Minerva Medica, 1960
Il materiale documentario per questo saggio, nato da un’inchiesta apparsa sul quindicinale “Il Carroccio Medico”, è stato raccolto di prima mano dall’autore nella sua multiforme attività medica, che va dalla ricerca scientifica alla libera professione, dallo studio dei problemi sociali al giornalismo.
Grazie a questa inconsueta ampiezza di informazione vissuta il libro riesce ad offrire un panorama spesso imprevedibile, anticonformista, talora spregiudicato, ma sempre affascinante e soprattutto vero, della controversa realtà medica attuale, la cui crisi evolutiva interessa non solo i medici e gli studenti, ma anche i pazienti e la comunità sociale nel suo complesso.
Prefazione
trascrizione di Mila Speciani
Lessicalmente «mestiere», nonostante la nobile origine dal vocabolo latino «ministerium», significa arte manuale esercitata per vivere e, nelle arti liberali, «quella che si esercita non con anima e ingegno, ma quasi meccanicamente e per solo lucro».
Nessuno dunque desidererebbe avere al suo fianco nel momento della sofferenza e nell’angoscia di una minacciosa malattia, un medico che della propria arte abbia fatto «mestiere»: e nessun vero medico accetterebbe per la propria professione, abbracciata con giovanile purezza di propositi, una così cruda ed avvilente definizione.
Ma a chi fosse turbato dal titolo che il dott. Speciani ha voluto scegliere per questo suo, saggio appassionato e coraggioso, con l’intento di stigmatizzare un pericolo in atto più che di introdurre un discorso polemico, non posso che consigliare la pensosa lettura di queste pagine dalle quali scaturisce un serio grido di allarme contro il declinare dell’arte medica verso un tecnicismo spersonalizzato e socialmente pernicioso.
La problematica che l’A. affronta va tuttavia al di là del generico avvertimento e tende a cogliere con minuta analisi tutti gli aspetti che nella nostra società e nel momento attuale della nostra cultura insidiano il processo formativo tecnico-professionale e morale del medico e lo sviluppo della struttura di una assistenza sanitaria
INTRODUZIONE
Sacerdozio, arte, professione, mestiere: così, per tappe successive raggiunte in lento volger di secoli, salvo l’ultima recentissima e illecita, è decaduta la Medicina nell’opinione del mondo.
Il mestiere di medico, oggi, è un nodo gordiano di controverse opinioni e di pratici paradossi. Sui diversi piani dell’economia, della scienza, dell’etica, della deontologia, del prestigio sociale, della preparazione professionale, sul loro stesso numero, persino sul loro titolo qualificante, si può dire dei medici (e quasi solo dei medici) una cosa e il suo perfetto contrario, con la certezza di essere sempre nel vero, almeno in Italia.
Vogliamo degli esempi? Si dice che i loro guadagni sono iperbolici e scandalosi, ed ecco i concorsi pubblici d’ospedale a posti che offrono mensilmente un po’ meno di quel che la legge Conci impone per le “lavoratrici di case private”. Sono onorati come i salvatori del mondo, e insieme insultati dai pazienti con la discussione delle diagnosi e delle ricette. Sono considerati dei santi, ma anche degli sporchi arrivisti da trascinare nei tribunali. Istituiscono società deontologiche ed escogitano nuove formule di giuramento, mentre in realtà manca ai loro Ordini Professionali qualunque potere, non solo di coercizione ma di persuasione. Ricevono dai grandi della Terra i supremi onori, e sono nello stesso momento considerati come loro servi dai più bassi livelli umani. Escono dagli Atenei tutti quanti onusti di un titolo che in altre parti del mondo è privilegio di pochissimi eletti, e sono praticamente umiliati da un qualsiasi infermiere che sa fare meglio di loro un’iniezione o una fasciatura, solo perché a lui hanno insegnato a farle e agli studenti di medicina no.
Si dice che siano pletora e in Italia esistono oltre tremila centri abitati senza medico residente. Sono per definizione medici chirurghi, padroni per legge della vita dei loro simili, e capaci per decreto di laurea di indicare (se non personalmente di esperire) i modi medici o chirurgici di terapia e fra breve, se si insisterà nel distinguere rigidamente, in sede sia accademica sia applicativa, le infinite specializzazioni e superspecializzazioni che il progresso tecnico ha reso possibili, tutti i medici si vedranno retrocessi di colpo nella scala sociale.
Dalla dignità attuale, confusa ma ancora viva, scadranno al semplice ruolo di “tecnici della salute”, ciascuno con un campo di lavoro strettamente limitato e angusto; condizione non solo insoddisfacente ma, alla lunga, sicuramente dannosa per la corretta esplicazione di una buona Medicina.
L’arte medica, da sempre considerata, e giustamente, come una felice sintesi mentale e operativa propria a individui singoli dotati di superiori capacità, finirà così con lo smembrarsi in una polverizzazione di albi chiusi professionali, simili a quelli degli engineers americani, che almeno sanno di essere solo degli operai specializzati, anche se guadagnano il doppio della media dei medici italiani.
Cos’è, infine, questa “professione medica” così contradditoria da spaventare, e che vede invece ogni anno nuove valanghe di adepti, attirati probabilmente da chissà quale antico miraggio e ai quali nessuno ha il coraggio di chiarire la situazione presente, nella sua realtà, evitando gli interessati pessimismi e le avveniristiche illusioni? Neppure la legge ci illumina. Infatti, secondo la giurisprudenza (Corte di Cassazione, Sez. III, 16-4-1953, in «Giust. Pen.», 1953, II, 700) essa “è caratterizzata dallo scopo cui è diretta, e cioè dal fine di curare gli infermi, con qualsiasi metodo e con qualunque mezzo che ciascun medico, avvalendosi delle proprie cognizioni culturali, ritenga opportune adottare nei singoli casi”. Ciò che significa, in parole povere, che neppure il Legislatore riesce a coagulare per essa un concetto ben definito, né, tanto meno, univoco.
La cosa può anche non stupire: significa tuttavia che il Legislatore non dispone in questo momento di elementi sicuri e stabili sui quali appoggiare il suo giudizio.
In verità, la Medicina (e la professione ne è solo una fugace espressione ambientale) sta ora attraversando una delle crisi più gravi della sua esistenza; il travaglio di questa crisi, che può dar vita a un fenomeno superiore oppure a un mostro teratologico (e fino ad ora le probabilità sono uguali, forse addirittura a vantaggio del mostro) interessa contemporaneamente l’interno della Medicina, e anche l’esterno.
Nell’intimo c’è crisi tra l’arte tradizionale e la tecnica ingigantita, crisi di equilibrio tra le funzioni, crisi di fiducia, di verità e di vocazione. All’esterno la crisi di rapporto rivela infiniti problemi piccoli e grossi, che tutti insieme possono essere riassunti in uno solo, fondamentale e di principio, che riguarda il modo di seguire senza troppe sofferenze e disastri e soprattutto conservando all’arte del guarire il suo significato, la fatale evoluzione della medicina da fenomeno di carattere individuale e di natura privata in un altro di carattere collettivo e di interesse pubblico.
Così, per capirci finalmente qualcosa, non resta che scegliere una strada diversa: studiare la professione nella sua esplicazione pratica, vedere come funziona e perché, e come si adatta all’ambiente o ne viene condizionata.
La sintesi ultima ci potrà dare, se non un universale, per lo meno le caratteristiche attuali d’uso o di funzione e potrà servire a delineare le esigenze minime che il mestiere, nella sua proiezione sul mondo moderno, richiede a quelli che intendono seguirlo.
Ciò comporta, di necessità, una ricerca analitica dei fattori interagenti, che sono l’ambiente comune al medico e a tutti gli altri uomini (il mondo indifferenziato dei sani); il malato; la medicina; il medico; l’atto medico; il rapporto professionale.
Queste varie “categorie” non sono fisse, ma variabili nel tempo. Negli ultimi cinquant’anni quasi tutte hanno assunto, per ragioni intime o d’ambiente, caratteri, forme, metodiche ed espressioni profondamente diverse dall’antico.
Sarebbe piuttosto facile, ma fors’anche intinto di faciloneria, sostenere che la crisi della medicina, e in particolare della professione medica, sia qual è, cioè grave e apparentemente insolubile, proprio perché essa vuole applicare, a una mutata realtà presente, schemi teorici e funzionali sorpassati o logorati dal tempo.
Probabilmente invece la realtà è alquanto diversa, e come sempre molto più difficile da interpretare. Gran parte della evoluzione che la Medicina ha subìto nell’ultimo cinquantennio, e che comprende il progresso tecnico in tutti i suoi settori, la conseguente impossibilità per un uomo singolo a dominarne le infinite espressioni particolari, il suo costo in progressivo aumento, e infine l’esigenza sociale della difesa della salute a spese della comunità, è in realtà solo forma ambientale e non sostanza. La sua sostanza è sempre l’uomo, l’uomo singolo, individuale e non ripetibile, nella sua duplice caratteristica di numero statistico sulla carta, ma insieme di sofferta umanità privata quando si ammala, guarisce o muore.
Il disagio moderno della medicina, e probabilmente il suo più serio peccato sociale, sta nel dimenticare troppo spesso questa realtà. Dentro la capsula spaziale non c’è solo la tecnica perfezionata, ma l’uomo che la condiziona per il successo o per la sconfitta; anche nel fondo della “medicina collettiva” o della “medicina strumentale” esiste l’uomo, sintesi di corpo e d’anima che come tale va inteso e avvicinato, e rispettato, sotto pena di insuccesso e di insoddisfazione privata e pubblica.
Per questa ragione è possibile che la crisi sia intervenuta, in medicina, non dal contrasto sostanziale tra la sua essenza tradizionale e quella “moderna”, ma dall’aver trascurato la necessità di approfondire sempre di più il lato interiore e metafisico dell’arte e i rapporti con l’uomo totale, man mano che la sua espressione esteriore si allargava. Al momento attuale esiste comunque uno squilibrio, ed è piuttosto urgente riconoscerlo e mettervi rimedio. Per poter disporre degli elementi indispensabili al giudizio diventa così necessario, anche se faticoso, rivedere analiticamente la realtà moderna, almeno nei suoi rapporti con la medicina nelle sue varie forme e modalità.
Solo alla fine dell’analisi sarà lecito trarre delle conclusioni, interpretando con rigore sperimentale gli elementi raccolti, e soprattutto il loro significato. Ma, già in questo momento è possibile - e indubbiamente lecito - stabilire che le conclusioni dovranno concernere esclusivamente le modalità operative della medicina, e non la sua sostanza intangibile, di rapporto intimo e insostituibile dell’uomo con l’uomo.
La “medicina collettiva”, sia essa di gruppo privato o statale, ha edificato nel corso di alcuni decenni un corpus ormai quasi perfetto di schemi e regole e tabelle attuariali. Alla raggiunta perfezione sul piano organizzativo non corrisponde però, al momento attuale, una soddisfacente “erogazione” del bene per il quale gli Enti collettivi sono stati istituiti; il fenomeno non è locale, ma si estende senza eccezioni a tutti gli esperimenti finora compiuti nel mondo; dunque l’errore - se c’è - dev’essere radicale e profondo. E c’è: consiste nel dimenticare l’uomo, o nel considerarlo artificiosamente solo numero economico o statistico.
È stato recentemente scritto che “una buona Medicina (collettiva) è fatta per un terzo da buone medicine e per due terzi da buone leggi”; dov’è dunque l’uomo, in essa? L’uomo medico e l’uomo malato, intendiamo, in quale ulteriore inesistente “terzo” vengono confinati?
Proprio per questo spirito di soddisfatto formalismo esteriore, che rifiuta di scendere alla radice dei fenomeni, la Medicina è malata. Sia quella collettiva per lo schermo dei numeri e degli inquadramenti, sia quella “strumentale”, per l’ingombro eccessivo e maldigerito della tecnicizzazione ipertrofica.
Dunque sarà questione di studiare, e al caso di modificare, le presenti metodiche applicative, per adeguarle all’essenza antica della Medicina. E non, mai, il contrario.
Perché, se accadesse questo, la Medicina puramente nominale finirebbe con l’usurpare, nel suo intimo, una delle più importanti conquiste dell’umanità: cioè quello stimolo affettivo primordiale che sospinge a chinarsi sul proprio simile sofferente, ed è la sola caratteristica sociale che distingue l’uomo dagli animali.
LA MEDICINA
Il progresso è scomodo
La storia della Medicina dimostra che l’arte medica ha prodotto le figure più brillanti di clinici e di diagnosti nei periodi di relativa stasi scientifica. A rifletterci bene, non stupisce affatto che l’epoca aurea dei dottissimi consulti a quattro, cinque o dieci fosse proprio quella in cui, dopo interminabili discussioni infarcite di latino, di greco e di arabo, la cura consigliata, vincessero gli iatrochimici, o gli iatromeccanici o i vitalisti, era in ogni caso unica: salasso e purga.
Ma vi è di più, cioè, per quanto possa sembrare paradossale, lo stesso paziente ne ricavava un vantaggio.
Infatti, solidamente ancorato a teorie ritenute esatte in lungo volger di secoli, e sicuro in ogni caso della terapia che avrebbe in seguito applicata col consenso unanime dei colleghi e dei pazienti, il medico poteva dedicare quasi tutto il suo tempo allo studio personale e individualizzato del suo particolare malato, contribuendo in larga misura, durante il decorso della malattia, ad aiutarlo spiritualmente conferendogli la sua stessa tranquilla fiducia nei poteri di guarigione. La suddetta fiducia, pur nella scarsezza e nell’inadeguatezza dei mezzi di cura, veniva puntualmente confermata nella maggioranza dei casi, soprattutto perché, quando non sia disturbato nella sua ripresa da erronei interventi esterni, è statisticamente accertato che l’organismo umano supera, assolutamente da solo, almeno due terzi delle malattie che lo possono colpire (non per nulla è ancor oggi valido, e lo sarà sempre, l’aforisma ippocratico del «Primum non nocere».
Infine, considerando le poche e spuntate armi di cui disponeva, nonché l’intimo convincimento che la sua «scienza» (nella quale il malato riponeva totale fiducia) era in realtà una massa di tradizioni e di teorie spesso contraddittorie, il medico antico si sentiva sospinto al fianco del paziente e sul suo medesimo piano, nella lotta contro il mistero del male, che veniva perciò condotta in umiltà ed era permeata di dedizione. Dal che nasceva immediatamente un sentimento profondo di solidarietà umana assai favorevole, comunque andassero le cose, al mantenimento di una fiducia basata sulla mutua comprensione, sulla considerazione e la gratitudine verso il curante, sul rispetto e l’amore verso il sofferente.
In grazia di questo atteggiamento spirituale, mantenutosi di necessità quasi universale fino all’inizio dei tempi veramente «scientifici», la Medicina aveva conservato il riflesso, sia pure sempre più pallido nei secoli, della investitura semideistica propria dello stregone e dello sciamano, cioè all’unico uomo di tutta la tribù che aveva il coraggio di avvicinarsi al malato per opporsi, con le sue sole forze, alla «collera degli Dei» mentre gli altri, capo compreso, si allontanavano presi dal terrore.
L’antica dignità
Ne deriva logicamente, in caso di guarigione, l’attributo allo stregone di una potenza uguale a quella degli Dei sconfitti, e una dignità preter-umana o almeno sacerdotale, assai spesso superiore, sebbene su un piano diverso, a quella strettamente naturale del capo tribù.
Con la fondazione della scienza, questo carattere è stato progressivamente perduto dalla Medicina, e sostituito, man mano che le conoscenze mediche si organizzavano in teorie sempre più logiche e generali, da un continuo accrescersi della «coscienza scientifica». Questo fenomeno ha conferito una nuova e tutta umana superiorità al medico nei confronti del malato, ma come fatale contropartita ha reso sempre più difficile l’immediato contatto spirituale tra i due, per la progressiva scomparsa di quell’amore che il grande e controverso Paracelo poneva invece, definendolo «charitas et pietas» alla base stessa della professione medica.
La carenza di amore nell’atto medico è ormai divenuta quasi una necessità, mentre la sua importanza non è così trascurabile come si crede: le statistiche dei brefotrofi, dove l’igiene e l’assistenza sono ineccepibili, segnano quote di complicanze e di mortalità, nelle malattie infantili, assai più alte di quelle domiciliari per gli stessi casi. Ciò che manca nei brefotrofi, ed è invece offerto dalle madri in tale quantità da compensare eventuali inefficienze igieniche non è altro, appunto, che l’amore dato e ricevuto.
Ed oggi finalmente, in colpa della troppo orgogliosa scienza e della troppo poca umanità, il ciclo sta per chiudersi su se stesso: i tempi moderni e gli ultimi anni in specie hanno recato una massa tale di conquiste chimiche, biochimiche, chemioterapiche, ormonali e psicosomatiche da mantenere allo stato perennemente fluido gli stessi concetti basilari della Medicina, creduti immutabili per decine di secoli. Ne risulta che persino di fronte ai fondamenti della sua arte, ogni medico meno che superficiale si trova in condizioni di insicurezza e bisognoso di un continuo aggiornamento, che non può tuttavia concedersi in misura sufficiente, distratto com’è dal convulso «surmenage» della pratica professionale.
Medicina facile
Inoltre i potentissimi medicamenti moderni, che sembravano aprire le porte ad un’era di medicina «facile» dove la terapia, in ogni caso efficace, avrebbe potuto precedere lo sforzo diagnostico, hanno persino cambiato alcune delle malattie descritte classicamente come invariabili nei testi, né basta sapere che la patologia è oggi modificata dagli antibiotici, per potersi orientare d’un colpo sull’esatta diagnosi.
Una volta, per esempio, la polmonite veniva diagnosticata con comodo sui rilievi di percussione e di ascolto, che procedevano di pari passo durante diversi giorni, man mano che la zona di polmone infiammato s’induriva e si riempiva di essudato, o ancora oltre, quando lentamente si riassorbiva l’essudato, e il respiro riaffluiva negli alveoli; e un segno esterno importante dell’affezione era l’herpes labiale, che segnalava al medico la reazione di difesa dell’organismo. Oggi, appena uno si mette a tossire e ha la febbre, di propria iniziativa si imbottisce di sulfamidici, e magari anche di penicillina, prima di chiamare il medico; e questi si trova di fronte a un quadro complesso, nel quale il più delle volte i diversi sintomi non concordano come dovrebbero.
Così il medico pratico di oggi, di fronte alle difficoltà sempre crescenti della professione, rinnova spesso il medesimo atteggiamento di sfiducia in se stesso che sembrava un superato «handicap» del suo antico collega. Ma disgraziatamente non sa più valersi, per difetto di abitudine, di educazione e di tempo, delle ampie risorse umane, delle quali si nutriva un tempo la stima e il rispetto verso il curante, di tale grado ed intensità da mantenersi inalterati qualunque fosse l’esito della cura.
Quel che è peggio, la «crisi di sicurezza» è spesso avvertita dal malato, in grazia dell’acutezza che lo stato d’infermità conferisce ai sensi, e da lui viene per lo più interpretata, grossolanamente, nel senso univoco di «incertezza». Ciò è tanto più facile quanto più largamente il paziente si è nutrito, sulla stampa ebdomadaria o quotidiana, di frammentarie ed elementari nozioni del suo male particolare, tanto chiaro da capire e tanto facile da guarire, almeno nell’aulico periodare di qualche incosciente scribacchino.
Così accade che, superficialmente saccente, ma in fondo ignaro affatto del travaglio di spirito e di tecnica che conduce oggi a una diagnosi esatta e soprattutto confermabile da altri a distanza anche breve di tempo, l’infermo giunge a criticare l’operato del medico per le più opposte ragioni: se scrive medicine banali e di poco prezzo perché «non conosce le cure nuove»; se ne scrive troppe e costose perché «esagerato»; se non fa esami perché «cura all’antica»; se ne fa molti perché «tormenta inutilmente il povero malato», e via di seguito.
In persona del suo rappresentante più vicino al pubblico, il medico pratico, la medicina paga con ciò lo scotto della perdita progressiva dell’umiltà.
«Quantizzare» analiticamente i rilievi obiettivi è stata la base di partenza per lo sviluppo scientifico della medicina, e costituisce ancora oggi il fondamento della diagnosi e la conferma della terapia.
Ma si ripete purtroppo anche nell’ambito della medicina la cattiva sorte che il progredire della civiltà delle macchine ha donato all’umanità: le conquiste tecniche sempre più avanzate ingenerano il «tecnicismo» e gli uomini, invece di dominare per mezzo delle macchine, ne subiscono, oltre al fascino, anche la dittatura.
Il tecnicismo
In campo sanitario questo atteggiamento ipocritico (dal quale restano immuni pochi spiriti eletti, che probabilmente sarebbero stati grandi medici anche in altre epoche) ha condotto a diversi sviluppi, tutti egualmente perniciosi:
- la specializzazione e l’ultraspecializzazione;
- il mito dell’infallibilità dei mezzi tecnici e dei loro referti, tanto più radicato quanto meno ciascun medico ne ha diretta conoscenza (e con ciò l’esatta nozione delle possibilità di errore), che quindi raggiunge logicamente la sua massima esasperazione nei profani;
- come conseguenza, l’abdicazione frequente del medico ai suoi mezzi umani, considerati a torto insufficienti e «tecnicamente obsoleti» di fronte a quelli extraumani;
- la difficoltà di riassumere in una sintesi operativa la mole crescente dei risultati parcellari raccolti con gli esami complementari (nella prescrizione dei quali la moda momentanea e le simpatie del paziente giocano talvolta un ruolo poco dignitoso), ciò che allarga enormemente il numero degli elementi da interpretare, moltiplicando - secondo che insegna la statistica - l’errore probabile;
- la frattura, ogni giorno più larga, tra scienza medica e pratica professionale. Qualcuna di queste categorie, soprattutto la prima, la terza e la quinta, meritano una trattazione meno schematica.
La specializzazione
Siamo tutti d’accordo sul fatto che lo sviluppo esponenziale dimostrato nell’ultimo cinquantennio da ogni branca dello scibile umano (e in particolare da quello medico), ne renderebbe impossibile il dominio anche ad un odierno Pico della Mirandola. Da qui insorge la necessità della specializzazione tecnica, quale esigenza preliminare affinché tutte le infinite applicazioni, per esempio della medicina, alla vita sociale, alla salute, alla malattia, ricevano l’adeguato approfondimento.
Ma se la «divisione del lavoro» è fruttuosa sul piano scientifico e di studio, la sua trasposizione nel piano pratico è foriera di conseguenze spiacevoli.
La medicina specializzata, partita originariamente dalla suddivisione degli apparati, è giunta ormai a quella di organo o addirittura di parcelle topografiche (proctologia, ecc.)
Con ciò le riesce ogni giorno più difficile di sfuggire al pericolo di un esclusivo meccanicismo, e a quello di trascurare la correlazione del danno locale con l’integrità organica e psichica della persona umana.
Di fronte ai referti di analisi, che assumono spesso per malinteso rigore scientifico, la veste di algoritmi sempre meno comprensibili per il medico pratico, questi soggiace, abbastanza facilmente, ad un vero complesso di inferiorità tecnica; né vi è da stupirsi considerando la somma di esami che «si possono» compiere sui malati moderni.
Quanti «esami»?
Ecco un caso semplice e diffuso: l’iperteso. Se il curante vuole evitare il rischio di restare interdetto di fronte alla cortese sufficienza di un eventuale consulente, che gli richiederà proprio i risultati di quelle analisi sofisticate alle quali non aveva ricorso, dovrà, secondo i moderni dettami scientifici, sottoporre il paziente ad oltre una quarantina di esami, i referti dei quali gli saranno probabilmente chiari, almeno in parte, come se fossero redatti in cinese.
La lista, sicuramente incompleta, può comprendere: esame clinico completo; pressione arteriosa; oscillometria; misura della fragilità capillare; radiografia cardioaortica; elettrocardiogramma, balistocardiogramma; esame neurologico; esame endocrino; campo visivo; pressione oculare; esame del fondo oculare; esame chimico completo dell’urina; eventuali albuminuria e glicosuria; sedimento urinario; azotemia; concentrazione ureo-secretoria; rapporto emato-urinario di Cottet; coefficiente di Van Slyke; diuresi provocata secondo Vaquez; esplorazione della funzionalità glomerulare; test di Volare; pielografia; test del freddo; test posturale; test del sonno; test del tetraetile; colesterolemia; glicemia; cloremia; uricoemia; protidemia; metabolismo basale; esame emocromocitometrico e formula; R.W. e collaterali sul sangue e liquor; prova dell’istamina; prova della dibenamina; prova del regitin.
Tutto questo, naturalmente, nel caso eccezionale in cui nessun organo risulti per suo conto sofferente, altrimenti per ciascuno di essi c’è pronta un’altra consimile serie.
Il medico generico può compiere solo i primi due o tre esami; sia per il numero sia per l’apparente importanza, è la folla degli altri a prevalere. È possibile dunque che il curante, il quale conosce le sue limitatezze umane, e crede tanto più infallibili i referti delle analisi quanto meno li sa leggere, giudichi erroneamente trascurabile il suo apporto personale al rilievo degli elementi diagnostici. Ciò conduce a poco a poco alla trascuratezza dei rilievi clinici (comoda oltretutto per il risparmio di tempo) e quindi, fatalmente si arriva ad una conferma della loro inefficacia, chiudendo con ciò il circolo vizioso di un equivoco paradossale.
Così, come conseguenza di questa ingiustificata petizione di principio, una quota sempre più larga di medici va perdendo quella peculiare finezza di sensi e di rilievi che permetteva ai grandi Clinici del passato (ma anche ai loro Assistenti educati con passione e costanza) le diagnosi quasi miracolose, che oggi raggiungiamo con maggior fatica e con oneroso dispendio di mezzi.
È come un serpente che si morde la coda; la medicina attuale fa di tutto perché l’aratro mentale dei medici pratici si arrugginisca. Che meraviglia dunque ch’esso non brilli più come prima, e tagli assai meno profondo?
Gli equivoci e le antinomie della medicina moderna
Chiunque rifletta, con distacco impersonale, sullo stato attuale della Medicina, viene immediatamente colpito dalla impossibilità di inquadrare tutta la materia in un sistema logico omogeneo. Al di là del travaglio evolutivo, sia teorico, sia pratico, che investe ognuna delle sue multiformi espressioni, l’unico punto concorde ……………….. una per una e tutte insieme.
Questo, se su un piano logico si risolve in una babele semantica, sul piano pratico condiziona una serie di equivoci non risolti, fattori gravissimi di malessere per ciascun medico, di incoerenza e di disturbo per la Medicina. È assolutamente certo che se nessuno degli interessati, cominciando dai grandi responsabili, deciderà di dedicare del tempo e del cervello alla chiarificazione dei termini medici e dei fenomeni che gli stessi delimitano, il medico appena laureato continuerà come ora a essere gettato allo sbaraglio professionale senza idee guida, senza principi fondamentali, senza una preparazione, anche embrionale, a quello che veramente lo attende nella realtà, appena al di fuori dei portoni istoriati delle università.
Tanto per esemplificare i principali motivi di equivoco, e le antinomie più palesi, raggruppate eterogeneamente nel termine falsamente univoco di medicina, chi ha mai detto al neolaureato se la «strada» che esso ha scelto, e che crede ingenuamente identificarsi con la cura ed il sollievo del malato, debba intendersi come una scienza o un’arte, come una accademia od una professione, come un rapporto privato o come un servizio pubblico?
Arte o Scienza?
Oggi la medicina è tutto questo, e molto altro ancora; ma le scuole di «medicina» a che cosa singola, di questo universo, preparano?
A tutte, certamente no. A qualcuna certamente assai bene. Ma siamo sicuri che queste siano le più importanti, sia dal punto di vista statistico, sia da quello funzionale?
È proprio questo il nucleo da discutere, e da chiarire pregiudizialmente con la collaborazione di tutti.
Agli inizi del secolo, quando un numero ormai cospicuo di invenzioni e di tecniche cominciava ad essere applicato all’«arte del guarire» veniva spesso dibattuto l’argomento se la medicina fosse una scienza o un’arte; il dilemma nasceva dalla equivalenza dei mezzi umani e di quelli tecnici, presente nella medicina d’allora. Oggi, con l’espansione della medicina scientifica, il dilemma teorico si è risolto in una pratica antinomia.
Il sofisma antico risiedeva nel comprendere in un unico concetto («la medicina») tanto l’insieme delle nozioni che costituiscono la «materia medica», quanto l’applicazione delle medesime conoscenze al singolo malato. Il problema nuovo, ben più complesso di quello antico tutto accademico, sta nel determinare se, ed eventualmente in qual modo, sia possibile oggi raggiungere una soddisfacente sintesi operazionale tra le due distinte «medicine», senza che l’una venga soffocata o addirittura annullata, dalla prepotenza dell’altra.
È impossibile negare, al giorno d’oggi, che la «materia» della medicina sia della vera scienza, con qualche isolata riserva. Quando parliamo di «costanti biologiche» ci riferiamo oramai a dati quantitativi di valore non opinabile, e che, confermati dall’analisi statistica, rivestono la caratteristica di criteri assoluti sia in teoria, sia nella loro applicazione pratica allo studio di una «entità nosologica».
Il colloquio singolare
Ma l’esercizio pratico della medicina, cioè l’applicazione delle scienze mediche all’uomo individuale, per fini diagnostici e curativi che lo investono nella sua integrità corporale e psichica, è cosa totalmente diversa.
L’esame del malato, il suo interrogatorio, il modo di esporgli la diagnosi e il trattamento, la capacità di inspirargli la necessaria fiducia e , caso per caso, o la speranza nella guarigione, o la sopportazione del suo stato; la abilità a suggerirgli per gradi insensibili, nei casi disperati, il miracolo della rassegnazione e ad infondergli tuttavia ad ogni incontro una sempre rinnovellata tranquillità; in una parola il «colloquio singolare», fondamento peculiare dell’incontro professionale, resterà sempre la pratica di un’arte anche quando la scienza medica si sarà ancor più allargata e matematicizzata di adesso.
È appunto alle diverse capacità reattive del medico nel corso di questo incontro, ed alla sua abilità di armonizzarsi senza sforzo apparente con l’ambiente psichico ogni volta imprevedibile che avvicina, che debbono essere attribuite le differenze talvolta enormi di successo professionale, tra medici usciti dalla stessa scuola, cioè dotati di uguale preparazione scientifica.
È ben chiaro che il «successo», cioè l’abilità professionale, dipende assai più dalla personalità profonda piuttosto che dalla istruzione ricevuta, ma occorre anche ammettere, onestamente, che l’attuale ordinamento universitario trascura totalmente la fase professionale, e si dimostra in genere poco adatto alla preparazione strettamente pratica del neolaureato.
Non si fa qui riferimento alla penuria dei mezzi didattici, considerata dai più come l’unica ragione della crisi universitaria, e che invece ha il carattere di una semplice contingenza, anche se di lenta e faticosa risoluzione. Il problema di fondo è la natura ben più seria, e riguarda l’indirizzo generale degli studi, che – in quasi tutti i paesi d’Europa – è prevalentemente «accademico» cioè, almeno nell’intenzione, scientifico puro invece che «professionale».
Ora, se si considera la realtà statistica che solo il 6% circa degli studenti si dedica dopo la laurea alla ricerca o alla carriera di docente, risulta chiaro che il restante 94% è costretto ad imbottirsi di nozioni che in pratica non userà quasi mai e, all’incontro, dovrà costruirsi del tutto individualmente, in altra sede che non l’universitaria e sotto l’assillo della fretta, quella tecnica professionale minima, indispensabile all’esercizio pratico. Ciò viene compiuto (salvo i casi fortunati di frequenza ospitaliera) a spese dei primi pazienti, con molta fatica, inorganicità e pericolo di errori.
La condizione del 6% di «élite» non è, peraltro, più felice; essa soffre dello scarso approfondimento degli studi, dovuto all’enorme sciupio dei mezzi, pariteticamente distribuiti, pur senza alcuna utilità presente o futura, anche alla restante pletora di concorrenti al medesimo indifferenziato diploma.
Il problema è già stato praticamente affrontato in alcuni paesi, ma le soluzioni proposte non sono ancora soddisfacenti. Nell’U.R.S.S. la durata temporale e la profondità della preparazione sono già diversificate, e lo sono anche i titoli «medici» ai quali danno accesso. Ma il sistema, che presenta effettivamente dei vantaggi funzionali relativi a quel paese, sembra poco accettabile alla mentalità occidentale perché declassa estesamente la dignità e il prestigio del medico pratico, se non quello della Scienza Sanitaria e della ristretta cerchia dei suoi cultori.
In alcune università scozzesi si è pensato invece di inserire dei corsi di tecnica professionale nel piano organico degli studi di Medicina: in attesa di una radicale riforma di principio, questa metodica potrebbe dimostrare un suo valore contingente, contribuendo almeno a restringere l’attuale distanza tra lo studio e la sua applicazione alla realtà.
Comunque, se si vorrà por mano a una riforma strutturale o funzionale dell’insegnamento, occorrerà tener conto di questa fondamentale necessità, criticamente rivelata dalla moderna «produzione di massa» dei medici e che un tempo si risolveva da sé. Quando però, in grazia del piccolo numero degli studenti, e della consuetudine giornaliera col Maestro, si trasmettevano con caratteri quasi invariati dall’Uno agli altri non solo le tecniche diagnostiche e gli schemi di terapia, ma anche l’arte di avvicinare il paziente. Tanto che era spesso possibile riconoscere, nel comportamento tecnico e in quello umano del medico, il trasparente riflesso degli insegnamenti creditati, con la parola e con l’esempio, da questo o da quel Caposcuola.
La crisi di sviluppo della Medicina moderna, insorgente da molteplici motivi di intimo travaglio, risulta oggi acutizzata ed esasperata dall’interferenza di un fattore assolutamente estraneo ad essa, cioè le cosiddette «istanze sociali» sollecitate e in qualche caso imposte dagli «uomini politici».
La medicina socializzata
Prima di legiferare insindacabilmente che la Medicina deve essere estesa a tutto il complesso sociale, parificandola così a un qualunque servizio di pubblica utilità finanziato dalle imposte, sarebbe giustificato che i sullodati «uomini politici» si chiedessero se la società moderna dispone di medici preparati alle nuove esigenze in numero sufficiente, o se almeno fa tutto il possibile per procurarseli. A una disamina obiettiva risulta vero, purtroppo, il caso opposto. Onde è perfettamente inutile voler imporre delle soluzioni di forza, giustificandole con la «democratica» prevalenza numerica degli assistibili sui sanitari, se non viene pregiudizialmente risolto il problema dei medici.
Soprattutto della massa d’urto di quelli pratici e generali, sulla cui preparazione, efficienza e convinzione, prima ancora che sulla reperibilità dei mezzi di finanziamento, deve basarsi per necessità qualunque programma di assistenza collettiva che aspiri ad essere serio e non solo di figura.
Altrimenti sarebbe come voler costruire, perché richiesto a furor di popolo (mosso inizialmente da agitatori più o meno interessati), un imponente edificio pubblico, valendosi di mattoni crudi o di malte senza cemento: probabilmente crollerebbe sulla testa dei convenuti già durante la bella festa e le tronfie discorse inaugurali.
È pacifico che il voler cominciare la casa dal tetto finisce sempre in un disastro, né la Medicina può fare eccezione alla regola. Eppure in gran parte del mondo civile, mentre i piani di sviluppo economico vengono sottoposti al parere dei tecnici più qualificati, e si preparano fondamenta ben salde prima di procedere alla erezione di programmi ambiziosi, la malintesa urgenza delle «istanze sociali» spinge a bandire programmi sempre più vasti di assistenza totale, spregiando dilettantescamente non solo i consigli, ma addirittura il contrario avviso dei tecnici responsabili.
Persino l’esperimento inglese di assistenza totale gratuita (cioè pagato dalle tasse) che è stato il primo in ordine di tempo (5 luglio 1948) e che poteva avere quasi tutti i motivi di perfetto successo poggiando la sua struttura sui risultati di uno studio ventennale, presentato nel 1942 al Governo di Sua Maestà dal liberale Lord Beveridge, ha dimostrato, in fase applicativa, e soprattutto nei primi anni di funzionamento, delle pecche abbastanza serie, tanto da portare alla sconfitta elettorale il governo (laburista) che l’aveva trasformato in legge funzionante.
Il fatto è che persino il grande economista Beveridge aveva trascurato di tabulare, nello studio sociologico preliminare, proprio il fattore fondamentale dell’assistenza, cioè la crisi evolutiva attuale della Medicina; alla chiarificazione e alla possibile soluzione di questo sfuggente fattore di base possono dare un efficiente contributo soltanto i medici, e soltanto dopo averli risolti per loro. Il che, ancora oggi, non è. Tuttavia anche l’esperimento inglese, paradigma di tutti gli altri, non ha insegnato nulla ai politici. Questi «tirano dritto» dovunque, e al momento attuale sono già arrivati a «mutualizzare» o «nazionalizzare» su queste premesse errate almeno il 60% della popolazione europea, e circa l’80% di quella italiana. Così tutti hanno ampie ragioni di giustificato scontento: i malati, che non si sentono curati; i medici, che vedono snaturata la loro arte; e i governi o gli enti assicuratori, impotenti a frenare le emorragie finanziarie.
In questo clima assurdo, che interferisce negativamente sul sereno esercizio e sulle possibilità stesse della professione in qualsiasi sua branca, si trova proiettato senza alcuna istruzione pratica il neolaureato in Medicina, ed è costretto, per poter vivere della sua arte, a dominarlo, oppure ad adattarvisi; o infine a subirlo.
È perciò di grande interesse gettare una occhiata sulle modalità pratiche dell’esercizio professionale moderno, sulle difficoltà che lo inaspriscono, e sulle sue differenze, supposte o reali, nei confronti del passato.
Le difficoltà dell’inserimento nella professione
In quasi tutto il mondo e particolarmente in Italia, il laureato in Medicina, abilitato più o meno «provvisoriamente» ad esercitarla, può fare in teoria di tutto, dalla più semplice fasciatura alla più pericolosa manualità chirurgica: essendo infatti ancora corazzato, come nel medio evo, da quel famoso «ius necandi et occidendi» che i goliardi celebravano nei loro canti.
In pratica tuttavia resta disoccupato, e deve superare una feroce competizione persino se vuole essere accolto in qualche clinica privata o pubblica col titolo assolutamente onorario di «interno».
Se non ci riesce, può sempre occupare utilmente il suo tempo divertendosi a calcolare tutte le possibilità che gli studi percorsi gli aprono: una rosa di attività (pochissimo o moltissimo distinte l’una dall’altra) il cui numero è così alto da risultare a prima vista incredibile.
Se consideriamo infatti che quella multiforme «Medicina» alla quale un unico diploma indifferenziato dà accesso, può essere distinta in non meno di sei classi (scientifica-pratica, libera-dipendente, generica-specializzata) ciascuna delle quali può distribuirsi su almeno sette categorie applicative: preventiva, d’ambiente (scolastica, militare, di fabbrica, ecc.), tecnica (o di laboratorio), ospitaliera, fiscale e assicurativa, amministrativa e funzionaristica, e finalmente sindacalistica, risulta che la somma totale delle diverse combinazioni possibili in base alla semplice formula xn (dove x è il numero delle classi, cioè 6, e l’esponente n è ancora 6, cioè 7 categorie applicative meno 1, l’amministrativa e funzionaristica, che può essere solo dipendente) e che risponde dunque a 6°, raggiunge l’impressionante valore di 46.656.
66=46.656
Il numero infinitamente minore delle reali possibilità di lavoro medico dipende dal fatto che ciascun sanitario cumula in se stesso, contemporaneamente una serie più o meno ampia dei diversi elementi di combinazione, per lo più allo scopo preminente di ricavarne sufficienti mezzi di vita, essendo di regola insufficiente la retribuzione di ogni singolo servizio.
Ammettendo che la scelta del nostro neolaureto sia già avvenuta, e riguardi una delle possibilità pratiche, nasce subito il problema di conquistare la «clientela». È a questo scopo, privatamente, che i giovani cercano la frequenza ospitaliera, che offre la prima larga occasione di venire a contatto con il serbatoio di potenziali pazienti, unita alla possibilità di assimilare la massa di quelle indispensabili nozioni di ordine strettamente pratico, che vengono fornite in modo non organico o francamente insufficiente dall’istruzione accademica ricevuta nelle aule universitarie. Ed è così che, come il nettare dei fiori, attirando gli insetti, adempie alla fondamentale funzione della fecondazione entomofila, l’ospedale insegna al giovane medico la pratica di quelle piccole, cose neglette dal corso accademico e apprese con l’esempio dolo dalla piccola percentuale dei frequentatori delle Cliniche, quali la tecnica delle iniezioni endovenose e le altre piccole manualità mediche, sulla scorta delle quali e in relazione diretta con la maggior o minore abilità del medico a compierle, i pazienti giudicano assai spesso il suo «valore».
Negli ultimi anni di corso e nei primi mesi della sua nuova dignità, il neo laureato crede ancora nella Medicina. Naturalmente a quella tradizionale, fondata sul l’incontro benefico del medico con il suo personale malato, cioè a dire con colui che lo chiama tra i mille per la libera elezione, innalzandolo su un così alto piedistallo di rispetto, di fiducia e di aspettazione da trovare del tutto naturale l’incondizionata dittatura di un uomo sulla vita dei suoi pari. Infiammato di sacro entusiasmo, attende solo un cenno per gettarsi all’azione e pulire la faccia del mondo dalla bruttura dei mali. Per il medico neonato l’importanza dei primi pazienti è pari a quello della notte nuziale: l’esito felice o infelice dei primi incontri condizionerà in futuro, nascosto profondamente nel subconscio, la confortante tendenza alla fiducia in sé stesso o il deprimente sospetto di una vita sbagliata.
Ma spesso il primo cliente tarda troppo a venire. E nel frattempo il medico viene a conoscenza delle prime brutture della pratica professionale, come la redditizia pratica dello «smistamento» su base dicotomica verso alcuni specialisti e i laboratori privatamente «convenzionati» contro i dettami delle deontologia. Con la quale nozione, e considerata la grande difficoltà e il reddito inadeguato della Medicina generale, comincia a risentire gli allettamenti di una di una qualsiasi specializzazione, intesa spesso come possibilità di più facili e maggiori guadagni, invece che come espressione di un interesse particolare.
Ma in ogni campo in cui cerca di inserirsi, si scontrerà, inevitabilmente, con il medesimo fenomeno: la pletora dei colleghi.
Distribuzione ineguale
Che i medici siano molti e sembrino troppi è un fatto indubitabile. Tanto per riferirsi a cifre italiane, i laureati in Medicina sono passati dai 600 all’anno del 1914 ai 4000 circa degli ultimi anni; il numero assoluto di quelli iscritti agli albi professionali dai 23.424 del 1911 agli oltre 74.000 del 1959, con un aumento progressivo della densità per centomila abitanti (totale italiano), da 65 medici nel 1911, a 104 nel 1948, a 140 nel 1954, a 160 nel 1956.
Ma la loro distribuzione è assolutamente ineguale. In Italia il computo statistico delle provincie, riferito ai 72.527 iscritti nel albi 1958, dimostra 1 medico su 285 abitanti nella provincia di Roma; 1:416 in quella di Milano, 1:474 a Napoli e, per converso , solo 1:1.148 ad Aosta, 1:1.294 a Cuneo, 1:1.446 a Rovigo.
Il fenomeno è mondiale, e gli altri Paesi europei rilevano cifre quasi pari alle nostre. Per i nuclei abitati, ad esempio, si passa in Francia da 1 medico su 4.545 abitanti per i comuni con meno di 1.000 abitanti, a 1:757 per i nuclei da 80 a 100.000 a 1:584 a Marsiglia, a 1:410 a Parigi.
Cosa spinge i medici a inurbarsi? Il più alto livello di vita ivi esistente. È dimostrato, da ricerche compiute dall’ U.N.E.S.C.O., e pubblicate da Woytinsky, che le spese mediche annuali crescono in diretta relazione con il reddito. Per riferirsi agli U.S.A., dove la situazione, per mancanza di assistenza obbligatoria, è ancora simile alla nostra «libera professione», esse passano gradualmente dai 57 dollari per redditi fino a 1500 dollari, ai 163 dollari dei redditi fino a 5.000, ai 340 dollari dei 10.000 e oltre.
Eppure si parla molto anche di «pauperizzazione» del medico, e la cosa non è affatto fittizia.
Evidentemente è legge naturale che, come i medici si trasferiscono nelle città a scopo di miglioramento, così i pazienti si trasferiscano negli ambulatori dei medici dei quali ottengono di più (estendendosi purtroppo il «più» dalla migliore abilità diagnostica alla maggiore generosità di ricette o di «giorni»).
Così il medico, sia individualmente sia statisticamente, « o muore di fame o muore di indigestione». Come diretta conseguenza della pletora e della feroce conseguenza ( che giunge talvolta a violare senza ritegno persino le più semplici regole deontologiche), per il discredito riversato sui medici dalle polemiche sindacali, e dalla conoscenza, resa universale dalla stampa, delle indegne «retribuzioni» imposte da alcuni Enti Assistenziali, la gente si è abituata a considerare il medico ( per lo meno quello generico) alla pari di un bene di consumo che diminuisce di prezzo col crescere della sua produzione in massa. È vero che il costo della Medicina è sempre più alto, ma solo in causa del costo dei medicinali e delle analisi: al contrario il medico generico è sempre più a buon mercato.
Per riferirsi a tariffe ufficiali, la decadenza del valore economico dell’opera medica risulta evidente, se si pensa che un modesto borgo piemontese conferiva al condotto comunale, nel 1893, un onorar ario annuo di lire 1200 (nell’epoca in cui il solito pollo delle statistiche si pagava 80 centesimi, e un capomastro 1 lira al giorno). Anche tornando a tempi più vicini, ma ancora precedenti all’esperienza manualistica si massa (il 1936-1937), mentre le uova si vendevano a L.3,90 la dozzina, e la benzina a L. 1,05 al litro, l’onorario minimo per una visita generica era stabilito in L. 20, per una iniezione endovenosa in L. 25 per una visita specialistica in L. 50. Cioè una visita normale equivaleva a 5 dozzine di uova, o a 19 litri di benzina. Una inchiesta francese del controvalore, anch’essa basata sul «poulet» ha rilevato che il più comune atto medico era scambiato contro due polli nel 1914, 1 nel 1939, ½ attualmente.
Le precedenti considerazioni valgono, naturalmente, per l’artigianato medico (tuttavia componente l’80% dei professionisti) restandone finora immune la «aristocrazia» medica, cioè gli specialisti e i chirurghi di vasta rinomanza e una parte dei titolari di cattedre universitarie.
Ma si tratta di una percentuale assai esigua, non superiore al 6-7% i cui guadagni talvolta troppo elevati sono controbilanciati dagli stipendi vergognosamente bassi, inferiori a quelli legati per le domestiche e gli apprendisti, dei quali alcune amministrazioni ospedaliere «gratificano» gli assistenti di ruolo, come premio di superati concorsi.
Nonostante tutti questi «handicap» il problema primordiale per il giovane medico resta quello di vivere «sulla sua laurea», cosa che, assurdamente non è facile come gli aspiranti al titolo dottorale credevano nei sogni rosati del corso accademico.
I metodi possibili per risolverlo sono molteplici, non tutti, peraltro, sul medesimo piano etico o deontologico. La scelta preferenziale di uno di essi, condizionata purtroppo da molti e contrastanti fattori intimi e di ambiente, costituisce la prima vera prova del fuoco, per la quale, a differenza dell’epicrisi diagnostica, l’istruzione accademica non dà nessun aiuto e nessuna guida
L’aumento delle spese di esercizio quale fattore di decadimento professionale
Un tempo il medico, giunto al possesso della laurea ed iscrittosi agli Albi professionali, poteva passare immediatamente all’esercizio delle Medicina, accontentandosi i pazienti antichi dei suoi mezzi umani, cioè i sensi e il cervello.
Oggi, invece, un ambulatorio sfornito di almeno una mezza dozzina di luccicanti apparecchi induce il paziente a poco benevoli apprezzamenti, tali da influire negativamente sulla sua scelta. È quindi praticamente un obbligo, anche e sopratutto per il neo-laureato, di immobilizzare grossi capitali in questa scenografia spesso soltanto di figura, indebitandosi per ottenerli e ipotecando così dei guadagni futuri, la cui misura e probabilità costituiscono dei veri azzardi.
Di fronte a questo ostacolo, grave e per di più imprevisto, una a parte dei laureati uscenti da famiglie non ricche, le quali hanno già sostenuto con fatica progressivamente crescente i diciannove anni di studio improduttivo, si perde di coraggio, «getta alle ortiche» il prezioso bagaglio di cognizioni specifiche e purtroppo esclusive faticosamente accumulato, e si dedica ad altre attività meno lusingatrici ma praticamente più redditizie.
Considerato sul piano dell’economia della comunità ciò assomiglia molto ad uno sciupìo criminoso di pubblico denaro. Tuttavia il fenomeno si verifica (censimento italiano del 1951) in un abbondante 6% dei laureati, cioè, per un contrappeso quasi irrisivo, nella medesima percentuale di quelli, tra i nuovi medici, che si dedicheranno alla carriera accademica.
Una profonda nostalgia dell’arte spinge alcuni di questi involontari apostati della Medicina a ingrossare le già troppe schiere dei «collaboratori scientifici» delle case farmaceutiche, le quali declassano bensì al rango di piazzisti un prezioso materiale umano, tecnicamente preparato a compiti socialmente assai più utili, ma hanno almeno il pregio di pagare generosamente bene e presto, sia in moneta sia in rispetto.
La «Mutualità»
Per la stragrande maggioranza dei giovani medici, la situazione del problema economico si chiama senz’altro «la mutua», i cui assistiti dimostrano esigenze assai più limitate di attrezzatura e di ambiente, e possono essere smistati, all’occorrenza, verso specialisti di ogni ramo senza alcuna formalità, né spesa.
La tendenza sempre più larga verso il «fiduciariato» non corrisponde perciò affatto ad una cosciente adesione ai principi della Medicina socializzata, come qualche volta è stato detto in sedi politiche, ma quasi sempre a una condizione di necessità per chi cerca un immediato frutto alle sue lunghe fatiche.
Il fatto che i vantaggi finanziari eseguibili rimangano, per un tempo più o meno lungo (specie nei centri urbani) a livelli pressappoco infimi, non dimostra alcun effetto deterrente; ne assume al contrario uno lusingatore l’interpretazione della «mutua» (almeno all’inizio) quasi come una terra di emigrazione, dalla quale ricavare, con un forsennato lavoro di qualche anno, i mezzi per tornare a vivere e ad esercitare con soddisfazione nella patria della libera Medicina.
Strana mentalità a dire il vero. Che fa ricordare, per analogia, quei militari inglesi privi di beni di fortuna che accettavano ingaggi addolciti da polpose prebende presso i principotti indiani, con l’intenzione di ritirarsi presto a vivere di rendita. Ma spesso, per il clima o per il costume di vita al quale non potevano più rinunciare, il breve ingaggio si trasformava in legame di tutta la vita; cosa che richiama, sempre per analogia, quel che accade, proprio nella massima parte dei casi, al nostro paradigmatico «mutualista controvoglia».
Ma il desiderio della libera professione rimane. Si spiegano così quelle targhe ineffabili («Mutue e Privati») che possono persino ingenerare il sospetto, in quanti non sono addentro in queste cose, dei due pesi e delle due misure. In pratica però soddisfano anche a una esigenza del pubblico, il quale non incorre ricorre affatto nella libera professione in quella esigua percentuale del 20% che le statistiche dicono non ancora coperto dall’assistenza obbligatoria, ma in misura ben maggiore. Infatti anche i «mutuati» hanno ormai capito, a loro spese, che il problema basilare, in caso di malattia, è soltanto quello di guarire presto e bene, per ritornare immediatamente all’attività; cosa assai più redditizia, nonostante le prime apparenze, della gratuità di un’assistenza inefficiente, e perciò protratta per un tempo assai più lungo.
Su che cosa si fonda, in questi tempi di Medicina socializzata, il richiamo dei liberi professionisti? Non offrono visite o medicine gratuite, né generosità di assenze giustificate dal lavoro, ma danno al paziente, finalmente, la possibilità di un rapporto professionale ed umano basato sulla reciproca fiducia.
Su questo rapporto si fonda (a dimostrare la invariabilità della vera medicina) il ricorso privato ad un medico liberamente scelto, il quale può essere tanto il «libero puro» quanto un mutualista che vi dedica qualche ora libera. Quasi tutti i «mutualisti», infatti, esercitano la doppia attività, però il malato generalmente ricorre, quando sceglie da sé, a un medico diverso da quello il cui timbro orna il suo tesserino. Anche quello, a stretto rigor di termini, lo ha «scelto» lui, ma evidentemente sentendosi non libero, per le limitazioni territoriali o di elenco chiuso che la «mutua» gli ha imposto.
Si paga due volte
Così, oltre tutto, si avvera il paradosso che la società, cercando l’illusione della Medicina gratuita, finisce per pagarla due volte: la prima, quando è sana, attraverso i «contributi»; la seconda quando è malata, in «via breve».
A questa luce si possono spiegare più facilmente le strane inefficienze tecniche, in sede «manualistica» di medici rivelanti altrove una buona preparazione, nonché le pecche funzionali del sistema, tra i quali basilare il sostanziale disinteresse per la personalità del malato. Il mutualista giovane di regola ha molto tempo da usare: all’inizio della sua attività regala generosamente agli Istituti della Medicina di ottima fattura, pago, più che della insufficiente retribuzione, della possibilità di applicare praticamente la sua tecnica e il suo entusiasmo taumaturgico.
La buona fama che così acquisisce attrae a lui una schiera ognor più larga di assistiti, per lo più cronici, scontenti del loro medico introvabile e frettoloso. Ne risulta che in breve tempo anch’egli si trova nelle medesime condizioni dei colleghi più anziani, e costretto ormai come loro, dalla mancanza di tempo, a subire i pericoli della superficialità e i facili allettamenti della terapia sintomatica.
Il medico convenzionato direttamente non ha alcun mezzo (quello finanziario gli è in teoria negato), per limitare l’afflusso dei tesserini a quel tanto che soddisfi i suoi bisogni e non più, lasciandogli il tempo per vivere, oltre che per esercitare degnamente.
Dall’altra parte lo spinge a moltiplicare gli atti medici, sfuggendo i più impegnativi in favore dei più elementari, il livellamento incongruo di tutte le «prestazioni», dal semplice rinnovo di una ricetta alla formulazione prognostica che impegna l’avvenire di un malato e della sua famiglia; cosa, con le attuali tariffe, assai vicina alla prevaricazione: del medico nel primo caso, dell’Ente nel secondo.
Insoddisfatto com’è, il medico potrebbe, quest’è vero, lasciare la «mutua» quando essa gli ha donato, con un anticipo di anni sull’antico, una discreta fama e una sufficiente clientela. Ma la decisione, oltre a rappresentare un’incognita, è resa assai difficile dal fatto che, come ognuno sa, quando arriva la prima automobile crescono i bisogni e il gusto delle comodità, i quali portano ad accettare anche le attività poco congeniali, purché il loro reddito sia sufficienti a soddisfarli.
Il momento cruciale
Questo è il momento più drammatico e penoso, superando il quale scompare finalmente la riserva mentale dell’adesione «provvisoria» e che coincide con la possibilità di gravi pericoli etici o deontologici. Mentre l’arte (per la trascuratezza) si degrada progressivamente anche nella sua saltuaria applicazione ai pazienti cosiddetti «privati», si richiede al mestiere di rendere ai massimi vantaggi con la minor fatica. Ciò può finalmente sospingere, nell’eventualità di deboli freni morali, a indulgere a colpe gravi quali il comparaggio e persino la sfacciata richiesta della «giunta» al bollino.
È naturalmente pacifico che questa pessimistica sequenza di degradazione pratica, deontologica e morale non si verifica nella generalità dei casi, anzi è del tutto eccezionale nella realtà. Ma basterebbe un unico esempio (e la realtà purtroppo, non è così ristretta) per squalificare moralmente un sistema che la rende possibile o la facilita.
Ad una cruda disamina, risulta comunque che nell’ambito della cosiddetta «mutualità» (come è oggi) esistono quasi tutte le condizioni determinanti perché una previsione così tragica possa avverersi. Regolamentazioni cervellotiche e necessità inderogabili di bilancio, indirizzi politici e pressioni demagogiche dal vertice o dalla base, ma sopratutto l’ignoranza fondamentale della realtà assistenziale da parte degli amministrativi che codificano le «normative di erogazione», tutto congiura e rendere estremamente difficile, per il medico, la corretta applicazione sulla scala di massa della sua arte tanto desiderata e tanto benefica.
Nonostante tutte le remore e tutti gli inciampi, la massima parte dei medici mutualisti è cercata, seguita, e persino stimata dai propri assistiti. E questo significa – al di là di ogni agiografico complimento – che esercitano bene il loro mestiere. Ma per farlo sono costretti qualche volta a infrangere (e diciamo pure a «correggere») almeno alcune prescrizioni burocratiche pleonastiche o gratuitamente dannose. Per citare qualche «correzione» tra le più banali ed utili: la incompleta scritturazione dei modulari e la indicazione di urgenza al ricovero ospedaliero.
Quest’ultima pratica sopratutto, può servire da esempio e merita di essere chiarita almeno sommariamente per riconoscere le differenze abissali tra la «realtà assistenziale», cioè i veri bisogni dell’assistibile, e la distorta rappresentazione mentale che se ne fanno i burocrati.
Dunque, quando il medico curante mutualista decide (secondo scienza e coscienza, e in possesso di tutti gli elementi di giudizio) che un suo malato abbisogna di ricovero ospedaliero, si trova nell’alternativa di infrangere o le regole della sua convenzione con l’Ente mutualistico, o quelle della sua coscienza sanitaria.
Se, infatti, come richiede il caso, indica un ricovero ospedaliero semplice, da compiere cioè non perforando il traffico cittadino a strepito di sirena su un’ambulanza, ma su un comune mezzo di trasporto entro le prossime ventiquattr’ore (non di più, evidentemente, altrimenti si curerebbe il suo paziente da sé, almeno per un giorno ancora) sa a priori che non sarà possibile al paziente di ottenerlo.
E questo perché – con un disposto burocratico irridente nella teoria e nel fatto – le richieste di ricovero non urgente sono soggette a «visto» da parte di qualsiasi ente di mutualità. «Visto», ripetiamo, non «controllo medico della necessità». Tanto è vero che nessuno si sogna di visitare il malato, ma è la richiesta del medico che gira di qua e di là per il paese o la metropoli, da un ambulatorio a un ufficio sezionale, in caccia del sospirato «timbro e firma» apposto magari proprio da un medico (ma dietro a una scrivania) dopo code e discussioni penose subite in momenti psicologicamente drammatici; cosa che non fa certo benedire la organizzazione e le sue impostazioni extramediche.
Così il medico mutualista prescrive l’urgenza dei ricoveri per le bronchiti, le flebiti, le appendiciti fredde così via. Ma non volendo perdere del tutto la faccia, almeno sui moduli, aggiunge alla diagnosi reale quel tocco di complicazione inesistente ma attendibile che può giustificare la richiesta, comunque interpretata per quel che vale, e in genere senza stupore, dai medici dell’accettazione ospedaliera.
Resta così dimostrato che il sistema riesce a soddisfare i bisogni degli assistiti (almeno in questi casi) grazie alla continua serie di falsi in atto pubblico, compiuti in favore dell’assistito dal medico, a suo esclusivo rischio materiale e morale. Perché magari accade, se il medico dell’accettazione dell’ospedale non è esperto dei meandri operativi della mutualità che il malato, urgente sulla carta e non in corpore si senta dire in più: «Ma chi è quel cretino di medico…, ecc.» con tutto il danno psicologico che ne consegue, a scapito – come sempre – del cireneo mutualista.
Come regola fissa della mutualità infatti si può affermare che se le «correzioni» del sistema sono in qualche caso possibili a livello dell’assistito, per quanto riguarda il medico esse non hanno alcuna efficacia; né remunerativa né di stima.
Nell’ambito della libera professione, a una intensificazione e a un approfondimento del lavoro svolto corrisponde sempre, presto o tardi, una resa economica o di fama in progressivo crescere. Nel settore della mutualità attuale, il miglioramento del servizio prestato corrisponde sempre ad una perdita. Il maggior tempo dedicato alla singola «prestazione» non appare né viene considerato; chi fa di meno, ance se meglio, paga anzi di tasca sua, rimettendoci nel confronto. Infine – ed è una considerazione urtante – la sola possibilità che il sistema induca a una frettolosità forfettaria ha condotto l’opinione pubblica a «declassare» praticamente il mutualista e la sua capacità diagnostica e terapeutica. Ma se il giudizio dei profani dispiace, la medesima opinione, esplicita o implicita, offende i mutualisti e con loro tutti i medici, se proviene da altri colleghi o addirittura da cosidetti Maestri, i quali ostentano in qualche caso, privatamente o in pubblico, il disprezzo per la «medicina mutualistica» e per chi individualmente la pratica, quasi fosse una sottospecie deteriore e non la loro medesima arte.
Con questo possa poi conciliarsi con i grossi introiti che la mutualità concede prevalentemente ad essi, attraverso al finanziamento dei ricoveri con i «compensi ospedalieri forfettari» o attraverso alla tariffe preferenziali concesse ai numerosi «Centri» dell’una o dell’altra specializzazione, resta finora un insoluto mistero psicologico e pratico.
Tutto questo conduce a concludere che, se la medicina corre oggi il rischio di screditarsi nella pratica, una grossa parta di responsabilità ricade sugli Istituti assistenziali, i quali propugnano in tutto il mondo dei sistemi che, in base a errate premesse, agiscono largamente come corruttori del costume e dell’etica medica moderna. Tanto è vero che altre professioni liberali, per le quali nessuno ha pensato di programmare una socializzazione gratuita (e non sono tuttavia meno costose della Medicina) godono tuttora la piena considerazione e il rispetto del pubblico. Valgono gli esempi banali del notaio, dell’avvocato, dell’ingegnere.
Ma la medicina purtroppo costituisce, come il pane, un bene di consumo di tale immediatezza e importanza da incorrere, per sua disgrazia, nella determinazione di un prezzo politico non corrispondente alla realtà. Per questo il medico riesce a guadagnare più degli altri liberi professionisti, ma solo in caso di successo, lavorando quasi come uno schiavo, e a spese della normalità della sua vita. Né, in pratica, riesce a morire ricco. Anche se il suo livello di vita è apparentemente elevato (e tuttavia costituisce, come l’automobile, quasi un mezzo di «produzione» di lavoro, utile al prestigio professionale nel mondo) la quota di medici che diventano ricchi con la pratica professionale è irrisoria. Disponiamo di uno studio statistico compiuto per la contea di Hartford, Conn., U.S.A, su 144 medici deceduti tra il 1940 e il 1953. Soltanto uno di essi lasciò una fortuna di 1.000.000 di dollari ma alla cui raccolta la medicina aveva contribuito solo in minima parte. Il 55% valeva alla morte meno di 100 mila dollari, il 31% meno di 10.000, il 13% era ancora indebitato.
Cifre, naturalmente, valide solo per gli U.S.A., dove il costo della Medicina è altissimo e le mutue ignote.
In compenso – e quest’ultimo dato può valere anche per tutti gli altri paesi del mondo - il 63% di essi era morto improvvisamente, spesso sul lavoro, per infarto cardiaco o emorragia cerebrale.
Delle qualità ideali del medico cosi scriveva Amiel , nel 1873: «Per me il medico ideale deve essere un uomo con profonda conoscenza della vita dell’anima, che intuisca per divinazione le sofferenze e i disturbi di qualsiasi specie, capace di ridare la tranquillità con la sua sola presenza.»
«Il Dottore ideale deve perciò essere, nello stesso tempo, un genio, un santo, un uomo pio».
Ma proprio questo uomo dalle qualifiche eccezionali, che oltretutto reca con sé la maledizione di vivere tutta la sua vita, e tanto più strettamente quanto più ha successo, a perenne contatto con i dolori degli altri e che, oberato di lavoro ai limiti della resistenza umana e oltre, rileva una incidenza di infarti del 330% rispetto a quella generale, alcuni istituti assistenziali si sono abbassati a offrire la vergognosa quota capitaria annuale di ben 450 lire, e hanno trovato persino chi era disposto ad accettarla!
Cosa è dunque avvenuto, della dignità di questo professionista, di quest’uomo riconosciuto per millenni superiore persino ai Re, perché si lasci trascinare così in basso senza ribellarsi? Cercheremo di analizzare il fenomeno nei prossimi capitoli.
IL MEDICO
Come è perché viene scelta la professione di medico
Il capitolo precedente finiva con una domanda piuttosto cruda, dettata dalla realtà dei fatti. La risposta più ottimistica e rispettosa per i medici è quella di considerare la categoria (che ogni giorno ci fornisce ancora esempi preclari di forza morale, di virtù e di eroismo) come non più omogenea e selezionata su standard elevati, al pari del tempo passato, ma inquinata da apporti individuali meno validi sotto tutti gli aspetti, che potrebbero essere i soli responsabili (a danno dell’intera categoria) della decadenza pratica e sociale della figura del medico.
Effettivamente, mentre ancora un secolo fa la «leva» media degli iscritti a Medicina apparteneva alla borghesia benestante, e spesso era già spiritualmente preparata all’arte da «dinastie» mediche di famiglia, oggi l’afflusso dei neo-immatricolati proviene da tutte le categorie sociali, con prevalenza, almeno numerica, della piccola borghesia impiegatizia; e anche da quello che un tempo si usava definire «proletariato» in percentuale ben maggiore che in antico.
Nella «bontà intrinseca» di un medico, com’è perfettamente ovvio, non interferisce per nulla la sua «estrazione» familiare; ma nel completamento della sua preparazione tecnica (ben lontana dall’essere perfetta al momento della laurea) il censo familiare assume – almeno sulla scala statistica e riferendoci alla presente situazione sociale e professionale – una importanza non trascurabile, alla quale (e alle cui conseguenze) abbiamo già implicitamente accennato in uno dei capitoli precedenti.
Considerato poi il fatto che, se una pletora esiste, essa è di laureati in Medicina piuttosto che di medici, occorrerebbe provvedere in qualche modo a inscrivere nelle scuole mediche i soli giovani che si avvicinano alla medicina per vera vocazione, o (se la parola sembra troppo grossa) almeno per la spinta di un sano interesse, piuttosto che, come accade troppo spesso oggi, in conseguenza di ragionamenti più o meno capziosi, responsabili già pregiudizialmente di equivoci pericolosi.
Per citar qualche esempio di numeri, è chiaro che l’anormale aumento degli iscritti alle Facoltà Mediche nei periodi bellici non si può giustificare con una improvvisa esaltazione dello spirito sanitario o degli ideali umanitari della Croce Rossa, ma appare piuttosto il riflesso sociale del desiderio animale proprio a ciascun uomo, di sfuggire, in qualsiasi modo possibile, alla morte e alla sofferenza.
Matricole di guerra
Ogni conflitto mondiale ha prodotto infatti nelle Facoltà Mediche una ipertrofia di nuove immatricolazioni, le quali perdurano per qualche anno, fino a che si spegne nell’animo degli studenti il «condizionamento» familiare, di solito il solo che spinge il giovane verso una carriera che può tenerlo lontano dai fronti di battaglia o, nella peggiore delle ipotesi, destinarlo a un’«arma» non combattente.
Per l’Italia le cifre sono queste: dai 10.900 iscritti del 1938-1939 si è progressivamente arrivati, nel 1946-1947, a ben 35.000; ma nel 1951 si era già tornati a 22.000. Se tutti gli iscritti del decennio fossero giunti alla laurea, oggi i medici in Italia non sarebbero 74.000 ma molti di più. Dove sono finiti tutti gli altri? Evidentemente, cessato il pericolo, una parte degli studenti, per i quali l’interesse precipuo non era la Medicina ma le maggiori probabilità di salvezza personale che le sembravano connesse, si sono indirizzati ed altre attività più congeniali.
Tuttavia i giovani si inscrivono nelle facoltà mediche anche sulla base di altri atteggiamenti mentali, non meno equivoci di quello «bellico», ma che purtroppo, a differenza di quest’ultimo, si dimostrano persistenti e conducono quasi sempre alla laurea.
La medicina, rende?
Si tratta per esempio dell’opinione, diffusa ancora oggi largamente, che la Medicina dia un facile pane ai suoi cultori, e consenta una più pronta e stabile ascesa sociale nel mondo.
Gioca in questo atteggiamento psicologico il riflesso dell’antica dignità del medico e della sua arte, e l’apparenza esteriore della sua vita, di uomo generalmente ben vestito e «motorizzato». Ciò induce, parallelamente al crescere del livello di vita, un numero sempre maggiore di famiglie meno abbienti ad avviare i figli sulla strada della Medicina.
Sarebbe perciò estremamente utile che il pubblico, e particolarmente gli interessati, venissero esattamente informati delle realtà attuali offerte dalle professioni sanitarie, le cui remunerazioni, per quanto effettivamente più alte della media nei casi fortunati sono tuttavia inadeguate alla somma totale di sacrifici che esse impongono giornalmente, e che possono essere sostenuti con serena sopportazione solo se l’esercizio medico si identifica assolutamente con la passione dominante della vita.
In difetto di questa adesione totale, non solo il medico avverte, ogni giorno rinnovato, lo scontento disarmante di un errore non più riparabile, ma, ancor peggio, non riesce più a dare neppur quel che potrebbe, diventa frequentemente scadente nelle sue prestazioni, e si avvia fatalmente all’insuccesso professionale e alla insoddisfazione personale.
È con questi tempi disgraziati, soprattutto, che la Medicina perde il suo prestigio, in quanto è in mezzo a loro, prevalentemente, che alligna la mala pianta del comparaggio e delle altre miserie pratiche, le quali sembrano rinverdire le perdute speranze di un guadagno ottenuto con minore fatica (sia pure a spese di una grave degradazione morale).
Il compito di questa preventiva informazione, altamente meritoria, potrebbe essere demandato a corsi di orientamento professionale, da introdurre obbligatoriamente negli ultimi anni delle superiori, e che naturalmente dovrebbero illustrare, parallelamente alla Medicina, anche le altre attività principali di lavoro che si offrono all’uomo nella società moderna.
Ciò potrebbe attuare una selezione di massa su base psicologica, la cui efficacia è certo difficilmente prevedibile (in relazione alla somma dei molti fattori concorrenti su scala sia individuale sia sociale) ma che porterebbe comunque ad una utile chiarificazione, alla quale si potrebbe sempre fare riferimento per l’applicazione successiva di qualsiasi selezione, togliendo a questa l’eventuale fama di ingiusta discriminazione.
La vocazione «economica»
La medesima esigenza chiarificatrice, applicata al sacerdozio (a parte il giudizio critico preliminare sulla validità della vocazione) prevede durante i successivi gradini del corso clericale la possibilità, più volte rinnovata, senza alcuna infamia per chi se ne va. Per la Medicina, invece (che, sia pure su un piano diverso, impegna ugualmente tutta una vita) nulla di simile. Si presume aprioristicamente che un vero e perfetto medico, questo eccezionale esempio delle possibilità umane al loro limite superiore, si trovi nascosto in ciascuno, senza esclusioni, dalla massa dei nuovi immatricolati, per il solo fatto che può dimostrare la potenzialità economica sufficiente per sostenere l’onere delle tasse universitarie.
Al contrario la realtà è ben diversa, e assai più oscura. Né può essere un indice la percentuale elevatissima dei fuoricorso, pari sul totale delle facoltà mediche italiane nel 1955-1956, al 34% degli iscritti globali, cioè per chiarire meglio, oltre un fuoricorso su due iscritti regolari. Questa massa ingente di statici ipertrofizza, almeno teoricamente, la popolazione scolastica e contribuisce ad abbassare la quota individuale di disponibilità didattica, a scapito dei normali.
Di questo clima di fallimento, o almeno di concordato obbligatorio, ha cominciato ad occuparsi la stampa, ormai da anni, e finalmente l’opinione dei profani viene aggiornata, a ondate ricorrenti, dello stato di disagio esistente nell’ambiente universitario. Accade così che la mancata soluzione interna del problema (cioè la forzosa dimissione dei fuoricorso ingiustificabili o recidivi) comincia a riflettersi negativamente sulle nuove immatricolazioni, le quali sono scese, per le facoltà mediche italiane, del 28% in cinque anni (dal 1951 al 1955).
Evidentemente una certa quota di studenti liceali ha dirottato verso altre facoltà che permettono maggiore completezza di preparazione, oltre al vantaggio di un corso o due anni più breve. Per quelli che credono nella pletora medica (e ignorano che in Italia esistono tremila nuclei abitati senza medico residente) ciò può sembrare un avviamento alla risoluzione di un apparente problema. Ma chi ci assicura che nei «dirottati» non vi siano in potenza dei medici altrettanto e forse più idonei degli iscritti? È un altro grave punto da accertare con serie inchieste e con lo studio da parte di veri competenti.
Comunque, superato il passo preliminare della immatricolazione, lo studente si dedica a un «cursus» preparatorio tecnico e informativo, alla fine del quale consegue l’abilitazione all’esercizio professionale, parola assai fredda e inadeguata ad esprimere l’intensità della dedizione totale, sempre entusiasmante, al sollievo dei propri simili.
Ma è chiaro che (a parte qualsiasi disquisizione sulla efficienza tecnica dell’apparato didattico italiano moderno) il «cursus» informativo è destinato a macinare a vuoto se non trova nello studente, almeno in potenza, i requisiti indispensabile della idoneità professionale futura, ed un loro sufficiente livello.
VLa somma di queste qualità fondamentali (e pregiudiziali) investe almeno quattro piani della personalità, i quali si possono un po’ artificiosamente, contraddistinguere come segue in ordine di importanza crescente:
- a) piano fisico;
- b) piano mentale e psicologico;
- c) piano tecnico-professionale
- d) piano etico.
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L’UOMO SENZA FUTURO
Mursia, 1976
L’uomo senza futuro è una rigorosa ricerca scientifica, più affascinante di un romanzo di fantascienza, che denuncia in maniera documentatissima la nostra sfrenata corsa verso il suicidio sociale.
L’autore “limita” la sua indagine alle “cose mediche”, il che include quasi tutta la vita singola e collettiva; ma gli impone l’obbligo (assolto attraverso un’interpretazione assolutamente originale dei documenti disponibili) di ricercare la diagnosi causale dei tragici flagelli moderni: dal drogaggio chimico e ideologico di massa alla sovrappopolazione, dall’inquinamento all’epidemia universale di odio, dal fallimento di ogni assistenza sanitaria organizzata al dilagare “misterioso” delle cardiopatie e del cancro.
Speciani riscopre che è la civiltà delle macchine a uccidere l’uomo; ma, in più documenta che il vizio meccanicistico ha infettato l’attuale medicina, così che anch’essa collabora alla rovina dell’uomo, invece di difenderlo.
Sennonché, a differenza di tutte le critiche precedenti, solo angoscianti perché incapaci di indicare qualsiasi soluzione, la presente ricerca irradia un messaggio di consolazione e di speranza, offrendo, nella medicina a misura d’uomo, l’alternativa per sopravvivere non solo realizzabile ma già realizzata e operante in mezzo a noi.
Ipotesi per un inventario
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Un’antica maledizione cinese si cela dietro questo testo soave: «Ti auguro di vivere in tempi interessanti…». Troppo sottile? Vediamo. Non c’è dubbio che i tempi nei quali ci è toccato di vivere sono davvero i più interessanti dell’intera storia dell’uomo. Esistono oggi più scienziati e più poeti, più pittori e più politici, più libri d’arte e più matematici, più telefoni e più velocità, più macchine e più denaro, più congressi e più pianificazione, più medici e più medicine, di quanti ne siano apparsi durante tutta la vita precedente dell’umanità. Abbiamo fisicamente raggiunto la Luna, e strumentalmente Marte, Venere, e da poco Giove. Eppure il mondo non ha mai sofferto come ora tanta fame e tanta angoscia, tanti squilibri sociali e turbamento, tanti cronici, tanta povertà e tanto cancro. Per limitarci alle cose mediche – argomento esclusivo del libro – l’insoddisfazione privata e pubblica verso l’attuale medicina è così universale da far temere in ogni momento l’esplosione di una rivolta eversiva. Perché?
È un fatto che la crisi della civiltà, diventata ormai globale, sta in mezzo a noi e ci circonda, causa ed effetto insieme del nostro soffrire. La sua intensità, in aumento progressivo da trent’anni, ha sollecitato centinaia di testi critici: da Huizinga a Mumford, da Marcuse a Toffler, da Calder a Malleson. Ma tutte queste lucidissime analisi negative, mai confortate dall’offerta di una possibile alternativa, più che chiarire le idee hanno contribuito ad esasperare (come la propaganda-shock del «fumo = cancro») l’angoscia esistenziale del mondo.
Una sola certezza risulta condivisa tanto dalla critica dei sociologi quanta dalla sofferenza sentimentale collettiva: il progressivo allontanamento dall’uomo delle scienze. Se questo è doloroso per quelle umanistiche, diventa addirittura tragico per l’unica che trova nell’uomo la sua sola validità e significato, cioè la medicina. Eppure è forse, oggi, la più disumanizzata di tutte; anche per questo siamo ora esposti al pericolo definitivo, cioè l’estinzione di specie.
Nel corso della sua storia l’umanità ha ottenuto altre volte il consiglio della medicina: del celebre medico e architetto Imhotep, deificato dagli egizi (e trasformatosi presso i greci in Asclepio), scrivono gli annali del Regno Antico (circa 2800 a.C.), che «la sua scienza ha posto fine a sette anni di carestia». Ma il sistema di canali irrigui, da lui disegnato e costruito per fecondare le terre, ha anche risparmiato all’Egitto la malaria per i successivi quarantacinque secoli, finché nel XVIII la dominazione turca non li ha lasciati insabbiare.
medicina zoppa
Oggi, di fronte a problemi umani ben più gravi e universali, non solo non abbiamo nessun Imhotep sottomano, ma la medicina stessa è in crisi nella pratica, nella teoria, persino nei risultati. La sua struttura attuale in tutto il mondo – tanto più là dove più perfezionata – è ammalata di gigantismo e di pleonasmo, di incompetenza e soprattutto di superbia, perché ha dimenticato la sua identità con l’uomo e pretende di risanarlo aggredendone i più intimi equilibri psico-organici, in gran parte ancora ignoti. Così accade che possa vantare trionfi eccezionali forse illeciti (come le sostituzioni globali del cuore, o le plastiche viscerali ampiamente demolitive nei cancri preagonici) e sogni addirittura le chimere del «cyb-org»;1 ma nello stesso tempo si dimostri penosamente incapace di guarire causalmente un banale raffreddore o una emicrania, e persino un «alito cattivo». Come sarà anche troppo facile documentare in seguito, non ha saputo né sa, nonostante la priorità assoluta di questi problemi, risparmiare alla comunità umana le sofferenze della civiltà: dall’inquinamento dell’aria, dell’acqua, del suolo, all’eccesso della popolazione; dalla decadenza della qualità della vita all’aumento esponenziale delle malattie psicosomatiche.
Per quest’ultimo settore della patologia umana, che oggi si estende dall’ipertensione arteriosa alle allergie, dagli infarti cardiaci all’asma, dall’ulcera gastroduodenale al diabete, dai disturbi ormonali al cancro, la medicina ufficiale non sa offrire nessun rimedio causale, ma solo un’indigestione di farmaci sintomatici ogni giorno rinnovati, che lasciano il tempo che trovano.
Quel ch’è ancora più grave – e rivela la tragica incompetenza del sistema – essa non riesce neppure a leggere, nelle esatte statistiche disponibili, le evidenti ragioni del loro aumento che è strettamente parallelo alla progressiva disumanizzazione dell’esistenza. Cosicché nei paesi tecnologicamente più avanzati la durata probabile della vita ricomincia a diminuire, dai 70 e più anni raggiunti lentamente dai tempi preistorici fino a ieri (O.M.S. 1971); il che confina nel limbo delle pie illusioni le trionfalistiche previsioni «scientifiche» dei «120 anni di vita nel 2000».
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[1] Organismi umani o animali integrati da parti meccaniche o elettroniche potenzianti il loro «rendimento biologico»: per esempio la sostituzione di un occhio con una telecamera; dei polmoni con branchie elettroniche che consentano la respirazione subacquea ai palombari, e così via.
L’inventario essenziale
Considerato il fallimento statistico della civiltà tecnologica, particolarmente grave nella sua espressione medica, e di fronte all’ipotesi concreta di una imminente crisi globale, sembra arrivata l’ultima ora utile per provvedere alla nostra sopravvivenza. Si impone un indilazionabile inventario del ridondante patrimonio strumentale della medicina, discriminato sulla pietra di paragone della sua utilità per l’uomo.
Qualcosa di simile, dunque, ai corredi vitali ai quali si attenevano, con giudizio critico essenziale, le carovane che partivano dalla civiltà dell’′800 per raggiungere il Far West; che lasciavano i biscotti e i pianoforti a Boston, ma si portavano dietro le sementi e le zappe, la dinamite e, magari, la chitarra. Altri (Vacca per esempio) hanno già redatto elenchi di manufatti preziosi da tenere in riserva, in previsione di un futuro tecnologicamente più arretrato del presente. Per la medicina questa analisi dell’essenziale irrinunciabile non è ancora stata compiuta; ne avrebbe avuto l’obbligo istituzionale la medicina sociale, ma purtroppo si è dedicata allo studio dei sintomi invece che delle cause dei mali della comunità. Come restaurare insomma gli stucchi sui soffitti, mentre la casa è squassata dal terremoto e brucia.
C’è tuttavia la diffusa sensazione (tra i profani più acuta che tra i medici) che molte delle sue scintillanti conquiste siano in realtà assai meno indispensabili di quel che sembrano e che essa, nella sua totalità, risulti assai meno soddisfacente, per l’uomo, di quanto se ne vanti. Anzi talvolta il suo rapporto moderno con la medicina (paradossale a quello antico, tecnicamente meno valido ma spiritualmente più consolante) ricorda la condizione del prigioniero nei «malconfort» medievale, citato da A. Camus.
Perciò l’obiezione che l’ingrato lavoro di revisione e di scelta critica, al quale questa necessità costringe, risulterebbe superfluo nel caso (da tutti auspicabile) che la prevista crisi non si verificasse, non è sostenibile.
Se la riscoperta della essenzialità umanistica in medicina fosse riconosciuta valida, non occorrerebbe attendere il giorno del giudizio per applicarne nella pratica le conclusioni concrete. La loro adozione immediata potrebbe invece ridurre a livelli più tollerabili i costi e gli impegni sociali delle comunità, che le stanno precipitando verso la bancarotta. Naturalmente ciò imporrà alla medicina d’oggi, che maschera col sovrabbondante orpello tecnologico la sua immensa carica di dubbi, un serio esame di coscienza e probabilmente anche di ribattezzarsi, se vuole riaffermare la sua indispensabile presenza nel mondo, di nuovo a vantaggio dell’uomo e non solo di se stessa. Per questo occorrerà che la medicina (e per essa i suoi cultori) accetti serenamente l’ammonimento scolpito da quindici secoli nel battistero di S. Sofia in Costantinopoli: «Lavati gli errori, non solo la faccia».
La presente ricerca medico-sociale intende documentare la possibile rinascita di una Medicina dell’uomo, che non auspica il ritorno all’empirismo delle caverne, ma la ricerca onesta del vero dovunque esso si trovi, e l’integrazione di ogni apporto valido della millenaria scienza medica nell’eterno significato essenziale dell’arte del guarire. Perciò si propone, sulla stessa linea di umiltà ma di urgenza, come il semplice tentativo di informare meglio tutti, perché non vada perduta colposamente la speranza esigua di un futuro per noi, vivi oggi, e per i nostri figli, domani. |
LA MEDICINA
«Signore liberaci
dal troppo zelo per le novità;
dall’anteporre la cultura alla saggezza;
la scienza all’arte;
l’intelligenza al buon senso;
dal curare i malati come se fossero malattie;
dal rendere la guarigione più penosa
del persistere del morbo».
SIR JONATHAN HUTCHINSON, Londra, 1904 |
CAPITOLO I – Origini e significato della medicina
La medicina è nata con il secondo uomo. Cioè, sulla falsariga del Genesi biblico, con la prima donna.
Rimandando a più innanzi la documentazione di questo fenomeno, possiamo chiederci subito il significato della medicina, allo scopo di accertarne la validità passata e presente, ma soprattutto quella futura.
Un errore logico quasi universale, chiaramente implicito nello schema comune del comportamento umano, riguarda il concetto che la medicina serva a curare le malattie. Il che non è vero né in pratica né in teoria; a parte il fatto storico che le malattie sono comparse sulla Terra prima dell’uomo. A. Cockburn, del comitato per lo sviluppo delle risorse umane di Detroit (U.S.A.) è riuscito a documentarne almeno una dozzina presenti, nei primati antropoidi antenati comuni delle scimmie e dell’uomo, da oltre 25.000.000 di anni. Tra esse la dissenteria amebica, la febbre gialla, le artrosi, l’ossuriasi, la malaria, la fromboesia, la sifilide. Coetanee dell’uomo (Homo erectus e sapiens, 750.000-250.000 anni fa) sembrano il tifo, la lebbra e forse il colera; soltanto fuori della preistoria sarebbero comparsi il morbillo, la parotite, il raffreddore comune e l’«influenza», cioè le moderne maledizioni da virus, bisognose, per svilupparsi, di forti concentrazioni di popolazione (tanto virale quanto umana).
Un altro errore di mira, prevalente nell’epoca cosiddetta «scientifica», tende a identificare la Medicina con le medicine. Cioè con gli strumenti tecnici del suo progresso applicativo, dai medicamenti alle attrezzature chirurgiche fino alle possibilità fantascientifiche dell’ingegneria cromosomica. Questo errore di bersaglio, rimasto per millenni più potenziale che reale in conseguenza dell’arsenale esiguo e immutabile del medico, minaccia oggi, ingigantendo contemporaneamente al progresso, di denaturare nell’opinione universale (medici compresi) il vero significato della medicina.
È invece incontestabile che l’apparato strumentale medico, sempre più fascinoso per le meraviglie che ogni nuovo giorno ci regala, si rivela ad una critica disinibita come la parte meno valida della medicina. Esso infatti ha seguito nei millenni la stessa sorte di tutte le realizzazioni tecniche dell’uomo, cioè la insopprimibile tendenza a una durata sempre minore, sia per il continuo superamento operativo sia per la sottomissione alle assurde leggi della moda, della novità o del diverso, nel rifiuto acritico di tutte le realizzazioni precedenti. Soltanto nell’ultimo trentennio i più illuminati storici della medicina si sono accorti della complessità inscritta nello sviluppo delle idee scientifiche e degli strumenti pratici da parte dell’uomo.
Così, mentre H. W. Haggard lo dava ancora nel 1941 come ovvio, già A. Castiglioni, pochi anni dopo, dichiarava non più accettabile l’antiquato concetto delle «fioriture auree» della medicina in tempi prima e dopo oscuri, come quelle connesse con la scuola pitagorica, con Alcmeone e Ippocrate, con Galeno e Salamanca, con la scuola salernitana del 1200 d.C., col Rinascimento italiano, con gli illuministi francesi. Il sottofondo condizionante di questo prolungato errore consisteva nella impossibilità di attingere facilmente come oggi una documentazione completa. Questo manteneva gli studiosi all’oscuro dei collegamenti inapparenti ma reali con altre «facies culturali» risalenti, anello per anello, lungo una catena primigenia della quale non ancora vediamo l’inizio: dai sumeri ai cinesi, dagli indiani agli aztechi, dai maya all’Egitto, all’Atlantide mitica… Tuttavia a mano a mano che la nostra conoscenza della verità si allarga, scopriamo, con sorpresa, che molte tecniche a torto ritenute moderne sono state già largamente utilizzate, poi travolte e dimenticate per nuove mode, e magari riscoperte e ridimenticate.
Cure «moderne» di 75.000 anni fa. – Tra gli esempi documentabili ne esistono di assolutamente incredibili, se non fossero confermati dai reperti archeologici distribuiti nei musei di tutto il mondo. Le fasciature delle mummie egiziane presentano, per dirne una, tutti i sistemi di bendaggio usati e insegnati fino ad oggi (dalla «minerva» alla «spica reversa»); o meglio fino a qualche anno fa, quando l’uso delle reticelle elastiche ha cominciato a fare anche di questa un’arte perduta…
L’enteroclisma ci arriva dagli egiziani, che l’hanno appreso dai fenicotteri sulle rive del Nilo; la detensione endocranica, ottenuta dai neuro-chirurghi con la trapanazione, è documentata su crani fossili di Cro-magnon (40.000) e di Neanderthal (75.000 anni a.C.) con esito in guarigione: le proprietà antiuriche e antiblenorragiche del pepe (che oggi sfruttiamo, dimenticandone l’origine vegetale, sotto la forma dei composti chimici come la piperazina e derivati) sono state descritte e utilizzate dagli araucani e dagli aztechi; i digestivi a base di succo di ananas (oggi tanto di moda) dai più antichi samoani; l’ipnosi medica come anestetico e antiemorragico negli interventi, dagli «stagnatori di sangue» d’Egitto, chiamati durante la rituale trapanazione cranica preagonica su ogni faraone; il concetto e la profilassi dell’allergia («favismo») irrisi come antiscientifici per i successivi 25 secoli, dalla scuola pitagorica; le virtù terapeutiche dell’herba mate e del guaranà, le qualità eccitanti del caffè, del tè, delle foglie di coca, della scopolamina (Datura stramonium) sono state usate fin dalla preistoria centroamericana; il più attivo antiprostatico non ormonale, di recentissima introduzione in terapia, è stato «adottato» concentrando gli estratti naturali della medesima corteccia del Pygeum africanum (Hooker) che da oltre cinquemila anni gli stregoni del Natal (Sudafrica) somministravano ai vecchi della tribù per liberarli dalla difficoltà ad urinare. La radice di Rauwolfia serpentina, usata in India fin dai tempi pre-ariani di Moenjo-Daro, è il miglior trattamento oggi conosciuto e prescritto nell’ipertensione arteriosa, che riesce spesso a curare causalmente grazie alla tripla azione circolatoria, renale e psicotropa. I cardiotonici più attivi (digitale e strofanto) risalgono alla preistoria centroeuropea, centroafricana e centroamericana, dove l’ultimo era usato, insieme al paralizzante curaro (l’unico mezzo chimico che ha reso possibile la grande chirurgia moderna del polmone e del cuore) come veleno delle frecce per la caccia ai grossi mammiferi. Le droghe allucinogene più moderne, dall’hashish o mariuhana alla mescalina alla psilocibina, che hanno recentemente dato origine al settore addirittura fantascientifico degli psicofarmaci, sono usate da millenni in Europa, in Asia e particolarmente in centro-America, sotto la forma naturale del cactus peyotl, del fungo teonanacatl («carne divina»), del convolvolo ololuiqui («serpente verde»).
Per concludere una lista di straordinario interesse, ma che ha qui una semplice finalità dialettica, basterà ricordare che persino la forma (a «foglia di giglio») dello strumento medico per antonomasia, cioè il bisturi, è ritrovabile, perfettamente uguale a quella funzionale attuale, non solo nella romana Pompei, ma in alcuni reperti ateniesi del VII sec. a.C., e persino tra gli stupendi bronzi di 5-7.000 anni fa del museo preistorico di Este (Padova). E sarebbe anche giusto che le nostre donne quando giornalmente trafficano con la base obbligatoria di ogni cosmetica (la universale cold cream) ricordassero che la sua formula ripete, quasi immutata nei secoli, una precisa ricetta del famoso Claudio Galeno, medico dell’imperatore romano Marco Aurelio (II secolo d. Cristo).
Ma l’«emulsione di olio di mandorle, cera d’api e acqua di rose» ch’egli prescriveva con enorme successo alle matrone della corte imperiale, era in realtà giunta a lui da informazioni persiane di quasi certa derivazione indiana, recate a Roma dai legionari di Lucio Vero insieme, purtroppo, alla peste del 166 d. Cristo.
Rieccoci dunque tornati alle donne, alle quali sono state attribuite, all’inizio, la responsabilità e l’onore della nascita della medicina. Vediamone finalmente il perché. Secondo J. E. Pfeiffer, la famiglia è nata con lo Australo-pithecus (quattro-cinque milioni di anni fa), il primo ominide che riveli utensili straordinariamente avanzati e specialistici, indizio certo di attività e progetti comunitari, quindi dell’esistenza di un linguaggio almeno rudimentale, e della possibilità di una organizzazione sociale.
Dal bacio sulla «bua» allo scienziato. – La divisione familiare del lavoro conferiva all’uomo il ruolo di cacciatore, con la conseguente lontananza temporanea dal luogo stabile di residenza, nel quale restavano le donne e i figli (con l’incombenza della raccolta, vicina, di cibi vegetali). Senza alcun dubbio, allora come oggi, i bambini giravano per casa e appena fuori combinavano i soliti piccoli disastri attraverso i quali costruivano la propria esperienza educativa: dalla carezza abrasiva di una suppellettile alla classica bozza in testa, alla vescica sul dito per aver voluto toccare, contro l’avvertimento materno, l’affascinante tizzone rosso.
Allora, come d’altronde oggi, i risultati patologici di questi piccoli guai erano curati esclusivamente dalle madri e da nessun altro, per lo più a base di ipnotiche carezze, e con ottimo esito. Se a questo si aggiungono per la sola donna (mestruazioni!) l’assenza del terrore irrazionale per il sangue e l’esperienza frequente del parto, è certo che la massima disponibilità per la cura del cacciatore ferito risiedeva nelle donne, più che nei suoi compagni di banda. Ma è importante riconoscere in questo comportamento, oltre al fatto tecnico, la comparsa primigenia della motivazione non temporanea della medicina, rimasta valida anche sotto le successive etichette di empirica, sciamanica, sacerdotale, scientifica; l’unica motivazione che possa garantire la sua indispensabilità lungo tutta l’evoluzione futura del genere umano. Essa non è altro che una profonda sollecitazione emotiva indotta nella sfera dei sentimenti (non in quella razionale) dall’atteggiamento interpersonale di solidarietà, coinvolgente nello stesso tempo tanto chi la dona quanta chi la riceve.
La «medicina femmina» è nata dalla evidente necessità che la donna più esperta (o le donne in gruppo, visto che dovunque al mondo le comari adottano da millenni il team-work) non poteva limitare la sua opera benefica al proprio figlio o compagno, ma era eticamente obbligata ad estenderlo a qualsiasi membro sofferente della comunità. E ai suoi pazienti essa donava, oltre alla limitata scienza, sia che questa li guarisse oppure no, tutta intera la sua carica sostanziale di consolazione e di amore. La medesima motivazione etica, esaltata in difesa della comunità, e nella potenza e responsabilità da esse discendenti, è alla radice dello status sociale dello stregone o sciamano, comparso quando la divisione del lavoro si è ulteriormente specializzata col progresso. Per questo nelle pitture paleolitiche (per esempio nella caverna Trois-Frères dell’Ariège) lo stregone, coperto di una pelle di cervo, è rappresentato - come il capo - a parte e sopra la folla dei cacciatori, quale uno dei numi tutelari della tribù.
E, comunque, non si trattava di una sinecura puramente onorifica. Dall’esperimento in proprio della potabilità dell’acqua ad ogni nuovo campo e della commestibilità di ogni frutto sconosciuto, dalla conservazione del fuoco all’esorcismo per la buona caccia, dalla cura dei feriti al mistero delle malattie, dalle nascite alle morti, quasi tutte le manifestazioni importanti della vita avevano (e hanno ancora oggi) poco o molto da spartire con la medicina e con chi la esercita. Senza il sostegno dell’enorme tesoro scientifico presente (e magari anche nonostante quello, come dimostra il troppo facile ricorso alla responsabilità suddivisa) quale medico moderno si sentirebbe disposto ad accollarsi una così terribile responsabilità?
Amplificando progressivamente, nei secoli, il significato e la motivazione originaria di solidarietà singola e comunitaria, la medicina ha guidato l’umanità alla conquista dell’ambiente ostile, per consentire all’uomo la sopravvivenza sempre più facile. Nel corso di questo sforzo, purtroppo coronato da un successo troppo inebriante negli ultimi due secoli, essa è arrivata a perdere quasi del tutto - nella tronfia ricchezza di mezzi e nella troppa certezza di sé - il gusto e persino il ricordo del suo sostanziale significato per l’uomo.
Ora, purtroppo o per fortuna, il tempo della pompa trionfalistica è finito. È il momento di discriminare almeno in questo campo, all’avanguardia etica del mondo, i valori essenziali ed eterni dagli pseudovalori tecnici che ne sono una semplice derivata temporanea. Se ci trovassimo da un’ora all’altra in un tifone atomico, quanta «Medicina» rimarrebbe a disposizione immediata dei pochi superstiti? Forse, nel black-out di ogni sorgente energetica e di ogni tecnologia da essa dipendente, non altro che la motivazione originale della solidarietà interumana, con i soli mezzi umani per esprimerla. Ma quanti «sanitari» modello 1975 sarebbero ancora capaci di «erogarla» in grado soddisfacente, per loro e per gli «assistiti»?
Forse, come all’alba dell’umanità, questo dovere-diritto ricadrebbe ancora una volta sulle donne (che d’altronde non l’hanno mai completamente dimenticato). Cosicché, paradossalmente, di contro alla superbia operativa di tutta la medicina occidentale, in una ipotesi apocalittica le migliori garanzie di sopravvivenza comunitaria potrebbero essere riservate alla Cina di Mao e all’U.R.S.S. dove, sia pure per semplice coincidenza strumentale, il 70% e l’80% rispettivamente dei «medici dai piedi scalzi» e dei «felsher» (medici di base) risultano già ora di sesso femminile.
Capitolo II – Nasce la scienza, s’incrina l’uomo
Il significato sostanziale della medicina e il suo beneficio senza prezzo per l’individuo e la comunità riemergono intatti ancora oggi quando ad esercitarla sia un vero medico. Questo dimostra che il suo nucleo si è trasmesso integro dall’una all’altra generazione dell’umanità preistorica e storica, fino a quella odierna. I ritrovamenti archeologici e l’etnologia hanno inoltre accertato che le sue forme operative sono rimaste simili per decine di millenni (e tuttora nelle culture primitive), accentrandosi nella figura onnipresente dello sciamano, medico e insieme sacerdote. La doppia dignità non sorprende perché, intesa la malattia come espressione della collera degli dei, il solo uomo della tribù che aveva il coraggio di sfidarli per sottrarre il malato al suo destino mentre tutti gli altri - compreso il capo - si allontanavano presi dal terrore, riceveva in compenso una investitura quasi semidivina.
Su questa base antologica, che ha accompagnato l’uomo fino alle soglie della storia e anche al di là di esse («le frecce di Apollo»), era fatale che finisse per accentuarsi il lato preternaturale o soprannaturale (perciò magico o divino) della medicina, a detrimento di quello puramente fisico, o naturale. Ne è derivata l’identificazione del medico come di colui che, unico, godeva del diretto ed esclusivo contatto con le divinità, e diventava perciò interprete dei loro voleri arcani ai quali - per suo mezzo - la comunità doveva ubbidire.
La usuale istituzionalizzazione di tutte le cose umane ha quindi favorito, in modo sempre più rigido, il monopolio della medicina-sacerdozio da parte di una casta privilegiata, che puntualmente ritroviamo dagli inizi della storia scritta (3500 a.C., a Kish in Mesopotamia), presso gli assiri e i babilonesi, nel popolo ebraico, in India e soprattutto in Egitto. Il modello teocratico non ha affatto impedito il continuo progresso pratico dell’arte, fino a conquiste farmacologiche o chirurgiche di livello rispettabile anche oggi, storicamente registrate nelle tavolette cuneiformi della biblioteca di Ninive, nei papiri egizi di Ebers, di Brugsch, di Edwin-Smith, nella stele sumera di Hammurabi, e in una serie di altri testi specialistici o medico-sociali. È importante tuttavia sottolineare che, essendo la malattia il sintomo di una colpa personale o sociale, la guarigione o la salute venivano spesso impetrate attraverso sacrifici, purificazioni, astensioni (per esempio, dalle carni di maiale, dal sesso nei mestrui e in puerperio) che nella sostanza risultavano validi precetti igienici, ma nella forma si presentavano, ed erano seguiti, come prescrizioni religiose.
Meno teurgiche ma ancora condizionate dal concetto unitario del male quale rottura dell’equilibrio dell’universo si rivelano le antiche medicine cinese e indiana. La prima, più filosofia che esperimento, ha bensì codificato già nel 2700 a.C. una serie di norme empiriche nel Huang-ti Su-wên («Domande semplici dell’Imperatore giallo») e nel Ling-shu-ching («Libro canonico del perno dell’anima») che insieme formano il cosiddetto Nei-ching («Canone della Medicina»). Ma l’ideogramma mandarino della medicina è composto tuttora con i simboli grafici elementari delle sue motivazioni preistoriche e protostoriche: faretra, frecce, colpire, pozione! E l’agopuntura profonda, che rappresenta ancora per metà nella Repubblica Popolare di Mao Tze-tung la normale forma di trattamento medico, sfrutta da oltre cinquemila anni un sistema generale che non ha nulla a che vedere con l’anatomia.
L’armonia universale. – Esso si basa sulla teoria che l’energia dell’universo, espressione dell’Essere primordiale Hsüan (il mistero) e distinta nelle due modalità antinomiche di yin e yang (femmina e maschio), circoli continuamente nel corpo umano lungo quattordici linee verticali dette meridiani. Su queste linee si riflette la sensibilità di ogni singolo organo, cosicché, per combatterne una eventuale insufficienza funzionale, basterà stimolare l’energia del suo meridiano con aghi d’oro o di rame; per frenarne invece l’esuberanza occorrerà disperdere l’energia dello stesso meridiano, con aghi di argento, platino o acciaio. A parte gli innegabili risultati pratici, riscoperti dalla moderna terapia occidentale del dolore, persino il concetto della riflessione cutanea degli organi interni è stato riconosciuto dalla scienza medica, ma solo verso la fine dell’800 (zone di Head).
Ciò dimostra che in medicina (che è la continua ricerca della verità dell’uomo e del mondo) persino una piattaforma filosofica e non sperimentale può condurre ad una superiore consapevolezza delle cose, molto vicina alle conoscenze moderne della scienza. Questo è infatti avvenuto al pensiero medico-filosofico indiano il quale, partendo dai concetti metafisici del Karma (legge dell’azione) e del Samsara (metempsicosi) è giunto, intorno all’VIII sec. a.C., alla interpretazione dell’organismo come un insieme dove l’armonia delle parti rappresenta la condizione essenziale della salute. Da essa deriva la modernissima nozione (chiara alla scienza speculativa ma non sempre ai medici!) che «l’organo palesemente infermo non deve essere curato come avulso dalla unità di cui fa parte, ma invece considerato nel quadro generale, nelle interazioni con tutto il resto e nella resistenza complessiva dell’organismo» (Susruta: Sutrasthana). Che queste non siano semplici vacuità scolastiche lo dimostra la spiegazione della funzione biologica attraverso i tre «dosa»: Kapha o anabolismo; Pitta o catabolismo; Vayu o energia nervosa. (Noi questo, a differenza degli yoghi, l’abbiamo dovuto reimparare biochimicamente nell’ultimo sessantennio!)
Il concetto metafisico dell’armonia, esteso addirittura dal microcosmo-uomo al macrocosmo-universo, ricompare due secoli dopo (VI a.C.) con Pitagora e la sua scuola, nelle colonie greche d’Italia cioè a Crotone, Sibari, Reggio Calabria, Agrigento, e riuscirà a informare di sé lo stesso pensiero medico di Ippocrate di Coo. Fino a quell’epoca nel mondo occidentale, cioè prevalentemente ellenistico, il concetto dominante in medicina era ancora quello tradizionale e leggendario, «eroico» (la medicina di Omero) e, sul piano operativo, empirico. Tuttavia, nello spirito di esasperata libertà individualistica della civiltà greca (ragione unica del suo fiorire e del suo decadere), le interpretazioni pur teologiche delle malattie non avevano consentito il sorgere della solita casta dominante di medici-sacerdoti. Però gli unici luoghi di cura ufficialmente riconosciuti erano ugualmente i templi, eretti in località di straordinaria bellezza, quasi sempre dotati di una sorgente termale che aggiungeva le sue virtù ai consigli dei sacerdoti.
I templi più prestigiosi, e i sacerdoti più celebri per abilità diagnostica e risultati terapeutici, erano quelli di Asclepio, il dio principe della medicina. Il tempio più antico erettogli in Grecia era a Titanos presso Sicione, il più famoso quello di Epidauro nell’Argolide, due regioni assai ricche di serpenti. Il rettile stilizzato, che orna anche oggi il parabrezza delle automobili dei medici, identifica infatti da sempre il culto e l’esercizio della medicina: il caduceo (bastone con il serpente attorcigliato, prima unico poi duplice) è stato ritrovato in bassorilievi di Ninazu (Signore del medico) e del figlio Ningišzida a Ninive, datati 1200 anni prima di Cristo; e la dea medica di Cnosso (Creta) ne portava due, attorcigliati sulle braccia. A parte la simpatia totemica che ne ha favorito il trapianto nell’Argolide, da dove nasceva il dio Asclepio? Essenzialmente da un errore linguistico.
Un errore linguistico deificato. – Si tratta infatti dello stesso celebre visir egizio Imhotep del 2800 a.C., del quale abbiamo già ricordato i canali irrigui. Medico e architetto, è il costruttore del primo edificio in pietra dell’umanità, la stupenda piramide a gradini (mastaba) di Saqqara, di 60 m di altezza e 1600 di perimetro, tomba del faraone Žoser della III dinastia. Deificato dagli egizi per la medicina, l’architettura e la matematica (una specie di triplo premio Nobel ante litteram) gli furono eretti nei successivi due millenni, templi a Menfi, Karnak, Deir-el-Bahari, Deir-el-Medineh, e nell’isola di File (dai Tolomei). La sua cappella commemorativa a Saqqara era chiamata dai greci Asklepieion. Trasferendo i suoi insegnamenti (materia pratica del culto) in patria, i viaggiatori greci equivocarono il termine come «eponimo» da un non mai esistito Asclepio, che prese a battere le strade del mondo ellenico e romano sotto il mutato nome. Lo ritroviamo anche nelle già citate colonie italiane della Magna Grecia, dove la medicina-sacerdozio fioriva come in ogni altra regione dell’Ellade, e dove abbiamo già localizzato Pitagora e la sua scuola filosofica, di probabile derivazione indiana. Esattamente in questa matrice era destinata a nascere, per la prima volta nella storia umana, la scienza medica.
È a Crotone (sede principale della scuola pitagorica) che essa esplode con la straordinaria figura di Alcmeone (circa 500 a.C.) il quale riuscì a sintetizzare il sistema filosofico dell’armonia pitagorica con la diretta osservazione dell’uomo, eredità della scuola medica italiana (Cnido). Alcmeone definisce, con assoluta precisione, il concetto generale della isonomia, cioè della salute come perfetto accordo di tutte le sostanze che compongono il corpo umano (ripreso poi con assai maggiore fortuna pubblicistica dal ben più famoso Ippocrate); con ciò stabiliva il fondamento di quella patologia umorale che fu per più di venti secoli la base di ogni concezione clinica. Il suo merito maggiore sta nell’aver per primo fatto ricorso all’esperimento pratico (autopsie e chirurgia funzionale) per provare la verità dei suoi ragionamenti. È stato così in grado di localizzare nel cervello – invece che nel cuore o nei polmoni – la sede delle sensazioni e il centro della vita intellettiva; nonché di precisare e descrivere alcune lesioni responsabili di disturbi funzionali fino allora misteriosi (le paralisi); ha studiato l’occhio e il meccanismo della visione; ha distinto le arterie dalle vene; ha individuato il decorso dei nervi ottici e scoperto l’origine (cerebrale) del sonno; gli si attribuisce persino la scoperta della tuba uditiva, detta poi «tromba di Eustachio» dall’anatomico marchigiano che la riscoperse a Roma nel 1560.
La prima rivoluzione scientifica. – Ha perciò origine con lui la prima rivoluzione scientifica, dopo la quale l’uomo non sarà mai più un’unità misteriosa ma comincia a distinguersi nelle sue parti singole, tenute insieme solo da un concetto filosofico: l’astrazione «uomo». Ma in assenza di quest’ultimo il fascino analitico della isolata funzione appena scoperta o da scoprire avrebbe potuto deviare l’interesse di ogni ricerca |