5 – IL PASTORE NEL GIARDINO – Pino Stancari

Posted on Dicembre 14th, 2008 di Angelo |

Pino Stancari
Nato nel 1946, Pino Stancari è entrato a diciott’anni nella Compagnia di Gesù. Vive dal 1975 in una piccola residenza della Compagnia in terra di Calabria, dedicandosi a ministeri quali l’esegesi, la predicazione, gli esercizi spirituali. Da quest’impegno quotidiano e itinerante al servizio della parola di Dio sono nati i suoi libri sull’Esodo, il Levitico, i Numeri, Giosuè, i Salmi, Tobia, il Cantico dei Cantici, il Vangelo di Marco, i Patriarchi, la Lettera ai Romani.

 

IL PASTORE NEL GIARDINO

 di Pino Stancari

 

io dormo, ma il mio cuore veglia

«Io dormo, ma il mio cuore veglia». Il quarto poema si apre con questa dichiarazione contraddittoria da parte della creatura amata che così vuole esprimere la situazione nuova alla quale ha aderito e della quale è testimone. Questa creatura ormai ha accolto, porta in sé e a sua volta interpreta e annuncia l’evangelo: è la nostra vita cristiana, è la vita del popolo cristiano, è la presenza della Chiesa nella storia umana. Portiamo in noi e con noi l’evangelo, patrimonio acquisito, lascito di cui siamo eredi e che intendiamo trasmettere con matura consapevolezza. Ebbene, la creatura dice: «Io dormo, ma il mio cuore veglia», una contraddizione, perché se dormo non veglio. Quella contraddizione che appare immediatamente a noi, che siamo spettatori della scena, non appare affatto evidente a lei. Anzi, dentro quella contraddizione sembra trovarsi perfettamente a suo agio. Dichiara di essere dormiente ed è convintissima che il sonno in cui è sprofondata sia perfettamente coerente con la veglia a cui è consacrato il suo cuore: il mio cuore veglia. Dormo, è vero, ma intanto sono vigilante, perché il cuore è pronto, risoluto nella prospettiva di quella novità evangelica che ormai mi ha coinvolto e che è il motivo della mia presenza in mezzo agli uomini.

 

La contraddizione però riemerge in modo clamoroso e drammatico. Questa creatura si è abituata ormai a considerare l’evangelo come un dato acquisito, come un diritto che le garantisce titoli di proprietà, per cui in tutte le situazioni a cui questa creatura è esposta nel corso della sua vita, e che possono prendere pieghe che contraddicono la realtà evangelica, essa è pronta a dichiarare che non ci sono ambiguità, non c’è motivo per angustiarsi: io dormo, ma il mio cuore veglia.

 

In realtà la contraddizione si è già introdotta nella storia di questa creatura, ed è una contraddizione che non può rimanere sopita, velata, addirittura ammantata di una visibile e sfacciata sicurezza. Possiamo ben dirlo: sfacciata è la maniera assunta da lei nel presentarsi, in pubblico: nessuno l’ha invitata, nessuno l’ha incoraggiata, è lei stessa che si fa avanti. E’ la nostra vita cristiana che ormai presume di avere acquisito una qualità evangelica e si propone come depositaria di questo dono e testimone coerente dell’evangelo: è la vita, la presenza e la missione della Chiesa al servizio dell’evangelo.

 

Mi permetto di dormire, anzi ho il gusto di dormire, anzi ho la soddisfazione di dormire, anzi ho il diritto di dormire, perché il mio cuore veglia, perché comunque l’evangelo è in me, con me, per me, l’evangelo è dato acquisito e di me indiscutibile. Io dormo, ma il mio cuore veglia!

un rumore! E’ il mio diletto che bussa

La contraddizione però scoppia: «Un rumore! E’ il mio diletto che bussa». Nel sonno una voce, qualcuno bussa alla porta. La creatura nel sonno riconosce la voce del diletto, il suo modo di bussare, il suo modo di presentarsi alla porta. Da quello che ha appena dichiarato è convinta che il diletto sia in casa, si è presentata a noi come padrona di casa, una casa abitata oramai dall’evangelo. E il diletto, invece, compare come qualcuno che sta bussando da fuori, dall’esterno, è alla porta di casa come un mendicante. Era convinta di avere accanto a sé il diletto, e invece il diletto è un mendicante che sta bussando alla porta di casa. Nel sonno, nella opacità delle visioni che appaiono mentre ancora è dormiente, la voce inconfondibile del diletto l’interpella, la provoca, la incalza. Nel sonno si rende conto di essersi addormentata, e percepisce la contraddizione di una esperienza che ancora non vuole ammettere. Ancora è convinta che le basterà allungare una mano, o un piede, emettere un po’ di fiato con la bocca e gettare un urlo, e il diletto accanto a lei reagirà di conseguenza.

Invece non è così. Ancora è convinta che l’evangelo sia a sua portata di mano, a sua misura di cuore, a servizio della sua iniziativa, della sua parola, delle sue intenzioni. E non è così. L’ evangelo se ne è andato. Dove? L’evangelo in realtà è presente, anzi, incalza, si fa sentire, bussa alla porta, ma ha tutte le caratteristiche di un mendicante che provoca disagio, disturbo, il fastidio quanto meno. Un risveglio nel pieno della notte e la rimessa in discussione di abitudini acquisite, di tante sicurezze già garantite. E’ un momento esplosivo: un rumore, uno scoppio. In realtà è soltanto un sospiro, un richiamo, un tocco, forse anche delicatissimo, comunque inconfondibile: è il diletto che sta bussando alla porta di casa.

 

Apocalisse, 3,20, il Signore dice: io sto alla porta e busso. Lo dice alla settima delle chiese, nella settima e ultima della serie: io sto alla porta e busso, finché qualcuno aprirà e allora entrerò e ceneremo insieme. Io sto alla porta e busso. E’ il diletto che bussa. E infatti il richiamo si fa più preciso, assume un suo contenuto più oggettivo, più insistente:

«Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, perfetta mia; perché il mio capo è bagnato di rugiada, i miei riccioli di gocce notturne».

E’ proprio vero, le cose stanno così, il diletto non è in casa, è fuori casa, sta bussando alla porta di casa. Ero convito che oramai fosse patrimonio della mia vita e della mia storia e della storia della mia chiesa e invece mi interpella nei panni di un mendicante che di notte è all’addiaccio e chiede ospitalità.

 

Negli appellativi rivolti alla creatura amata, ce n’è uno che si aggiunge a quelli che già conosciamo: “perfetta mia”. Questo appellativo è una novità. La perfezione di cui si parla qui (nel senso del levitico), è la perfezione che esprime la integrità di tutto ciò che partecipa al culto: integrità delle persone, degli oggetti, degli offerenti, delle vittime, e sono garanti di questa perfezione i sacerdoti. Così nell’antico tempio. “Perfetta mia” è appellativo che allude a quella capacità di corrispondere all’intenzione del diletto di cui egli è alla ricerca: sono qui perché attendo da te una risposta che sia motivo del mio compiacimento: perfetta mia. Questo appellativo è quanto mai encomiastico, esprime stima ed ammirazione al massimo livello. Ma è anche vero che questo appellativo contraddice quella situazione di fatto a cui la creatura amata si era abituata. Perfetta mia perché sei quella creatura da cui attendo una risposta che sia secondo il mio compiacimento.

 

Per la creatura tutto era già consumato, tutto era già avvenuto, tutto era già acquisito. In quel contesto di una vita abitudinaria, di una storia ormai configurata come un mantenimento della proprietà ereditata senza ulteriori complicazioni, si era introdotta nell’animo della creatura amata una noia soffocante. Quella che appariva come una situazione di florida pienezza evangelica, nella realtà era una situazione di annoiata pesantezza. Questa creatura è invasa dalla noia, vive di abitudini. E’ vero che fin che può si ammanta di abitudini, si decora di quella stessa noia, come se fosse un paludamento cerimoniale di alta qualità liturgica.

 

Ma il diletto si presenta e dice: perfetta mia, io sono alla ricerca della tua risposta non come liturgia paludata, ma come liturgia di una presenza sollecita ad accogliere colui che viene a visitarti, colui che è sempre nuovo nella visita, colui che insistentemente ti chiama ad una risposta, che non è mai espressa una volta per tutte e che ancora ti impegna fino alla consumazione di te, della tua vita e della tua storia e della tua presenza di chiesa in mezzo agli uomini.

 

Perfetta mia tu sei preda di una noia asfissiante, penetrante, avvolgente, una noia che ti ha narcotizzata, che ti ha stordita e nella quale tu stessa sei sprofondata. Ti ci crogioli dentro, mentre io sono qui e sto bussando e attendo la tua risposta, perché tu mi apra, perché tu mi accolga, perché tu ti renda conto che l’evangelo è i mendicante che chiede a te di essere accolto come la novità della tua vita. E’ la potenza divina che attraverso di te rigenera la storia umana, affinché sia la storia di amici che partecipano alla festa delle nozze: amica mia, mia colomba, perfetta mia, perché non mi apri?

«Mi sono tolta la veste; come indossarla ancora? Mi sono lavata i piedi; come ancora sporcarli?».

 

E’ proprio vero, questa creatura oramai si è abituata a un andazzo di cose che non ammettono intrusioni, nemmeno quella dell’evangelo, tanto è così convinta di averlo con sé, in sé e per sé. «Mi sono tolta la veste; come indossarla ancora? Mi sono lavata i piedi; come ancora sporcarli?». Mica posso alzarmi a questo punto della notte! Che posso rispondere a un mendicante qualunque che bussa alla porta di casa? Meglio rimanermene assopita, alle prese con i miei sogni, anche alle prese con le voci che nel sonno parlano con il timbro della inconfondibile voce del diletto. Non solo non mi alzo, non posso alzarmi: il diletto comunque sta qui con me.

 

Adesso il risveglio è provocato in modo che la creatura non può più fuggire, rintanarsi in quella situazione di noia coltivata, istituzionalizzata, di noia resa solennità liturgica, autopresentazione sulla scena del mondo. Tu sei prigioniera di una noia angosciante, proprio mentre pretendi di avere oramai l’evangelo dalla tua parte. In realtà ti sei soltanto abituata a coccolare te stessa: la mia vita cristiana! La presenza della chiesa con la sua missione.

 

«Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio e un fremito mi ha sconvolta».

 

Il diletto insiste. La voce non è sufficiente, il diletto calca la mano, preme, bussa, forza la porta, vuole entrare. C’è il chiavistello, il catenaccio. E’ chiusa, è sbarrata la porta. «Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio e un fremito mi ha sconvolta».

E’ una aggressione questa? E’ un ladro? Già leggendo il terzo poema si è fatta conoscenza con un ladro. Proprio perché è un ladro egli è il diletto, lo sposo che viene. E adesso il risveglio è provocato con una forza a cui la creatura non può più sottrarsi: un fremito mi ha sconvolta. Un sussulto? Una reazione emotiva? Un improvviso risveglio?

 

una corsa affannosa: contaminarsi col mondo

 

Adesso si alza, non può farne a meno perché si è accorta di essere sola nella notte, nella casa di cui era padrona e in cui riteneva di avere il diletto accanto a sé. Nella notte in quella casa è sola. Ed è spaventatissima. Un risveglio brusco e amaro, col cuore che le batte. Altro che cuore vigilante! come lei stessa dichiarava: cuore rivolto al diletto, cuore aperto al visitatore, cuore pienamente coinvolto in una relazione di eterno amore, altro che… Un risveglio a suo modo tragico, questo. E’ il risveglio di una vita e di una storia che scopre all’improvviso di essere estranea all’evangelo. Eppure una vita e una storia che è nella esperienza della nostra generazione, che è l’esperienza di tutte le generazioni.

 

Finalmente bisogna prendere contatto con la realtà, non si può più divagare, non ci si può più rifugiare nei fumi del sonno, non si può più poltrire. L’evangelo è estraneo, se ne è andato. Chissà dove è andato? E’ vero: ha bussato; è vero: ha premuto; è vero: ci ha svegliati, mi ha svegliato! Ma una volta che mi ha svegliato sono solo e mi accorgo che l’evangelo se ne è andato.

 

«Mi sono alzata per aprire al mio diletto e le mie mani stillavano mirra, fluiva mirra dalle mie dita sulla maniglia del chiavistello». «Ho aperto allora al mio diletto, ma il mio diletto gia se n’era andato, era scomparso».

Adesso non lo trovo più. E’ venuto a suo modo, a suo tempo, con la sua gratuità, con la sua iniziativa; pensavo di averlo con me ed invece mi ha attraversato la strada, si è presentato con l’urgenza di una novità che ancora mi chiama, mi sollecita, mi costringe al risveglio. Io o noi, la mia chiesa, ecco, mi rendo conto di essere sprovveduto, di essere sprofondato in un abisso di solitudine. Quel vangelo, nei confronti del quale vantavo dei diritti fino alle abitudini più scontate della mia vita, fino alla noia, quell’evangelo mi è sfuggito dal cuore: è un estraneo, non so più dove trovarlo.

 

Qui comincia una corsa, patetica, a suo modo commovente, si ribaltano le situazioni. Da quel contesto annoiato in cui la nostra creatura si compiaceva con tanta prosopopea, si passa adesso a una scena tormentata, percorsa da un incessante divagare in tutte le direzioni. Questa creatura si dedica ormai come una forsennata a cercare, a scandagliare, a scrutare in tutte le direzioni, si presta a tutti gli incontri, si gioca in tutti i compromessi. E’ travolta dalla urgenza di questo desiderio che la rende frettolosa e anche superficiale, nella corsa alla ricerca del diletto, alla ricerca dell’evangelo e non l’ha trovato.

 

Sembra quasi che questa creatura sia pronta allo sbando, anzi abbia fatto del correre allo sbando l’unica maniera della sua vita. Il suo impatto con la realtà ormai è stravolto. Tutto questo è doloroso, ma molto istruttivo. Tutto questo riguarda la vita e la storia di quella creatura ha incontrato l’evangelo, di una creatura evangelizzata e che ha perso.

«Io venni meno, per la sua scomparsa. L’ho cercato, ma non l’ho trovato, l’ho chiamato, ma non m’ha risposto. Mi han trovato le guardie che perlustrano la città; mi han percosso, mi hanno ferito, mi han tolto il mantello le guardie delle mura».

 

Corre in tutte le direzioni, urla, strepita, cerca contatti a tutti i livelli e con tutti i possibili interlocutori, anche le situazioni più incresciose, più squallide, più dolorose, non si tira indietro. Certo, questo suo comportamento è espressione di uno scompenso, è l’effetto di quella contraddizione che oramai è esplosa in tutta la sua drammatica evidenza. Nel corso di questa avventurosa ricerca ne vede di tutti i colori, ne combina anche di tutti i colori. Guai di ogni genere. E’ colpita, aggredita, battuta, intercettata, violentata, traumatizzata. Qui ricompaiono quelle frasi che già avevamo preso in considerazione nel sonno: nel sogno la nostra creatura si era rivolta a delle guardie, mentre cercava il diletto. In quella occasione le guardie le avevano detto di non saperne niente e lei aveva proseguito nella sua ricerca da sola. Adesso la situazione assume degli aspetti ben più aspri e strazianti: mi hanno trovato, mi hanno percosso, mi hanno ferito, mi hanno denudato, mi hanno lasciata in mezzo alla strada, mi hanno buttato in piazza, hanno svillaneggiato, hanno approfittato di me in tutti i modi, mi hanno dissestato in quella che era e che è la mia missione, la mia chiesa. Non le è risparmiato nulla.

 

Il diletto è assente, ma quella assenza fa parte di un disegno provvidenziale, misterioso. Nel corso di questa avventurosa ricerca, con tutti i guai che la nostra creatura sta sperimentando in se stessa e sta soffrendo all’impatto con le realtà del mondo, la nostra creatura sta compiendo una ricognizione amplissima e anche molto sincera, una ricognizione di quel che succede nella storia di un uomo alla ricerca del diletto lo insegue. Lo vorrebbe raggiungere, non l’ottiene, ma ottiene certamente di sintonizzarsi con le situazioni che caratterizzano la storia degli uomini. Un fatto del genere ha i suoi aspetti disastrosi, catastrofici, ma è anche vero che nel corso di questa ricerca la nostra creatura si rende conto di essere sintonizzata con le realtà del mondo e con le realtà negative del mondo.

 

Situazione paradossale, ma bisogna tenerne conto. Questa creatura che sta affrontando percorsi così drammatici alla ricerca dell’evangelo che non trova ancora, sta solidarizzando con la miseria del mondo, con la miseria dell’umanità, con la miseria dei peccatori. Alla ricerca del diletto, non è in grado di stabilire quella comunione che le è stata donata e da cui è precipitata, ma intanto sta scoprendo di essere coinvolta in una intensa, profonda, autentica comunicazione di vita con l’umanità intera e con tutti i mali di cui l’umanità soffre e con tutte le miserie che affliggono questa generazione.

 

C’è una nota provvidenziale: prosegue nella sua corsa, non ha ancora raggiunto il diletto e non lo raggiungerà, ma intanto è sempre più immersa nelle vicende dell’umanità e scopre di essere sempre più aperta a tutte le relazioni che mettono in evidenza un comune patrimonio di malessere, di disagi, di ingiustizia, di violenza. La mia vita cristiana è un pezzo di mondo, la mia chiesa è un pezzo di mondo. Questa creatura che ancora non ne viene fuori, raccoglie piaghe di ogni genere, malattie, affanni, dolori. Sono tutte le contraddizioni del mondo, tutte le negatività della storia umana, e sono tutte ingozzate, intasate, incastonate nel vissuto di questa creatura umana. A questo è servito la ricerca del diletto: appiopparle addosso tutte le situazioni negative della storia umana. Se le è prese tutte, le ha assorbite tutte, e se le porta tutte con sé. Si è infangata, inzaccherata, imbestialita, incanaglita, incattivita, si è mondanizzata.

 

una corsa affannosa: parlare del Diletto

 

E incontra le figlie di Gerusalemme, coloro che dovrebbero essere gli amici:

«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme. Se trovate il mio diletto, che cosa gli racconterete? Che sono malata d’amore!».

Prosegue nella sua ricerca, è sempre più evidente che non ce la può fare da sola, cerca aiuto di qua e di là, anche in direzioni sbagliate e ne ha subite tutte le conseguenze, e se le porta dietro, le sono incise nella carne. Cerca di riferirsi a coloro che dovrebbero darle un suggerimento incoraggiante, proporle un motivo di consolazione, ma non ottiene l’aiuto desiderato. Proprio dalle figlie di Gerusalemme, che dovrebbero darle un incoraggiamento, viene interrogata in modo quasi derisorio. Questi cosiddetti amici invece di aiutarla le fanno lo sgambetto, la prendono in giro, vogliono bruciare l’ultimo residuo della sua speranza, vogliono dimostrare l’inutilità, l’inopportunità, l’inconcludenza della sua ricerca. Ma chi te lo fa fare? Non vedi che le cose nel mondo vanno diversamente? Non vedi che la storia umana ha un’altra piega? Che la tua ricerca è una presunzione pericolosa, che addirittura sei elemento di disturbo, mentre vorresti proporti come depositario di una visione per il mondo. Il coro dice adesso in forma di domanda:

«Che ha il tuo diletto di diverso da un altro, o tu, la più bella fra le donne?, perché così ci scongiuri?»

 

Tra questo primo intervento del coro e il secondo c’è un breve discorso nel quale è ancora la nostra creatura amata che si esprime. Ancora una volta ci rendiamo conto che tutta la vicenda nella quale è coinvolta ha assunto un valore provvidenziale, viene emergendo con sempre maggiore chiarezza un significato pedagogico.

 

La domanda che riceve dal coro, dalle figlie di Gerusalemme, la costringe a parlare del suo diletto, e a parlare del suo diletto quando non lo vede, non l’ha raggiunto, non lo tocca, non lo possiede: è il suo diletto, lo cerca, non sa dove andare a trovarlo, per questo ha chiesto aiuto. L’hanno presa in giro, ebbene , questa presa in giro diventa provocazione che la costringe a parlare del suo diletto. Già, come capita a noi, come capita alla chiesa che, proprio mentre avverte quanto sia insormontabile la distanza dall’evangelo, è costretta a parlarne, è costretta a predicarlo. Devo parlare di lui proprio quando non ce l’ho. Questa pedagogia è straordinaria. E la creatura parla. Non era mai successo che la creatura parlasse del diletto. Il diletto ha parlato della sua creatura, ha cantato le sue serenate, ma lei non ha ancora parlato di lui. Adesso si, questo è il momento in cui la nostra creatura sta evangelizzando mentre sta sperimentando tragicamente di essere così lontana dall’evangelo che lo cerca e non lo trova. Che strano.

 

«Il mio diletto è bianco e vermiglio, riconoscibile fra mille e mille. Il suo capo è oro, oro puro, i suoi riccioli grappoli di palma, neri come il corvo. I suoi occhi, come colombe su ruscelli di acqua; i suoi denti bagnati nel latte, posti in un castone. Le sue guance, come aiuole di balsamo, aiuole di erbe profumate; le sue labbra sono gigli, che stillano fluida mirra. Le sue mani sono anelli d’oro, incastonati di gemme di Tarsis. Il suo petto è tutto d’avorio, tempestato di zaffiri. Le sue gambe, colonne di alabastro, posate su basi d’oro puro. Il suo aspetto è quello del Libano, magnifico come i cedri».

 

Tutta questa descrizione rinvia alle forme architettoniche, alle decorazioni degli ambienti di cui faceva sfoggio l’antico tempio di Gerusalemme. La nostra creatura assume la posizione e le prerogative del testimone che proclama la santità dell’invisibile, nel momento stesso in cui sta proseguendo nella ricerca dell’evangelo, che ancora non riesce a raggiungere, e non riesce ad accogliere. Questa creatura è debitrice nei confronti di quelle figlie di Gerusalemme che l’hanno interpellata. Sembrava una semplice derisione, una denigrazione, un atto di disprezzo, addirittura; in realtà quella provocazione ha acquistato una valenza pedagogica efficacissima. La nostra creatura sta imparando a parlare del diletto, a testimoniarlo, e sta scoprendo che l’invisibile nella sua santità ha segnato la sua vita e la sua storia in modo inconfondibile.

 

Di nuovo le figlie di Gerusalemme, ossia coloro che compongono il coro l’interrogano:

«Dov’è andato il tuo diletto, o bella fra le donne?Dove si è recato il tuo diletto, perché noi lo possiamo cercare con te?».

 

il pastore tra i gigli

 

Anche qui c’è un tono persecutorio: dicci dove e verremo con te. Come Erode che dice ai Magi: andate a vedere dove e verrò anch’io ad adorarlo, fatemelo sapere dov’è.

Sapete, adesso la risposta, è una risposta estremamente sobria, pacatissima. Qualcosa è avvenuto davvero. L’abbiamo accompagnata nella sua corsa tumultuosa, affannata, angosciatissima. Le cose sono andate in modo tale che lei, a forza di provocazioni è costretta a reagire con la autenticità di una testimonianza purissima, la testimonianza resa all’invisibile, la testimonianza resa al santo, la testimonianza a colui che è sconosciuto, eppure vivente, eppure ignoto. Con la forza di questa pedagogia la nostra creatura si è calmata. La risposta, adesso, a questa seconda domanda, è immediata, semplicissima, profondamente pacificata:

«Il mio diletto era sceso nel suo giardino fra le aiuole del balsamo a pascolare il gregge nei giardini e a cogliere gigli. Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me; egli pascola il gregge tra i gigli».

 

Dove è il diletto? Sapete dov’è? Il diletto è il pastore: il diletto è per me e io per lui. Dov’è il mio diletto? Sembrava irraggiungibile, introvabile. Si è lanciata in quella corsa così forsennata. Il mio diletto è il pastore, il mio diletto sta pascolando il gregge nel suo giardino. Il mio diletto è rivolto a me come a una pecorella del suo gregge. Dov’è il mio diletto? Ma il mio diletto è il pastore e si è messo alla ricerca della sua pecorella. Dov’è? Ma il mio diletto viene.

 

La situazione si è ribaltata e si passa dalla immagine del mendicante, all’inizio del poema, all’immagine del pastore nella conclusione del poema. Quel mendicante è il mio pastore. Quel mendicante che bussava, che implorava, quel mendicante che protestava, quel mendicante che mi ha contestato e poi è sparito, che mi ha messo in difficoltà, mi ha abbandonato, quel mendicante che ha rimesso in discussione tutto della mia vita cristiana, della mia chiesa, ebbene, quel mendicante è il mio pastore.

 

E’ un mendicante che bussa alla porta? E’ il pastore che apre la porta. Lo ritrovate tra l’altro nel vangelo di Giovanni al cap. 10. La figura del pastore è delineata insieme con la figura della porta: Io sono il pastore, io sono la porta, il pastore che apre la porta del recinto, il pastore che conduce le pecore al pascolo, le conduce al recinto, il pastore che bussa alla porta, il pastore che fischia e con la sua voce chiama le pecore per nome una per una, il pastore che apre la porta.

 

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