verità! Fintanto che non lasci a Dio di essere Dio, cioè l’Unico, tu sei menzogna; per questo noi tutti siamo menzogna: «Omnis homo mendax»!

Ma come facciamo a vivere in tal modo che il nostro vivere sia un continuo morire? Come facciamo a vivere in tal modo che la nostra vita sia il venir meno di noi a noi stessi, perché risplenda ai nostri occhi solo la luce di Dio? Noi non potremo mai riuscirci se lo Spirito Santo che è fuoco non ci consuma e non ci distrugge, perché in noi risplenda, sola, la luce di Dio. Per questo dobbiamo e possiamo passare attraverso il fuoco del Purgatorio, o quaggiù sulla terra o dopo la morte. È l’insegnamento che ha dato la santa più grande di Genova, santa Caterina Fieschi; è questo fuoco che deve consumarci, bruciarci fino in fondo e ridurci in cenere, perché anche la cenere deve sparire: deve rimanere Dio solo. Tu sei soltanto occhio che lo contempla, null’altro: Egli è!

Fin tanto che tutto questo non avviene, noi siamo un velo che nasconde il Signore, non lo manifesta così come egli è. Egli è l’Unico; rendere testimonianza di questa verità, ecco il compito del cristiano. Non è una missione facile, che sia possibile all’uomo. Dio solo deve rendere testimonianza di se stesso in noi, ed è egli stesso che rende tale testimonianza nella misura che egli brucia in noi tutto quello che è proprio della nostra natura, perché in noi sussista unico lui, che è l’Immenso, lui che è purissima Luce, lui che è l’Amore perfetto.

Che dunque lo Spirito Santo ci prenda e ci strappi a noi stessi, perché da noi stessi non sapremmo mai gettarci nel fuoco per essere bruciati e consumati; che egli stesso lo faccia, non guardando ai nostri lamenti, non guardando alla nostra, non dico ribellione, ma alla nostra paura, al nostro sgomento; che egli ci prenda e ci distrugga, perché in noi rimanga lui solo, viva lui solo.

Questa deve essere la preghiera che noi facciamo oggi al Signore: Signore, noi siamo menzogna, noi non siamo che un velo che ti nasconde, strappa questo velo, brucia questo velo, e rimani tu solo: che l’essere nostro sia soltanto per attestare la tua verità, per attestare la tua luce.

 

7.

L’UMILTÀ, FONDAMENTO DELLA VITA CRISTIANA

 

Lo Spirito Santo, che agisce in noi mediante i suoi doni, ci dà una esperienza di Dio e vive in noi comunicando alla nostra intelligenza la fede, alla nostra volontà l’amore. Ma può l’anima vivere la fede e la carità se non incarna queste virtù teologali anche nell’esercizio di un comportamento umano, che implica per sé l’esercizio delle virtù morali?

Spesso noi pensiamo che le virtù morali e le virtù teologali siano indipendenti. Ma le virtù teologali, che implicano per noi una partecipazione alla vita divina, non solo suppongono, ma realizzano in noi anche l’esercizio delle virtù morali, nelle quali queste virtù teologali si incarnano. Non si vive la fede senza l’umiltà, non si vive la carità senza l’umiltà.

La prima virtù morale che si impone all’anima, se vive la sua conoscenza di Dio e il suo amore per Dio, è l’umiltà. L’umiltà è richiesta per tre motivi fondamentali: il primo perché siamo creature, l’altro perché siamo peccatori, il terzo perché dobbiamo essere amore. Il primo e il secondo motivo sono propri della creatura come tale e per giunta della creatura umana che ha peccato, il terzo motivo si ritrova anche in Dio: per questo dirà san Francesco nelle Lodi all’Altissimo: «Tu es humilitas», Tu sei umiltà! Egli riconosce questo attributo a Dio medesimo, e vede anzi in questo attributo dell’umiltà di Dio la rivelazione suprema di lui come amore.

 

La nostra realtà di creature

 

Noi dobbiamo vivere un cammino di fede, di speranza e di carità; tanto più vivremo la fede, la speranza e la carità quanto più incarneremo queste virtù in una umiltà vera. Il cammino dell’anima verso Dio non è un cammino di ascesa; la vita spirituale non è salire, perché per quanto si riesca a salire si resta egualmente ancora molto lontani dal cielo; non si raggiunge Dio che volando, ed è lo Spirito Santo che ci solleva.

Tanto lo Spirito Santo ci innalza a Dio quanto noi discendiamo nel fondo del nostro nulla; pertanto l’opera nostra è discendere, l’opera di Dio è assumerci. Riguardo a Nostro Signore si parla di ascensione perché è lui che ascende, della Vergine invece si dice che è assunta, viene portata, perciò anche lei può essere assunta da Dio, ma non può volare fino al cielo, neppure lei.

Tutta la vita cristiana è discendere, discendere e discendere; è quello che diceva sant’Agostino: fondamento della vita cristiana, per quanto riguarda le virtù morali, è l’umiltà e il crescere nella vita cristiana è crescere nell’umiltà. La perfezione della vita cristiana, secondo sant’Agostino, è la perfezione dell’umiltà, in quanto l’umiltà è l’incarnazione della fede e dell’amore; non si ha né fede né amore che in quanto cresce in noi questa virtù.

La fede è legata all’umiltà perché tanto più conosci Dio quanto più conosci il tuo nulla; la luce di Dio manifesta quello che sei, una creatura che in sé e per sé non è, e tutta dipende da Dio. Non conosci Dio in se stesso, lo conosci per quello che egli è per te; Dio in se stesso non lo conosce nemmeno la Vergine, non lo conosce nemmeno Gesù nella sua natura umana. Egli rimane puro mistero, non solo quaggiù nella vita presente, ma anche domani in quella futura.

Egli è trascendenza infinita. Nessuna creatura potrà mai conoscere fino in fondo Dio in se medesimo, lo conosce in quanto Dio si rivela; ma la rivelazione che Dio fa di se stesso all’anima implica il rapporto che Dio stabilisce con l’anima stessa, e questo rapporto è la creazione.

Ora se conosci Dio in quanto è Creatore, in quanto è colui dal quale dipende l’essere tuo e la tua vita, evidentemente la conoscenza di Dio implica il sentimento di una dipendenza assoluta da lui, e implica anche la conoscenza viva del proprio nulla originario, della totale fragilità dell’essere creato. Conoscete Dio e, nel momento medesimo che conoscete Dio, voi sperimentate di essere come sospesi nel vuoto. È da Dio soltanto che dipende l’essere vostro, è in Dio soltanto il fondamento dell’essere: senza Dio noi precipiteremmo nel nulla, perché siamo nulla.

 

La conoscenza di sé

 

La conoscenza di Dio è inseparabile dalla conoscenza di noi stessi; la conoscenza di Dio è conoscenza dell’Essere assoluto, e la conoscenza della creatura è la conoscenza di chi non è se non quello che Dio vuole e da Dio dipende e in Dio ha il suo fondamento. È difficile vivere l’esperienza del nostro nulla! Anzi è impossibile! Ecco perché è stato detto: «Ogni uomo è mendace».

Il primo effetto del peccato originale è il sentimento e la presunzione di una nostra certa autonomia, di una certa autosufficienza. L’uomo dopo il peccato non riesce più a vivere la sua dipendenza assoluta dall’Essere divino. Il peccato ci ha chiusi a Dio, e non siamo più coscienti della nostra dipendenza assoluta da lui nel pensiero, nell’agire, nell’amare, in tutto quello che siamo e in tutto quello che viviamo. Se poi crediamo in questa dipendenza e la riconosciamo, non riusciamo per questo a viverla. È estremamente difficile e quasi impossibile liberarci dal sentimento di una qualche autosufficienza e affermazione di sé; vivere – come diceva santa Teresa di Gesù – un oblio tale di noi stessi da non sapere più nemmeno di esistere è impossibile se Dio non dona all’anima questa grazia. Ci vuole veramente una fede grande, soprattutto ci vuole una vita di contemplazione molto alta; allora – come diceva Rosmini – quanto più Dio entra in un’anima, tanto più l’anima perde la coscienza di sé e ha coscienza soltanto di Dio.

Se Dio deve essere tutto in te, tu devi essere nulla, devi sentirti nulla e vivere nel tuo nulla. Ma l’oblio totale di sé si raggiunge soltanto negli ultimi vertici della contemplazione divina, così da non sapere più nulla di noi stessi, così da non conoscerei più, perché il peccato ci ha chiusi e ha reso impossibile a noi sia la conoscenza di Dio come Dio, sia la conoscenza della creatura come creatura.

Soltanto la Vergine possiede questa umiltà, la Vergine che è creatura come noi, ma non ha peccato; ella può vivere questa conoscenza di Dio come l’Essere assoluto e per questo non conosce se stessa, per questo non sa più nulla di sé, non vede che lui e non opera più, ma lascia che Dio operi in lei: «Si faccia di me secondo la tua Parola», dice, e si abbandona totalmente allo Spirito così che tutto quello che in lei avviene è Dio che lo compie. Nessun atto c’è in Nostra Donna – diceva san Giovanni della Croce – che non sia di Spirito Santo.

L’umiltà che dipende dal nostro essere di creature rimane al di là delle nostre possibilità di uomini peccatori, ma vi è l’altro motivo di essere umili; non solo siamo creature e come creature dovremmo riconoscere il nostro nulla, ma siamo peggio che nulla, perché siamo peccatori. Non soltanto Dio ci ha fatto dal nulla e perciò il nulla è il fondamento del nostro essere, ma noi ci siamo opposti a Dio, abbiamo dunque un motivo maggiore di umiltà che se fossimo semplici creature. È la situazione in cui ci ha messo il peccato: da una parte dovremmo essere più umili, dall’altra non riusciamo ad essere umili nemmeno come la Vergine. Dovremmo essere più umili della Vergine perché siamo anche peccatori, e invece la Vergine santa sarà sempre più umile di noi perché realizza nel modo più perfetto il suo stato di creatura dinanzi a Dio.

 

Rapporto di amore

 

Questo per quanto riguarda la conoscenza, ma vi è un terzo motivo di umiltà e questo motivo si ritrova anche in Dio. L’umiltà è l’atto dell’anima, è la virtù dell’anima che si ordina totalmente, nell’amore, all’amato e pertanto dimentica sé per colui che ama. Questa umiltà è propria anche di Dio, di Dio in se medesimo e di Dio incarnato. Di Dio in se medesimo: Dio sussiste nelle Persone del Padre del Figlio e dello Spirito Santo; ora il Padre in sé e per sé non è, è tutto per il Figlio e del Figlio; è pura relazione di amore, non è in sé, non è per sé, è nel Figlio e per il Figlio che egli genera, infatti è soltanto Padre. Nostro padre è anche marito della nostra mamma, poi ha lavorato con altri ed è anche amico di tanti altri; il Padre celeste non è che il Padre, non è che Padre. Nessuno di noi si esaurisce in un solo rapporto, abbiamo innumerevoli rapporti, e non soltanto rapporti con gli uomini, ma anche rapporti con le cose. Invece la Persona del Padre è puro, essenziale e unico rapporto col Figlio Unigenito, non è che rapporto col Figlio; non ha rapporto con noi, per sé il Padre ha rapporto soltanto col Figlio, non con noi. Lo avrà con noi se noi siamo una cosa sola col Figlio.

Ecco la necessità dell’incarnazione del Verbo; senza !’incarnazione del Verbo, Dio ci sarebbe rimasto sconosciuto: è dogma di fede. Le Persone divine non hanno rapporto con la creazione, non hanno rapporto con le creature, perché ogni Persona divina è rapporto soltanto con l’altra Persona correlativa. Il Padre col Figlio, il Figlio col Padre. Ma quando il Figlio si fa uomo, una fanciulla può dire a questo Dio: «Tu sei mio Figlio»; nasce un rapporto, quello della filiazione del Figlio Unigenito con una donna che è Maria, che diviene sua madre, ed egli non è più soltanto il Figlio del Padre, ma anche il Figlio di Maria. E se è il Figlio di Maria, egli diviene mio fratello, perché diviene uomo.

È stata l’incarnazione del Verbo a rendere possibile questo rapporto. Per questo io accetto con san Francesco di Sales che l’incarnazione del Verbo è voluta da Dio in modo assoluto, non in dipendenza dal peccato di Adamo, perché non vi è fondamento alla vita religiosa, alla vita spirituale, alla vita di grazia che nella incarnazione del Verbo, altrimenti Dio rimane sconosciuto, inaccessibile. Dio rimane trascendenza pura, e l’uomo non ha nessun rapporto con Dio e Dio non ha nessun rapporto con l’uomo, perché Dio è rapporto soltanto con se stesso, Padre, Figlio e Spirito Santo.

Se Dio è rapporto con la Madre, la Madre non diventa la quarta persona della SS. Trinità. I rapporti in Dio rimangono tre, Padre, Figlio e Spirito Santo, ma la Madre nella misura che è cristiana e si fa santa, vivrà l’unione col Cristo, sarà un solo corpo col Cristo e allora il Padre entra in rapporto con lei, perché lei è una col Cristo; quello che Dio ha congiunto l’uomo non separi, dice Gesù.

Lo Spirito Santo ha unito per sempre ciascuno di noi a Cristo; nella misura in cui la nostra unione a Cristo è viva e reale, anche il Padre ci conosce perché conosce il Figlio suo e noi siamo una sola cosa col Figlio, un solo corpo, un solo spirito con lui. Ma è soltanto per l’Incarnazione che noi entriamo nella vita divina, altrimenti non c’è possibilità alcuna.

 

L’umiltà in Dio

 

Se dunque le Persone divine sono puro rapporto di amore, ecco che l’umiltà è in Dio stesso. Il Padre in sé e per sé non è, è tutto per il Figlio e nel Figlio, il Figlio in sé e per sé non è, è tutto per il Padre e nel Padre. Meditate il IV Vangelo; Gesù dice: la mia volontà non è mia, la mia dottrina non è mia … sempre il Padre! Egli si eclissa nella luce della presenza del Padre; è il Figlio di Dio, ma per lui solo è il Padre, egli non vive per sé: non è che la lode infinita del Padre celeste.

Così è anche il Padre; il Padre non trova riposo che nel Figlio: «Tu sei il mio Figlio, in te ho posto la mia compiacenza». È questa l’umiltà di Dio: ogni Persona divina non vive che per l’altra Persona, in sé e per sé è come non fosse. Puro amore, ogni Persona divina si ordina totalmente all’altra Persona correlativa.

Se questo è l’Amore di Dio, questo è il motivo anche dell’umiltà nell’uomo. Tanto più noi saremo umili quanto più sapremo amare; se sappiamo amare anteponiamo gli altri a noi stessi e prima di tutto anteponiamo Dio a noi e ad ogni cosa creata. Non facciamo servire Dio alla nostra gloria e nemmeno alla nostra beatitudine. Non voglio che Dio, non voglio che la sua luce, voglio che egli sia! Che cosa vuole l’anima che veramente ama? Vuole l’amato, non vuole se stessa. Se l’anima vuole la sua beatitudine, se pensa solo al Paradiso non ama di amore puro, il suo è amore di concupiscenza, è amore di speranza. È vero che anche questo amore è una virtù, ma non è amore puro. L’amore puro è non volere nulla per sé, ma volere che Dio sia Dio. Proprio questo amore puro fa sì che se anche un’anima fosse nella desolazione più intima, vivrebbe ugualmente in Paradiso, perché non vive la sua desolazione, ma la gioia di sapere che Dio è la gioia, che a Dio non manca nulla, egli rimane beato; siccome l’anima ama Dio, e non ama se stessa, trova in Dio la sua beatitudine.

Amare Dio vuol dire anteporre l’amato a noi stessi; se vogliamo solo il Paradiso non sappiamo amare, vogliamo che Dio serva alla nostra gioia, facciamo servire Dio a noi stessi, non serviamo noi a Dio. Anche cercare la santità può essere cosa impura, se si cerca solo noi stessi. Invece non vogliamo che Dio! Non importa se sono nella tribolazione: egli è! La mia felicità è piena, perché la sua felicità è infinita; la mia felicità non è che la sua, non è la mia, non è qualcosa che mi appartiene, ma è sapere che egli è beato!

E allora quando ci sentiamo tristi, quando ci sentiamo poveri e miseri ricordiamoci: la nostra povertà non ha tolto nulla alla grandezza di Dio, la nostra povertà non ha tolto nulla alla sua beatitudine infinita. L’amore è umiltà. Non ti importa di te, egli è ed è l’Immenso, egli è ed è l’Infinito, egli è ed è la Santità per essenza, egli è ed è la Beatitudine eterna. Chi veramente vive di amore non può vivere che di gioia, perché la sua gioia è in Colui che ama.

L’umiltà dunque è anche per questo terzo motivo frutto dell’amore, e questo motivo è anche in Dio. In Dio per se stesso, e poi in Dio quando si fa uomo, e Dio che si fa uomo è tutto per gli uomini; assume sopra di sé il peccato degli uomini, vuole la beatitudine dell’uomo, vuole la salvezza dell’uomo e non pensa a sé, non pensa a salvare se stesso, non pensa a difendere se stesso. Si dà totalmente per tutti, non solo per i buoni, non solo per i suoi amici, ma per coloro che lo tradiscono, per coloro che lo rinnegano, per coloro che lo crocifiggono, per coloro che lo odiano, per tutti dà la sua vita e il suo amore. E che cosa è la vita del Cristo? «Humiliavit semetipsum factus oboediens usque ad mortem»; è l’umiltà fino alla morte, l’umiltà fino ad essere cancellato, distrutto per amore degli uomini e per amore del Padre.

Abbiamo visto dunque come l’umiltà importa tre motivi, ora dobbiamo vedere come realmente si vive l’umiltà.

 

Umiltà nell’intelligenza

 

L’umiltà si deve vivere prima di tutto nell’intelligenza. L’umiltà implica il riconoscimento del nostro nulla e del nostro peccato, perciò è una virtù che prima di tutto impegna la conoscenza di sé. Uno dei fondamenti della vita spirituale è la conoscenza di Dio e la conoscenza di noi stessi: il duplice abisso. Questa umiltà è già difficile perché noi non riusciamo mai a conoscere fino in fondo il nostro nulla; crediamo sempre di avere qualcosa, di essere qualcuno, mentre non siamo nulla indipendentemente da Dio. Per questo, allora, non soltanto siamo nulla, ma non possiamo nemmeno pretendere qualcosa. Che diritti abbiamo nei confronti di Dio? Tutto è grazia. Anche se ci bastonano, tutto è grazia. È già troppo anche essere bastonati, perché è sempre un sentire qualche cosa, è dunque avere una coscienza di essere vivi. Nemmeno questa ci appartiene, indipendentemente da Dio siamo nulla, il nulla; e nulla possiamo senza Dio.

Come siamo stati fatti emergere dal nulla dalla Parola onnipotente di Dio, così non possiamo agire se Dio non interviene, non passiamo mai dalla potenza all’atto senza il suo aiuto. Sempre dipendiamo da lui. Certo egli ci muove liberamente, non come le cose attraverso una legge di necessità, ma è sempre Dio che interviene; ci sentiamo come sospesi nel nulla, e dobbiamo vivere questa dipendenza assoluta da Dio, nell’essere e nell’agire.

Chi vive l’umiltà si sente come sospeso nel vuoto, vive la sua dipendenza assoluta non dalla necessità, ma dalla volontà libera di un Dio che ti ama. Tu non puoi accampare qualche diritto, è soltanto la libertà dell’amore che ti dona l’essere e la vita. Non solo nella vita presente, ma anche nella vita futura, non solo per i santi, ma anche per i dannati. È questa una delle pene del dannato. Il dannato vuol rifiutare Dio, vuol stabilire una propria grandezza e autonomia e non può; per tutta l’eternità dovrà dipendere da Dio, perché rimane una creatura. Senza l’atto divino che lo sospende sull’abisso del nulla, anche il dannato precipiterebbe nel nulla. È Dio stesso che lo fa sussistere, che fa sì che l’essere suo eternamente rimanga.

La dipendenza da Dio è totale, sia per il paradiso e sia per l’inferno, sia per la vita presente e sia per la vita futura; è totale. La creatura in sé e per sé non è; dobbiamo vivere questo, ma poi dobbiamo vivere anche la conoscenza del nostro peccato.

Noi non ci rendiamo nemmeno conto, non dico del nostro peccato attuale, ma delle conseguenze del peccato originale che ha creato in noi un abisso, una possibilità di peccato, una vicinanza col male, del quale noi dovremmo sentire orrore. Credete di essere lontane dai peccati gravi più di un assassino? Non è forse tutta misericordia di Dio il fatto che egli vi ha preservate fin dalla nascita? Vi ha fatte nascere in un ambiente più sano, vi ha sviluppate, vi ha dato le grazie per educarvi e formarvi. Che cosa vi differenzia dagli assassini, dalle prostitute? La differenza è soltanto la misericordia di Dio. In noi vi è tutta la possibilità di peccato.

 

Se non facciamo il male …

 

Non possiamo pretendere nulla come merito nostro, perché in noi vi è tutta la possibilità di male che vi è negli altri; se gli altri sono assassini, se gli altri sono prostitute, io stesso potrei essere come loro, io, non c’è differenza. Se non lo sono è perché Dio misericordiosamente mi ha preservato; mi ha preservato attraverso grazie innumerevoli, che mi hanno portato avanti fin dalla nascita: i genitori, l’ambiente nel quale sono vissuto, le grazie innumerevoli che mi hanno protetto e mi hanno difeso.

Sapete voi se, vivendo in situazioni in cui sono vissute altre, non sareste precipitate più in basso ancora di quanto sono precipitate esse? Quale il merito vostro, quale? Siete peggiori delle prostitute se credete al vostro merito e non credete alla misericordia di Dio, che vi ha preservate dal cadere in quegli abissi. Perciò un peccatore sente di dovere tutto a Dio, invece molto spesso le anime pie credono che sia merito loro anche quel poco di bene che possono compiere e non si rendono conto che in noi vi è ogni possibilità di peccato; ogni possibilità, ma possibilità reale, non lontana.

Un’anima veramente santa ha sempre questo senso di sgomento e di orrore di sé, perché sente che veramente nulla può impedire all’anima di precipitare in tutti gli abissi, se la mano misericordiosa di Dio non la preserva. Ecco perché, dice l’Imitazione di Cristo, anche i cedri del Libano possono cadere, e invece tante volte le anime più deboli e fragili conquistano il cielo, a condizione che abbiano l’umiltà.

Chi non ha l’umiltà, anche se è grande, anche se è un vescovo, anche se è papa, anche se ha raggiunto una certa santità, può precipitare negli abissi. Un’anima debole, incapace di qualunque cosa, se veramente si affida a Dio, se veramente nell’umiltà si abbandona alla grazia, quest’anima è preservata. Lo dice anche santa Teresa di Gesù Bambino: avrebbe potuto commettere tutti i peccati, sarebbe potuta divenire una grande peccatrice, e si meravigliava e godeva nello stupore di sentirsi oggetto della misericordia infinita di Dio che l’aveva preservata da ogni peccato fin dai tre anni: tutto un dono di grazia. Per quanto riguarda la nostra vita di grazia, in noi non vi è nessuna possibilità; la possibilità è in Dio che ci ama!

Come dobbiamo sentire che sono le mani di Dio che ci sollevano a lui, solo quelle mani! Certo vi è anche una corrispondenza, ma questa nostra corrispondenza – diceva sant’Agostino – è dono di Dio, perché dipende da una grazia efficace, che egli ci dona; siamo un prodigio di misericordia soltanto. Se guardo me, non vedo più che Dio, Dio solo che mi ha prevenuto fin dall’infanzia, Dio solo che mi ha pensato fin dall’eternità, Dio solo che momento per momento mi ha tenuto per mano, mi ha sollevato sulle sue braccia, mi ha preservato, mi ha difeso, mi ha protetto. Nulla in me che non sia dono suo, che non sia un dono di amore.

 

Umiltà nella volontà

 

Ma non basta, non soltanto debbo essere umile per questa conoscenza del mio stato di creatura e del mio stato di peccatore. La virtù non è soltanto esercizio di intelligenza, deve essere esercizio di volontà, perché la virtù implica precisamente anche l’esercizio della volontà. La conoscenza, fin tanto che è conoscenza pura, è sì inizio di virtù, ma non è ancora virtù completa: la virtù completa implica l’impegno della volontà. Allora, cosa vuol dire essere umili per quanto riguarda il nostro stato di creatura? Accettare di essere nulla, e siccome Dio ti mette alla prova, accettare le prove della vita che implicano per te la rinuncia alle tue ambizioni, alle tue vanità, al tuo amor proprio e al tuo orgoglio.

Che bello essere messe da parte come una scopa logora, che non riesce più nemmeno a spazzare. Trovate gioia nell’essere dimenticate, nell’essere messe da parte? Trovate la vostra gioia in ciò? Questa è l’umiltà: accettare serenamente quello che siete, cioè nulla. Trovate gioia nell’essere bastonate come san. Francesco? Egli afferma che qui è perfetta letizia. Trovate grande gioia se gli altri ingiustamente vi accusano? Se gli altri non solo vi mettono da parte, ma vi calunniano? Non è mica tanto facile; ma l’umiltà è questa!

Che cosa pretendi tu, che cosa vuol? Tutto quello che viene a te è sempre un dono; in fondo gli altri mai potranno toglierti quello che Dio ha fatto di te, di essere creatura; se anche ti ammazzano tu non muori, tu rimani immortale; con tutto quello che gli altri fanno, non possono aggiungere nulla, né togliere nulla di quello che sei: un povero nulla che dipende da Dio.

Accettare le umiliazioni, trovare il nostro riposo nelle umiliazioni … Un’anima veramente umile ne è affamata, ma questo non è facile. Siamo impastati di orgoglio, di amor proprio, ed è sempre difficile per l’anima non cercare di nascondersi allo sguardo di Dio, per credere in qualche proprio valore e perciò per sentire in qualche modo l’ingiustizia se non siamo trattati secondo il concetto che abbiamo di noi stessi. Ci sembra ingiusto che ci manchi qualche cosa, qualche cosa che ci è dovuto, per esempio la comprensione della compagna, di una Sorella, la comprensione della Superiora. Ci sembra un’ingiustizia se ci manca il riconoscimento di quello che abbiamo fatto. Ingiustizia! E dove sono i nostri meriti? I nostri diritti?

Certo, nei confronti delle creature possiamo avere dei diritti, ma noi dobbiamo vivere davanti a Dio. Quali sono i nostri diritti nei confronti di Dio? La stessa vita che hai, la stessa esistenza che possiedi non è un suo dono? Puro dono, al quale non hai alcun diritto? Perché Dio ha voluto che tu non fossi un’altra creatura? Tu senti che è libera la scelta divina, io potevo benissimo non essere, egli mi ha voluto; e la volontà di Dio non ha altra ragione che se stessa: io sono un suo dono! Nessun diritto io posso accampare nei riguardi di Dio, io ho semplicemente il dovere di riconoscere che tutto mi è stato dato per nulla.

Persino il dannato, se il dannato potesse avere sentimenti giusti, dovrebbe lodare Dio, perché in fondo Dio gli conserva l’essere, e la conservazione dell’essere è sempre un bene, Dio non lo annienta.

Se dunque vogliamo essere umili, non dobbiamo soltanto riconoscere quello che siamo, ma accettare che gli altri usino con noi secondo quello che siamo davanti a Dio. Non siamo! Un monaco, secondo il testo di uno scrittore russo, viene tormentato dal demonio; il demonio lo batte e lo strazia e il monaco grida: «Più ancora, più ancora; merito ancora di più!».

Siete anche voi così affamate di umiliazioni e di sofferenze da poter dire al Signore: merito ancora di più umiliazione e martirio? Noi non chiediamo il di più perché conosciamo la nostra debolezza e non sapremmo riceverlo e accettarlo. Ma dobbiamo almeno saper accettare quello che Dio, indipendentemente da noi, vuole e permette a nostro favore; le incomprensioni, le difficoltà, le malattie e le prove interiori.

Tutto è grazia per un’anima umile, perché mai riceve quello che le è dovuto; quello che ci è dovuto, se abbiamo peccato, è soltanto l’inferno. lo, da parte mia, ci rinuncio e non voglio quello che mi è dovuto; voglio invece quello che egli nel suo amore infinito mi dona, liberamente, misericordiosamente, senza mio merito alcuno, perché voglio essere amato, e l’amore è libertà. Mi è dovuto soltanto l’inferno e ci rinuncio ben volentieri, perché il Signore mi ama con amore infinito e perfettamente gratuito. lo voglio essere amato di questo amore che è pura misericordia e voglio sapere che tutto è puro dono di amore, quello che mi riguarda. Anche se vengo messo da parte, anche se vengo ritenuto per nulla, anche se gli uomini mi dimenticano, non sanno più nulla di me, è già una grande cosa che Dio mi ama. Io lo so!

 

Volere l’umiliazione

 

Ma non basta accettare, vi è un grado più alto, il terzo grado dell’umiltà, ed è così difficile che preferirei non toccarlo nemmeno: è di voler essere umiliati. Ho detto prima che è meglio non chiedere, perché non abbiamo una tale umiltà da vivere poi le umiliazioni che abbiamo chieste nella gioia. Se desideriamo il terzo grado dell’umiltà che è volere con tutta l’anima, con tutto il desiderio le umiliazioni, noi dobbiamo vivere, nelle umiliazioni, la gioia; è un po’ difficile, lasciamolo ai santi! Per ora accontentiamoci del secondo grado di umiltà, di accettare serenamente e con gioia le umiliazioni alle quali Dio stesso ci sottopone o permette; credo che sia sufficiente.

L’umiltà! Dunque, la prima cosa e il primo grado è la conoscenza di noi stessi, una conoscenza vera, una conoscenza senza infingimenti; non nascondiamoci per non vederci e non essere veduti da Dio, ma mettiamoci alla luce divina per conoscere quello che siamo: un nulla come creatura e una creatura che potrebbe cadere in tutti i peccati, se Dio non la preservasse con la sua misericordia.

Poi il secondo grado di umiltà: accettazione. Tutti noi ci sentiamo più o meno umiliati, perché da una parte Dio ci crea come suoi figli, ci vuole suoi figli, perciò ci eleva a una dignità infinita, ci dona dei desideri immensi; ma d’altra parte le nostre possibilità sono tanto -misere e scarse. Inoltre le condizioni della nostra vita spesso sono talmente povere e meschine che ci sentiamo da ogni parte condizionati, ci sentiamo sempre mortificati nel nostro agire e nel nostro vivere. Ebbene, accettare, trovare in queste situazioni il nostro riposo. Non il riposo nella gioia che il Signore ci dona, nella esaltazione interiore che ci dà qualche volta, quando ci fa sentire che egli ci è vicino e che è con noi, ma acconsentire e trovare il nostro riposo nel silenzio di Dio, nella aridità, nel vuoto interiore. Se ci lamentiamo, che umiltà è la nostra? Come facciamo a lamentarci? Che cosa meritiamo? Il Signore non tratta con noi secondo giustizia? Dobbiamo dunque godere che il Signore sia giusto con noi e ci tratti così come dobbiamo essere trattati, che. ei faccia sentire il nostro nulla, ci faccia sperimentare la nostra impotenza e la nostra povertà; dobbiamo consentire a Dio che ci tratti così come siamo.

Il trovare la propria gioia in tutto quello che non meritiamo è metterei in un cammino pericoloso, perché sembra che quello che non meritiamo ei sia dovuto. Se invece Dio ce lo toglie, è in questo che dobbiamo godere, perché Dio ci tratta secondo giustizia. Che il Signore non ei guardi mai più, per esempio … Non è facile, ma dovremmo trovare in questo la nostra gioia, nel consentire a Dio di trattarci secondo giustizia.

E poi finalmente chiedere a Dio – ma aspettate a farlo! – che egli ei faccia trovare la gioia solo nelle nostre umiliazioni, e quanto più saremo umiliati tanto più sia pura la nostra gioia; noi dovremmo desiderare di scomparire, perché Dio solo sia. Che Dio sia Dio e io non sia più! Trovare la nostra gioia proprio in questo nostro morire a noi stessi e agli altri, perché non viva che lui: questo è il cammino dell’umiltà che noi dobbiamo vivere.

Che il Signore ci doni una fede così viva, un amore così grande da poter realizzare questo cammino. Perché l’umiltà, oltre che frutto della fede, è anche frutto dell’amore. Se l’umiltà è frutto dell’amore, allora diviene eroica, diviene riposo dell’anima, allora davvero l’anima può desiderare le umiliazioni, può scegliere le umiliazioni, perché vuole che solo l’Amato sia, che Dio sia Dio: questa diviene la preghiera dell’anima.

Per dirlo in altre parole, l’umiltà diviene più facile se, oltre ad essere il frutto della fede, diviene frutto di un amore per il quale noi ci mettiamo da parte, perché divenga tutta la nostra vita Colui che noi amiamo. Impariamo ad amare così da scomparire a noi stessi e perderei nella luce di Colui che abbiamo scelto e che infinitamente ci ama.

 

8.

IL NOSTRO RAPPORTO CON DIO

 

Gli attributi di Dio sono propri della natura divina e come la natura divina è posseduta egualmente in proprio, in modo perfetto, da ogni Persona divina, così non sono questi che manifestano, che rivelano l’intima vita di Dio; ma la vita di Dio è essenzialmente il rapporto delle Persone divine fra loro. In questo rapporto delle Persone divine Dio vive nella infinita beatitudine, nell’infinito ed eterno amore.

La vita di Dio è dunque la Santissima Trinità, le Persone divine in rapporto vicendevole tra loro, ma Dio non è in rapporto che con se stesso; l’uomo non c’entra, la creatura non c’entra: la creatura rimane a infinita distanza da Dio, Dio è a infinita distanza dalla creatura. Eppure dice il prefazio della IV Preghiera eucaristica che Dio ha creato il mondo «per effondere il suo amore su tutte le creature e allietarle con gli splendori della sua luce». La creazione è un traboccamento della vita divina al di fuori di sé.

 

Dio e la creatura

 

Come realizza D!o questo suo piano di amore? Come entrerà Dio in rapporto con la creatura e la creatura con lui? Ho già detto che san Francesco di Sales, a differenza di altri teologi, ha accettato pienamente la concezione della scuola francescana, che cioè il Verbo di Dio si sarebbe comunque incarnato, perché l’incarnazione del Verbo rimane il fondamento di ogni vita soprannaturale. Non solo l’uomo, ma anche gli angeli possono entrare in rapporto con Dio solo mediante il Verbo incarnato, perché l’angelo come l’uomo, l’angelo come una pietra, l’angelo come un bruco e come tutte le creature sono a infinita distanza da Dio: non c’è differenza.

Se Dio fosse a una distanza grandissima, ma non infinita, dalla creatura, evidentemente questa grandissima distanza implicherebbe la possibilità di essere più o meno vicino a lui; ma se Dio è a infinita distanza, un bruco o l’angelo più alto che sia nel cielo sono a uguale distanza da Dio; l’infinito non si divide, !’infinito rimane infinito. L’unica differenza che c’è tra l’angelo, l’uomo e la bestia, tra l’angelo, l’uomo e una pietra è questa che l’angelo e l’uomo hanno una potenza obbedienziale – insegna la teologia – per la quale Dio può comunicare con loro; l’uomo ha delle potenze spirituali per le quali può entrare in un certo rapporto con Dio, se Dio lo vuole; la pietra non ce l’ha, e perciò la pietra non può essere elevata all’ordine soprannaturale, l’uomo sì.

Ma come farà Dio a elevare all’ordine soprannaturale le creature in tal modo che la creatura, uomo o angelo, possa entrare in rapporto con Dio e Dio con essa? Mediante l’Incarnazione del Verbo. Quello che avviene quando il Verbo di Dio si incarna, si fa uomo, è cosa mirabile, è cosa di una grandezza che supera ogni nostra immaginazione. Avviene che una umile donna può dire a Dio, all’Infinito: «Tu sei mio Figlio», e avviene che questo Dio, che è l’Infinito e l’Eterno, dal momento che ha voluto essere suo figlio, deve dire a questa Donna: «Tu sei mia Madre!». Questo fatto è più grande della creazione; la creazione è voluta in ordine a questo mistero, per il quale il Verbo di Dio, che è pura, totale, infinita ed eterna relazione di amore al Padre e soltanto al Padre, diviene relazione, rapporto di amore a una Donna, rapporto di amore anche con noi perché se egli si è fatto uomo diviene un nostro fratello; anche con gli angeli, perché anche l’angelo è una creatura, come egli si fa creatura.

Sapete quale è stato il peccato dell’angelo? Voi potete pensare che l’angelo vada direttamente contro Dio, nella sua natura divina? Se l’angelo sa chi è Dio, se l’angelo è cosciente della grandezza e della trascendenza divina, sarebbe la creatura più stupida se pretendesse di offenderlo, e, d’altra parte, anche se pretendesse di offenderlo, potete pensare che l’offesa dell’angelo raggiunga Dio?

Il peccato dell’angelo dunque è quello di cui parla la Genesi. A questo proposito le tradizioni giudaica, islamica e cristiana ci insegnano la medesima cosa. Dio, fin dall’eternità – dice san Francesco di Sales – volle elevare la creazione all’ordine soprannaturale attraverso l’Incarnazione del Verbo. Di conseguenza l’angelo doveva dipendere dal Verbo incarnato per la sua vita soprannaturale; egli vivrà la vita di grazia se accetterà di subordinarsi al Verbo incarnato. «Al Verbo incarnato? – dice l’angelo-. lo devo piegarmi davanti a un uomo? È vero che questa natura umana è assunta dal Verbo, ma è una natura umana. lo non accetto» – racconta in un libro famoso il più grande mistico dell’Islam. L’angelo non accetta che Dio si umili così e rifiuta l’adorazione del Cristo. Ecco il peccato dell’angelo: cerca di distruggere il disegno di Dio, facendo cadere l’uomo nel peccato; quell’uomo che egli avrebbe assunto, l’angelo lo rende schiavo del male.

 

Il fondamento dell’ordine soprannaturale

 

L’angelo crede così di impedire a Dio il disegno dell’incarnazione del Verbo, e invece Dio, che aveva voluto l’incarnazione del Verbo indipendentemente dal peccato dell’uomo, ora la vuole in una carne passibile, perché il Verbo divino incarnato, morendo sulla Croce, possa redimere anche il peccato dell’uomo. Allora tutto il fondamento dell’ordine soprannaturale, sia per gli angeli che per l’uomo, è Cristo Gesù; sì, è Cristo Gesù, e noi durante la Messa diciamo: «Per quem laudant Angeli, adorant Dominationes, tremunt Potestates»: per lui, il Cristo, ti lodano le Potenze, ti adorano i Serafini, ti cantano i Cherubini, ti lodano tutte le Schiere celesti. Per mezzo del Cristo, perché senza Cristo anche gli angeli sono a infinita distanza da Dio, non potrebbero mai accedere al mistero di Dio.

Voi capite dunque l’importanza che ha l’Incarnazione del Verbo; è primordiale, è il fondamento di tutto. Togliete questa pietra e tutto l’edificio crolla. Questa è la pietra angolare – come dice il profeta Isaia – su cui Dio ha costruito l’edificio della grazia, l’edificio soprannaturale della vita divina per gli uomini e per gli angeli.

Ecco il grande mistero: per l’Incarnazione del Verbo il Figlio di Dio, che è pura ed eterna relazione di amore al Padre, diviene relazione – nella sua natura umana agli uomini e agli angeli, ed essi possono entrare in rapporto con Dio.

Che cosa è la vita soprannaturale? Sono le virtù? Niente affatto! Le virtù appartengono di per sé alla natura umana; gli uomini che non credono sono forse tutti disonesti? Non si può dire questo; la morale appartiene agli uomini, anche un uomo che non crede deve essere onesto, non deve rubare, non deve ammazzare.

La morale è di tutti, le virtù morali non appartengono al cristiano come tale; il cristiano deve esercitare le virtù, ma non consiste in questo la sua vita cristiana. La vita cristiana consiste nella «sequela Christi», nel rapporto che Gesù stabilisce con te, ed egli ha stabilito un rapporto con te perché ha assunto i tuoi peccati, si è fatto uno con te rispondendo per te al Padre; egli si è fatto uno con te!

Anche per sposarsi bisogna che ci sia il consenso dell’uno e dell’altra, è chiaro che l’unione si stabilisce in un rapporto reciproco; il Cristo ha stabilito un rapporto con te, perché è morto per te sulla Croce, ma egli vuole che anche tu stabilisca un rapporto con lui. Ora un rapporto di amore è sempre libero e tu devi stabilire questo rapporto.

Che cosa è la vita cristiana? È un rapporto col Cristo, è «sequela Christi»! Origene insegna che la vita cristiana è essenzialmente questo rapporto, ma questo rapporto può essere più o meno grande, più o meno intimo. Gesù guarisce dalla lebbra dieci Samaritani; nove di questi, una volta guariti, se ne vanno per la loro strada e non entrano più in rapporto col Cristo, uno solo torna con gratitudine, con lui nasce un rapporto vero, un rapporto continuo di grazie e Gesù gli dice: «La tua fede ti ha salvato!». Queste parole di Gesù non vogliono dire che gli altri nove ritorneranno lebbrosi, perché le grazie di Dio sono senza pentimento, ma averli guariti dalla lebbra non vuol dire averli salvati. La salvezza sta nel rapporto di quell’unico guarito che è grato al Signore; la salvezza consiste in questo rapporto di gratitudine, che egli stabilisce col Cristo.

Quale è il rapporto che si stabilisce tra la creatura e Cristo, tra l’uomo e Cristo, e tende di per sé ad essere sempre più profondo? Nel Vangelo si afferma che il discepolo non rimane come era prima; noi, seguendo il Maestro, diveniamo perfetti come il Maestro. Dice Gesù nel Vangelo: «Allora il discepolo è perfetto quando diviene come il Maestro».

Ora questo divenire più perfetti, questo crescere nel discepolato come si manifesta? Alla fine del Vangelo Gesù dice ai discepoli: «lo non vi chiamo più servi, ma amici!». TI discepolo non è amico, il maestro in principio non è amico degli scolari, ma col tempo può divenire un amico, stabilire una uguaglianza. Ricordate quello che dice Gesù a Maria Maddalena quando le appare dopo la risurrezione: <<Va e annunzia ai miei fratelli», «Dic fratribus meis … »; ecco una uguaglianza, i fratelli sono tutti sul piano di una eguaglianza, il discepolato ci rende pian piano uguali a Cristo, dice Origene.

 

Matrimonio spirituale

 

Ma vi è un rapporto esclusivo e totale a cui tende tutta la vita cristiana ed è l’unione nuziale. Ecco perché il termine ultimo della vita cristiana si dice il matrimonio spirituale. Con questa parola si intende un rapporto che prende totalmente la vita, che non esclude più nulla; una sposa deve conservarsi tutta per il suo sposo.

Stamane nella Comunione avete ricevuto il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità di Cristo Signore, egli non ha escluso nulla; ma se l’Eucaristia ci chiama a vivere l’unione nuziale perché Cristo si dona tutto, il matrimonio spirituale non viene consumato fin tanto che l’anima stessa non si dona totalmente a Gesù. Ed è in questo dono reciproco della creatura al Cristo e di Cristo alla creatura che si consuma la nostra vita soprannaturale, la nostra vita di grazia.

Noi dobbiamo vivere la nostra vita spirituale come un rapporto totale di amore a Cristo Signore, ed è in questo rapporto totale di amore a Cristo Signore che noi diveniamo un solo corpo con lui, diveniamo un solo spirito con lui, come dice la Preghiera eucaristica II!. E divenendo con lui un solo spirito e un solo corpo, noi viviamo la sua medesima vita: <<Vivo ego, iam non ego, vivit vero in me Christus» (Gal 2,20). Il Padre vive forse una vita diversa dal Figlio? Il Figlio vive una vita diversa dal Padre? Una è la sapienza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, una è la santità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, una è la vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; le Persone sono distinte, ma la vita è una sola; una sola la natura, una sola la beatitudine, una sola la potenza, una sola la sapienza e uno solo l’amore.

Così nel rapporto dell’uomo col Cristo; non si vive il rapporto del Padre col Figlio e del Figlio col Padre, ma si vive un rapporto nuziale, per il quale una diviene la vita del Cristo e la vita dell’anima, una diviene la santità del Cristo e la santità dell’anima. La Vergine ha vissuto pienamente questa unione nuziale. Ecco la grandezza di Maria; nessun santo si può dire che possegga tutta la santità di Gesù-Capo, la Vergine sì.

 

L’esempio di Maria

 

C’è una triplice grazia in Cristo Signore: la «Grazia Increata»; perché egli è Dio, e questa appartiene a lui in proprio e non può appartenere a nessun altro che a lui; poi c’è la «Gratia Unionis», la Grazia dell’unione ipostatica, e anche questa appartiene soltanto al Verbo Incarnato; ma c’è la «Gratia Capitis», la Grazia che appartiene a Gesù in quanto Capo della Chiesa. Questa Grazia fluisce tutta in Maria, nulla riserva per sé; quello che è proprio di Gesù è proprio di Maria. Come una è la Sapienza del Padre e la Sapienza del Figlio, una è la santità di Gesù una la santità di Maria. Se Maria santissima non possedesse tutta questa Gratia Capitis del Cristo, il Cristo avrebbe fallito, perché nella sua natura divina egli è il Figlio di Dio, puro rapporto al Padre, e nella natura umana egli è in rapporto con l’uomo e si chiama Gesù.

Il nome della Seconda Persona della Santissima Trinità è un nome di relazione, è puro rapporto di Figlio; anche nella natura umana il suo nome è un nome di relazione, perché Gesù vuol dire Salvatore. Se egli non si dona tutto e non vi è una creatura che lo riceva vuol dire che non vive l’Alleanza, vuol dire che Dio ha fallito. La Vergine santa è quella che accoglie tutta la grazia del Cristo. Dice san Girolamo: «Totius gratiae quae in Christo est, plenitudo venit in Mariam, quamquam aliter», «tutta la pienezza della grazia. che è nel Cristo venne in Maria, quantunque in modo diverso»: in Gesù come principio e sorgente, come fonte, in Maria come un lago che accoglie tutte le acque del Cristo.

È Maria il fulcro della santità nella Chiesa, è Maria la causa esemplare di ogni santità, perché Maria ha vissuto nel modo più perfetto non solo il rapporto con Cristo, come madre, dando a lui la sua carne e il suo sangue, ma ha vissuto anche il rapporto nuziale per il quale ha ricevuto tutta la grazia del Cristo; nel contemplare la Vergine noi contempliamo anche la causa esemplare di ogni santità creata, e tanto più saremo santi quanto più vivremo questo rapporto esclusivo col Cristo.

Ora notate bene, il Cristo non ci nega nulla, il Cristo non serba nulla per sé; anche stamani egli ci ha dato Corpo, Sangue, Anima e Divinità; in che consisterà la nostra santità se non nel rispondere al Cristo dando a lui tutto quello che siamo, tutto quello che abbiamo? Non un pensiero nostro, non un affetto nostro, non un sentimento, non un membro del nostro corpo, non una potenza della nostra anima, non un momento del nostro tempo, nulla che non sia dono di noi stessi a Cristo Signore. E in questo che si misura la santità dell’anima, in questo dono di amore.

Così come egli nella natura umana è dono di sé ad ogni uomo, «dilexit me et tradidit semetipsum pro me» (Gal 2,20), così la vita dell’anima non può essere altro che dono di sé a Dio, in Cristo Signore.

La vita cristiana dunque è questo rapporto; un rapporto vicendevole, che deve divenire ogni giorno più intimo e deve, col termine, consumare totalmente tutto I’uomo in questo atto di amore. Ed è precisamente divenendo una sola cosa col Cristo, un solo Cristo, un solo corpo con lui e un solo spirito con lui, vivendo questa unità col Cristo che noi vivremo la sua stessa santità, vivremo un rapporto col Padre, ed entriamo così, in qualche misura, nella vita intima di Dio. Non si moltiplicano le Persone divine, ma noi siamo una sola cosa col Cristo, viviamo in qualche modo una sola vita col Cristo; il Padre non può dividere dal Figlio suo l’anima sposa, e l’anima sposa vive allora una certa partecipazione al mistero di questa unità ineffabile, che dall’eternità e per l’eternità unisce il Figlio al Padre e il Padre al Figlio. Ecco perché la preghiera ultima del cristiano rimane la Parola stessa del Figlio: «Abbà, Padre!» ed è questo anche il mistero della preghiera cristiana.

 

Il mistero della preghiera cristiana

 

Il mistero della preghiera cristiana termina precisamente in una nostra partecipazione al rapporto del Figlio Unigenito con il Padre celeste. Ma prima di arrivare a questo, la preghiera dell’uomo è il grido del malato, del morto che implora la salvezza di Cristo; è il grido dell’anima che sente la propria rovina, che avverte la propria morte, che sente di precipitare nel vuoto, che implora una mano che la sollevi: «De profundis clamavi. .. ». Alla preghiera dell’uomo risponde l’amore di Dio: egli porge la mano per sollevarti a sé, egli ti salva; è lui che ti salva dal naufragio, è lui che ti salva dalla morte, è lui che ti salva dalla dannazione; è lui, Cristo Signore!

Prima di tutto la nostra preghiera sarà un rivolgersi al medico delle nostre anime, un rivolgersi al Cristo in quanto è nostro Salvatore. Nella consapevolezza che noi non viviamo che la morte, che noi non viviamo che la nostra rovina, la nostra vita diviene una supplica, una implorazione e una invocazione incessante a Nostro Signore. Ma quando noi viviamo un rapporto più intimo con Gesù, allora la nostra preghiera non sarà più un grido: «De profundis clamavi … », ma sarà la parola dell’amico all’amico. Ricordate quello che dice la Sacra Scrittura a proposito di Mosè? Parlava a Dio come un amico suole parlare con un altro amico; ed è questa la nostra preghiera quando viviamo un rapporto più intimo con Gesù; egli diviene il nostro amico, il fratello col quale viviamo. Si può vivere con lui non solo in chiesa in adorazione, ma sempre: egli è con noi, e noi siamo con lui!

La nostra parola diviene una parola umile e serena, una parola che implica una intimità dolcissima e casta. E poi, non abbiamo più bisogno nemmeno di parlare; quando l’amore è incandescente, l’unione si esprime nel puro silenzio dell’amore. Ma non basta! Uniti al Cristo, tutta la nostra vita non è più che una aspirazione sola al Padre celeste, e allora, proprio allora il Cristo ci solleva con sé nella sua ascensione gloriosa fino nel seno di Dio. È questo il cammino dell’anima nella vita spirituale, è il cammino della preghiera.

La preghiera è un rapporto, pregare vuol dire rivolgersi a qualcuno; è vivere questo rapporto, un rapporto che diviene sempre più grande, più intimo e più vero, così da trasformarci in Colui che preghiamo, così da divenire una sola cosa col Cristo. E divenuti una sola cosa col Cristo, diveniamo un rapporto solo di amore al Padre; e come il Padre genera il Figlio e il Figlio eternamente ritorna nel Padre, così il Padre celeste genera in noi il Figlio suo, perché il Figlio suo ci conduca con sé, ci trasporti con sé, ci sollevi con sé, per l’azione dello Spirito Santo, nel seno del Padre.

La vera dimora dell’anima sposa è il seno di Dio. È in questo seno che noi dobbiamo rimanere, è in questo seno che noi dobbiamo trovare la nostra dimora eterna, per vivere la stessa vita di Dio. La vita cristiana è questo rapporto di amore.

Questo è il cammino dell’anima nella preghiera. Ci sarebbe molto di più da dire, ma è importante notare come la preghiera sia un grande mistero, possibile soltanto in forza dell’Incarnazione del Verbo. Per l’Incarnazione del Verbo questa preghiera ci unisce sempre più al Verbo incarnato, ci unisce siffattamente al Verbo da farci una sola cosa con lui, parola della Parola. Così diveniamo – come dicevamo prima – puro rapporto al Padre e tutta la nostra vita innalza una sola parola, come dice san Paolo: «Abbà, Padre!».

 

«Padre … »

 

Per questo la preghiera cristiana inizia così; è più vera certamente la formula tramandata dal V angelo di Luca che non quella tramandata dal Vangelo di Matteo. Matteo ce la esprime in una forma liturgica più composta, forse più perfetta, ma non intimamente più vera, più semplice e viva. In Luca la preghiera si esprime così: «Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, dacci oggi il nostro pane quotidiano … ». La differenza più notevole e importante è l’invocazione iniziale: Padre! «Padre nostro» lo dicevano anche gli Ebrei, distintivo del cristiano è invece la semplice invocazione: Abbà! Il rapporto ora è del Padre con ciascuno di noi, perché ciascuno di noi è divenuto una sola cosa col Cristo: Abbà! È il tendere di tutto l’essere a Dio, il perdersi nell’abisso divino.

Che l’anima nostra viva questa preghiera, che l’anima nostra realizzi veramente questo rapporto di amore. Che cosa implica per noi questo rapporto e che cosa impedisce a noi di viverlo? Si è detto prima: all’inizio noi siamo dei malati, siamo dei feriti, viviamo chiusi in noi stessi. Il rapporto è amore; invece noi per il peccato ci siamo chiusi in noi stessi.

Vivere un rapporto col Cristo implica prima di tutto l’umiltà di riconoscere che noi viviamo la morte, e poi uno strapparci a noi stessi per volgerci a Dio, strapparci al nostro egoismo per aprirci all’amore; il rapporto è sempre atto di amore. Così il cammino della preghiera è anche il cammino dell’amore, di un amore che tende poi a trasformarci in Colui che è l’Amore perfetto. S’impone dunque prima di tutto che noi ci apriamo a lui, che viene verso di noi.

Ricordate la parabola delle dieci vergini? «Ecco, lo Sposo viene, andategli incontro!». Il più grande mistico della Chiesa, che non è inferiore a san Giovanni della Croce, il beato Ruysbroek, ha un libro fondamentale: «L’ornamento delle nozze spirituali», che è il commento a queste parole: «Ecco lo sposo viene, uscitegli incontro». Uscire da noi stessi, dai nostri modi, per andare incontro a Cristo; egli viene, egli viene a noi e noi dobbiamo andare incontro a lui: questa è la vita! Andare incontro a lui, uscire da noi stessi, dai nostri modi umani, poi anche dalle nostre virtù morali, e poi anche dal nostro spirito, è veramente un’estasi totale dell’essere per vivere in Dio, per vivere in Cristo, e in Cristo poi per vivere in Dio. Questo è il cammino dell’anima.

Non possiamo vivere in noi stessi; la vita di Dio è un’estasi eterna in una pace infinita, perché la pace è l’unità dell’essere, l’unità della natura, ma l’estasi è il rapporto delle persone.

L’Inno latino delle Lodi del lunedì dice: «In Patre totus filius et totus in Verbo Pater»: il Figlio è tutto nel Padre e il Padre è tutto nel Figlio. Questo vuol dire che tanto l’una Persona che l’Altra vivono all’infuori di sé, vivono nell’altra Persona che amano, che è amata. Tutta la vita di ogni Persona divina è questa estasi eterna di amore.

Anche l’anima, se vive veramente la vita di grazia, non può vivere che l’amore, ma vivendo l’amore vive un’estasi, vive un uscire totalmente da se stessa per vivere nell’amato, e l’amato è Cristo e poi l’amato in Cristo sarà il Padre celeste.

 

Dimorare in Cristo

 

L’apertura dell’anima che vuole vivere l’unione nuziale è un aprirsi totale, è un uscire totale da sé per non vivere più che in Cristo Signore. Se qualcuno vi chiede dove dimorate, non potete dire nella vostra cella perché la vostra dimora, per ora che non vivete ancora nel seno del Padre, è il Tabernacolo; ciascuna di voi dimora lì! E sapete dove dimora il Cristo? Dimora in voi! lo non posso trovare il Cristo che in ciascuna di voi; non posso trovare nessuna di voi, se veramente lo amate, che in lui: «In Patre totus Filius et totus in Verbo Pater!». Se siete ancora in voi stesse non amate!

Dimorare in Cristo! Non è forse questa la formula che più di frequente appare nelle Lettere di san Paolo? San Paolo dice 264 volte: «In Christo Jesu»! Questa espressione significa precisamente la legge fondamentale della vita cristiana: essere in lui, non in noi, ma in lui, così come egli è in noi. Nell’ultima Cena Gesù dice: «Manete in me et ego in vobis!», «rimanete in me ed io in voi»: la nostra dimora è il Cuore di Cristo, e dimora non vuol dire che ci si sta e poi si esce, vuol dire rimanerci; questa è la nostra casa, questa è la nostra cella, nella quale noi dobbiamo rimanere chiusi: «Rimanete in me e io in voi», ma se noi rimaniamo nel Cristo, egli rimane in noi, e allora non abbiamo da cercare Cristo al di fuori.

Se vivete con Dio, se siete il tempio vivente nel quale egli dimora, non siete già in Paradiso? Che cosa cerchi al di fuori di te – diceva il beato Suso – se tu porti nel tuo intimo il Regno stesso dei cieli? È molto più bello di questa chiesa il tempio che siete voi, e Dio è più in voi che in questa chiesa, perché è in questa chiesa per essere in voi, si fa presente nell’Eucaristia soltanto per comunicarsi. Perché si fa presente sotto le specie del pane se non per essere mangiato? Egli vuole vivere in voi!

Come Figlio di Dio ha la sua dimora nel seno del Padre, come Verbo incarnato egli vive in ciascuno di noi, perché è rapporto con ciascuno di noi, e perciò la sua gioia, come dice il Siracide, è lo stare coi figli dell’uomo. Ma dice di più: «Intra vos», dentro di voi, questa è la dimora del Cristo!

Che il Signore ci doni di vivere questa nostra vita religiosa che ci impegna precisamente all’unione nuziale col Cristo. Tutti dobbiamo raggiungere questa unione nuziale o nella vita presente o nella vita futura. Ma per un’anima religiosa, specialmente poi per un’anima claustrale, è d’obbligo anticipare la vita celeste già nella vita terrena. Ora è qui che dovete vivere questa unione ineffabile, ora è qui che dovete realizzare questa perfetta unità dell’amore con Cristo vostro Sposo, che vi ha scelte per sempre.

 

9.

GESÙ CRISTO E LO SPIRITO SANTO NELLA NOSTRA VITA

 

Vogliamo considerare ora la funzione, se così si può dire, dello Spirito Santo e del Cristo nella nostra vita. La parola «funzione» è impropria, perché sembra implicare che la Persona divina dello Spirito Santo e la Persona divina del Cristo siano a servizio dell’uomo, tuttavia serve a indicare che, nella libertà infinita del suo amore, Dio ha voluto ordinarsi all’uomo e ha fatto dell’uomo, in qualche modo, il suo fine, come Dio è il fine dell’uomo.

 

Dio tra noi

 

Ho detto: in qualche modo Dio ha fatto dell’uomo il suo fine, perché l’amato è sempre il fine dell’amante; l’amante tende ad amarlo e si ordina a lui, e Dio si è ordinato all’uomo. Si è ordinato all’uomo nello Spirito Santo perché, come si è detto all’inizio, lo Spirito Santo nella concezione trinitaria propria della teologia orientale è quella Persona divina mediante la quale Dio trabocca nella creazione; l’amore si effonde nella creazione dal Padre per il Figlio nello Spirito Santo: così Dio si dona a noi. Il dono di Dio nello Spirito rimane dono, cioè non avviene una unione ipostatica fra lo Spirito Santo e la creatura; piuttosto lo Spirito Santo donandosi unisce la creatura al Verbo di Dio. Così che al processo di discesa di Dio verso l’uomo risponde il processo di ascensione che dall’uomo risale verso Dio: dal Padre per il Figlio nello Spirito Santo Dio si comunica al mondo, nello Spirito Santo per il Figlio, il mondo, l’uomo e gli angeli salgono a Dio.

La vita cristiana è insieme questo movimento di discesa di Dio e di ascesa dell’uomo verso Dio. Dio discende fino alla nostra povertà, discende fino alla nostra umiltà, ma la discesa di Dio verso l’uomo provoca e determina l’ascesa dell’uomo verso Dio: «Descendit de caelis, ascendit ad caelum», colui che discende è il Figlio di Dio, colui che ascende è l’uomo Gesù, ma con l’uomo Gesù non è soltanto il Verbo incarnato, è tutta quanta la creazione che egli, avendo redento con la sua morte di Croce, solleva con sé fino al trono del Padre.

Noi dobbiamo contemplare il mistero di questa discesa di Dio. Abbiamo parlato nella meditazione precedente della umiltà di Dio. Abbiamo accennato all’umiltà di Dio come si esprime nelle Persone divine: per essa ogni Persona divina non vive per sé, ma è e vive nell’altra Persona correlativa. Ma questa è l’umiltà di Dio in se stesso. Più grande mistero ci sembra ancora l’umiltà di Dio nei riguardi dell’uomo; davvero il processo per il quale Dio si comunica al mondo è un processo con cui egli discende, e discende fino all’abisso più fondo.

Dio ha amato l’uomo e ha voluto assumere la natura umana. L’angelo è stato invidioso, perché voleva impedire a Dio l’umiliazione di assumere la natura dell’uomo, l’ultima tra le creature spirituali.

 

Ha scelto l’uomo

 

Perché Dio ha scelto noi, perché ha voluto scegliere l’uomo assumendone la natura? Non sarebbe stato già un miracolo di amore infinito se avesse assunto la natura dell’angelo, traboccando dalla solitudine infinita della trascendenza divina nella creazione? Egli invece ha scelto l’uomo!

Chi è stato in Terra Santa ha ancora maggior motivo di contemplare l’umiltà di Dio. Pensare che egli era non diverso da quei bambini poveri che vagano anche oggi per le strade di Nazaret e di Betlemme. Che umiltà di Dio! Proprio perché egli ha voluto assumere tutta la creazione ha . dovuto scendere nell’abisso più fondo. Se Dio avesse scelto l’angelo, avrebbe sollevato l’angelo a sé; ma la creazione fisica sarebbe stata abbandonata alla sua perdizione.

È mediante l’Incarnazione del Verbo che Dio ha assunto non solo la natura spirituale, ma anche la natura fisica dell’uomo e tutto ha trascinato in alto con sé. E dopo aver assunto questa natura egli, nella morte di croce, assume anche tutto il peccato del mondo e unisce così gli estremi, il peccato con la santità stessa di Dio. Non solo la natura creata è assunta, ma anche il peccato del mondo, perché egli si è fatto solidale con tutti i peccatori.

Così Gesù Cristo è l’Unità, l’unità che unisce gli estremi, il peccato e la santità infinita di Dio. Egli non ha peccato, ma si costituisce davanti al Volto del Padre come il peccatore pubblico, universale, assumendo il castigo di tutta la malvagità umana e affondando così nell’abisso più fondo non solo della creazione, ma dello stesso peccato, per sollevare tutto a Dio.

 

L’opera dello Spirito Santo

 

La contemplazione dell’umiltà di Dio che si incarna e che muore sulla Croce per l’uomo ci dice anche dove deve giungere ora l’ascensione dell’uomo nel seno del Padre. Chi compirà tutto questo? È per opera dello Spirito che il Verbo si incarna ed è per lo Spirito – come dice la Lettera agli Ebrei – che il Figlio di Dio incarnato si offre al Padre in sacrificio di espiazione, di propiziazione e di lode. È per lo Spirito Santo che Dio discende fino a noi, ed è per lo Spirito Santo che l’umanità viene assunta nella gloria e nella santità del Padre, sicché tutta la vita cristiana è sempre in dipendenza dello Spirito, non solo quando l’anima ne è cosciente, ma anche quando non ne è pienamente consapevole.

Non dobbiamo pensare che la vita ascetica sia l’azione dell’uomo; tutta la vita cristiana, in quanto è positivamente in cammino verso Dio, dipende sempre dallo Spirito Santo; soltanto nei primi gradi della vita spirituale l’uomo ha la percezione di essere lui ad agire. In realtà ogni azione di grazia suppone sempre l’iniziativa dello Spirito Santo, che muove l’anima a rispondere a Dio e a impegnare le proprie potenze.

Nella misura in cui sarà docile allo Spirito divino l’anima pian piano diventerà cosciente della sua passività, della sua docilità nei confronti di Dio, ma l’iniziativa è sempre di Dio.

Noi dobbiamo sapere, anche questo con profonda umiltà, che tutto nella vita spirituale è dono di Dio, anche la nostra corrispondenza alla grazia, anche l’impegno della nostra volontà nell’esercizio della virtù, anche la purificazione del cuore e più ancora la stessa conoscenza del nostro peccato; tutto dipende da Dio, tutto dipende dallo Spirito Santo che ci illumina, e ci rafforza, dallo Spirito Santo che ci stimola e ci spinge nel cammino della perfezione.

Se la docilità suppone una certa purificazione interiore, è perché suppone la coscienza che noi abbiamo dell’azione dello Spirito che ci porta. Ma anche se non abbiamo coscienza di questa azione, di fatto nulla l’uomo può operare se non in dipendenza della grazia divina. È dogma di fede che persino il desiderio di credere è dono di Dio; non solo la fede per la quale egli si comunica all’uomo nella sua rivelazione, ma il desiderio stesso è dono della sua grazia. Nulla vi è in noi di positivo che non sia dono dello Spirito di Dio! Dunque siamo, e dobbiamo riconoscerlo e dobbiamo viverlo, un dono totale della grazia divina; tutto quello che siamo, tutto quello che abbiamo, tutto abbiamo ricevuto da Dio, per tutto dobbiamo rendere grazie al Signore.

Diceva padre Faber che l’eternità non basterebbe per ringraziare Dio di tutto quello che abbiamo ricevuto soltanto in un giorno, soltanto al momento stesso della nostra nascita, e la gratitudine è il primo dovere che si impone all’anima, se veramente vive nella realtà il suo rapporto con Dio.

Non per nulla la preghiera cristiana ha il suq compimento nell’Eucaristia: l’Eucaristia è rendimento di grazie, ringraziamento al Signore per quello che siamo, ringraziamento per quello che non siamo, ringraziamento per quello che abbiamo, per tutto.

Nulla precede l’atto dell’amore col quale Dio ci ha voluti fin dall’eternità, e nel tempo – ora – ci sostiene, ci stimola, ci dà la vita, ci conduce e ci porta con sé. Questa nostra dipendenza va vissuta umilmente, serenamente; essa non è meno vera anche quando noi non la percepiamo, anche quando ci sembra di essere soli, anche quando ci sembra di essere abbandonati; viviamo questa dipendenza da Dio nella fede!

 

La nostra dipendenza dallo Spirito Santo

 

Ecco il primo dovere che si impone all’anima se vuole vivere veramente la vita cristiana; la vita cristiana c è in dipendenza dallo Spirito Santo, e sarà tanto più piena e vera, quanto più questa dipendenza sarà vissuta realmente; non dico sentita, può darsi che non la sentiamo, ma vissuta, vissuta nella fede. E che cosa vuol dire vivere questa dipendenza da Dio nella fede? vuol dire percepire che non siamo mai soli, percepire che un Altro ha l’iniziativa sempre in tutto quello che noi facciamo e viviamo, in tutti i nostri pensieri, in tutte le nostre volizioni e desideri. In tutto quello che noi viviamo, vivere questa dipendenza dall’Altro, che rimane il Dio Creatore, e sentirci animati da un Altro, posseduti da un Altro, sempre.

Nella misura in cui non ci sottraiamo alla sua azione, sentiamo che veramente è in noi Colui che opera e il volere e l’agire, non solo l’agire ma anche il voler agire: tutto in noi dipende da Dio. Quale umiltà profonda deve possedere l’anima che ne è persuasa!

Ma non basta l’umiltà; l’umiltà è soltanto la condizione a una fede che ci mantiene in un rapporto reale con Dio. Noi viviamo un rapporto costante con le cose, con la luce quando al mattino ci alziamo, col cibo che ci è necessario per vivere, con le persone con le quali ci troviamo, ma dobbiamo vivere anche la nostra dipendenza dallo Spirito di Dio.

Per l’Antico Testamento vivere in rapporto con Dio voleva dire morire. Come è possibile che l’anima viva un rapporto col fuoco, con questo fuoco inestinguibile che è lo Spirito? Come è possibile che l’anima viva con questa realtà immensa che è Dio? Non riduciamo Dio alla nostra misura; siamo noi che dobbiamo proporzionarci a Dio e allora apriamo la nostra anima a questo contatto con la divinità. Vivendo pure una vita umile e povera, una vita nascosta, noi ci rendiamo conto che in ogni nostro atto viviamo una vita più grande dell’universo; tutta la storia del mondo è nulla in paragone di un atto di fede.

lo vorrei richiamarvi precisamente a questo, perché molto spesso possiamo fare delle belle meditazioni che risultano soltanto parole vuote; si fanno anche lezioni di teologia, ma non si vive un rapporto più reale con Dio. Rendiamoci conto, le parole di un bimbo che si rivolge a Dio valgono più del cammino di un cosmonauta che raggiunge la luna. L’atto di un’anima che si unisce a Dio, o almeno si apre ad accogliere Dio, vale più di tutta l’avventura dell’uomo quaggiù sulla terra.

 

Grandezza della vita cristiana

 

Che cosa è mai tutta la storia, che cosa è mai tutta la vita dell’universo, in confronto di un Dio che tu ricevi, che tu accogli nel cuore? Ci rendiamo conto della grandezza della vita cristiana? La vita cristiana è la misura stessa di Dio, perché non si vive una vita cristiana che in quanto ci si apre allo Spirito Santo, e lo Spirito Santo è l’immensità stessa dell’amore, e lo Spirito Santo è l’onnipotenza stessa dell’amore.

Noi ci crediamo, ci crediamo davvero? Come è possibile allora che tante volte ci chiudiamo nell’esperienza della nostra povertà, della nostra solitudine, quando ci sembra che la nostra vita sia inutile e vuota? Viviamo la grandezza di questa vita cristiana che è rapporto con Dio!

Dice la teologia che l’atto dell’uomo che pecca ha un carattere quasi di infinità, non in se stesso, ma in quanto tocca Dio; ma se nel peccato l’uomo compie un atto che ha qualche cosa dell’infinità stessa di Dio, quanto maggiormente la nostra vita cristiana ha questo carattere di infinità. Voi credete che Dio abiti nel cuore dell ‘uomo? Lo credete davvero? E allora come fate a non pensare che tutta la Chiesa è in ciascuno di noi, come fate a non pensare che tutto l’universo è ugualmente in ciascuno di noi? Ciascuno di noi è più grande di tutta la creazione se accoglie Dio; la vita di ogni anima è più grande di tutta la storia del mondo, se è un rapporto con lui.

Come dovremmo vivere la grandezza della vita cristiana che ha la proporzione stessa di Dio, se è rapporto con Dio! E notate bene che lo Spirito Santo donandosi a noi ci unisce a Cristo Gesù, e fa sì che veramente in qualche modo Dio si incarni ancora, o piuttosto prolunghi questo mistero della incarnazione, in quanto ci assume nell’unità del suo Corpo. È il mistero di una nostra partecipazione alla Maternità divina, di una nostra partecipazione all’unione nuziale di Maria col Verbo Incarnato.

È dunque un entrare anche più profondamente in unione con una Persona divina, con la Persona del Verbo. Lo Spirito Santo si dona a noi e noi l’accogliamo, noi possiamo assecondare la sua azione; ma attraverso questa docilità un mistero immenso si compie, il mistero da cui dipende tutta la vita spirituale e dice tutta la grandezza di questa medesima vita: l’Incarnazione, Dio che si fa uomo in noi, Dio che vive ancora questa sua unità con l’uomo, in ciascuno di noi, perché ciascuno di noi vive la vita del Cristo e Cristo vive la nostra medesima vita: «Vivo ego iam non ego, vivit vero in me Christus».

Se nel processo di discesa dal Padre per il Figlio nello Spirito Santo Dio si comunica al mondo, è nello Spirito Santo che noi ora siamo uniti col Cristo e la nostra vita è Gesù: «Mihi vivere Christus est», dice san Paolo, la nostra vita è Cristo Signore! Ci rendiamo conto che cosa vogliono dire queste parole? Il Cristo è l’unità del tempo e dell’eternità, è l’unità di un corpo con l’immensità divina. Se noi viviamo il mistero cristiano, ogni luogo dove siamo è il segno della divina immensità, nella quale noi ci perdiamo; se noi viviamo il mistero della Incarnazione divina, ogni istante della nostra vita è inseparabile dall’eternità stessa di Dio. È quello che diceva suor Elisabetta della Trinità: vivere il presente, l’attimo presente, perché Dio che è l’eternità non ha passato e non ha futuro; l’attimo che vivi ha tutta la dimensione dell’eternità stessa di Dio.

 

La vita in Cristo

 

Viviamo noi questo? O viviamo ancora in un tempo che è slegato; che non è unito all’eternità di Dio? Ma se viviamo un tempo che non è unito all’eternità di Dio, non viviamo l’Incarnazione; se viviamo in un luogo che non è un segno dell’immensità divina non viviamo l’Incarnazione. Se voi vivete «qui», e questo «qui» non è un segno della divina immensità, voi non siete unite a Cristo, perché il Cristo è Colui che ha unito in sé il tempo e l’eternità, la natura umana e la natura di Dio: tempo ed eternità sono una sola cosa!

Di qui deriva quello che sempre io dico e insegno anche agli studenti di teologia, che cioè la storia per i cristiani non esiste; esiste una storia soggettiva, che implica per noi un inserimento sempre più reale nel mistero dell’Incarnazione divina. Ma se il Cristo, se il Verbo di Dio si è fatto uomo veramente nell’Incarnazione del Verbo, il tempo ha raggiunto il suo limite, oltre l’eternità non si va, non si può andare oltre il Cristo, se si andasse oltre il Cristo si andrebbe nel vuoto, dal momento che il Cristo è il Figlio di Dio ed è l’eternità.

Il Cristo è la giovinezza del mondo, e questo vuol dire che io vivo nel tempo, sì, ma non vivo realmente come cristiano se non vivo oggi, il giorno stesso di Dio, la presenza pura nel Cristo, la presenza pura e assoluta del Verbo di Dio. Credete forse che la mia Messa valga meno della Messa del Papa? Credete che la Messa che oggi io celebro sia più grande della Messa celebrata mille anni fa da un qualsiasi sacerdote? No, certo! È l’atto del Cristo, e questo atto rimane, atto terminale di tutta la storia, atto in cui tutta la storia si riassume.

Se dunque pensate che la Messa sia stata celebrata in quest’ora e sia racchiusa nell’ora, voi vi sbagliate, perché la Messa è la memoria, è l’atto salvifico che si fa per me presente. lo devo vivere questa presenza al di là di ogni tempo. Sì, vivo quest’ora, ma quest’ora si identifica per me con l’atto stesso del Figlio di Dio, un atto che è in superabile, un atto che tutti i tempi non potranno mai superare. Se i tempi potessero superare l’atto del Cristo, allora il Cristo si allontanerebbe sempre più da noi, allora saremmo ben infelici noi che viviamo dopo duemila anni dalla sua morte.

Ma egli rimane e sono io che vivendo nel tempo devo sempre più inserirmi in questa pura Presenza. Ecco l’Incarnazione! A questo ci chiama lo Spirito Santo. Non si vive nel tempo, si vive nell’eternità stessa di Dio; non si vive nello spazio, ma attraverso ogni spazio noi viviamo la divina immensità. Sareste delle prigioniere volontarie se il Monastero fosse la vostra dimora; il Monastero è per voi la condizione, il segno della divina immensità, come le specie del pane sono il segno della presenza reale del Cristo. Se il Cristo si identificasse con le specie sarebbe un Cristo ben povero; ma le specie sono soltanto il segno di una Presenza, che infinitamente trascende il segno. Così il segno del Monastero, questo luogo nel quale voi siete, è il segno dell’immensità della presenza pura del Cristo, nel quale voi dovete vivere. Così il segno del tempo: l’anima che vive un giorno solo, se vive veramente di Dio, può vivere una vita molto più grande di un’altra che vive nella vanità, che vive soltanto nel tempo, perché il tempo passa e passando non è.

Dov’è il giorno di ieri? Dov’è? Il tempo passa e non è, ma rimane la presenza pura del Cristo e tu devi vivere attraverso ogni tempo questa presenza, che è l’eternità stessa di Dio comunicata al mondo: ecco l’Incarnazione. Vivere mediante lo Spirito Santo vuol dire vivere la Presenza, questa Presenza pura di Colui che facendosi uomo non cessa di essere Dio, e fa sì che l’uomo, ora, in lui partecipi alla vita divina.

 

Cristo in tutte le cose

 

Questo dovete vivere, mie care Sorelle. Vi sentite voi chiuse? Sentite il rimpianto di un tempo che è fuggito? L’ansia e il timore di un avvenire del quale non disponete? Non c’è futuro, non c’è passato, c’è lui! Tutta la realtà di quel mondo nuovo nel quale noi siamo stati introdotti è Gesù. Non dice forse san Paolo, nella Lettera ai Colossesi (1,13), che egli ci ha trasferiti nel Regno del Figlio suo? E il Regno del Figlio suo è Dio medesimo, come dice Origene, lui stesso, la Presenza!

Fate sì, mie care Sorelle, che ogni cosa sia segno di questa Presenza. Non solo le specie del pane, ma la Consorella; le Consorelle non sono forse un segno del Cristo? Avete una Consorella, avete con voi Gesù! Ma gli animali stessi che trovate nell’orto; ricordate san Francesco, vedeva un bruco, un verme e si metteva in ginocchio: «Ego sum vermis et non homo!». Anche il verme era per lui un segno della Presenza. Vedeva un agnello e gli ricordava: «Ecce Agnus Dei!», l’agnello gli faceva presente Gesù. Ogni cosa per noi deve dire: Gesù!

D’altra parte non è questo l’insegnamento che ci dà il IV Vangelo? Egli è la luce, egli è il giorno, egli è la strada, egli è il buon pastore, egli è la vite, egli è il pane, egli è tutto … tutte le cose non sono che segno di lui. Non è più la molteplicità delle cose, tutta la creazione in lui si riunisce, in lui si riassume. Egli è il mondo nuovo nel quale noi siamo stati introdotti mediante la redenzione.

Una volta che Dio ebbe creato Adamo lo introdusse nell’Eden, nel giardino delle delizie; e noi redenti dalla morte di Cristo siamo introdotti in questo nuovo Paradiso di Dio, che è il Corpo di Cristo, che è il suo Cuore; noi viviamo nel Cuore di Gesù, come si diceva nella meditazione precedente. Sentiamo davvero di essere nel Cuore di Cristo? Sentiamo davvero di vivere la vita del Cristo e non la nostra piccola vita? Sappiamo uscire da noi stessi per vivere in lui la sua medesima vita? Quale vita? La vita cristiana è partecipazione a un atto solo, all’atto della morte e della risurrezione del Cristo. Che cosa è la vita cristiana, che cosa è la vita del mondo? Quanto più il mondo vivrà tanto più vivrà la sua morte e la sua risurrezione. Quale è l’atto ultimo della storia del mondo se non la partecipazione precisamente alla sua morte di croce? La fine del mondo è la partecipazione di tutta la creazione all’atto suo di morte; ma anche la risurrezione dei corpi, la risurrezione della carne, ultimo termine di tutta la vita e di tutto l’universo, è la partecipazione alla sua risurrezione. Non crediate che la risurrezione futura sia più grande della sua risurrezione, no, è un entrare di tutta l’umanità nel suo atto di risurrezione e di gloria.

Egli trascende tutto, egli è davvero la creazione nella quale noi ci introduciamo. Non è il Cristo che fa parte della creazione, ma è la creazione tutta intera che deve far parte di lui, è tutto il tempo che deve precipitare nel suo atto di morte e di risurrezione. Questo ci insegna il mistero eucaristico. Noi sappiamo che il mistero eucaristico è il mistero della Presenza reale. Che Presenza è quella del Cristo nella Eucaristia? Che realtà è quella del Cristo nella Eucaristia?

 

La presenza di Dio

 

Intanto una cosa bisogna notare: non è la presenza che è propria delle cose quaggiù, perché le cose quaggiù non sono totalmente presenti a me, né io sono totalmente presente a loro. Chi di voi mi conosce, perché possiate dire che io vi sono presente? È una presenza molto limitata, imperfettissima; mi conoscete per nome, avete visto il mio volto. Vi posso dire di più: non solo io non sono presente a voi, né voi siete presenti a me, ma nemmeno io sono presente a me stesso, non so nemmeno che cosa sono: io sono presente soltanto a Dio. Non Dio è presente a me, ma io sono presente a Dio, egli mi conosce!

Il vivere permette di entrare in questa Presenza di Dio, ed è questa l’Eucaristia. Nell’Eucaristia il Cristo è la Presenza ultima e definitiva, mentre quaggiù non si vive la presenza; non solo le cose sono al di fuori di noi, sempre, ma anche il nostro spirito è al di fuori di noi, non abbiamo la perfetta coscienza di quello che siamo. Ogni istante, ogni giorno viviamo una parte di noi stessi, ma non possiamo possederci pienamente: egli è la Presenza!

Questo vuol dire che egli non è più nel tempo, perché se vivesse nel tempo non vivrebbe la Presenza. Il tempo è soltanto un essere stirato tra un passato che non è più e un avvenire che non è ancora. Dove è il presente? Quando ho già parlato, se ne è andato, non è vero? L’attimo stesso lo posso dividere in due, passato e futuro, non esiste il presente: egli è la Presenza! Al di fuori del tempo egli è l’immutabilità stessa dell’amore di Dio; egli è la Presenza non solo perché è al di fuori del tempo, ma anche perché è al di fuori dello spazio, perché anche lo spazio divide, e Dio non è una Presenza locale.

Il segno sì è lì, le specie sono lì, ma Gesù non è lì, dice san Tommaso; se fosse lì, quanti Gesù ci sarebbero? E invece Gesù è uno solo. Le specie sono il segno di una Presenza che trascende ogni tempo come ogni luogo; una Presenza pura; noi dobbiamo entrare in essa.

Ecco che cosa vuol dire vivere la vita cristiana, attraverso ogni luogo e attraverso ogni tempo, entrare in questa Presenza immutabile e immensa del Cristo. Le cose che sono reali non consistono, non sono stabili; la realtà nostra è una realtà che scorre fra le mani, è e non è; passa la figura di questo mondo, ha detto san Paolo.

Egli è la Presenza reale, la realtà definitiva dell’estasi, la realtà del corpo glorioso del Cristo che eternamente rimane, non è più soggetto alla morte: egli sta, e in lui noi rimaniamo nella realtà di Dio. È in lui che noi siamo salvati, in noi stessi non viviamo che il nostro morire, in lui viviamo l’eternità stessa di Dio. Lo dice san Paolo nella Lettera ai Colossesi (1,17): «Omnia in ipso constant», tutte le cose, tutte le creature trovano la loro consistenza in lui, come il loro fondamento.

Senza il Cristo siamo come sulle sabbie mobili; così è il vivere del mondo, si vive nelle sabbia mobili e si affonda sempre più come nel nulla. Egli invece è il fondamento sopra il quale io riposo e rimango: «Omnia in Christo stant», trovo in lui la mia consistenza eterna, in lui sono salvato. Né i tempi né gli spazi possono più annullarmi: io sono in Cristo!

Dobbiamo veramente abbandonarci allo Spirito Santo perché egli compia questo grande mistero per il quale noi, assunti dal Cristo, non viviamo più che la sua morte e la sua risurrezione gloriosa. Una volta mi diceva uno che ora è in Processo di beatificazione: io non so perché si scrive la vita dei santi; non è necessario, la vita dei santi è la vita del Cristo, basta il Vangelo. Il Vangelo è la vita di ciascuno di noi, noi dobbiamo riconoscerci lì, più che in noi stessi, perché siamo più nel Cristo che in noi medesimi; in noi medesimi viviamo la morte, in lui viviamo la vita!

 

10.

L’AMORE CRISTIANO

 

(Omelia nella Messa in onore di san Francesco di Sales Prima lettura: 1 Gv 4,7 – 16; Vangelo: Mt 5,13 – 19)

Nell’Epistola san Giovanni ci dice che dobbiamo amarci gli uni gli altri: «Chi ama è generato da Dio … chi non ama non ha conosciuto Dio», poi aggiunge: «In questo noi abbiamo conosciuto l’amore, non siamo stati noi ad amare Dio, ma Dio ci ha amati e ha dato il suo Figlio per noi».

Come si fa ad amare se di fatto noi conosciamo che l’amore è soltanto di Dio? Come facciamo ad amare se dobbiamo riconoscere che non siamo noi ad amare, ma è Dio che ci ha amato?

Il primo insegnamento, il primo paradosso nasce proprio di qui. Tutta la vita cristiana si riassume nel comandamento dell’amore, e il comandamento dell’amore è al di sopra delle possibilità dell’uomo, perché non è l’uomo che ama: deve essere l’uomo ad amare e non è l’uomo che ama.

 

Amore che si dona

 

Questo insegnamento non è così difficile, anche se è paradossale; non è semplice, è profondo, ma non è difficile a capirsi. San Giovanni ci vuole insegnare che noi possiamo amare soltanto se Dio ama in noi. E di qui viene il fatto che nel Nuovo Testamento non si parla molto del nostro amore per Dio, ma si parla soprattutto dell’amore nostro per il prossimo. La creatura umana, infatti, tende inevitabilmente a Dio come a suprema bellezza, come a bene infinito, come a sua beatitudine; pertanto l’amore dell’uomo è sempre una ricerca di sé, è un amore che ha origine – come diceva Platone – nella nostra indigenza. Noi troviamo in Dio soltanto la nostra perfezione e la nostra felicità e l’amore per Dio nasce sempre e prima di tutto come «amar concupiscibilis», come un amore di desiderio, che a Dio ci spinge.

Infatti,parlando dell’amore di Dio, l’Antico Testamento lo esprime in questa sete che l’anima ha del Signore, in questo desiderio, in questa tensione di tutto l’essere a lui, perché in lui soltanto trova la sua pace. Ma non è questo l’amore vero; è amore, certo, ma è «amar concupiscibilis», e non è su di esso che insiste il Nuovo Testamento.

Il Nuovo Testamento insiste sull’amore che è la vita di Dio, che è l’Essere stesso di Dio, un amore che non è amore di desiderio, è piuttosto dono di sé; un amore che non è più un volere trarre a noi, ma un amore che si dona.

Ora se il nostro amore deve essere un amore che si dona, noi riconosciamo che è stato Dio il primo a manifestarlo e a viverlo, quando ha dato il suo Figlio alla morte per la nostra salvezza. Ma allora comprendiamo come è più facile riconoscere questo amore, che è l’amore stesso di Dio, nel nostro amore del prossimo, piuttosto che nel nostro amore per Dio.

È vero, possiamo amare Dio anche di un amore puro, ma è più difficile capirlo; è più facile invece capire come l’amore vero, l’amore cristiano, l’amore che è una nostra partecipazione alla vita divina, sia vissuto nell’amore del prossimo, perché l’amore del prossimo in noi può avere gli stessi caratteri dell’amore di Dio verso di noi.

Non per nulla san Paolo nella Lettera ai Corinzi (c. 13) dice che nel cristiano il carattere dell’amore del prossimo ha gli stessi caratteri dell’agàpe divina, cioè è un amore preveniente, è un amore gratuito, è un amore totale, è un amore universale.

È un amore dunque prima di tutto gratuito, perché non è attirato dall’oggetto, ma crea l’oggetto. È amore preveniente, perché non è una risposta all’altro, ma previene l’altro, è atto originario. È amore totale, perché impegna tutto l’essere, ed esige il dono di tutto l’essere all’altro che si ama. È un amore universale, perché essendo gratuito e preveniente e non determinato dall’oggetto, si estende su di tutti. Tutto crea, tutto si dona.

L’amore del prossimo ha gli stessi caratteri dell’amore divino, è un semplice atto perché è Dio stesso che ama attraverso di noi. Ecco perché san Giovanni parla tanto di questo amore vicendevole, di questo amore che noi dobbiamo portare ai fratelli. Nell’amore ai fratelli san Giovanni riconosce il segno di una presenza di Dio nel cuore dell’uomo, perché quando si amano i fratelli non siamo noi che amiamo, ma noi diventiamo lo strumento dell’amore stesso di Dio.

In questo dunque l’amore del prossimo è veramente un amore che rivela la presenza di Dio nel cuore dell’uomo, la presenza di Dio nel cuore del mondo, perché non ha la sua origine, non ha il suo principio in noi, ma in Dio stesso.

 

Amore che previene

 

Se noi dobbiamo amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, come potremo amare il prossimo? Se l’amore di Dio totalmente ci consuma e deve consumare tutto l’essere nostro, che cosa ci rimane per poter amare il prossimo? L’amore del prossimo è già il segno di una nostra salvezza, è già il segno che Dio vive in noi. Noi amiamo Dio con tutto l’essere nostro perché tendiamo a lui come al nostro fine, ma una volta che Dio vive in noi come amore, il nostro amore non è più soltanto un «amar concupiscibilis» verso Dio, ma verso i fratelli ha gli stessi caratteri dell’amore divino. Prima di tutto dunque è un amore preveniente, cioè è un amore che non è una risposta. Non si amano gli altri perché sono buoni, o perché sono intelligenti, non si amano gli altri perché sono belli, o per il loro valore; dirò di più, non si amano gli altri perché sono peccatori, o perché sono nemici, non si amano per tutto questo.

Un grande filosofo anticristiano del secolo passato, Nietzsche, si chiedeva che cosa fosse questo amore del prossimo dei cristiani e lo paragonava all’atteggiamento non degli uomini, ma dei cani. Se dai un calcio a un cane lui ti viene a leccare i piedi; così, tu vieni bastonato da qualcuno, e tu lo ami; ma dagli un calcio anche tu – diceva Nietzsche -, allora manifesti di essere un uomo. Qual è la risposta che il cristiano dà a Nietzsche? Il nostro amore non è né una risposta all’odio dei nemici né una risposta all’amore degli amici, ma è come l’amore di Dio, precede sia l’odio che l’amore.

Può essere che l’uomo non ami, che il cristiano non ami? Impossibile, perché se è cristiano vive in lui Dio e se Dio vive in lui, Dio, che è amore, lo fa strumento di questa carità. lo amo, amo perché amo, come diceva san Bernardo dell’amore di Dio, amo senza ragione, non c’è altra ragione all’amore che il medesimo amore.

È difficile capire tutto questo. Molto spesso il nostro amore è una risposta, una risposta ai valori dell’altro: si amano gli altri perché sono buoni; oppure il nostro amore è una risposta che implica una vittoria su noi stessi, sul nostro egoismo: si amano anche coloro che ci hanno disprezzati, anche coloro che ci hanno odiati. Certo è bene fare così, intendiamoci, ma non è ancora questo l’amore cristiano. L’amore cristiano è come l’amore di Dio. In questo abbiamo conosciuto l’amore, che Dio ci ha amati per primo, prima che noi lo amassimo, prima che lo conoscessimo; ci ha amati quando noi eravamo lontani da lui, ci ha amati semplicemente. Egli è l’amore! Così il cristiano ama, non può che amare, la sua essenza è l’amore! Dio è amore, e se Dio è amore non può esservi altro atto di Dio che quello di amare.

 

Accettare l’amore

 

Tante volte anche i cristiani si chiedono se sia possibile che Dio ci mandi all’inferno, se egli è amore. Dio non ci manda all ‘inferno. Dio non condanna nessuno, Dio rimane amore; soltanto, sei tu che vuol andare all’inferno, sei tu che rifiuti l’amore, sei tu che non accetti di essere amato. All’inferno ci vanno soltanto coloro che ci vogliono andare: Dio rimane amore! Se per un istante solo il demonio si aprisse ad accogliere l’amore di Dio, l’inferno sparirebbe. È il demonio che si fissa per sempre nel suo atto di rifiuto e di odio nei confronti di Dio, ed è per questo che egli si chiude da se stesso nel volere la condanna e l’inferno.

Così è anche per l’uomo. Se l’uomo potesse cambiare la sua volontà, e accettare di essere amato, l’inferno sparirebbe; ma con la morte non possiamo cambiare più, in quell’atto in cui la morte ci trova noi rimaniamo eternamente. Se la morte ci fissa per sempre in un atto di rifiuto alla grazia, in un atto di rifiuto a Dio, in quest’atto noi rimaniamo; ma in questo caso siamo noi stessi che ci chiudiamo nell’inferno, non è Dio che ci condanna.

Le parole del Vangelo sono antropomorfiche; non dobbiamo pensare che Dio abbia alla destra gli eletti, alla sinistra i dannati e dica agli uni: <<Venite benedetti dal Padre mio nel Regno» e agli altri: «Andate maledetti nel fuoco eterno … ». Sono rappresentazioni, queste, per farci capire che l’inferno è reale ed esiste, che è eterno, ma non vogliono significare una condanna positiva di Dio. «Non sono io che vi giudico, non sono io che vi condanno – ha detto Gesù – è la Parola che vi ho detto che vi condanna» (cf Gv 12,47 ss). Questo perché se Dio ama, ma tu rifiuti l’amore, tu non puoi essere amato; Dio ama e Dio non è che amore, ma tu non puoi ricevere l’amore che in quanto lo accogli.

L’amore è libero non solo in colui che ama, ma anche in colui che è amato. lo posso anche rifiutare di essere amato da Dio, ed è questa la possibilità dell’uomo, la tragedia dell’uomo: l’uomo può rifiutare l’amore di Dio. Ma se l’uomo può rifiutare l’amore di Dio, Dio non cessa di essere l’Amore. Dio è amore!

Ora se Dio è amore, anche il cristiano è amore. Una volta che Dio ha amato l’uomo e l’uomo ha accettato l’amore di Dio, l’amore di Dio vive in lui. Come faccio io a essere amato, se questo amore di Dio non vive in me? Dal momento che egli mi ama e io accetto di essere amato, l’amore di Dio diviene il contenuto della mia vita: io stesso sono trasformato in amore, e la misura che dice come io veramente ho accettato di essere amato è la mia trasformazione nel medesimo amore. Uno che è amato possiede l’amore; se io accetto di essere amato da Dio, io stesso mi trasformo in amore, divengo amore, come Dio è amore. E trasformato in amore come Dio è amore, la mia vita diviene amore.

Facciano gli altri quello che vogliono di me, io non potrò che amare, amare gli altri, amare sempre, amare con tutto me stesso, amare senza misura, come mi ha amato Dio. La mia natura è l’amore, il mio atto è morire per tutti, è essere disposto a vivere il dono di tutto me stesso a ciascuno, senza differenza.

 

Amore senza discriminazioni

 

Secondo san Massimo il Confessore non ci deve essere differenza tra amare un povero o un ricco, tra amare un peccatore o un santo, tra amare il Papa o uno spazzino; non ci può essere differenza perché l’atto dell’amore deve consumare tutto il mio essere. È evidente che il modo di amare è diverso, perché diverso è il bisogno di ciascuno e l’amore corrisponde al bisogno, sempre col dono di tutto me stesso, ma secondo il bisogno. Il bisogno del povero è che gli dia da mangiare, a chi è ricco è inutile che porti da mangiare, lo amerò in un altro modo, lo amerò con amore di pietà. Il modo di amare è diverso, ma l’amore rimane uguale.

E qual è questo amore uguale per tutti? È la disponibilità di tutto l’essere a donarsi a ciascuno senza differenza. Certo questo dono è sollecitato dalle persone che incontro, dal momento che io vivo nel tempo e vivo nei luoghi. Devo vivere la mia disponibilità a ciascuno, però non posso donarmi attualmente se non alle persone che mi sono vicine, alle persone che mi conoscono, alle persone che in qualche modo entrano in rapporto con me e con le quali io entro in rapporto. Ma rimane vero che il mio amore per tutti è preveniente come l’amore di Dio, non è sollecitato dagli altri, ma gli altri lo rendono reale.

Come Dio è amore, così la Chiesa è amore, dice sant’Ignazio di Antiochia nella sua Lettera agli Efesini. Come Dio è amore, «Deus charitas est», la Chiesa è amore, ma anche il cristiano è amore, ed è amore nella misura che è trasformato in Dio.

Se noi vogliamo sapere a che punto siamo giunti nel nostro cammino di santità dobbiamo vedere fino a che punto siamo trasformati in amore, come Dio è amore. E questa trasformazione in amore si manifesta soprattutto nell’amore del prossimo, che non è un amore di risposta, perché io posso amare e debbo amare ugualmente sia il buono che il cattivo, sia chi mi ama sia chi mi disprezza, sia il ricco che il povero. Se faccio una scelta, non è più amore preveniente.

Ecco perché io cattolico non posso accettare la definizione di Chiesa come «Chiesa dei poveri»; la Chiesa è la Chiesa di tutti,. la Chiesa è amore per tutti. Prenderà questo amore il ricco come il povero, e d’altra parte molto spesso il ricco è più bisognoso di amore del povero, perché è più lontano da Dio. Sono sbagliate queste parole che implicano una scelta nella Chiesa, una scelta nel cristiano; io non posso scegliere, perché ho scelto già tutto, come diceva santa Teresa di Gesù Bambino. Chi ama ha scelto ogni cosa; non puoi amare più uno dell’altro, e se ami più uno dell’altro, tu non ami dell’amore di Dio.

Gesù nel V angelo dice che il nostro amore deve essere come l’amore del Padre che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti; piove sull’uno come sull’altro; se tu ti ripari perché non vuol ricevere la pioggia, non la ricevi, ma la pioggia scende su tutti. Così è l’amore di Dio, così è l’amore del cristiano. Se fai differenza non sei più cristiano, perché Dio non fa differenza, sono gli uomini che fanno differenza.

Non crediate che Dio ami di più un santo che un peccatore; egli non può amare un santo più che un peccatore, la verità è che il santo si apre ad accogliere l’amore di Dio e riceve questo amore, il peccatore invece non crede a questo amore e lo rifiuta.

 

Santità è credere nell’Amore

 

E anche noi non siamo santi perché non crediamo abbastanza all’amore di Dio; santo è soltanto Dio, noi non siamo santi: «Tu solus Sanctus», tu solo sei santo! La santità nostra è la presenza di Dio nel cuore dell’uomo, ma Dio si fa presente nel cuore dell’uomo nella misura che l’uomo crede e si apre ad accogliere l’amore di Dio. Dio che è infinito non ha modo di misurare; Dio è infinitamente semplice, non può amare più o meno, egli ama sempre infinitamente: sono gli uomini che pongono una misura al suo amore. Se Dio amasse più o meno, non sarebbe più Dio!

Perché Maria santissima è più santa di noi ed è più santa di tutti gli altri santi? Lo dice santa Elisabetta: «Beata tu che hai creduto!». La fede di Maria santissima nell’amore di Dio è tanta quanto è grande l’amore che Dio le porta; ed essendo l’amore di Dio infinito, tutto ella lo accoglie in sé; la fede di Maria misura il dono che Dio le fa. Anche la nostra fede misura il dono che Dio ci fa, ed ecco perché in fondo la santità di un’anima, secondo san Paolo, si misura dalla fede, e tanto più cresce la santità quanto più cresce la fede.

Quale fede? La fede nella vita: «Et nos cognovimus et credidimus charitati», dice il testo che abbiamo ascoltato. Noi abbiamo conosciuto e abbiamo creduto all’amore. Ma se l’amore di Dio è preveniente ed è gratuito ed è amore infinito, anche il nostro amore, se Dio vive in noi, deve avere gli stessi caratteri.

 

11.

LA CARITÀ NELLA VITA COMUNITARIA

 

Non crediate di poter amare dell’amore di cui parla Giovanni, dell’amore di cui parla il Vangelo; quello è l’amore di Dio e Dio è Amore. E voi potete amare soltanto nella misura in cui Dio vive in voi; in tale misura voi sarete l’amore, cioè amerete tutto, amerete tutti e non vivrete che questo amore, questa volontà di donarvi, senza limite, senza stanchezze, senza delusioni, senza che possiate mai porre una fine al vostro amore, perché quanto più amate tanto più sentirete il bisogno di amare, di donare amore, e sarà sempre poco quello che date, dal momento che l’amore vi spinge, non a donare soltanto tutte voi stesse fino alla morte, ma a donare Dio medesimo. Anche la morte sembra non porre un limite al dono che l’uomo deve fare di sé.

 

L’amore nella comunità

 

È questo amore che voi dovete vivere già in comunità, è questo amore che voi dovete vivere nella Chiesa, è questo amore che dovete vivere nella creazione. Prima di tutto nella comunità, perché il bene della comunità è proprio questo. Vivete in comunità, ma voi non avete scelto le persone con le quali ora vivete. Se foste state voi a scegliere avreste scelto per vostre Sorelle le persone che vi piacevano di più, che vi erano più simpatiche, le persone più buone, e invece vi trovate insieme a persone che tante volte esigono la vostra pazienza, persone che saranno anche buone, ma che vi sono sinceramente antipatiche, persone che non hanno doti di intelligenza particolari, né forse bellezza fisica né giovinezza; vi trovate a vivere con persone anziane forse un po’ brontolone … Non è una meraviglia tutto questo? È Dio che vi costringe ad amare a suo modo, non a modo vostro, ma a suo modo. A modo nostro noi ameremmo precisamente in quanto sollecitati dall’altro, dalla bellezza; dalla bontà, dalla giovinezza dell’altro e invece qui siete entrate a occhi chiusi.

E dopo aver vissuto qui dentro per mesi e anni, allora si comincia a conoscersi davvero e si impara davvero ad amarci, ad amarci come vuole Dio, di un amore che implica la pazienza, che implica l’umiltà, che implica il sacrificio di sé, quotidiano, sereno, senza stanchezze; questo è l’amore! Un amore preveniente e gratuito, perché non siamo noi che abbiamo scelto quelli che dobbiamo amare, e siamo impegnati ad amare non secondo quello che vogliamo, ma secondo quello che gli altri ci chiedono e quello che gli altri accettano da noi. Questo è l’amore!

Ecco la comunità! La comunità è precisamente il distintivo del cristianesimo. Dice Giovanni: l’amore è vicendevole, e l’amore vicendevole è quello che crea la comunità; l’amore che si dona, ma che non ha risposta, non crea comunità. È amore cristiano, ma non crea comunità. La comunità è creata dall’amore vicendevole; questo amore vicendevole è anche un amore cristiano, perché è un amore che non suppone la mia scelta, ma un amore che io debbo a coloro che Dio mette vicino a me, che Dio vuole che vivano con me la mia medesima vita, anche se io avrei scelto molto diversamente.

 

Amore perseverante

 

La comunità poi esige non solo un amore libero, un amore gratuito, ma anche un amore continuo. lo non posso mai mettere tra parentesi le persone con le quali debbo vivere. È facile amare quando ci si dona ai poveri, ma poi si chiude la porta; ora essi stanno di là e io sto di qua, e posso difendermi nei loro confronti. Voi non potete difendervi, siete sempre insieme, dovete stare sempre insieme. Non potete mai chiudere la porta e dire: tu sta’ di là e io sto di qua! Le vostre Sorelle fanno parte della vostra vita; la comunità è il vivere totalmente il dono di voi stesse senza più potervi sottrarre a questo atto di amore.

L’amore che si vive in comunità è un amore totale anche perché è di tutta la vita. Quando entrate nel Monastero fate una scelta che determina tutta la vita; e quindi implica un amore fino alla morte. È veramente un morire scegliere quello che non conosci, l’essere introdotti in una comunità che diviene per te il luogo dove devi esercitare l’amore fino alla morte.

La comunità non limita il vostro amore, perché l’amore è universale, ma vi insegna come si ama, perché soltanto nella comunità si impara l’amore del prossimo. Ecco perché in fondo l’amore cristiano crea sempre la comunità, ma la comunità religiosa, in cui si vive sempre insieme la medesima vita, in cui non ci si può sottrarre al rapporto con gli altri. Questa è la vera scuola dell’amore e proprio per questo san Francesco di Sales ha voluto che vi distinguesse l’amore, la dolcezza, l’umiltà del rapporto fra voi.

La vita religiosa cristiana prima di tutto è ordinata a creare la comunità dell’amore. lo credo che san Francesco di Sales abbia visto più chiaramente anche di santa Teresa, perché ha messo in maggiore evidenza il tratto evangelico della carità come fine supremo della comunità religiosa. Non ha voluto la vita eremitica o la vita contemplativa; la vita contemplativa viene in seguito, prima di tutto ha voluto la comunità dell’amore. La comunità dell’amore trascende qualsiasi altro fine nella vita religiosa, così come è contemplata da san Francesco di Sales, perché la comunità dell’amore è quella che dice di più la presenza di Dio nel cuore dell’uomo.

Voi siete il segno e il sacramento di una presenza di Dio, dovete esserlo, ma lo sarete se la vostra vita religiosa crea la comunità; essa non è creata dalla legge e approvata dal Papa, ma dalla vostra vita religiosa in quanto è impegno di amore umile, casto, di un amore paziente, di In amore che è dolcezza, è mitezza; è l’amore di Dio che i esprime e rende testimonianza di sé, nella vostra medesima vita.

 

Amore universale

 

Ma se la comunità religiosa è la scuola dell’amore, non deve essere limite all’amore cristiano, nemmeno al vostro more. Voi siete nella comunità religiosa per vivere un amore più vasto, un amore che crei la comunità della Chiesa, che si espanda tanto quanto si espande l’amore di Dio. È infatti l’amore di Dio che vive in voi, e voi dovete imparare ad amare nella comunità religiosa, per poi espandere questo amore su tutta la Chiesa, su tutta l’umanità. A circoli concentrici, perché evidentemente non siamo come Dio e amore anche in noi si espande in circoli concentrici, secondo che gli altri ci sono più o meno vicini; non perché lontani il nostro amore non debba giungere, ma perché condizionati come siamo dal tempo e dallo spazio, il nostro amore concretamente non può raggiungere gli altri che passando attraverso i vicini.

Per dirlo in altre parole: Gesù ha salvato tutti gli uomini, l’amore del Cristo ha raggiunto veramente tutti gli uomini, anche quelli che erano già morti, anche quelli che sarebbero vissuti poi nei secoli futuri. Però concretamente, durante la sua vita mortale, egli non ha conosciuto che quelli che ha incontrato, egli non ha amato se non quelli a cui il suo amore poteva giungere, in forza del condizionamento della sua natura umana.

Anche per noi l’amore verso il prossimo prima di tutto si deve esprimere nella comunità, perché Dio ha messo vicino a noi delle anime e queste possono essere più facilmente raggiunte dal nostro amore. Gesù non conosceva gli uomini che vivevano a Roma, fin tanto che è vissuto quaggiù sulla terra. Però, una volta liberato dai condizionamenti propri della natura umana, cioè con la risurrezione, il suo amore, che potenzialmente già abbracciava tutte le cose, ora si espande, trabocca e raggiunge gli estremi confini, non solo sul piano dello spazio, ma sul piano anche del tempo, e non vi è più creatura che non sia raggiunta da questo amore.

Anche durante la nostra vita è così. Pensate a santa Teresa del Bambino Gesù, più condizionata di così. .. viveva in un chiostro ed è vissuta poco, perché era ammalata ed è morta a 24 anni. E tuttavia dopo la morte diviene patrona di tutte le missioni. Durante la sua vita non fece che piccole cose, per esempio portava in refettorio quella suora bisbetica, vecchia … Faceva molto di più il beato Luigi Orione, che viveva nel mondo, andava in piroscafo, è stato in America, ha girato tanto e ha avvicinato tante anime. Lei soltanto le anime del chiostro!

Ma quella vita che sembra povera agli occhi umani, e apparentemente era povera, perché condizionata dalla sua vocazione carmelitana che la chiudeva in un chiostro, una volta liberata dai condizionamenti del tempo e dello spazio con la morte, ecco che manifesta la sua potenzialità nell’estendersi per tutta la Chiesa.

Così i santi. Invece gli uomini che vivono nel tempo, soltanto nel tempo, muoiono e muoiono davvero, spariscono; la loro vita che sembrava grande durante l’esistenza terrena, appare estremamente povera e nulla con la loro morte, perché Dio non viveva in loro.

Se io vivo soltanto la mia vita umana, la morte è la morte, cioè non vivo più; sono, sì, immortale, ma per vivere soltanto la morte. Invece se in me vive Dio, anche se questa vita di Dio non si esprime, per il condizionamento della mia natura, nella sua potenza, nella sua efficacia, nella sua universalità mentre io vivo, basta che si rompa il velo, che si rompano i legami che mi tengono avvinto ai condizionamenti di questa natura perché tale amore si espanda, secondo l’efficacia e la grandezza della presenza di Dio in me. Ecco la vita dei santi, i quali vivono più dopo la morte che durante la vita.

Così può avvenire per voi; può avvenire che una di voi viva veramente la vita divina, questo amore di Dio, e tuttavia le altre non percepiscano che una vita povera e insulsa. Ma se Dio è in voi, basta l’amore, e la vostra vita diverrà una sorgente efficace di rinnovamento per tutto l’Ordine, o almeno del Monastero.

I condizionamenti della nostra natura però non tolgono nulla ai caratteri propri dell’amore del prossimo, così come vengono definiti da san Paolo e vengono anche descritti da san Giovanni: amore, dicevo prima, preveniente e gratuito, amore totale, amore universale.

 

Amore senza misura

 

L’amore è universale perché non può conoscere per sé nessun limite, il limite lo conosce nei condizionamenti della propria natura, ma per sé non ha limite alcuno; se poni all’amore una misura, l’amore si spegne. Non puoi porre un limite all’amore; se tu dici: voglio amare fino a questo punto e non più, tu non ami. L’amore di per sé tende a bruciarti, a consumarti totalmente. Dare una misura all’amore è non amare; la misura viene nell’uomo e la vediamo anche nel Cristo, ed è la propria morte. Ma fin tanto che non sei morto per amore, non puoi dire di aver amato abbastanza.

Ecco perché la legge dell’amore, proprio in san Giovanni, esige il dono della vita: «Et nos debemus pro fratribus animam ponere», anche noi dobbiamo morire per i nostri fratelli, non c’è altro limite. Morire a noi stessi; non si tratta di essere ammazzati, ma è un morire continuo a noi stessi, al nostro gusto, alle nostre preferenze. È morire a noi stessi, alla nostra volontà, per compiere quello che sappiamo favorevole per gli altri: dobbiamo essere un dono di amore per tutti. Non vogliamo più nulla per noi, vogliamo soltanto poterci donare sempre di più, senza limite alcuno: questo è l’amore!

Come vedete, l’amore del prossimo non è una cosa facile, è un amore teologale. Si può sbagliare anche nel predicare questa virtù facendo discorsi che possono essere anche belli, ma che propongono soltanto beneficenza, assistenza, cose che appartengono in fondo all’ordine umano. Indubbiamente l’amore di Dio implica anche la beneficenza e l’assistenza, ma dobbiamo capire che l’amore del prossimo non è soltanto l’atto di una benevolenza umana, non è soltanto l’espressione di un cuore buono che si apre compassionevole alle miserie altrui, ma è l’amore stesso di Dio che vive nel cuore dell’uomo.

Dio solo è l’amore e Dio solo, vivendo nel cuore dell’uomo, ama i fratelli attraverso l’uomo. Per questo l’amore del prossimo è amore teologale, perché il soggetto di questo amore è Dio, cioè è Dio che ama attraverso di te. Dio che ama attraverso te e fa della tua natura lo strumento del suo amore.

 

Nel cuore di Cristo

 

Che cosa è stata l’umanità del Cristo, una volta che il Verbo divino ha assunto questa nostra natura? San Tommaso d’Aquino dice che la natura umana del Cristo è «instrumentum coniunctum Divinitati», è lo strumento del quale usa la Divinità che ha assunto questa natura; la Divinità vive attraverso questa natura umana. E proprio perché è la Divinità che vive attraverso questa natura, dicono i santi, che questa natura non ha retto alla potenza di tale amore e ha dovuto morire.

La natura umana non poteva rispondere pienamente alla potenza dell’amore divino che, attraverso di essa, voleva riversarsi nel mondo, e ha spezzato lo strumento di questo amore. È come un oceano che preme su una fragile difesa, per poter traboccare meglio. Un oceano che trabocca; questo è stato l’amore di Dio attraverso il Cuore di Cristo. Se anche noi siamo chiamati a morire per i nostri fratelli, non è perché la morte sia un fatto gratuito, è perché non potremo vivere veramente l’amore di Dio, o piuttosto Dio non potrebbe vivere attraverso di noi il suo amore se non spezzasse lo strumento umano, che è la nostra natura. Ecco perché i santi hanno dato al mondo questa testimonianza veramente meravigliosa, di un amore che parla, che fa lo stupore del mondo; è Dio che vive, è Dio che trabocca attraverso l’uomo, nel cuore dell’umanità.

Questo è l’amore del prossimo. Noi dobbiamo viverlo, ma prima di tutto lo vivrete se realizzerete la comunità dell’amore, che è il sacramento di una Presenza divina nel cuore del mondo. Sappiate amarvi, amarvi fino in fondo, amarvi sempre, amarvi senza stanchezze, amarvi senza misura, amarvi di un amore umile e casto, di un amore paziente e dolcissimo, di un amore che è mitezza ed è sacrificio di sé fino alla morte.

 

12.

REALIZZARE LA PAROLA

 

Alla parola segue il silenzio e il silenzio è più grande della parola, finché si ascolta, si accoglie il messaggio; ma quando il messaggio è ricevuto, deve operare, deve realizzare quanto conteneva. Ora per voi comincia il momento più bello. lo vado via e rimane il Signore; ma non rimane soltanto per parlarvi, rimane per trasformarvi in sé. I giorni che vengono sono più importanti dei giorni passati, perché nei giorni che avete passato c’è stato l’annuncio dell’Angelo, ma è soltanto dopo che l’Angelo è partito e la Vergine si è abbandonata alla potenza della Parola, ch’ella è divenuta Madre di Dio.

Ora dobbiamo attendere il compimento di quello che il Signore ha promesso. Le parole che il Signore vi ha dette non possono essere altro che una promessa, volevo dire un comando; ma non possiamo compiere la volontà di Dio se Dio stesso non la compie in noi. È infatti così che si esprime la preghiera che Gesù ci ha insegnato: «Sia fatta la tua volontà»; non dice: «Facciamo la tua volontà», ma: «Si faccia». È Dio solo che può compiere quello che egli ci chiede.

Comunque la cosa importante è il compimento, e il compimento è l’avvenire. Se Dio parla, la sua Parola deve realizzarsi nella vita di chi ascolta, deve incarnarsi nelle opere, deve farsi carne in noi.

Sta a voi, ora, realizzare quello che il Signore vi ha detto. Sono cose grandi, ma non sono più grandi di quelle che ha detto l’Arcangelo alla Vergine Maria; potranno operarsi in voi, come si sono operate in lei le parole dell’Angelo, a condizione che vi abbandoniate con fede assoluta a questa stessa Parola. Non crediate che questa Parola sia soltanto dottrina, o sia soltanto un comando che voi dovete realizzare; è promessa di Dio, ed egli stesso la realizzerà nella misura in cui voi crederete al suo amore, nella misura in cui vi abbandonerete alla sua forza.

Troppo spesso l’anima trasforma la Parola di Dio in una parola di insegnamento, o di poesia, ma in questo modo noi tradiamo il messaggio divino. Dio non parla soltanto per insegnare una dottrina o per fare della poesia, Dio parla perché vuole che la sua Parola si compia. «Egli parla e tutto è fatto», dice il salmo (32,9). Disse: «Sia fatta la luce». E la luce fu.

 

Nell’umiltà …

 

Che quello che è stato detto si realizzi in voi, si realizzi pienamente nella vostra umiltà; l’umiltà è il segno della grandezza. Non sarà mai così povera e umile la vostra vita quanto è umile e povero il segno che fa presente Gesù nell’Eucaristia. La povertà della vostra vita, l’umiltà della vostra vita non impedisce a Dio di operare cose grandi attraverso di voi.

Del resto lo vediamo. I santi che sono stati canonizzati in questi ultimi tempi sono stati tutti povera gente. Il Papa vorrebbe anche canonizzare delle persone importanti, ma non riesce, e non perché manchino i santi fra i grandi uomini, ma Dio non concede che facciano dei miracoli, perché è giusto che venga esaltata l’umiltà, che proprio l’umiltà sia il segno, per la massima parte di noi cristiani, di una divina presenza.

Così nemmeno la vostra povera vita può impedire a Dio di fare in voi cose grandi. Ma ricordate che Dio compie opere grandi a condizione di una umiltà vera, dell’accettazione serena del proprio nulla, nell’abbandono di una fede pura e semplice in Dio, così come ha vissuto la Vergine.

N on sono io che vi prometto che quello che vi ho detto si adempirà in voi, è Dio stesso che ve lo promette, perché non vi avrebbe parlato se queste parole non fossero una sua promessa; ma tali promesse si mantengono a condizione di questa umiltà e di questa fede che voi dovete a Dio. L’umiltà come segno di una Presenza; Dio non ha bisogno di grandezze umane. Vi dicevo che sono stati santi anche grandi uomini, e tuttavia Nostro Signore sembra prediligere gli umili, le anime più nascoste; si canonizzano, si fanno beate persone che nella loro vita non hanno avuto alcuna funzione di rilievo e alle quali nessuno dava importanza.

Anche Maria ha vissuto così durante la sua vita, nessuno si è accorto di lei, eppure non era la Madre di Dio? Non era la tutta santa? Allo stesso modo la vostra umile vita non impedirà a Dio di compiere in voi i prodigi della sua santità, se voi credete al suo amore. Ci credete veramente? Pensate davvero che quello che vi è stato detto è una promessa a voi rivolta da Dio? Se sono soltanto belle parole ci lasciano quello che siamo, ma se le riconosciamo come promessa divina, allora si impone per noi di abbandonarci in una fede pura e assoluta alla potenza di questa stessa Parola, perché Dio compia in noi quello che ci ha detto.

La differenza tra la Parola di Dio e la parola dell’uomo consiste precisamente in questo: la parola dell’uomo dichiara quello che è, ma non cambia nulla. Invece Dio non può dipendere dalle cose, quello che dice si compie: la Parola di Dio è creativa. Quando disse: «Sia fatta la luce», la luce non c’era e, detta la Parola, ecco la luce è apparsa sulla terra: quello che Dio dice si compie!

 

… e nella fede

 

La Parola di Dio per sé è efficace, ma esige una condizione, la fede. San Matteo nel suo Vangelo (13,58) dice che Gesù non poté fare miracoli a Nazaret perché non credevano in lui. Non è la fede che compie i miracoli, ma la fede in qualche modo scioglie l’onnipotenza divina, perché la misura del dono di Dio dipende dalla fede con la quale noi ci apriamo ad accogliere questo medesimo dono. Qui il dono è l’efficacia della parola; tanto la Parola di Dio opererà in voi, quanto voi saprete credere all’onnipotenza di questa Parola.

Abbandonatevi a Dio, lasciate che Dio vi possegga e operi in voi. Non mettete ostacoli alla potenza di questa Parola con la pochezza della vostra fede.

Noi non vogliamo che la Parola di Dio ci condanni, come dice Gesù nel IV Vangelo: «Non sono io che vi condanno e che vi giudico; la Parola che vi ho detta, questa è che vi giudica» (cf Gv 12,48). No, non vogliamo che la Parola di Dio ci giudichi, ma la Parola di Dio ci giudica nella misura in cui rimane parola. Se invece si adempie in noi e si incarna in noi, allora noi possiamo dire con Maria Santissima: «Cose grandi ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome».

È necessario che cose grandi faccia il Signore in noi, non solo per noi ma per tutta la Chiesa, non solo per la Chiesa ma per la sua medesima gloria, perché egli ci ha voluto come strumento della sua gloria e il nostro nome sarà sempre quello che dice san Paolo nella Lettera agli Efesini: noi siamo creati «in laudem gloriae gratiae suae» (1,6), in lode della sua grazia, in lode della gloria della sua grazia.

Ecco, mie care Sorelle, che cosa è stato questo breve periodo; è stato l’annuncio dell’Angelo per l’anima vostra, l’annuncio dell’Angelo che vi ha portato una Parola di Dio, detta personalmente a ciascuna. E questa parola dell’Angelo attende da voi le stesse disposizioni, lo stesso abbandono della Vergine pura.

Ogni qualvolta voi direte l’Angelus ricordatevi che Maria santissima è modello per voi di un’anima che si abbandona alla Parola divina, perché la Parola di Dio si incarni nel suo seno. L’Angelus non è una preghiera qualunque, è il mistero della vita spirituale di un’anima. L’annuncio di Dio che chiama l’anima a una grande dignità, la fede dell’anima che a questa parola si abbandona, il compimento della Parola divina nell’Incarnazione del Verbo: «L’Angelo del Signore portò l’annuncio a Maria … ecco la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola … e la Parola di Dio si fece carne ed abitò tra noi».

Queste parole non riguardano solo la Vergine, riguardano ciascuna di voi. Avete ascoltato davvero le parole che vi sono state dette in questi giorni come Parole di Dio? Avete avuto fede, come la Vergine, in questa Parola che vi chiamava a grandi cose? E allora anche voi assisterete a quel miracolo a cui assisté la Vergine quando partorì il suo Figlio e «lo adorò beata», come dice il Manzoni. Anche noi saremo stupiti di quello che Dio compirà attraverso noi, perché Dio compirà in noi opere meravigliose, opere grandi, opere degne di Dio.

È mai possibile che tutto questo sia per noi? Sì, è possibile perché, se è Dio che parla, Dio anche compirà; dobbiamo crederlo! La vostra povertà, la vostra impotenza è la condizione perché Dio operi. Dio è il Creatore, Dio opera dal nulla. Se foste persone importanti Dio non saprebbe che farsene, ma siccome siete nulla, siccome siete povere e umili, proprio per questo Dio può operare in voi secondo la potenza della sua grazia.

Ringraziate Dio di essere nulla, così lascerete a Dio di essere tutto in voi. Ecco l’ultima parola ch’io vi dico. E ora conviene far silenzio a me e a voi; in atto di puro abbandono rinnoviamo la nostra consacrazione al Signore, perché strappandoci a noi stessi egli ci possegga e ci trasformi in sé. In umiltà, ma in un perfetto dono di tutti noi stessi a Dio rinnoviamo la nostra consacrazione al Signore, egli ci prenda e ci possegga; ci strappi davvero alle nostre radici, perché diveniamo una cosa sua, come fu sua quella carne e fu suo quel sangue che trasse dal seno della Vergine pura.

 

 

INDICE

 

Avvertenza                                                                                                   pag      1

 

1. Il mistero della Visitazione                                                                        »          2

Una visita personale, 2 – Una fede che apre gli occhi e il cuore, 2 – La realtà del mistero, 3 – Esperienza di comunione, 4 – Una triplice presenza, 4 – I frutti di questa presenza, 5.

2. La maternità di Maria e la nostra maternità                                             »          5

La nostra maternità, 6 – L’ascolto della Parola, 6 – Spose e madri, 7 – I santi sono necessari, 7 – Abbandonarci alla potenza di Dio, 8 – Le consolazioni di Dio, 9 – Responsabilità, 10.

3. Il segreto della santità                                                                                           10»

Docilità allo Spirito Santo, 10 – L’inabitazione divina, 11 – Come arrivare a Dio, 11 – Capire il dono di Dio, 12 – La purificazione del cuore, 13 – I nostri peccati, 14 – Con Dio c’è tutto, 14 – Sulle ali dello Spirito, 15.

4. L’azione dello Spirito Santo in noi                                                             »          15

Il discernimento degli spiriti, 15 – Unità e fedeltà, 16 – Gioia e pace, 17 – I segni dell’azione dello Spirito, 18 – Cristo nostra vita, 18 – Cristo nostro amore, 19.

5.         I doni dello Spirito Santo                                                                               20

L’azione dello Spirito, 20 – Il dono dell’Intelletto, 21 – Il dono della Sapienza, 21 – Il dono della Scienza, 22 – Il dono della Fortezza, 23 – Il dono della Pietà, 24 – Il dono del Timor di Dio e del Consiglio, 24.

6.         La realtà del nostro peccato                                                                         25

Uno che non consociamo, 25 – L’uomo è bugiardo? 26 – Fermenti di male, 26 – Purificazione continua, 27 – Dio solo, 28 – Tutto in Dio, 28.

7.         L’umiltà, fondamento della vita cristiana                                                      29

La nostra realtà di creature, 30 – La conoscenza di sé, 30 – Rapporto di amore, 31 – L’umiltà in Dio, 32 – Umiltà nell’intelligenza, 33 – Se non facciamo il male … , 33 – Umiltà nella volontà, 34 – Volere l’umiliazione, 35.

8.         Il nostro rapporto con Dio                                                                             36

Dio e la creatura, 36 – Il fondamento dell’ordine soprannaturale, 37 – Matrimonio spirituale, 38 – L’esempio di Maria, 39 – Il mistero della preghiera cristiana, 39 – «Padre … », 40 – Dimorare in Cristo, 41.

9.         Gesù Cristo e lo Spirito Santo nella nostra vita                                            42

Dio tra noi, 42 – Ha scelto l’uomo, 42 – L’opera dello Spirito Santo, 43 – La nostra dipendenza dallo Spirito Santo, 43 – Grandezza della vita cristiana, 44 – La vita in Cristo, 45 – Cristo in tutte le cose, 46 – La presenza di Dio, 46.

10. L’amore cristiano                                                                                                47

Amore che si dona, 47 – Amore che previene, 48 – Accettare l’amore, 49 – Amore senza discriminazione, 50 – Santità è credere nell’Amore, 50.

11. La carità nella vita comunitaria                                                                          51

L’amore nella comunità, 51 – Amore perseverante, 51 – Amore universale, 52 – Amore senza misura, 53 – Nel Cuore del Cristo, 54.

12.       Realizzare la Parola                                                                                     54

Nell’umiltà …, 55 – … e nella fede, 55.

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