LETTERA APERTA A UN BAMBINO PER LA PRIMA COMUNIONE – Angelo Nocent

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25 aprile 1986

Caro Paolo,

da ora in poi, il 25 Aprile di ogni anno, mentre tutti gli italiani continueranno a festeggiare la “liberazione”, (a scuola ti spiegheranno il perché), tu avrai un grosso motivo in più per esultare della tua liberazione.

eucaristiaCol passare del tempo capirai sempre più e meglio cosa ti è successo in questo giorno. Il fatto è che sei stato coinvolto nella morte e nella risurrezione del Signore. Il che significa che sei diventato un altro, ossia sei tu, ma non sei più tu, è Cristo che vive in te.

Per questa circostanza così importante, ti abbiamo comperato le scarpe nuove come le desideravi. Hai anche voluto la giacca e cravatta, camicia e calzoni, come usano i grandi. Effettivamente, senza che noi ce ne accorgiamo, stai crescendo.

Sappiamo che hai dormito poco quella notte. Capita così anche a noi quando c’è un appuntamento importante. Mentre ci preparavamo per accompagnarti alla chiesa, ti sei guardato più volte allo specchio. Eri orgoglioso di trovarti diverso, più sicuro di te. Avevi una tale fretta e fremevi, che hai deciso di scendere da solo, temendo che ti facessimo arrivare in ritardo.

Perché mai ho deciso di scriverti? Non lo so bene. Forse perché noi genitori si vuole sempre che i figli siano all’altezza della situazione. La ragione più vera però è un’altra: il timore che di questo giorno ti resti il ricordo delle esteriorità e frivolezze di cui ti abbiamo circondato e svanisca l’incanto di una bellissima storia d’amore.

Mani

Tu sai che nel mondo ci sono ogni anno tanti bambini che fanno la prima comunione. Non tutti possono avere le scarpe nuove, indossare un costoso vestito, non sempre possono permettersi un buon pranzetto al ristorante, i regali, le bomboniere…Ma le mamme anche dei meno fortunati, nel giorno della prima Comunione fanno indossare ai bambini un qualcosa di diverso dal solito.

I tuoi genitori hanno potuto accontentarti in tante cose e farti festa. Ma vorrebbero che ti rimanesse il ricordo che il vestito bello, nuovo, voleva semplicemente aiutarti a capire e provare la gioia della Pasqua di Gesù. Sì, perché ogni Messa è una festa, una Pasqua, ossia il piacere di smettere un vestito fatto di invidie, gelosie, rancori, dispetti, litigi, pigrizia…, per indossare quello Nuovo, fatto di bontà, pazienza,sollecitudine, generosità. Ma questo indumento non è di stoffa: è Spirito e Vita. Lo Spirito di Gesù risorto che ti avvolge e penetra in te, che ti fa nuova creatura, una cosa sola con Lui. Tutto ciò è più difficile da dire che da capire, perché l’Amore non si spiega, si prova, un bacio non si spiega, si dà.

Gesù viene in te perché gli piaci e si diverte un mondo in tua compagnia. E poi ha tanti segreti da svelarti. E poi ha voglia di guidarti in cordata a scalare ardue vette. Sono certo che ti porterà anche in alto mare e prima o poi, ti coinvolgerà in una meravigliosa avventura…Come lo so? Perché si è comportato così anche con me.

Prima ComunioneAll’offerta dei doni avete portato sull’altare un grosso pane e dei grappoli d’uva. Poi il sacerdote vi ha fatto mangiare una sottilissima Ostia senza sapore e non vi ha fatto assaggiare il Vino Nuovo. Non capirò mai perché. Qualcuno dice: per comodità. Io sostengo: per pigrizia e poca fantasia. Ma non è importante. Ciò che conta piuttosto è capire perché Gesù ha scelto il pane e il vino per l’Eucaristia. Egli lo ha fatto perché questi erano gli alimenti-base della civiltà mediterranea. Sono sicuro che se Gesù fosse nato in Giappone, avrebbe usato il riso e il the o il saké per la sua nuova Pasqua.

E’ importante che tu capisca una cosa: il pane e il vino sono come “campioni” di tutti i frutti della terra: del riso, del granoturco e del cacao, del caffè, del cocco e del banano, del saké, del the, dell’ idromele e della chicha. Ciascun frutto è come la sintesi del cosmo, è un pezzetto di materia cosmica assimilabile. Devi sapere che noi siamo quello che mangiamo. E come i frutti mangiati, assimilati, diventano nostro corpo, così possiamo dire che anche la nostra carne, il nostro sangue sono pane, vino, riso, latte. Ora qui viene il bello: quando il pane e il vino da noi offerti a Dio sull’altare, si “convertono” nel Corpo e nel Sangue di Cristo, simbolizzano il nostro corpo e il nostro sangue “convertiti” nel Corpo e nel Sangue di Gesù. E, se il pane, il vino, a contatto con te diventano tua carne, tu a contatto con Gesù diventi suo Corpo, suo Sangue.

Tutto questo gli uomini lo chiamano “mistero”, ma e più di tutto un grande miracolo. E noi siamo così circondati da miracoli che ci passano inosservati: un seme che germoglia, un bambino che nasce, l’acqua, il sole, le stelle, il telefono, la TV…

Tutto ciò che è prodigioso è un miracolo, ma un miracolo è anche tutto ciò che è ordinario e che passa inavvertito. Perché questo è il nostro Dio: un papà, una mamma, che sa continuamente rinnovare i prodigi. E la tua prima Comunione non è che uno dei tanti miracoli che hai già visto e vedrai nella tua vita.

Da ora in poi, dal momento che hai creduto possibile Gesù diventasse una cosa sola con te, la tua vita sarà ogni giorno piena di miracoli. Spesso non ti sorprenderai nemmeno, tanto ti sembreranno consueti certi avvenimenti. Ma io so che Gesù ti ha cambiato gli occhi. Adesso tu vedrai le cose, le persone, in un altro modo perché vedrai con i Suoi occhi. Stai attento però. Non essere distratto, vigila. Qualcuno tenterà ogni giorno di accecarti, o almeno di annebbiarti la vista: è lo Spirito del Male. Peccato è proprio il vedere la realtà con altri occhi, è allucinazione, scambiare le cose, confondere, invertire le cifre, così che alla fine i conti non tornano.

Marisa, la tua catechista, mi ha assegnato l’incarico di proclamare la prima lettura, Atti degli Apostoli 2, 42-47. Lei non lo sa, ma ti confesso che mi ha rovinato la giornata. Perché? Non si possono leggere a un’assemblea di bambini e di adulti parole come queste: “Tutti i credenti vivevano insieme e mettevano in comune tutto quello che Possedevano. Vendevano le loro proprietà e i loro beni e distribuivano i soldi fra tutti, secondo le necessità di ciascuno”, non si possono udire senza provare un enorme disagio. Si può anche far finta di nulla, ma lo Spirito di Dio che parla, sollecita, incita, come farlo tacere dentro?

Tu sei ancora bambino, ma ben presto ti accorgerai che noi grandi da quest’orecchio ci sentiamo poco. Tutti, compreso i sacerdoti. Vendere, mettere i beni in comune, dividere secondo le necessità di ciascuno, ci sembra improponibile, irrealizzabile. Ma è solo perché non ci fidiamo di Dio e anche noi abbiamo altri dei. Così, io ho fatto finta di nulla, Don Antonio, ha fatto finta di non aver capito, l’assemblea ha fatto finta che si parlasse dei primi cristiani e non di noi, e tutti abbiamo messo il cuore in pace.

Spesso in chiesa, per tante ragioni, usano parole difficili e poi la gente non le capisce e devono fare la “catechesi” per spiegarle. Messa, Eucaristia, sono alcune di queste parole incomprensibili.

La Messa è credere che Dio ci ama, gioire per quello che fa per noi. Eucaristia è un’altra parola difficile che vuol dire tante cose insieme: ringraziare e lodare Dio, meravigliarsi per la Sua fedeltà, generosità, misericordia, esserGli riconoscenti. Celebrare l’Eucaristia quindi è fare tutte queste cose insieme, ossia compiere l’azione più gioiosa del mondo. Purtroppo, le nostre Messe non sono sempre gioiose e a tanta gente che si siede a tavola manca l’appetito. Che fare?

Amici 01Devi sapere che, prima di Gesù, la religione, ossia il rapporto con Dio era molto complicato e ci volevano grandi sforzi di mente, di fantasia, tanti ragionamenti per poterlo conoscere. Ma Dio ha voluto che le cose fossero molto semplici e ha deciso di diventare qualcuno che si può amare, baciare, toccare, ascoltare. Così Lui è diventato per noi uno che si può perfino inghiottire e bere, uno che può penetrare in noi attraverso i nostri sensi.

Questo è il mio Corpo” vuol dire vederlo, toccarlo, qualcuno a cui ci si può aggrappare. Se lo comprendi, scoppierai di gioia. Quella piccola Ostia che ricevi è solo farina e acqua. Il suo sapore è insignificante. La mangi e non provi speciali sensazioni. Ma ciò che ti succede assomiglia un poco alle trasfusioni di sangue che i medici fanno alla mamma quando non ha più forza. I globuli rossi racchiusi in un sacchetto di plastica apparentemente non danno alcun segno di vita, ma quando vengono iniettati nelle vene, tutto il suo corpo si riprende e anche il suo spirito sembra rinascere.

Noi sappiamo ben poco di ciò che succede. Ma ogni volta ci accorgiamo che è accaduto in lei qualcosa di molto importante, un prodigioso miracolo. Così è dei bocconcini di pane che stanno sull’altare: nel piatto non danno segni di vita, ma chi ne mangia, ha la Vita. E tutti si accorgono che noi siamo cambiati; anche gli altri sentono scorrere nelle loro vene una nuova Forza, perché, come tanti sono i chicchi, ma una sola è la spiga, così tutti formiamo un solo Corpo, i credenti in Cristo, la Chiesa.

Col tempo ti accorgerai che tutto ciò è vero, reale, visibile, ma è solo lo Spirito Santo di Gesù, il Crocifisso-Risorto, che può farti gustare e comprendere le cose di Dio. A Messa, ti raccomando, cerca sempre di cantare a piena voce, perché Gesù è felice di vederti contento e gioioso. Inoltre, chi ti è accanto sarà trascinato e coinvolto anche lui nell’inno di lode di tutta la Creazione.

Un’ultima cosa. Quando il sacerdote dice: “La Messa è finita, andate in pace”, non dimenticare che è solo un modo di dire per sciogliere l’assemblea. Perché non è vero che la Messa finisce: la tua Messa appena incomincia. Sì, incomincia nella tua vita, in casa, a scuola, tra i compagni. Non puoi tenere soltanto per te la gioia di aver incontrato, visto, toccato il Signore. Devi anche trasmetterla agli altri. Vedrai, quando tutti sentiranno il bisogno di fare questa tua esperienza, alla TV non sentiremo più parlare di guerre, violenze, droga, rapine…

Oggi il tuo cielo è sereno ma potrebbe anche annuvolarsi. Non scoraggiarti mai, per nessuna ragione, E, se dovesse accadere, sai dove potrai sempre trovare un Amico sincero.

ministricomunione-150x150Ho pensato di chiedere al Parroco il permesso di portare la comunione ai malati, la Domenica. Potremmo andarci insieme, con tua sorella e la mamma. Che ne dici? Ti ricordi quando hanno portato il Viatico a casa nostra perché la mamma stava male? Gesù aiuta i malati, vuole che guariscano. E’ un peccato non farlo, soprattutto quando i sacerdoti sono molto impegnati in parrocchia. Sei convinto?

So di aver abusato della tua pazienza. Leggi questa lettera quando sarai più grande, se vorrai. Ma adesso credo sia proprio giunto il momento di starmene un po’ zitto. Ho intuito che anche tu hai tanto da insegnarmi.

Tuo papà

Holy Communion

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2016

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MA PAOLO E’ CRESCIUTO…

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Paolo Nocent

 

FRA PIERDAMIANI ZAMBORLIN O.H. – Angelo Nocent

ALL’AMICO CARISSIMO

FRA PIERDAMIANI ZAMBORLIN O.H.

Scritto il19 APRILE 2016CategorieOspitalità

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Presso l’ospedale Sacra Famiglia di Erba, sabato 16 aprile 2016, è morto  fra Pierdamiani Zamborlin . Ha così terminato la sua esistenza terrena, dedicata sin dalla giovinezza alla sequela del Vangelo, con lo guardo rivolto a quel FARSI PROSSIMO indicato da Gesù nella parabola del Samaritano riferita da Luca  (10, 25-37). Il rito delle esequie è stato celebrato martedì 19 aprile, alle ore 10.30, presso la Chiesa dell’ospedale “Sacra Famiglia” di Erba. Dopo la Celebrazione Eucaristica la salma è stata trasportata e tumulata presso la tomba dei Religiosi nel cimitero di San Colombano al Lambro

Carissimo Pier,

Erba-Sacra Famiglia: questo è il luogo in cui sei stato portato per le ultime cure. Ma proprio qui, negli edifici demoliti per far posto al nuovo, abbiamo vissuto alcuni degli anni più belli della vita: gli anni ’70. “Formidabili quegli anni!” (Mario Capanna). Infatti,  dopo la pratica accanto ai malati psichici degli anni precedenti, stavamo imparando l’ARTE DI AMARE insegnataci da Gesù, focalizzandoci sulla sua Parola, così ben espressa  e sintetizzata da Simon Wueil in Attesa di Dio:

“L’amore per il prossimo, essendo costituito di attenzione creatrice, è ANALOGO AL GENIO. L’attenzione creatrice consiste nel fare realmente attenzione a ciò che non esiste. Nella carne anonima che giace inerte all’orlo della strada non c’è umanità. Eppur il samaritano che si ferma e guarda, fa attenzione a quella umanità assente e gli atti che seguono confermano che si tratta di un’attenzione reale.  La fede, dice san Paolo, è visione delle cose invisibili. E quel momento di attenzione è un atto di fede, così come un atto di amore”.


I ricordi che mi legano a te e che mi affiorano nella mente,  proprio mentre qui stanno celebrando il pietoso rito della tua sepoltura, sono tantissimi e riguardano sia l’adolescenza che la giovinezza.

Aspirantato FBF Brescia - 8 Dic. 1953-2

Aspirantato FBF Brescia – 8 Dic. 1953-2

Sotto questo sguardo Materno abbiamo mosso i primi passi verso la “terra promessa”, sognato il nostro futuro, educato in nostro carattere, provato tante emozioni.

Aspirantato Fatebenefratelli

E questi sono stati i nostri modelli ispiratori: da sinistra, San Pancrazio, San Tarcisio, San Domenico Savio, San Luigi Gonzaga. Al Centro, CRISTO RE, Via, Verità e Vita.

Padre Tarcisio Morini o.h. 2Padre Tarcisio Morini o.h. 2Padre Tarcisio Morini o.h. 2Padre Tarcisio Morini o.h. 2

Le pareti della cappella erano tutte affrescate. A dx Il Beato Giovanni Grande, al lato opposto, San Giovanni di Dio. E poi gli Evangelisti. Il mio posto nel banco era proprio sotto un possente san Paolo con le Scritture e la spada. Facilmente individuabile la mano dell’artista, il Prof. Fernando Michelini che hai potuto accompagnare nei suoi ultimi giorni a Solbiate Comasco.
Ci sarebbe tanto da raccontare sulle nostre giornate movimentate. Ma lo faremo quando ci ritroveremo nella Patria Beata.

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Avevo programmato di partecipare alla Divina Eucaristia, ormai in corso, che chiude la parabola della tua esistenza terrena, ma un ginocchio, nonostante le cure, proprio mi impedisce la deambulazione e mi costringe ad aggregarmi solo spiritualmente ai tuoi fratelli, parenti ed ed amici.

Oggi per me non è un giorno di lutto e, proprio a cominciare dalla notte trascorsa, ho ripetutamente ascoltato il canto del Preconio Pasquale che dà il senso a questo momento, doloroso per tutti coloro che ti hanno voluto bene.

Ho cercato su internet una foto del Paradiso ma non l’ho trovata. L’unica che mi aiuta ad immaginare l’Oltre, nel quale da un paio di giorni ti trovi, è questo cielo sfuocato con al centro il Risorto e due angeli, personaggi tutti rivestiti di luce.Immagini INT42

E mi affiora la voce del Vangelo di Giovanni che dice: “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno” (20, 29b). Già: se ti trovi lì, è proprio per questa ragione: hai creduto per settantaquattro anni senza aver veduto. Beato te, Pier, felice, fortunato. Come Maria, beata anche lei perché ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore, senza aver ancora visto niente (Luca 1, 45).
Mentre la Liturgia Eucaristica va procedendo, e la Parla di Dio sta recando conforto e speranza a chi vive questo momento di mistero, tu sei già nel banchetto del Regno di Dio, mentre io vado crogiolandomi con parole poverette che non sanno esprimere o descrivere la felicità promessa né la dimensione o lo stato della BEATITUDINE ETERNA.

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Fino a poco tempo fa hai atteso, come noi, beni promessi che non sapevi immaginare, hai confidato che tutto quanto stavi facendo nella vita ne valesse la pena, compreso il patire fisico che non ti ha risparmiato.

Hai corso la tua corsa, combattuto la tua battaglia, con la certezza che le sofferenze di questo tempo sono un NIENTE, – come tante volte ci ha ricordato l’Apostolo Paolo – rispetto alla GLORIA che per te si è già manifestata (cfr. Rom 8,18).

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Fra Carmelo Gaffo – Fra Cesare Gnocchi – Fra Tommaso Zamborlin

Risurrezione 20260AA-1Stando all’orologio, sei già in viaggio per l’ultima collocazione nel Campo Santo di San Colombano al Lambro, accanto a tuo Fratello, il missionario Fra Tommaso. Parenti confratelli ed amici, sono tornati al loro quotidiano. Da sempre sapevamo che dobbiamo lasciarci, senza una graduatoria, un numero di precedenza, una scadenza anagrafica. Dio oggi ha chiamato te alla perfetta unità in Lui, nella pienezza della sua gioia, nella trasparenza della sua divinità. Prima o poi, toccherà a noi e dopo questa breve separazione ci ritroveremo.  Pur con le lacrime agli occhi per la tua dipartita, abbiamo la certezza che sulla tua tomba risuonano le campane della Risurrezione e noi cantiamo, seppur con il magone, l’alleluja della speranza; una speranza certa che non teme delusioni: se Cristo è risorto, anche i credenti in Lui risorgeranno (cf 1Cor 15, 16). 2013-12-1691

La tua partenza provvidenzialmente ci scuote e ci prepara ad affrontare l’ultimo stadio della vita che è la pienezza della vita eterna, a quel momento in cui, come scrive l’autore della Lettera agli Ebrei, ci avvicineremo “al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme del cielo e a migliaia di angeli, alla riunione festosa, all’assemblea dei figli primogeniti di Dio che hanno i nomi scritti nel cielo, a Dio, giudice di tutti gli uomini, agli spiriti degli uomini giusti finalmente portati alla perfezione, a Gesù Mediatore della Nuova Alleanza” (Ebrei 12, 22-24).

Tu, Pier, l’hai già fatto. A noi è chiesto di buttarci, dicendo senza esitazione come Gesù: “Nelle tue mani, Padre, affido il mio spirito” (Luca 23,46).

Ora che ci hai lasciato, il tuo combattimento è finito e noi ti affidiamo al Signore della vita e dei nostri destini. Ormai per te non ci saranno più lacrime, né pianti, né sussulti, il sole brillerà per sempre sulla tua fronte, e una pace intangibile ti avvolgerà definitivamente. Il profeta Isaia, per illustrare la vita divina nella quale tu sei già, usa l’immagine del banchetto, cioè della festa: “Sul monte Sion il Signore dell’universo preparerà per tutte le nazioni del mondo un banchetto imbandito di ricche vivande e di vini pregiati.” Io credo che il Signore abbia già cominciato lui stesso ad asciugare le tue lacrime che ti impedivano di godere la gioia della familiarità con Lui, E noi sappiamo bene che le lacrime sul volto provengono dal dolore, da lunghe fatiche e perfino da penose sconfitte. Per quanto disonorevole si presenti la nostra condizione, nelle mani di Dio muterà di segno e saremo come il Risorto, pieni di splendore e di vita .

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Ma, ti preghiamo, non scordarti da dove sei ve

ua volontà si compia“.

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Il nostro santo e protettore vescovo Ambrogio, il cui corpo riposa a due passi dall’Ospedale San Giuseppe di Milano che ti ha visto giovane infermiere zelante e, col tempo, anche Priore dell’ Istituto di cura e della Comunità religiosa, ha scritto una bella preghiera, dove parla della beatitudine finale in cui tutti noi ci ritroveremo:

  • “Signore Dio, non possiamo sperare per gli altri nulla di meglio che la felicità sperata per noi stessi.

  • Ti supplico, non separarmi dopo la morte da coloro che ho amato in terra.

  • Ti supplico, Signore, permetti che si ritrovino con me coloro che ho amato e che lassù abbia la gioia della loro presenza, della quale sono stato privato troppo presto qui in terra.

  • Ti imploro, Signore, accogli in seno alla vita i tuoi figli amati.

  • Dona loro la felicità eterna in cambio della loro breve esistenza terrena” (De obitu Valentiniani, n.80:SAEMO, n.18, pp.208-209).

Se le separazioni della vita terrena sono inevitabili, abbiamo la certezza di un rivederci che sarà nella verità, nell’autenticità e nella pienezza del divino.

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Ma tu sei stato uno di noi ed io, in particolare, di te ricordo principalmente gli anni giovanili.

Sono  trascorsi ormai quarantasei anni dalla pubblicazione del primo numero di OPZIONI ’70,  un rudimentale ciclostilato di una ventina di pagine, messo insieme  dai “ragazzi” del Centro Studi FBF di Erba. Un lasso di tempo enorme, durante il quale  è successo di tutto.  Uno spezzone di storia che può aiutare a capire le evoluzioni e le involuzioni. Uno specchio delle “brame” che sono quelle di sempre: Dio, la libertà, l’amore, la comunione fraterna….

Pierdamiani ZamborlinPierdamiani Zamborlin

Della lettera che segue, risulti anche tu firmatario. Rileggendola, mi è parsa testimonianza meritevole di essere portata a conoscenza di quelli venuti dopo, perché ci si renda conto che c’è sempre un prima ed i successori facciano di più e meglio.

Dei firmatari, ci sono nomi dimenticati, nomi di dispersi, nomi di caduti in battaglia, nomi ancora sulla breccia… Comunque, sempre nomi scritti nel palmo della mano di Dio.

Qualche volta ritornare sui propri passi fa bene. Si capiscono gli errori commessi, si vedono le omissioni, si registrano i limiti, si prende coraggio per proseguire e si alimenta la comunione: l’unità nella diversità. Ecco perché ho ritenuto di riportare alla luce questa testimonianza.

Denis - Redazione OPZIONI '701-001

Denis - Redazione OPZIONI '70

“OPZIONI ’70”
LETTERA  AI  NOSTRI  FRATELLI

Le nostre comunità, oggi, come del resto sempre, si trovano di fronte a problemi molto gravi. Però, ad analizzarli, si vede che alla fine essi si riducono a un solo problema di fondo che sta alla base di tutti. E’ l’eterno problema di risolvere il rapporto fra l’individualità che ciascuno di noi sente fortemente, e la socialità, della quale pure non può fare  a meno, perché è anch’essa essenziale all’uomo.

FRa Pierluigi Marchesi primo piano

Nella circolare del 9 Gennaio 1969 il nostro Provinciale P. Pierluigi Marchesi giustamente affermava che “non si realizza un’autentica vita comunitaria, unicamente perché si prega assieme, ci si nutrisce assieme, si dorme nello stesso ambiente, si fa ricreazione insieme.”

Purtroppo notiamo che spesso nelle nostre comunità manca proprio qualche cosa che ci leghi fra noi, che permetta di stabilire fra noi un rapporto in cui ciascuno non si senta più solo, per cui la vita comunitaria non sia solo formalmente comunitaria, ma sia veramente e concretamente la manifestazione di persone che mettono in comune le gioie e i dolori, che lavorano uniti, vivono insieme, studiano insieme, e quindi realizzano insieme una umanità completa, non una semplice mescolanza di individui che si trovano per caso o per forza a dover operare e vivere nello stesso gruppo. E proprio perché si prescinde da quella che è la chiave di questo problema fondamentale, cioè l’amore, i nostri problemi individuali e sociali che si radicano tutti su di esso, finiscono per diventare insolubili; anzi finiscono per moltiplicarsi ed approfondirsi.

Realmente ci sono delle difficoltà che forse per la natura stessa dell’uomo, non saranno mai risolte, ma resta indubbio che la forma con cui la Comunità si presenta, ha delle gravi deficienze. Ancor oggi, nonostante qualche tentativo, le nostre comunità si presentano con una staticità, con un nichilismo inflitto all’individuo con forme di soggezione (anche se non sempre aperta e cosciente), di depauperamento del singolo che sono frequentemente il grave peso e la grave deficienza della vita religiosa.

E’ una reale difficoltà di troppi giovani ad accettare la nostra vita proprio per queste ragioni. Sono ancora troppi coloro che nelle nostre comunità sono incapaci di accettare nuove fecondità.

La forma attuale di vita delle nostre fraternità rispecchia ancora uno stile tipicamente monastico, accolto però nelle sue forma esteriori e meno vitali e perciò impoverito, e applicato a degli uomini che vivono la loro giornata in un altro contesto completamente differente, qual è appunto il mondo ospedaliero in fase di continua evoluzione. Crediamo che ogni esemplificazione sia superflua.

monaco che medita

Preghiera, silenzio, contemplazione, lavoro, sono essenziali ad ogni uomo che sceglie il Vangelo. Il modo di vivere questi momenti deve essere però dinamico, deve nascere all’interno della Fraternità, come espressione di uomini adulti in Cristo, non come ripetizione di atti sempre uguali stabiliti da un orario una volta per sempre e che, a lungo andare, conduce a un mortificante infantilismo. Si pesi, ad esempio, alle mille meditazioni stupide che si fanno in un anno! Eppure, l’importante è che duri mezz’ora e si svolga in quel momento preciso della giornata che può essere anche il meno indicato, almeno per alcuni.

Superiori e no, siamo tutti troppo poco convinti che colui che entra nella nostra Fraternità lo fa per realizzare una vita battesimale veramente adulta. Il Padre Tillard sostiene che questo è certo il fine dell’entrata in religione, come anche la ragion d’essere del superiore:

  • Non si fa infatti professione formalmente con lo scopo di vivere costantemente sottomesso a dei capi, ma al contrario, per condurre a piena maturità e a libertà perfetta l’essere-cristiano che il battesimo ha deposto in noi”.

  • Perché l’adulto è colui che, giunto al termine della sua crescita, della sua educazione, è d’ora innanzi capace di esercitare la sua responsabilità personale di creatura libera. E ciò senza aver di continuo di essere spinto da un altro. La vera spinta gli viene dall’interno“.

Nella circolare già citata, il P. Provinciale diceva ancora che “la vera sicurezza che si vive una vita comunitaria la si ha quando ognuno tende alla propria santificazione nella ricerca tormentata di un bene comune sempre più vasto e sicuro“. Ma noi pensiamo che l’attuale vita comunitaria, così come si presenta, non permette, o per lo meno rende difficile la realizzazione di questo bene comune. Senza toccare le strutture e i metodi esistenti, senza sperimentare forme nuove di convivenza, nuove nel senso della novità e semplicità evangelica, è come pretendere che un bambino si sviluppi in un vestito stretto.

Padre Tarcisio Morinni

Siamo soliti dire che alla base delle nostre crisi di oggi c’è una grave crisi di amore. Ed è vero. Ma ci convinciamo sempre di più che è un discorso fatto a metà. E’ come se dicessimo al popolo affamato dell’India che la sua è una crisi di fede e di sfiducia nella Provvidenza del Padre che sta nei cieli, il quale nutre persino gli uccelli dell’aria, e fermassimo qui il discorso, senza tentare delle radicali riforme sociali.

professione-solenne-corso-consacrazioneSentiamo fortemente il bisogno di fare un’esperienza  CRISTIANA che sia autentica nei suoi contenuti e in accordo con il nostro tempo, esperienza sempre più ecclesiale, per la responsabile appartenenza al Popolo di Dio, esperienza sempre più escatologica perché chiamati per elezione divina a questa testimonianza nella comunità universale, nella ricerca di sbocchi concreti nel servizio alla Chiesa locale cui ciascuno di noi appartiene.

Noi avvertiamo che i quadri istituzionali non favoriscono i nostri desideri di una esperienza effettivamente comunitaria della comunione ecclesiale. Siamo tuttavia sinceramente disponibili a collaborazioni che non siano strumentalizzate ad un superficiale aggiornamento delle strutture e delle attività della Comunità-Chiesa-locale. Vorremmo quindi approfondire tra noi l’esperienza ecclesiale, senza preclusioni o pregiudizi verso le strutture istituzionalizzate, ma in atteggiamento di critica disponibilità.

Ci auguriamo che anche altri sentano il bisogno di mettersi in questa direzione e si stabilisca tra le varie comunità uno scambio di esperienze e di idee, nell’intento di portare un po’ di speranza e di luce a noi stessi e a tutti quelli che oggi sono nel turbamento.

Ci siamo limitati a dire onestamente e francamente quello che pensiamo. E ammettiamo che i nostri punti di vista sono, sotto diverse angolature, soggetti a revisione. In fondo, queste riflessioni non vogliono essere, per tutti, che un invito al coraggio.

Firmato: Carlo  – Dionigi  – Fausto  – Filippo  – Pierangelo  – Pierdamiani  – Pietro  – Tiziano  – Francesco  Saverio –

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IL FUOCO TRA LE MANI – Angelo Nocent

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1 Febbraio 2018

Ieri si è concluso un evento ecclesiale: il Capitolo Provinciale dei

FATEBENEFRATELLI – PROVINCIA LOMBARDO-VENETA.

E’ stato riconfermato il Priore Provinciale Fra MASSIMO VILLA che ha

rilasciato questa dichiarazione:

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Oggi 1 Febbraio 2018, rispondendo a una foto sul blog dove gli scrivevo

che, passata la festa, gli toccava farsi carico di un peso e una responsabilità

nona poco, mi rispondeva: “grazie. mi auti con la preghiera perché

si possa costruire un’orchestra che sappia suonare la musica

dell’ospitalità“.

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La mia risposta immediata, con tanto di foto: “E’ un’impegno

quotidiano. Ma è povera cosa. Come orchestrale sono disponibile:

me la cavo bene con i piatti: “…diverranno profeti i vodtri figli e figlie,

i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni...”

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Ogni tanto torno a riflettere su messaggio del profeta, che ci giunge

da molto lontano e che, essendo Parola di Dio, non può essere che

vero. Ma il passo non è di facile interpretazione, Così ho chiesto aiuto

al Card. Gianfranco Ravasi che suggerisce questo criterio di lettura del

testo biblico di Gioele.

Gianfranco Ravasi 2Siamo tutti profeti

Potremmo idealmente appendere questo testo al centro di un filo

che ha due estremi. Il primo è retto da un picchetto piantato

nel deserto del Sinai e reca questa dichiarazione- auspicio di Mosè:

«Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore

porre su di loro il suo spirito!» (Numeri 11,29). Era la

reazione della grande guida di Israele all’impulsiva richiesta

del giovane Giosuè, il suo futuro successore, che esigeva una

censura nei confronti di due ebrei che non erano nella lista

dei settanta anziani, il senato costituito da Mosè e investito

dallo spirito profetico: anche su quei due, però, «si era posato

lo spirito del Signore» (11,26).

L’altro estremo è, invece, legato a Gerusalemme. È il giorno

di Pentecoste e l’apostolo Pietro ha davanti a sé la folla

che l’ascolta e che è attraversata dallo Spirito Santo, capace

di unire tutti nella stessa fede nonostante la diversità delle

origini e la differenza delle lingue. Pietro inizia un discorso

e spontaneamente applica subito all’evento l’antico oracolo

di Gioele (Atti 2,14-21). Di questo profeta si conosce ben

poco e la sua collocazione cronologica per la maggior

parte degli studiosi è nel periodo successivo all’esilio babilo-

nese, forse nel V secolo a. C. Il suo libretto è nettamente

diviso in due quadri, così da diventare un dittico.

1-Melograno
La prima scena è occupata da un’invasione di cavallette, simile a un

esercito assalitore, flagello endemico dell’agricoltura del Vicino

Oriente, presagio di carestia a causa della loro famelica voracità nei

confronti delle coltivazioni. Il popolo si affida, allora, al Signore perché,

come Sovrano del creato, fermi questa piaga (capitoli 1-2). Il secondo

quadro, che occupa i capitoli 3-4, è invece dipinto con colori apocalittici

e con lo sguardo puntato verso il «giorno del Signore», il tempo del

giudizio finale sul male e sull’iniquità, ma anche aurora di una nuova èra.

Sull’umanità, allora, si stenderà lo Spirito divino quasi come un nuovo

soffio vitale che attraverserà l’intero popolo, raffigurato in tutte le sue

articolazioni generazionali (padri e figli) e sociali (anziani, giovani e schiavi).

È una trasfigurazione radicale della comunità che diventa un popolo di profeti,

cioè di testimoni della parola di Dio al mondo. È ciò che si proclama anche

per i battezzati cristiani nella celebrazione del sacramento che li consacra re,

sacerdoti e profeti. È quella trasformazione interiore che aveva cantato il

profeta Ezechiele: «Darò loro un cuore nuovo, uno spirito nuovo metterò

dentro di loro. Toglierò dal loro petto il cuore di pietra, darò loro un c

uore di carne» (11,19)

Un’ultima annotazione. Per descrivere lo spirito profetico Gioele usa due

segni per noi forse sorprendenti e passibili di equivoco: «i sogni e le visioni».

Ora, questo è un simbolo per indicare un tipo di conoscenza – quello appunto

mistico, della profezia e della fede – differente dalla nostra logica puramente

razionale, un po’ come accade in sogno. Era stato Dio stesso a dichiarare:

«Se ci sarà tra voi un profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò,

in sogno parlerò a lui» (Numeri 12,6). Per questo il profeta era chiamato

anche «Veggente », perché il suo occhio spirituale penetrava nel mistero

divino con uno sguardo nuovo e diverso rispetto alla semplice contemplazione

della realtà esteriore.

8902-Risultati della ricerca per giovanni paolo II1

Giovanni Paolo II il 30 maggio 1998 a conclusione dell’incontro in

Piazza S.Pietro di tutte le nuove realtà ecclesiali:

4. Alla Chiesa che, secondo i Padri, è il luogo «dove fiorisce lo
Spirito» (CCC 749), il Consolatore ha donato di recente con il
Concilio Ecumenico Vaticano II una rinnovata Pentecoste,
suscitando un dinamismo nuovo ed imprevisto.

Sempre, quando interviene, lo Spirito lascia stupefatti.

Suscita eventi la cui novità sbalordisce; cambia radicalmente

le persone e la storia. Questa è stata l’esperienza indimenticabile

del Concilio Ecumenico Vaticano II, durante il quale, sotto la

guida del medesimo Spirito, la Chiesa ha riscoperto come

costitutiva di se stessa la dimensione carismatica: «Lo Spirito

Santo non si limita a santificare e a guidare il popolo di Dio

per mezzo dei sacramenti e dei ministeri, e ad adornarlo di

virtù, ma “distribuendo a ciascuno i propri doni come piace

a lui” (1 Cor 12, 11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine

grazie speciali… utili al rinnovamento e alla maggiore

espansione della Chiesa» (Lumen gentium, 12).

L’aspetto istituzionale e quello carismatico sono quasi
co-essenziali alla costituzione della Chiesa e concorrono,
anche se in modo diverso, alla sua vita, al suo
rinnovamento ed alla santificazione del Popolo
di Dio. E’ da questa provvidenziale riscoperta
della dimensione carismatica della Chiesa che,
prima e dopo il Concilio, si è affermata una
singolare linea di sviluppo dei movimenti
ecclesiali e delle nuove comunità.

5. Oggi la Chiesa gioisce nel constatare il rinnovato avverarsi
delle parole del profeta Gioele, che poc’anzi abbiamo ascoltato:
«Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona… » (At 2, 17).
Voi qui presenti siete la prova tangibile di questa “effusione”
dello Spirito. Ogni movimento differisce dall’altro, ma tutti
sono uniti nella stessa comunione e per la stessa missione.
Alcuni carismi suscitati dallo Spirito irrompono come vento
impetuoso, che afferra e trascina le persone verso nuovi
cammini di impegno missionario al servizio radicale del
Vangelo, proclamando senza pausa le verità della fede,
accogliendo come dono il flusso vivo della tradizione e
suscitando in ciascuno l’ardente desiderio della santità.
Oggi, a tutti voi riuniti qui in Piazza San Pietro e a tutti
i cristiani, voglio gridare: Apritevi con docilità ai doni
dello Spirito! Accogliete con gratitudine e obbedienza
i carismi che lo Spirito non cessa di elargire!
Non dimenticate che ogni carisma è dato per il bene
comune, cioè a beneficio di tutta la Chiesa!

Consiglio Provinciale FBF 2018

Consiglio Provinciale neo eletto – FBF Provincia Lombardo-Veneta.

Da sinistra: Fra Guido Zorzi 3’ Definitore – Fra Eliseo Paraboni

1’ Definitorev- Fra Massimo Villa Priore Provinciale – Fra Gennaro

Simarò 4’ Definitore –  Fra Giancarlo Lapic 2’ Definitore.

Aggiornato di recente1615

 

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PASQUA 2023 – Angelo Nocent

PASQUA: FESTA DI COMPLEANNO

L’AMANTE DI GESU’ DESTITUITA

 

«Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto». Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia”. E’ lo stralcio di uno scritto che Pascal s’era cucito nella fodera della giacca dopo una “folgorazione notturna” datata 23 Novembre 1654. Fortunato chi OGGI se la sente di sottoscriverlo.

NON E’ QUI…ECCO IO VI HO AVVISATO

PASQUA: FESTA DI COMPLEANO

Ai piedi della croce, assieme ai pochi presenti, c’era anche lei, la vendicativa AMANTE di Gesù che tanto aveva atteso quel giorno: LA MORTE. Vestita di mestizia, cercava di non attirare l’attenzione coprendosi il viso con il velo. Ma Lui l’aveva notata e sapeva che Lei in cuor suo ghignava, soddisfatta per il più bel successo della sua carriera: “Sei come tutti gli altri morti. Io ti serro nel mio amplesso. Tu che non hai voluto donna, ora sei fra le mie braccia e non mi puoi sfuggire. Non occorre la mia gelosia ad allontanare ogni rivale, perché io sono la sola che non ha ribrezzo di te. Io ti mangerò in ogni fibra, fino a consumarti tutto. Come gli altri morti.” (Luigi Santucci).

Poveretta! Noi oggi sappiamo che aveva fatto i conti senza l’oste. Con Lui, sulla croce moriva PROPRIO LEI. Come previsto, non più di tre giorni avrebbe potuto stare fra le sue fredde braccia, tanto per illuderla e svergognarla. Perché, se la morte è castigo, quali poteri avrebbe potuto vantare sull’ INNOCENTE Figlio di Dio ?

La storia del CROCIFISSO-RISSORTO appartiene alla XV stazione della Via Crucis che non figura nelle nostre. Peccato! Perché è anche la storia di ogni cristiano. Dimentichiamo che anche noi siamo stati BATEZZATI nella Sua morte e nel cuore conserviamo la speranza di risuscitare con Lui alla vita di Dio. “Venga il tuo Regno” lo diciamo ogni giorno. Ma io devo confessare che una volta aspettavo la risurrezione per un DOMANI molto lontano. Ma per me, OGGI, molto più vicino. Solo che anche questo ragionamento è sbagliato: LA RISURREZIONE E’ GIA’ OGGI. Paolo usa il presente: Siete risuscitati insieme con Cristo“ Col 3,1). E se siamo già risorti, quale treno stiamo aspettando?

Sveglia giovanotto! La vita di Dio è gia in me, è in azione, trasforma, trasfigura. Passa parola !

Vorrei che quest’anno sul presbiterio non comparisse quela finta ruota-macigno di cartapesta a simboleggiare la pietra-sigillo del sepolcro. In verità, memoria vera dovrebbe essere proprio quel vecchio ALTARE del Sacrificio a forma di sarcofago, ormai poco visibil, dove poggia il tabernacolo. Per tradizione simboleggia CRISTO, colui che si è tutto DONATO per noi. Tanto che la liturgia lo fa baciare, incensare e, per la sua consacrazione, ungere con il Sacro Crisma.

NON E’ QUI…ECCO IO VI HO AVVISATO”. Non è qui? Come sarebbe? A parlare è un Angelo: ”So che cercate Gesù, quello che hanno INCHODATO alla croce. Non è qui perchè E’ RISORTO, proprio come aveva detto” (Mt 28, 6).

Ci risiamo: è bella ma impresa ardua il volantinare di porta in porta l’augurio che i cuori si aprano alla GRAZIA DI PASQUA come mandorli in fiore. Perché sappiamo che prevalentemente TUTTO si gioca sul terreno dell’oscuro e del difficile. Il rischio che si corre è di considerare la ricorrenza un’altra assurda e commovente FIABA (come il Natale). Pasqua è la vicenda di un uomo passato attraverso la sofferenza e la morte, questo è. Ma per noi sa di illusione. Un evocarne la memoria tanto per tirarci fuori un attimo dalla DUREZZA e INSIGNIFICANZA dei TAMPI. Una spintarella, si direbbe, dataci per continuar a coltivare una SPERANZA CIECA che ci sta in fondo al cuore, magari indifferente e indurito: quella di vedere un giorno LA MORTE ABOLITA.

In realtà il Crocifisso-Risorto ha fatto una cosa sbalorditiva: ha sfondato la porta dello Sheòl e ha introdotto tutti nel mondo agognato che è il mondo di Dio, il suo Regno.

Solo che il pessimismo è diffuso. Prevenuti e ribelli alla GIOIA,c’è una befana di nome FELICITA’ che NON aspettiamo, perché considerata una simpatica favola per bambini. D’altra parte, le BEATITUDINI, carta d’identità del cristiano, più che rallegrarci ci mettono i brividi. Quel “BEATI i poveri, gli afflitti, i miti, i puri, gli insultati…” Con i quattro GUAI A VOI che seguono (Mt 5,3-12)….sa di provocazione che toglie il buon umore. Ma se il pane è amaro, va lievitato con la speranza. Chiudere l’ingresso alla FELICITA‘, equivale a sbarrare la porta a Dio. Così tutto finisce in tragedia.”Ion sono con voi ogni giorno, fino a che il tempo non sia compiuto”. Questa è la roccia su cui poggia la nostra fede. E’ il faro designato a fa luce nella notte della tempesta è Maria

DIO, DIO… Ma chi è Dio? Presto detto: l’ ONNIPOTENTE che si fa DEBOLEZZA. Inerme, indifeso, in balìa degli uomini, è un “consegnato” alla malvagità, sbalottato qua e là, trascinato come un malfattore dinanzi ai tribunali, usato come trastullo, bersaglio degli scherni: “indovina chi ti ha colpito…” (Mt 26,68). Questo è un Dio che, a cominciare da me, tutti possiamo COLPIRE. Dove giri lo sguardo, trovi IL CROCIFISSO che si è lasciato massacrare senza opporre resistenza. Ha permesso di essere annientato pur di rinunciare ad ogni volontà di POTENZA. Questo è il Dio in cui dovrei credere, il mio Dio che, come Pietro, vorrei fosse al rovescio: “Anche se tutti gli altri…IO NO !” (Mt 26,31ss).

Personalmente, ho provato a cercarlo nei libri, nei convegni, nell’arte…Poi mi sono accorto che andava cercato sul CALVARIO, perché è proprio lì che ci parla chiaro e tondo: “Quando furono arrivati sul posto detto “LUOGO DEL CRANIO”, prima crocifissero GESU’ e poi i due MALFATTORI: uno a destra e l’altro a sinistra di Gesù” (Lc 23,33). Lassù gli amici erano quasi tutti spariti. Perché? Per paura. La vita cristiana, se alleggerita della croce, diventa non vita, RECITAZIONE. Battezzato, cresimato, non basta che esibisca il ‘certificato‘ della parrocchia: mi si deve riconoscere come uno che porta la croce INSIEME A LUI. Se la CROCE non è la mia DIVISA, il mio DISTINTIVO,chi mi crede? Poiché sappiamo per esperienza che si tratta di un legno ruvido, riconosciamolo: è un tessuto fuori moda, a cominciare dal colore. La ci piacerebbe indorata la CROCE, luccicante, come se ne vedono di barocche nelle nostre chiese. E poi, che fatica a CREDERE che è Lui ad aiutarci a reggere sotto il peso delle nostre croci! Un Dio-uomo, crocifisso, dal cuore trafitto, che non ha smesso di prende volontariamente il posto del Cireneo, il poveraccio obbligato dai soldati romani ad aiutarlo durante la salita al Golgota… Come si fa a sostenere che QUESTO E’ DIO…!

A Pasqua, campane a festa, tintinnio di campanelli, fiato alle trobe d’organo, Cristo risusciti (Ef 3,14-21), Regina coeli laetare...Perché? E’ RISORTO! Se è così, allora è anche FESTA DI COMPEANNO, giorno che celebra la nascita di un MONDO NUOVO. Solo che il mondo sono io, siamo noi…Ma, se non c’è risurrezione nel cuore…Perché quando si tratta di Cristo, è di me stesso che si tratta, del suo SPIRITO che MI ABITA come FORZA TRASFIGURANTE: “Sono stato crocifiso con Cristo, Non son più io che vivo; è Cristo che vive in me…”(Gal 2, 19-21). Epperò, a SBAGLIARCI SU DIO, perdere la fiducia nel DONATORE (“mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” Gal 2,20) è il peggio che ci possa capitare.

PECINO PARRO, nato intorno al 1530, risulta essere il primo curato di Vaiano, (qui est salariatus, capellanus amovibilis). Egli, “il primo octobrio 1568, Jesus”, esaltava l’amore per la Madonna con questi bellissimi endecasillabi che io titolerei CANTO DEL MARINAIO: “Vergin per cui dal ciel discese Dio, / Vergin mandata da supremo choro, / Vergin che producesti il frutto pio, / Vergin ch’al sepso uman fusti restoro, / Vergin ch’intendi et odi il desir mio, / Vergin che trarmi puoi d’ogni martoro, / Vergin de peccator madre soave, / gonfia le vele alla mia stanca nave”. Reso con parole nostre suonerebbe così:“Vergine, grazie alla quale Dio scese dal cielo (sulla terra)/ Vergine,inviata dal cor to il pio frutto, / Vergine, che sei stata ristoro per ilgenere umano,/Vergine, che comprendi e ascolti il mio desiderio,/ Vergine, che puoi liberarmi da ogni sofferenza,/ Vergine, che sei madre dolce per ogni peccatore, (gonfia le vele della mia nave stanca”.

PENTECOSTE ALLE ASSI è uno dei prossimi nostri importati appuntamenti. Perché lei è la SANTA MARIA DELLA PASQUA, donna che ha conosciuto come noi TIMORI e ANGOSCE, ma FIDANDOSI TOTALMENTE DI DIO e SPERANDO contro ogni speranza. Ed è la GUIDA sicura nel nostro CAMMINO terreno, destinazione la dimora eterna del Padre, che, in definitiva, è Cristo stesso, volto della TRINITA’. E’ solo guardando a Lei e seguendo le sue orme che potremo celebrare e vivere il MISTERO EUCARISTICO, «tesoro della Chiesa, cuore del mondo, pegno del traguardo a cui ciascun uomo, anche inconsapevolmente, anela» (Giovanni Paolo II).

Quando mi reco alla Madonna delle Assi, nella chiesatta avvolta nel silenzio vi trovo un’analogia con la sala imbandita per le nozze di Cana (Gv1,1-13. Qui naturalmente la padrona di casa è Lei. Come mi vede, mi accoglie con un sorriso che io ricambio. Mi siedo e rimango con lo sguardo fisso all’ icona.

Il suo Gesù, dal quale dipende ma che le obbedisce in tutto e per tutto, è occupato al telefono. Lei si avvicina e Gli sussurra all’orecchio: “E’ tornato...”. Con il suo intuito materno ha da subito capito che, se sono lì è perché ho “le batterie scariche”. Lui s’interrompe un attimo e le risponde nella sua lingua aramaica: “Mali walaq” (Gv 2,12). Dal tono della voce si comprende che non è seccato né infastidito e che la risposta è affettuosa, corrispondente alle nostre locuzioni popolari abbastanza diffuse: “E con ciò?” “E che c’entro io?” “Che ci posso fare?”

A Cana aveva risposto: “Che ci possiamo fare, donna?”. In romanesco se la sarebbe cavata con un bel “che ce potemo fa’… “, inteso dalla madre come un assenso, tanto da dire ai servi: “Fate quello che vi dirà”. Ma questa volta il significato è un po’ diverso: “Mamma, quante volte te lo devo dire! Fai tu, hai carta bianca…” E la fissa negl’occhi

In un’altra festa, applaudito per come parlava, “aveva esclamato a voce alta: “Se uno ha sete, si avvicini a me, e chi ha fede in me, beva! Come dice la Bibbia, fiumi d’acqua viva sgorgheranno da lui”.Gesù diceva questo, pensando allo Spirito di Dio che avrebbero poi ricevuto” (Gv 7,37-39). Chi desidera appagare la propria sete di felicità e di vita, deve attingere l’acqua viva del costato del Crocifisso, bere la Parola di Gesù, assimilare la sua rivelazione.

Maria ha partecipato alla SPOGLIAZIONE PASQUALE del Figlio dell’Onnipotente (cf.Fil2,5-8). Quello STARE LI‘, ferita ma ritta in piedi (cf.Gv19,25), ci svela la sua ASSOCIAZIONE al sacrificio del Sacerdote della nuova ed eterna Alleanza. Che mi colpisce è il suo stare in piedi sacerdotale nell’atto di dire amen alla vocazione che il Padre le rivolge, per bocca e sull’esempio del Figlio. È sempre il sì di Nazareth che Maria ridice sotto la Croce, pur con modalità e in circostanze diverse. La sostanza è la medesima: eccomi, si compia in me la tua parola.

La sua maternità divina si dilata ora alla MATERNITA’ ECCLESIALE. L’oblazione che la Madre del Redentore presenta al Padre comprende anche l’amore che ella nutre per i discepoli del Figlio. Maria ACCOMPAGNA il pellegrinaggio dei credenti (NOI) che la invochiamo come Madre, Nutrice, Consolatrice, Avvocata, Protettrice. Che ne dite? Per me, più la guardo e più mi sembra bella.Vergin de peccator madre soave, / gonfia le vele alla mia stanca nave”. Arrivederci alle ASSI. Angelo Nocent


STORNELLATA DI PRIMAVERA

1 Terra aperta al Sole Divino / come prato che a maggio fiorisce,/ il tuo sguardo è limpido e puro, / dove passi tu porti Gesù.

RIT. Bella Tu sei qual sole…

2 Forse un umile frate pittore, / occhio chiaro, azzurro e profondo,/ od un uomo dall’occhio di falco / ha voluto dipingerti quì.

RIT. Bella Tu sei qual sole…

3 Della prima icona, o Maria,/ non c’è traccia rimasta alle Assi./ Ma un pittore di raro talento / Madre e Figlio ha ritratto per noi.

RIT. Bella Tu sei qual sole…

4 E’ da secoli ormai che la gente / viene qui a mormorare preghiere, / a invocarti, o Madre pietosa, / quando il cuore non ce la fa più.

RIT. Bella Tu sei qual sole…

5 Grande donna del Sabato Santo, / sottoposta a crudele martirio, / hai atteso in preghiera che l’alba / ti ridesse il risorto Gesù.

RIT. Bella Tu sei qual sole…

6 Sfolgorio improvviso di luce: / è Gesù, il crocifisso-risorto,/ che ha lasciato per sempre il sepolcro / per restare in eterno con noi.

RIT. Bella Tu sei qual sole…

7 Tu puoi tutto sul cuore di Dio / che t’ascolta, o Regina dei Cieli./ Se intercedi, il Figlio acconsente / di concederti ciò che tu vuoi. (Gv 3,5)

RIT. Bella Tu sei qual sole…

8 A te, o Madre, affidato ha per sempre / d’intercedere il Padre per noi. / E da Figlio acconsente ed agisce / ogni volta che parli di noi.

RIT. Bella Tu sei qual sole…

Maria può tutto in Cristo Figlio di Dio, Dio come Dio, seconda persona della SS. Trinità, Gesù Dio, in quanto uomo, può tutto in Maria, Madre educatrice, il cui compito è quello di formare l’umano nel Cristo uomo dentro la storia del suo tempo e del suo popolo.

L’intima connessione tra Maria e Cristo è alla base della potente intercessione di Maria Vergine, sia in forma ascendente che discendente, sia in modo preventivo che conseguente. Il suo ascolto presso la SS.Trinità è totale per mezzo dello Spirito santo, di cui è sposa, e del Padre, che l’ha concepita e voluta senza macchia originale. Nessuna creatura eguaglia la potente intercessione di Maria. Ella, seguendo l’impulso materno, a Cana di Galilea, percepisce e previene le angustie del cuore umano, facendole proprie, raccomandando la fede e la speranza nel suo Figlio con un invito specifico: ”Fate tutto quello che egli vi dirà” (Gv.3,5).

 

1980: NASCE IN OTTOBRE E LO CHIAMANO POPOLO – Angelo Nocent

1980: NASCE IN OTTOBRE

E LO CHIAMANO POPOLO

 

PREMESSA – La più grande maledizione per un albero, è quella di SECCARE. Anche un uomo può essere paragonato ad un albero e, se dovesse seccare, sarebbe una vera sciagura: sempre lì, in piedi, al suo posto, ma “disabitato”, la linfa che non circola, senza vita, senza freschezza, inospitale. Parafrasando il Salmo 1, noi tutti dovremmo essere “come alberi piantati lungo un fiume” che attendono la primavera per fruttificare. Geremia usa un’immagine ancor più espressiva: gente che “verso il fosso tende le radici” (Ger 17, 5-8).


Alberi piantati: è il Battesimo. E’ lì che avviene il trapianto, che affondano le radici nel terreno, che inizia una solida alleanza, un matrimonio da cui la pianta riceve nutrimento e consistenza. La fase due si chiama Eucaristia: un popolo che trova la forza nel pane che viene dal cielo. Il rimando è alla storia di Elia, il profeta scoraggiato e oltraggiato: “Si alzò, mangiò e bevve. Poi, rinforzato da quel cibo, camminò quaranta giorni e quaranta notti, fino al monteOreb, il monte di Dio” (1Re 19,8).

 

LO SPEZZARE IL PANE è il gesto liturgico originale, gesto mai abbastanza compreso, che fa riconoscere l’assemblea dei discepoli di Gesù come la comunità che FA MEMORIA della sua Pasqua. VIVE del suo Spirito, PRATICA il suo comandamento. Naturalmente, felice di stare insieme, amante della pace, forte contro ogni violenza, pronta adare la vita, perché ama la vita. Questo è il significato dell’ESSERE CHIESA. Senza illusioni: perché il mondo non è nostro, è di Dio, che ha il suo trono nel cielo. (Sal 2).

1980. Dopo secoli, è successore di Pietro un papa straniero, polacco, sportivo, sciatore, nuotatore, affascinante (che non guasta): SAN GIOVANNI PAOLO II. Fra le sue prime parole: Se mi sbaglio mi CORRIGERETE…Non abbiate paura, aprite, aprite, anzi spalancate le porte …”. Un boato! Domenica 19 Ottobre, il Papa all’Angelus in Piazza San Pietro,fa una citazione in latino: vengono in mente le parole del Vangelo di San Luca, alle quali questa preghiera fa riferimento: “Missus est Angelus Gabriel ad Virginem…”(Lc 1,26-27). E precisa: “All’inizio dell’opera alla quale desideriamo servire, si trova la “missione”. La parola che parla della “missione”, cioè della “vocazione”, è in un certo senso la prima parola del Vangelo. E cita la Costituzione Dogmatica sulla Chiesa:“La Chiesa, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunciare e instaurare in tutte le gento il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio…” (Lumen Gentium 5).

In questa atmosfrra di ardore missionario, nell’ OTTOBRE 1980 esce il PRIMO NUMERO di UN POPOLO IN CAMMINO – Parrocchia dei ss. Nazario e Celso in Monte Cremasco. Rispolverando la dichiarazione d’intenti della REDAZIONE, emerge che NON VANTA alcuna pretesa, ma COLTIVA solo un ambizioso desiderio:

 

  1. instaurare un RAPPORTO più profondo con le famiglie;
  2. diventare un momento di COLLEGAMENTO delle varie esperienze vissute, COINVOLGENDO il territorio;
  3. invitare alla CORRESPONSABILITA’;
  4. aprire a ogni COLLABORAZIONE;
  5. contribuire alla rinascita di una coscienza di POPOLO IN CAMMINO VERSO L’UNITA’;
  6. nella CERTEZZA LIETA DELLA FEDE ereditata.

 

Il primo umero, che più arti

Il Vaticano II ci ha educati a pegianale di così si muore, era cosituito di fogli A4, fotoopiati, piegati e pinzati, con un frontespizio naïf, già allota pensato per la gioia del futuro parroco, il don Roberto di oggi, attuale custode fedele del TESTIMONE tramandatoci.Con questo numero siamo alla 250ma USCITA. Un cammino che ormai dura da 42 anni.

E allora? “Muccesi tutti: Cin Cin! E che il nostro umile ma puntuale INFORMATORE ecclesiale terrotoriale, vivat, crescat, floreat, ossia possa contunuare a vivere, crescere ed a fiorire per noi, “alberi” piantati lungo il “FIUME”. E’ Parola di Dio: Se uno ha sete, si avvicini a me, e chi ha fede in me, beva! Fiumi d’acqua viva sgorgheranno da lui” (Gv 7,37).

Sembra che i buoni propsiti di allora finora siano stati mantenuti. Epperò, vale anche per oggi quell’invito pronunciato all’indomani del Vaticano II. Attingendo alla lettera dell’apostolo Pietro, sjupplica: “Resistite fortes in fide” – “Ma voi, RESISTETE, forti nells fede! E sappiate che anche altri cristiani sparsi per il mondo devono soffrire le stesse difficoltà, come voi” (1Pt 5,9).

Non è un segreto: anche nella Chiesa di oggi regnano momenti ‘incertezza. Si credeva che dopo il Concillio sarebbe derivata una stagione di bel tempo per la storia della Chiesa. Invece, man mano che si procedeva, ci siamo accorti che i mutamenti metereologicini fanno parte del nostro quotidiano e che il pane della serenità va invocato ad ogni nuovo risveglio.

Ai tempi del Concilio Vaticano II (convenuti a Roma cira tremila vescovi di ogni razza, colore, popolo, stato, lingua e latitudine, mai nella Chiesa una simile novella Pentecoste) ero un giovanotto che oggi conserva ancora nel cuore indelebili ricordi. Ad esempio l’esjultanza per la GAUDIUM ET SPES del 7 Dicembre 1965, un soffio di promavera, con il folgorante annuncio al mondo di un episcopato per lo più avanti negl’anni: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri sopratutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze , le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco el loro cuore”.

E’ lo SVILUPPO DELLA PRIMA PEMTECOSTE e finirà quando tutti i popoli, riuniti nella nostra fede, canteranno insieme le meraviglie che Dio ha operato. Nel frattempo, ci tocca di fare la nostra parte.

nsare la Chiesa come POPOLO DI DIO IN VAMMINO NELLA STORIA. Ma in condizioni di ESODO, che è una categoria biblica. I DUE ESODI di Israele sono noti: quello dall’Egitto verso la terra promessa e qello da Babilonia verso Sion. Anche nella tradizione della Chiesa primitiva questa categoria era familiare. Nella lettera a Diogneto si legge che i cristiani erano indicati come nomadi: “Ogni terra straniera è patria per loro; e ogni patria è terra straniera”.

E’ evidebte che “UN POPOLO IN CAMMINO” non è da intendersi come amna scampagnata primaverile nell’Umbria verdeggiante, densa di spiritualità francescana. I numeri pubblicati sono da considerarsi come delle LITTERAE COMMUNIONIS, servite come strumento per veicolare il messaggio evangelico. MA DA GIOIOSI TESIMONI DELLA RISURREZONE. Perchè LA GIOIA CRISTIANA, la gioia di sentirsi fratelli e di amarsi è una potente TESTIMONIANZA della Risurrezione di Gesù. Egli ci ha fatto una promessa: lo Spirito Santo: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro difensore che starà sempre con voi, lo Spirito della verità…e, dovreste rallegrarvi che io vada dal Padre, perché il Padre è più grande di me. Tutto questo ve l’ho detto prima, perché quando accadrà abbiate fede in me” (Gv 14).

E’ un bene che a noi, un po’ imbambolati, ad ogni due per tre venga ricordato il significato dell’ESSERE CHIESA. Gli appuntamenti alle Assi, a cominiare dalla Pentecoste, sono proprio vuluti per aiutarci a far nostra quella MISSIONE che per prima ha accettato MARIA, la Vergine di Nazareth, Madre della Chiesa.

POPOLO significa collettività dei cittadini che assume questa missione divina insieme con Cristo nello Spirito Santo. Un prendere coscienza che anche noi, picccola Comunità di un paesino più notoa Dio che agli uomini, ci troviamo nello STATO DI MISSIONE . “In statu missioni “ per dirla in latinorum. COMPLICATO? Sbbastanza. D’altra parte, siamo in presenza del mistero. Ma le festività liturgiche delle prossime settimane saranno illuminanti: Ascensione, Pentecoste, Corpus Domini, Assunzione…tutte soste per riprendere fiato e riordinare le idee.

 

Oggi “UN POPOLO IN CAMMINO” assume il significato di SINODO. Cosa significa il termine Sinodo? Per dirla in breve bisogna risalire all’etimologia greca: è una parola composta dalla preposizione” con”(σύν), e dal sostantivo “via” (οδος): indica il “camminare insieme” del Popolo di Dio. I credenti sono dei “sunodoi” – (σύνοδοi), dei compagni di cammino, chiamati a testimoniare e ad annunciare la Parola di Dio. Il nostro periodico parrocchiale è dunque un vademecum (appunti di viaggio) che ci accompagna lungo il percorso e RINVA al Signore Gesù che presenta se stesso come “la via, la verità e la vita” (Gv 14,16).

L’immagine di un popolo in cammino è suggestivaè suggestiva. Ma la domanda dovrebbe essere: dove sta andando?

Le risposte dell’Apostolo Paolo sono puntuali ma anche sconvolgenti. La lettera a gli Ebrei, citando la Bibbia, ricorda che “IL NOSTRO DIO E’ UN FUOCO CHE DIVORA”. Un’esortazione che andrebbe letta per intero (Eb 13,1ss). A farci coraggio ci pensa il veggente dell’Apocalisse con l’invito ad ALZARE LO SGUARDO PER VEDERE la “città santa”, la Gerusalemme nuova , scendere dal cielo, da Dio, pronta come una SPOSA ADORNA PER IL SUO SPOSO “ (Ap 21,2).

Che dire? Semplivemente: “VIENI, VIENI !”. Un vivere VIGILANDO nell’attesa. Un vivere PELLEGRINI NEL DESERTO. Un popolo in cammino nella PRECARIETA’ NOMADE: “Vieni, Signore Gesù!”.

 

I 250 numeri usciti fin’ora sono come una lunga processione che mi ha fatto venire in mente “Il dottor Živago” , romanzo di successo dello scrittore russo Boris Pasternak. Ero ragazzo quando l’ho letto. Ho perfino memorizzato l’incipit:: “Andavano e andando cantavano eterna memoria. Nelle pause, sembrava fossero i piedi, i cavalli, gli aliti di vento a continuare il canto intonato”.

Strane coincidenze: “Il dottor Živago” è stato l’unico romanzo scritto dall’autore russo che, tuttavia grazie afd esso si aggiudicò il Premio Nobel per la Letteratura nel1958. Purtroppo egli non potè ritirare l’ambìto riconoscimento. Per lìopposizione del governo sovietico, sapeva che, se avesse presenziato alla premiazione, non saebbe potuto ritornare in patria. Sono i corsi e ricorsi sorici…

E’ interessante vedere come la missione, così come la concepisce Gesù, non è mai il lavoro olkitario ed erpico di uno solo , ma sepre il tentativo di essere in comunione almeno con un altro: “Allora chiamò i dodici discepoli e cominciò a mandarli qua e là, a due a due. Dava loro il potere di scacciare gli spiriti maligni e diceva: ‘Quando vi mettete in viaggio, prendete un bastone e nient’altro; né borsa, né soldi in tasca. Tenete pure i sandali, ma non due vestiti‘.(Mc 6,7-9).

Cosa capisco? Che “camminare” non basta, occore CAMMINARE INSIEME. Ma c’è un ma…Con tutte le buone intenzioni, guardandosi attorno, notaomo un sacco di cose che non vanno, che ci destano pajura e smarrimento. Anando verso la festa dell’Assunta , la Voce interiore dello Spirito, compagno di viaggio, accortosi che tendo a guardare in basso e a soffrire di vertigini, da esperta guida alpina mi lancia un grido ammonitore: “Guarda in alto…! Guarda verso l’Assunta”. Se potessi modificare il titolo del nostro peridico, porterei una piccola aggiunta:“UN POPOLO IN CAMMINO CON MARIA”. Non è la Madre della Chiesa? Angelo Nocent

 

RIT – Il tuo popolo in cammino cerca in Te la guida; sulla strada verso il Regno sei sostegno col tuo corpo:
resta sempre con noi, o Signore!

1 È il tuo pane, Gesù, che ci dà forza e rende più sicuro il nostro passo.Se il vigore nel cammino si svilisce, la tua mano dona lieta la speranza.

2 È il tuo vino, Gesù, che ci disseta e sveglia in noi l’ardore di seguirti. Se la gioia cede il passo alla stanchezza,la tua voce fa rinascere freschezza.

3 È il tuo corpo, Gesù, che ci fa Chiesa,fratelli sulle strade della vita. Se il rancore toglie luce all’amicizia, dal tuo cuore nasce giovane il perdono.

4 È il tuo sangue, Gesù, il segno eterno dell’unico linguaggio dell’amore. Se il donarsi come te richiede fede, nel tuo Spirito sfidiamo l’incertezza.

5 È il tuo dono, Gesù, la vera fonte del gesto coraggioso di chi annuncia. Se la Chiesa non è aperta ad ogni uomo, il tuo fuoco le rivela la missiione.

https://www.youtube.com/watch?v=Kv-mA-dezr4

 

 


 

E TANTA GIOIA DENTRO AL CUOR – Angelo Nocent

 

E TANTA GIOIA DENTRO AL CUOR

Con la 251esima uscita del nostro periodico parrocchiale UN POPOLO IN CAMMINO (Ottobre.Novembre 2022) si riprende la marcia. Ma è d’obbligo porci un interrogativo: ci rendiamo conto di dove stiamo andando? Perché per un cristiano il pericolo di sempre è un lamentoso procedere, nostalgico non si sa bene di che cosa e di lasciarsi trasportare dalla corrente: “Andate avanti voi che noi vi seguiamo”. Ma c’è anche un dolorosi atteggiamento mai apertamente dichiarato: “Fate come se non esistessi”, l’equivalente di quella provocatoria e di cattivo gusto, quasi blasfema del Padre Nostro formulata dal poeta francese Jaques Préver: “PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI, RESTACI!”. E non sono pochi i fermamente convinti che che Dio debba star fuori dal perimetro della storia umana. A uomini scettici o delusi e arroganti la religione pare non aver nulla da dire. Chiuso nel cielo dorato della sua trascendenza, Dio

  • non deve DISTURBARE le nostre coscienze,
  • non deve INTERFERIRE nei nostri affari,
  • non deve ROVINARCI i piaceri e i successi.

Il salmo 10,4 è lapidario: “Dice il malvagio nella sua presunzione: “Nessuno mi chiederà conto di nulla. Dio non c’è. Questo è il suo pensiero”.

 

Stando così le cose, meglio sgomberare subito il campo da ogni malinteso: quella del cristiano è una VOCAZIONE. Egli ha ricevuto la proposta autorevole di una META e di un CAMMINO di LIBERAZIONE. Il proponente è GESU’: “Vieni e seguimi”, vieni e ti farò pescatore di uomini. Questa proposta viene fatta ad ogni uomo, anche aciascuno di noi, nessuno escluso ed è la possibilità di uscire dai tanti condizionamenti e paure che ci affliggono.

La Bibbia è concretezza. ABRAMO non era un uomo speciale ed in tante cose ci assomigliava, Per quanto ci è dato di capire di lui, era un pastore, un uomo sedentario, senza grandi prospettive, un amante del quieto vivere, legato e condizionato dall’ambiente comodo, consumistico e godereccio. Un vivere tranquillo e privo di tensioni.

Poi giunge la CHIAMATA DI DIO. E la lettera di Paolo agli Ebrei che invito a leggere, ci dice che lo chiama e lo sradica: “Per fede, Abramo ubbidì quando fu chiamato da Dio, partì senza sapere dove andava” (Eb 11, 8 ss).

 

NON SIAMO SOLI

 

Dal salmo 23,4 che conosciamo a memoria ci vengono tanta luce e tanta consolazione:Anche se anche andassi per la valle più buia, di nulla avrei paura, perché tu resti al mio fianco, il tuo bastone mi dà sicurezza” .

L’ essere un popolo in cammino comporta il dover attraversare sia pascoli erbosi che proseguire anche in presenza della valle oscura. Ogni realtà, per quanto piccola come la nostra, è segnata da sofferenze, incomprensioni, timori, L’incoraggiamento ci viene da Paolo: Noi siamo sicuri di questo: Dio fa tendere ogni cosa al bene di quelli che lo amano, perché li ha chiamati in base al suo progetto di salvezza. Da sempre li ha conosciuti e amati, e da sempre li ha destinati a essere simili al Figlio suo, così che il Figlio sia il primogenito fra molti fratelli.

 

Ora, Dio che da sempre aveva preso per loro questa decisione, li ha anche chiamati, li ha accolti come suoi, e li ha fatti partecipare alla sua gloria” (8,28-30).

 

Alle Assi veneriamo quella Donna che in ogni santuario, sontuoso o modesto, è lì a braccia aperte, pronta a SCIOGLIERE I NODI che affliggono i viandanti che sostano ai suoi piedi. La preghiera del cuore: “Santa Maria della SOSTA, ci mettiamo nelle tue mani.

La Madre parla e suggerisce sempre parole evangeliche, portavoce del Figlio. Lei che si considera un’umile “SERVA”, come dire: “Ha guardato a me che sono niente”.


A chi par di aver smarrito la strada, San Bernardo suggerirebbe: “
Alza lo sguardo, guarda la stella, chiama Maria”. Questo DINAMISMO è opera dello Spirito Santo, dunque affidabile. Perché la Madre e il Figlio non fanno che UNO. Papa Francesco ci ha inculcato la devozione alla Madonna che sciogli i nodi. E chi non ne ha nel cuore?

 

EVVIVA GLI SPOSI !

 

Dopo l’ormai ultimato RESTAURO del nostro santuario, i primi a varcare ufficialmente la soglia in nostra rappresentanza sono stati due giovani sposi novelli che si sono giurati fedeltà per il resto del loro cammino che proseguiranno tenendosi per mano:Io, accolgo te, come mia/o sposa/o. Con la grazia di Cristo, prometto di esserti fedele sempre,
nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia,
e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.” E’ l’icona del nostro itinerario ecclesiale che pone al centro il CONDIVIDERE EUCARISTICO, “cibus viatorum”, manna che viene dal Cielo per reggere alla fatica del quotidiano. ANIMA MEA, MAGNIFICAT ! – Angelo Nocent

 

SANTA MARIA DELLE ASSI – Lauda polifonica – Angelo Nocent

A SANTA MARIA DELLE ASSI NEL GIUBILEO DELLA MISERICORDIA

Santa Maria delle Assi, il popolo di Monte Cremasco che da secoli ti venera nel piccolo santuario dedicato al tuo nome, oggi si unisce a te per invocare sulla nostra comunità, il dono dello Spirito del tuo Figlio Gesù.

Madre della Chiesa nascente, ottieni ai credenti di ogni età il risveglio dei carismi nelle multiformi funzioni, per l’unità comune (1Cor 14, 2-6).
Ora che il Papa ci sprona a portare il Vangelo della Gioia nelle periferie esistenziali, aprici le vie, prendici per mano.

ALLA MADONNA DELLE ASSI NELL’ANNO GIUBILARE DELLA MISERICORDIA 2016

ECCO IL TESTAMENTO:

“Donna, ecco tuo figlio” – “Giovanni, ecco tua madre”

Gv 19, 26-27

LAUDA POLIFONICA
CONCERTO DI CAMPANE
PER UNA SACRA RAPPRESENTAZIONE

Eseguibile sulle note di “Dell’aurora tu sorgi più bella)

RITORNELLO

Tu sei, per testamento, / la Madre della Chiesa.
Vieni a sciogliere i nodi / di tante nostre schiavitù. 2 volte

oppure

Entra nella mia casa, / Donna che tutto puoi. / Vieni a sciogliere i nodi,

/ o Madre dell’umanità.

1 Siamo qui, o Regina del Cielo / come figli sbandati ai tuoi piedi.

/ Oggi il Popolo Santo di Dio, / chiede aiuto, conforto, pietà.

2 Tu, la prima credente, obbedisci / al disegno di Dio sulla Storia.

/ Sei la guida di noi pellegrini, / sei modello che incarna Gesù.

3 Tradizione remota e costante, / ti considera Mystica Rosa

/ dei muccesi e dei tanti cremaschi / che da secoli vengono qui.

4 La fanciulla orante ai tuoi piedi / rappresenta ciascuno di noi /
che ha bisogno di luce, di pace, / di trovare di nuovo Gesù.

5 Dalla croce Gesù, il tuo Figlio, / ti ha slegato per sempre le mani.

/ Ora puoi dispensare favori / e parlarGli di ognuno di noi.

6 Genitrice del Figlio di Dio, / ora generi al mondo le membra;
ci fai tralci di Cristo, la Vite. / Non possiamo far senza di te.

7 Nel Cenacolo siedi regina: / tu presidi alla Chiesa nascente.
Se alle Assi intercedi con noi / qui lo Spirito Santo agirà.

8 Grande dono alla Chiesa e al mondo, / protezione, baluardo, sostegno,

/ Tu, Maria, ci sei necessaria: vieni a stare ogni giorno con noi.

9 Dio ha posto sul nostro cammino / una Donna vestita di sole:
è Maria, la guida sicura; / più sostegno di questo non c’è.

10 Quanta sete nel povero cuore…/ tanta fame di Dio tra la gente…
Quel tormento dei nostri ragazzi…/ che ci chiedono felicità.

11 Noi si vive tra sogni e chimere, / delusioni, frastuoni, tempeste…
Preferiamo star dietro le quinte, / non esporci al rischio Gesù.

12 Tu conosci le nostre tragedie, / tanti cuori in preda ai sussulti;
non è bello morire a vent’anni… / Perché, o Madre, accade così?

13 Con parole e carezze di madre, / ci sospingi a prendere il volo,
testimoni del Figlio risorto, / ma il coraggio vien meno, non c’è.

14 Come fanno i nostri bambini / dopo lunghe rincorse sui prati,

/ ci sdraiamo ansimanti sull’erba / per posare lo sguardo su te.

15 Sei la donna più bella del mondo, / hai negl’occhi la Luce Divina.
Assediati da tante paure, / ci fa bene parlare con te.

16 Oggi, Santa Maria delle Assi, / siamo qui a deporre ai tuoi piedi
i propositi di conversione, / a invocare la tua carità.

17 Un pittore di grande talento / t’ha stampato uno sguardo accogliente;

/ Chi fa sosta, si trova a suo agio: / può parlare a lungo con te.

18 O Maria, non faccio per dire: / ho peccato, ho tanto peccato!
Ma se metti una buona parola / il perdono per me ci sarà.

19 Tra le folte cortine di verde, / proprio in riva al canale Bacchelli,
luogo santo di culto mariano, / le campane invitanti son tre.

20 Chi si ferma a deporre le pene / prende fiato, ossigena il sangue.
E’ più facile poi proseguire, / pesa meno il fardello con te.

21 O Madonna di Monte Cremasco, / il sacello a te dedicato,
all’inizio struttura di assi, / oggi svetta, orgoglioso di te.

22 Santuario a lungo conteso / col vicino Palazzo Pignano,
qui da secoli accorre la gente / mette un cero, il suo peso… e poi va.

23 Corse voce che ad una fanciulla / apparisti per dire qualcosa.

Non ha nome né volto né storia. / Ma che bello fidarsi di te!

24 E del resto, tu parli ogni giorno / dentro il cuore, da vigile madre,
premurosa, attiva ed insonne. / Per chi crede, il miracolo c’è.

25 A noi piace vederti sul trono, / con in braccio il Bambino e una rosa;

/ ma per noi tu sei mamma, una sposa, / come tante ragazze di qui.

26 Non hai più nostalgia del paese, / del profumo di pane, di agnello,

/ della torta di mandorle e fichi / che piaceva a Giuseppe e a Gesù?

27 Non vorresti venire una volta / senza il manto e le insegne regali,
come quando vestivi nel borgo, / per e parlarci…e a prendere il tè ?

28 Sei l’emblema di tutte le madri, / e nel fuoco che t’arde nel petto,
c’è l’amore, la tua compassione / per chi soffre e speranza non ha.

29 Sei lucerna che cerca la dragma: / è quell’uomo svanito nel nulla
che tu vuoi ricondurre all’ovile / fare festa, gioire con lui.

30 In quest’anno di misericordia, / nel tuo grembo materno raduna
i fuggiti da casa, i dispersi. / Siamo ciechi, credenti a metà.

31 E’ il Signore che bussa alla porta, / vuol entrare, cenare con noi.
Come a Cana anche ora ripeti: / “Fate quello che lui vi dirà”. (Gv 2,5).

32 Camminando, si sporcano i piedi. / Questo fango si chiama “peccato”

/ e riguarda fedeli e pastori. / Dei fratelli caduti, pietà.

33 Questo è il tempo del grande perdono / nostalgia di far pace con Dio

/ che il  ritorno sospira ed attende. / Gioia immensa l’abbraccio con Lui.

34 Per tu tramite passa l’amore / di quel figlio che hai partorito,

/  l’inviato al mondo dal Padre / a redimere l’umanità.

35 C’è chi è schiavo dei sensi di colpa, / chi non osa tornare alla Chiesa.

/ Chiedi al Padre la liberazione / che guariscano le cecità.

36 Sei la figlia, l’eletta, la sposa / dell’ Eterno l’amata per sempre;

/sei il grembo in cui si fa carne / l’Uomo Nuovo, il Dio-con-noi.

37 Dopo il “sì”, ti ha coperto la Nube, / il tuo grembo quell’ombra

/ e ti ha resa dimora del Santo / che ha posto la tenda tra noi.

38 “Che avvenga di me come hai detto.” / C’è un miracolo in quelle parole,

/ perché nulla è impossibile a Dio.

/ E, da Vergine, lei concepì.

39 Sei ascolto, silenzio, stupore, / un’attesa riempita di Dio;

/ al segnale tu vibri di gioia. / Vorrei essere anch’io come te.

40 Per il grembo che lo ha generato, / ed il seno che lo ha allattato,

/ or sei madre del genere umano, / noi fratelli di Cristo Gesù.

41 La tua prima domanda all’Eterno, / ora a te formuliamo, Maria:

/ come sia possibile ancora / concepire il suo Verbo pur noi.

42 Anche noi, abitati da Cristo, / siamo casa di Dio, il pietoso.

/ Per cambiarci il cuore di pietra, / Lui si serve, Maria, di te.

43 Tu icona del Figlio, del Padre, / ogni giorno c’insegni la via /

dell’amore che accoglie, che dona, / che si spende, che prova pietà.

44 Fedelissima al tuo Creatore, / sei colei che per grazia divina /

intercedi ed invochi il perdono / per chi ha perso la sua dignità.

45 Come madre di Cristo, Maria, / sei colei che conosce più a fondo

/ il mistero del darsi di Dio / crocifisso nel Figlio per noi..

46 Per tuo tramite passa l’amore / di quel Figlio che hai partorito,
l’inviato al mondo dal Padre, nuovo patto con l’umanità.

47 Nuova madre di tutti i viventi, / sono tanti i dolori del mondo…
Tu per noi hai compiuto l’innesto: / Dio è dentro, patisce con noi.

48 Ci hai donato Gesù, il necessario, / ora Cristo è tutto per noi;
/ egli è il nostro eterno destino, / questo mondo ha bisogno di Lui.

49 Nel Magnificat tuo, Maria, / tu ci canti che s’ è ricordato
/ del suo patto misericordioso / dei prodigi che ha fatto in te.

50 Anche noi lo gridiamo con forza:  / il Signore è aiuto e salvezza
/ mai di Lui  avremo timore. / Grazie, Madre, Egli è tutto per noi.

51 Tu, la umile serva di Dio, / prendi in mano la mia situazione…
/ Tu conosci il “nodo”… che opprime / la mia vita, la pena che ho.

52 Tu che mai abbandoni un tuo figlio / che ti chiama, t’invoca, ti vuole,

/ vieni a sciogliere il “nodo” che assilla

/ la mia vita, Ti prego, pietà.

53 Dolce madre del pronto soccorso / tu accogli, guarisci, conforti

/ chi è nel pianto, nel lutto, chi soffre, / vie d’uscita non trova,  non ha.

54 Nelle carceri c’è la tristezza, / il rimorso dei passi sbagliati,

/ l’amarezza di giorno e di notte. / Sono i “soli”, aspettano te.

55 Sei il sole che accende il mattino / e la luna che splende di notte.

/nell’attesa del giorno beato / che tramonto mai più rivedrà.

56 Tu sei fonte che spegni la sete, / tu sei guida, la stella polare;

/nelle prove non lasci mai soli / e conduci per mano a Gesù.

57 Ti chiediamo l’aiuto, Maria, / di aiutarci a vivere il Dono,

/ il regalo dell’ultima ora, / quella Cena in memoria di Lui.

58 Luminosi segnali Tu mandi / ad i cuori agitati, nel buio.

/ Dio non nega a nessuno una stella; tu sei quella che brilla di più.

59 Nella tua Assunzione, Maria, / mai la Chiesa vi ha letto un addio

/ma quel tuo rimanere per sempre, / radicale restare quaggiù.

60 Col tuo “eccomi” (Lc 1,26-35) / ora sei nostra;

/ nel tuo grembo s’è accesa la Vita, / quella umana del Verbo incarnato

/ e noi figli nel figlio Gesù.

60 Come parte del Tutto infinito, / scorre in noi quel pulsare vitale,

/ fecondissima grazia divina, / giunta a noi attraverso di te.

61 Peccatori, pentiti e credenti, / dal di dentro, nel cuore avvertiamo

/le profonde radici del male, / pozzo oscuro di fragilità.

62 Ma lo Spirito Santo di Dio / che in noi vive, in noi prega e ci parla,

/ ci addita Maria come esempio / del “sia fatta la Tua volontà”.

63 O Signore, sei tu il mio Dio, / mi hai amato per primo e mi ami,

/ Tu mi cerchi, desideri, vuoi. / La mia anima ha sete di Te.

64 Porta Santa è la Madre di Dio / che ha introdotto il suo Figlio nel mondo.

/ Ci ha portato il grande Fratello

/ che per sempre con noi resterà (Mt 28,20).

65 Non sei porta soltanto del cielo

/ ma il portale di tutte le chiese;

/ tu introduci al cammino di fede

/ e conduci a Cristo Gesù.

66 La salvezza dell’uomo è una donna, / “benedetta fra tutte le donne“;

/ è beata “poiché ha creduto” / a parole inaudite quaggiù.

67 Sbalordita all’annuncio celeste, / s’inginocchia davanti al Mistero.

/ Poi lo accoglie, a lui si consegna / e il prodigio si opera in lei.

68 “Benedetto il frutto del grembo”, / il mistero di un grembo di donna,

/ una donna di nome Maria, / “una vegine concepirà” (Is  7,14).

69 Ha offerto il suo utero a Dio / e Lui fonda il suo Regno nel mondo:

/ la Salvezza a portata di mano. / E Bambino sarà il “factum est” (Gv 1,14).

70 E quel Figlio che “nasce da donna! / nella notte più notte del mondo,

/ è “il Verbo che s’è fatto carne” / e lei, Madre del “Dio-con-noi”.

71 Tu comprendi i nostri pensieri, / quel continuo montarci la testa,

/ sognatori di gloria e potere / i meschini discorsi tra noi.

72 Quando il cielo è rosso di sera, / noi diciamo; “bel tempo si spera”,

/ ma per leggere “l’oltre” ci occorre / quel grand’occhio di fede che hai tu.

73 Dilatare il Regno di Dio  / è missione di noi battezzati.

/ Alla gioia subentra l’affanno:  / non osiamo giocarci per Lui.

74 Chiesa nuova, aperta ai lontani, / ce lo chiede il Papa ogni giorno.

/ C’è bisogno di “far comunione” / per sentire presente Gesù.

75 Nel paese c’è tanto bisogno / di Parola di Dio masticata / e d’affetto, di gesti fraterni / se il Signore cammina con noi.

76 Da espressioni verbali di fede / non si lascia incantare nessuno.

/ Ma chi spende la vita per gl’altri, / è credibile molto di più.

77 La pazienza ci chiede il Signore, / fino al giorno del suo ritorno.

/ Ma è urgente educare alla fede / per far Dio contento di noi.

78 Forse in pochi è viva l’attesa /  e desidera andare all’incontro.

/ Giubileo è lampada accesa, / adornarsi per quando verrà.

79 Porta Santa, perdono, indulgenze… / perché al mondo non manchi il Vangelo.

/ Me se il mondo mancasse al Vangelo,

/ Gesù morto invano sarà.

80 “Spalancate le porte a Cristo, / Egli sa cosa c’è dentro l’uomo”.

/ Spesso l’uomo non sa cos’ha dentro: / che Dio vive e abita in lui.

81 Provenienti da luoghi diversi, / gli abitanti di questo paese

/ hanno casa nativa in comune: / il Battesimo, proprio così.

RITORNELLO

Tu sei, per testamento, / la Madre della Chiesa.
Vieni a sciogliere i nodi / di tante nostre schiavitù. 2 volte

oppure

Entra nella mia casa, / Donna che tutto puoi. / Vieni a sciogliere i nodi, / o Madre dell’umanità.


LA CHIESA E’ IL CALCO DI MARIA

Lo Spirito Santo, dicevano gli  oracoli dei profeti, avrebbe fatto di Israele un popolo di testimoni (Is 43,10.12.21).

Con l’effusione pentecostale dello Spirito, inviato da Gesù risorto (At 2,32-33), tale vocazione diviene eredità di “tutta la casa d’Israele” che è ormai la Chiesa di Cristo.

Perciò coloro che facevano parte della chiesa di Gerusalemme (gli apostoli, le donne, Maria e i fratelli di Gesù), dopo che “tutti” furono ripieni dello Spirito (At 2,1.4a), diventarono idonei a rendere testimonianza al Signor Gesù, ognuno secondo il proprio grado.

Da quel giorno anche Maria fu illuminata appieno dallo Spirito su quanto fece e disse Gesù. Da allora, è ragionevole pensare che ella cominciasse a riversare sulla chiesa i tesori che aveva fin lì racchiuso nello scrinio delle sue meditazioni sapienziali. Così anche la Vergine diveniva testimone delle cose viste e udite.

Commenta X. Pikaza: “Ella rende testimonianza alla nascita di Gesù, al cammino della sua infanzia: Gesù non sarebbe stato accolto dalla Chiesa nell’integrità del suo essere uomo se fosse mancata la testimonianza viva di una madre che lo aveva generato e allevato.

All’interno della Chiesa, Maria è una parte di Gesù…V’è qualcosa che né gli apostoli né le donne né i fratelli avrebbero potuto testimoniare. Spetta a Maria consegnare questa parola unica e insostituibile al mistero della Chiesa. Perciò ella appare in At 1,14”.

Luca lascia intravedere una non debole analogia tra la discesa dello Spirito su Maria all’annunciazione e sulla chiesa a Pentecoste. Il parallelismo di entrambe le situazioni può essere scoperto mettendo a confronto i rispettivi testi:

Annunciazione

Pentecoste

Lo Spirito Santo, energia dell’altissimo (Lc 1,35)

viene sopra Maria (Lc 1,35)

“E Maria disse:

L’anima mia magnifica il Signore;…

grandi cose ha fatto in me il Potente…”

L’energia dello Spirito Santo, dall’alto (Lc 24,49)

scende sopra gli apostoli (At 1,8) tutti ne furono ripieni (At 2,4)

e cominciarono ad annunziare in altre lingue ( At 2,4.6.7.11)

le grandi opere di Dio,

come lo Spirito donava loro la capacità di esprimersi

I punti di contatto fra i due grandi eventi pare siano questi. Da una parte vi è Maria: adombrata dallo Spirito nell’intimo della propria persona (Lc 1,35), erompe quasi all’esterno, sulle montagne della Giudea, per annunziare le grandi cose compiute in lei dall’Onnipotente. Dall’altra vi è la Chiesa apostolica di Gerusalemme.

Corroborata dal vigore dello Spirito (Lc 24,49; At 1,8) mentre erano radunati all’interno della casa (At 2,2), lascia il suo ritiro per proclamare pubblicamente le grandi opere del Signore (At 2,4.6.7.11.12). L’illuminazione dello Spirito consente sia a Maria che alla chiesa di essere testimoni profetici di ciò che Dio ha fatto per il suo popolo.

All’annunciazione, l’angelo aveva rivelato alla Vergine che il nascituro dal suo grembo ad opera dello Spirito avrebbe regnato in eterno sulla casa di Giacobbe (Lc 1,31-33); la sua missione materna al riguardo del re-messia contraeva, quindi vincoli speciali verso il popolo di Dio del patto nuovo. E’ infatti, nel giorno in cui lo Spirito suscita la chiesa di Cristo come un’assemblea di “testimoni”, Maria siede tra i discepoli quale “madre di Gesù” (At 1,14; 2,1-4).

Luca, che tanto si era diffuso sulla vocazione di Maria nella genesi umana del Salvatore, non spende più di un versetto per lei, quando descrive l’intervento dello Spirito nella nascita della Chiesa. Eppure di quel frammento v’era il tutto. Guidata, infatti, dal medesimo Spirito, la nuova comunità dei credenti sarà sollecitata nel porre a confronto At 1,14 con il complesso narrativo del vangelo lucano. Il risultato sarà quello di riconoscere nella vicenda di Maria la filogenesi della Chiesa. La Chiesa è il calco di Maria.

DISTRATTI & SVAMPITI ACCORRETE, C’E’ POSTO – Angelo Nocent

OH! – RAVI’, BERGE’, DOVE SIETE ?

252 Monte RAVI' 252 Monte RAVI'

 

Un bambino per venire alla luce deve passare attraverso quella fase che si chiama “TRAVAGLIO”. Calzante l’analogia con il nostro tempo: non solo un tempo di crisi ma di travaglio, ossia della nascita del “NUOVO” che necessariamente passa attraverso il dolore e il cambiamento, a volte radicale. Papa Francesco ci ha ormai abituato a renderci conto che non siamo in un’epoca di cambiamenti, ma in un cambiamento d’epoca. Perciò, oggi non basta essere ripetitori del passato.Bisognerebbe avere il coraggio di nuovi inizi profetici. IL NATALE DI GESU‘ è opporunità da non perdere.

Un giorno a Nazareth squilli di tromba richiamano gli abitanti sulla piazza. Un soldato romano, maestoso nella sua corazza, dal suo cavallo, puro sangue arabo, domina la folla. Al cenno, il BANDITORE declama l’EDITTO dell’imperatore: “Nel nome di Cesare Ottaviano Augusto, ottimo massimo, Cirino preside di Siria, bandisce un CENSIMENTO GENERALE di tutte le genti soggette alla potestà di Roma. Secondo l’uso e il costume della regione, ognuno si faccia iscrivere nei registri della popolazione”. Il soldato ritira l’ordinanza, sprona il cavallo e si allontana in una nuvola di polverone. La gente, dapprima attonita e stordita, reagisce con insulti ed imprecazioni. Il guardiano della Sinagoga sente il bisogno di manifestare lo sdegno gettandosi in ginocchio. Poi si cosparge il capo con la polvere della strada e gridare: “Come peccore ci conta il padrone, come pecore da tosare”. Quando si accorge di Giuseppe, ne ha anche per lui: “Come non fremi, Rabbi Giuseppe, come non ribolle il sangue nelle tue vene; il tuo sangue che è sangue di David?”. E lui, pacatamente: “Perché mi chiami “Rabbi”? Con questo nome si chiamano i maestri della Legge. E io non lo sono”. Poi ammutolisce e rincasa per riferire del bando a Maria, ormai prossima a partorire. I loro sguardi s’incontrano. Lui vede negl’occhi di lei una luce. I lineamenti gentili, il profilo perfetto del viso, tradiscono la lontana discendenza dalla regale stirpe di David. Forse entrambi pensano la stessa cosa: Cesare, comandante di milioni di persone, assoluto padrone delle loro vite, anche lui non può far altro che OBBEDIRE al decreto dell’Eterno emanato per bocca del profeta Michea:”Tu Betlemme… non sei certo la meno impotante…da te uscirà un capo che guiderà il mio popolo, Israele” (5,1-5). Ma non c’è tempo da perdere. Raccimolate le cose indispensabili, caricato l’asino e messa in sicrezza la sposa sulla cavalcatura, Giuseppe si mette in viaggio. Lui che tiene labriglia e guida l’animale, si gira e sorride a Maria, ravvolta in un ampio mantello, per rassicurarla. I chilometri da percorrere sono almeno 150. E li farà tutti a piedi. Ma in quanti giorni non s’è mai saputo.

Il seguito è arcinoto, perciò veniamo a noi.

Entos Hymōn: IN NEZZO A VOI C’E’ UNO CHE VOI NON CONOSCETE.” (Gv 1,6-8 . 19-28) – Si tratta del Regno di Dio, una realtà discreta, modesta, granello di senape, pizzico di lievito nella farina, tesoro sepolto, perla confusa tra tante cianfrusaglie (cfr. Matteo 13,31-33.44-46), ma già in azione. Questa è la nosra fede.Ma IL RISCHIO che corriamo ogni anno è di trasformare il Vangelo dell’infanzia di Gesù a sola tradizione o a puro folklore, perché, se prevale il sentimento sul significato, il FATTO può trasformarsi in leggenda o in una bella favola che si affianca a quella di Babbo Natale.Passate le emozini, tutto viene riposto con gli addobbi e le luci e si torna quelli di prima, perdendo di vista i fondamentali: un popolo, una meta ed il senso del nostro cammino.

Il BANDITORE DI DIO, possente voce dell’ Altissimo, adesso è l’evangelista Giovanni. In età avanzata ricordava ancora che erano circa le quattro del pomeriggio” quando incontrò lo sguardo di Gesù e udì il suono di quella voce: ”Vieni e vedi”.(Gv1, 38-39). Con mano tremante ma mente ancora lucidissima, scrive alle chiese da lui fondate: Nessuno ha mai visto Dio: Il Figlio unico di Dio, quello che è sempre vicino al Padre, ce l’ha fatto conoscere (Gv 1, 1). Parole forti e confortevoli che giungono dopo secoli di invocazioni dei nostri padri: “Stillate rugiada, o cieli, dall’alto, E dalle nubi piova chi rende giustizia”. Avvero la scena “s’ illumina d’Immenso”:Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce. Ora essa ha illuminato il popolo che viveva nell’oscurità. Signore, tu hai dato loro una grande gioia, li hai fatti felici. Gioiscono davanti a te come quando si miete il grano o si divide un bottino di guerra. È nato un bambino per noi! Ci è stato dato un figlio! Gli è stato messo sulle spalle il segno del potere regale. Sarà chiamato: «Consigliere sapiente, Dio forte, Padre per sempre, Principe della pace». ”(Is 9,1-3.5-6).

E’ sbalorditivo! Regnante a Roma l’imperatore Cesare Augusto, l’Evangelista rincara la dose: DIO SI RIVELA NEL FIGLIO: Colui che è “LA PAROLA” è diventato un uomo e ha vissuto in mezzo a noi uomini. Noi abbiamo contemplato il suo splendore divino.”(Gv 1,14). Come a dire che:

- COLUI CHE E’ ETERNO, senza tempo, è entrato nel breve TEMPO dell’uomo;

- L”ONNIPOTENTE e INFINITO si è immesso nello spazio della DEBOLEZZA e
del LIMITE;

- VERBO, perché PAROLA DI DIO, in cui Dio nel Figlio DICE SE’ STESSO;

- NATALE di un Bambino avvolto in FASCE e deposto in una MANGIATOIA;

- SPLENDORE e grandezza da CONTEMPLARE in un POVERO SEGNO;

- CARNE, ossia UOMO che si può vedere, ascoltare, toccare…VERBUM CARO – DIO UOMO.

Mi asssale un brivido. E quando mi faccio la barba, lo specchio mi dice la verità: più che un CONTEMPLATIVO, sono un pietoso ABITUDINARIO. E mi martella un ritornello del repertorio natalizio: “E’ NATALE, E’ NATALE SE LO VUOI…A NATALE PUOI…A NATALE SI PUO’ FARE DI PIU…”. Per esempio, USCIRE DAL GRIGIORE. Già. Perché non bastano le luminarie, i doni o una tavola ben imbandita. E nemmeno il PRESEPE. Nè la suggestiva Messa della Notte, come da tradizione. Cose bellissime, legittime, perfino doverose…Ma attenzione!

GIUSEPPE UNGARETTI, il poeta dalle parole nude, il 26 dicembre 1916, da Napoli, in un momento di congedo dal fronte della prima guerra mondiale, lascindosi alle spalle i giorni drammatici vissuti a San Martino del Carso dove aveva assistito alla morte di molti commilitoni e alla distruzione di interi villaggi, tracciava un Natale che risuona particolarmente attuale: “Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade – Ho tanta stanchezza sulle spalle – Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata – Qui non si sente altro che il caldo buono – Sto con le quattro capriole di fumo del focolare”.

Oggi le quattro capriole di fumo del focolare sono solo nei ricordi di chi ha una certa età. Prima dell’avvento dell’energia elettrica, del gas, il focolare era il centro della vita domestica: nel camino c’era il paiolo con il quale si cuoceva il cibo per tutta la famiglia; il fuoco del focolare era la fonte di riscaldamento per tutta la casa; da esso si attingeva la brace e la cenere per gli scaldini dei letti e delle camere.

Oggi, nonostante il progresso, dietro i vetri di tante finstre, ci sono sì i caloriferi, ma spenti per contenere le spese e ci sono persone che preferiscono stare in disparte, prendere le distanze da tutto e da tutti. Come il poeta, non chiedono solo di essere lasciate in pace, ma addirittura di essere considerate come “una cosa posata in un angolo e dimenticata“. E’ una tragedia quella degli INVISIBILI che si consuma sia a livello locale che planetario, nel totale nascondimento, vissuta da anziani e malati come un’umiliazione che suscita pensieri cupi, inquietanti. E che “Gesù, il Re del Cielo, scenda dalle stelle e venga in una grotta al freddo e al gelo”, per l’umanità è uno schiaffo morale che più grande non si può.

Nei prossimi giorni la meta di Un popolo in cammino” quale ci consideriamo, è Betlemme per sostare alla GROTTA e mescolarci i tra i pastori convocati dagli Angeli. La mia simpatia è per il più famoso, conosciuto come “RAVI’, che significa l’ESTASIATO, il rapito, l‘ incantato. Nei presepi figura sempre in prima fila. Per la tradizione popolare si tratterebbe di un poveraccio, un sempliciotto, continuamente distratto, perchè sempre trova un motivo per DISTRARSI, AMMIRARE, ESTASIARSI, anche davanti alle più insignificanti realtà. E riesce a vedere il lato buono di ogni cosa, di ogni persona. Così dove passa non sa che scandire degli incredibili OH !.

Epperò, quando, un po’ affannato, lui arriva a visitare il Bambino appena nato, è con le MANI VUOTE. La sua presenza viene immediatamente notata ma non è gradita e subisce rimbrotti da parte di molti. Vale la pena sentire i commenti.

RAVI’ l’ INCANTATO alzava in alto le braccia dicendo:

–Mio Dio, com’è bello un uomo che era infelice e diventa felice.

–Mio Dio, com’è bello un uomo che era fannullone e che è preso dalla voglia di lavorare.

. Un tale: Tu Ravì, cominci a seccarmi.

– Se ti infastidisco, ti domano perdono.

. Un altro: Ho! Tu parli di lavoro e non hai mai fatto niente nella vita.

– Io ho guardato gli altri e li ho incoraggiati.

Ho detto loro che erano belli e che facevano delle belle cose.

. Ma non è che ti sia stancato molto…

. E non hai nemmeno portato un regalo!

Interviene LA SANTA VERGINE: “Non ascoltarli, INCANTATO. Tu sei stato posto sulla terra per meravigliarti. Hai compiuto la tua missione, RAPITO, e avrai una ricompensa. Il mondo sarà meraviglioso sinché ci saranno persone come te capaci di MERAVIGLIARSI…

Se non l’avete, cercate di procurarvi la statuina e collocatela magari vicino a un altro povero diavolo come “LE BERGE’ au chapeau”. Anche lui non ha portato nulla al neonato, tiene in mano il CAPPELLO e non ha altro da offrire se non la propria PRESENZA, la personale stupefatta adorazione.

TUTTI CON LE MANI COLME DI DONI. E loro due? Adoperano le mani per esprimere lo stupore. Senza questi tipi “distratti” nei quali identificarci, che Presepio sarebbe? Verrebbe a mancare un elemento ESSENZILE rimarcato dall’evangelista Giovanni: LA PAROLA” è diventata UN UOMO e ha vissuto in mezzo a noi uomini. Noi ABBIAMO CONTEMPLATO il suo splendore divino”. (Gv 1,14).

NB – Come Betlemme, anche la Parrocchia è CASA DEL PANE che sforna per la nostra fame di eternità. Poveri i SEGNI, mirabile lo scambio, grande il Mistero, beata la Vergine il cui grembo meritò di portare il Signore Gesù. Venite, adoremus! Angelo Nocent


 

FABELLO & GIUSSANI: due paternità a confronto – Angelo Nocent

FABELLO & GIUSSANI: due paternità a confronto – Angelo Nocent

La visione profetica: comunione dei doni.
Il punto di convergenza: l’ospitalità.


  • Non ostacolate l’azione dello Spirito Santo. Non disprezzate chi profetizza: esaminate ogni cosa e tenete ciò che è buono. (1Tess 5,19-20)

Fra Raimondo Fabello o.h. priore provinciale

Ripristinare la verità, nella carità, per un avvenimento di collaborazione tra Fatebenefratelli e Comunione e Liberazione, prima che un obbligo morale, dovrebbe essere una necessità, benefica per entrambe le parti.


Ad un certo momento storico, due che non si conoscono, un frate silenzioso e nascosto, Fra Raimondo Fabello ed un prete che fa tanto parlare di sè, Don Luigi Giussani, s’incontrano, si parlano, ragionano, s’intendono e decidono per una collaborazione.

Entrambi possiedono una paternità spirituale: Il frate è Priore Provinciale del Lombardo-Veneto, padre di una benemerita e plurisecolare famiglia religiosa, i Fatebenefratelli; il prete è padre di una realtà in movimento ed espansione che ha un nome atipico, Comunione e Liberazione, CL per comodità.

Ad un certo momento del loro percorso, entrambi si accorgono di avere bisogno l’uno dell’altro. In mezzo c’è una figura emergente nella Chiesa. E’ un giovane medico della mutua che, dopo tre anni di convento, il tempo di irrobustire la sua santità, muore da santo e finisce sugli altari: San Riccardo Pampuri.

Nell’Ospedale “Sant’Orsola” di Brescia, dove il santo aveva fatto il noviziato e la professione religiosa, tra il 1971 e il ’74, è mandato come priore proprio il nostro Fra Raimondo. Ha solo 29 anni e deve prendere in mano un prestigioso istituto e guidare la comunità religiosa.


Nel 1983 tornerà a Brescia a maturare nuove esperienze ma questa volta nell’altro Ospedale FBF, quello psichiatrico “Sacro Cuore di Gesù”. Vi resterà fino al 1986, quando verrà eletto Provinciale fino al 1988, carica che dovrà lasciare per insediarsi a Roma, eletto al Capitolo Generale IV Consigliere Generale dell’Ordine.

A fine mandato, tornerà ad assumere la carica di Provinciale tra il 1995 ed il 2001.

Le date sono importanti se si vuole scoprire, a posteriori, la logica di Dio con i suoi progetti, i suoi tempi, le sue vie.


Nell’Ottobre 1984, la Jaca Book pubblica un libro di quel prete che fa tanto parlare di sé, dal titolo suggestivo: “Alla ricerca del volto umano – Contributo ad una antropologia”.


Per uno che vive da sempre in mezzo a volti sofferenti, educato a vedere Dio in ogni volto – “l’avete fatto a me” – questa ricerca del “volto umano” lo mette sull’attenti.

Entrambi sono vigili e sensibili ad ogni segnale proveniente dalla terra ma hanno anche le antenne svettanti nei Cieli da dove captano indicazioni per l’esercizio della loro paternità spirituale.


A scrivere la prefazione del libro è chiamato nientemeno che il grande teologo Hans Urs Von Balthasar, il quale si fa garante della originale riflessione di Giussani. Egli così scrive: “Il padre e fondatore del grande movimento cristiano Comunione e Liberazione offre in quest’opera ai suoi figli e alle sue figlie ma anche a tutti i cattolici una testimonianza, straordinaria per profondità e chiarezza, della sua meditazione e della sua matura esperienza con il movimento”.


Far comprendere a chi non ha letto il libro e non lo ha a disposizione, non è impresa facile. Perciò proverò a riportare altri passaggi salienti del teologo. Essi, dopo vent’anni, mantengono l’originale freschezza ed aiutano a ri-pensare l’oggi.


Egli ritiene che la presa di posizione dell’autore si era resa necessaria, proprio perché la fondazione era cresciuta, le attività si erano diversificate e bisognava incrementare l’auto-coscienza negli aderenti. Nelle sue parole noi riusciamo ad intravedere una svolta determinante del movimento, chiamato a non isolarsi chiudendosi in se stesso: “Chi conosce un po’ il movimento, si meraviglierà forse dei toni decisi in apparente contrasto con il suo nome. “Comunione” non va intesa anzitutto come un legame sociale tra i membri o anche tra tutti i cristiani, ma – pienamente in linea con S. Agostino – come comunione del singolo con Cristo sempre presente, che è la sintesi di tutte le vie di Dio con la sua creazione e la sua chiesa”.


Si può non essere d’accordo su questo punto? Poteva fra Raimondo lasciarsi sfuggire questa formidabile sottolineatura, importabile anche nella sua famiglia religiosa?

Ma ascoltiamo Von Balthasar che ci introduce ulteriormente nella meditazione di Giussani: “Già l’analisi dell’antica alleanza introduce a questa riflessione centrale: Dio sceglie sempre un individuo ben preciso – Abramo, questo singolo popolo, questo profeta – per divenire, tramite lui, concreto per tutti. Le divinità dei popoli sono astrazioni, solo Jahvé è vivo, l’unico Dio e questa concretezza di Dio culmina nell’incarnazione del suo figlio Gesù Cristo, che in questo modo diventa anche il senso di tutto il mondo.


L’uomo è creato in vista di Cristo, quindi per l’ALTRO, nel quale solamente il suo io, la sua persona, la sua libertà trovano adempimento nella donazione, nell’obbedienza e nella disponibilità. Se manca questa trascendenza che sola garantisce la “Liberazione”, l’uomo resta chiuso in se stesso, annega nel moralismo e nel fariseismo”.


Si può non essere d’accordo su un punto così essenziale che riguarda tutta la Chiesa e, quindi, anche la vita religiosa ? Fra Raimondo ha assimilato questa lezione. E lo si comprende maggiormente ora che non è più. Ma non si è fermato qui; il Provinciale Fabello cerca di scoprire l’oltre.


Prima riflessione:”In Dio stesso “Persona” è sempre relazione all’Altro: il Padre è tale solo in quanto genera eternemente il Figlio. Anche Cristo, in quanto uomo, è persona divina unicamente nella sua relazione al Padre.
Seconda riflessione fondamentale: “L’uomo approda alla vera libertà solo quando la libertà divina, l’Amore di Dio infuso nella sua anima, lo Spirito Santo gli dona la comunione con l’assoluta libertà di Dio”.
Ne risulta il paradosso mai sufficiente meditato: “L’uomo è tanto più libero quanto più perfettamente obbedisce a Dio e alla sua volontà.
Raimondo, come tutti noi, ha studiato a scuola la tesi di Platone. Secondo il filosofo greco l’uomo diventa migliore nella misura in cui partecipa alla bontà assoluta. Qui avviene il ribaltone: “Il cristiano, invece, sa che questa bontà assoluta è il Dio libero e trino apparso a noi in Cristo e comprende così anche il paradosso secondo cui chi più partecipa alla libertà di Dio è nello stesso tempo il più obbediente e più libero”.


L’autore Giussani che non si avvale solo di un consolidato impianto teologico, ma anche dell’esperienza ricca e sapiente di grande educatore, ritiene che sottolineare questo principio metodologico non può fare che bene. A questo punto è interessante andare alla fonte e leggere le indicazioni di “metodo con cui il movimento cerca di ottenere il suo scopo”. Egli scrive: “Il principio metodologico che anima l’esperienza di Comunione e Liberazione è l’obbedienza, vale a dire quella dinamica umana che è stata storicamente alle origini dell’esperienza cristiana. “Seguitemi”, diceva Gesù a coloro che volevano essere suoi discepoli, ed essi hanno vissuto con lui, camminato con lui, mangiato con lui e ascoltato le sue parole nuove e sconvolgenti.
E’ questo un atteggiamento dinamico ed attivo, un’adesione totale, consapevole, ricercata e continuamente ripresa ad un progetto di salvezza per noi, che preesiste a noi stessi.


Il nostro naturalismo istintivo tende a vivere un’aggregazione di fedeli, una comunità, un movimento come un ambito ricco di spunti e di provocazioni che permettano alla nostra personalità di perseguire quegli scopi che via via una socialità può far balenare all più diverse ambizioni e desideri”.
Ed ecco il passaggio giustificativo del metodo: “Sottolineare invece questo principio metodologico ha il pregio di riportare una comunità di cristiani al suo valore ultimo che può essere solo quello di mettersi insieme per vivere la memoria di Cristo. Ogni volta che ci si discosta da questo valore ultimo, la “forma” di una aggregazione di cristiani, anche se fossero frati o suore, prevale, prevarica su ciò che dà forma e l’esperienza si svuota diventando appunto formale.


E’ la signoria di Dio che siamo chiamati a servire, perché uomini siamo chiamati a diventare. E’ a questa obbedienza che si cerca di maturare nella amicizia del nostro movimento”.


Giussani rinforza la sua tesi citando una lettera di Pietro da dove emerge che la rigenerazione avviene mediante la Parola (1, 22-24) :”22Ubbidendo alla verità, vi siete purificati e ora potete amarvi sinceramente come fratelli. Amatevi dunque davvero, intensamente: 23perché voi avete ricevuto la nuova vita non da un seme che muore, ma da quel seme immortale che è la parola di Dio, viva ed eterna.

24Così dice la Bibbia:Tutti sono come erba,
e tutta la loro gloria è come un fiore di campo.

Secca l’erba, appassisce il fiore; 25ma la parola del Signore dura in eterno.
E questa è la parola del Vangelo che vi è stato annunziato.”


La riflessione di Giussani si fa ancora più acuta, scava, sgretola le resistenze del cuore di pietra: “Questa obbedienza, che ha senso solo se è obbedienza alla verità, è il punto genetico di ogni conseguenza in ogni aggregazione di cristiani, Perché allora obbedire, o seguire, è come crescere, crescere per penetrazione osmotica della ricchezza che Dio ci ha fatto incontrare e che ci ha commossi, con cui ci ha chiamati, con cui ci ha meravigliati, con cui ci ha fatto rinascere la speranza, “Ripetimi, Signore, la parola con cui ci hai ridato la speranza”.


Poi citerà la lettera di Paolo agli Ebrei 5,8: “8pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì 9e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, 10essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchìsedek.”

1995- Fra Raimondo viene rieletto Provinciale. Sempre nello stesso anno, per la Rizzoli esce nuovamente “Alla riceca del volto umano”. Questa volta l’introduzione è di Don Giussani e porta la data del 22 febbraio. L’autore descrive la confusione che regna dietro la fragile maschera del nostro io. A provocarlo, in parte, è un influsso esterno alla persona, quello che il vangelo chiama “il mondo”, nemico del formarsi stabile, dignitoso e consistente di una personalità. Riporta un’affermazione di Giovanni Paolo I: “Il vero dramma della Chiesa che ama definirsi moderna è il tentativo di correggere lo stupore dell’evento di Cristo con delle regole”. Giussani, che possiede l’ottimismo cristiano, scrive: “Lo Spirito, che è l’energia con cui Dio opera nel mondo, non smette di suscitare in uomini e donne lo stesso identico stupore di Giovanni e Andrea di fronte all’avvenimento cristiano. In luoghi lontani, nelle più sperdute terre, rivive l’avvenimento cristiano – e anche nei luoghi soliti del lavoro e della famiglia, così spesso tragicamente “deserti” d’umanità. Ancora, come e forse più che nell’epoca del grande movimento benedettino, i cristiani comunicano al mondo una positività di esperienza, un impeto di carità che serve a tutto il popolo”. Poi la zampata conclusiva: “Ciò accade dove il cristianesimo non è ridotto a “discorso”, a “Parola” e al conseguente soggettivismo, ma esiste come esperienza di un avvenimento nel presente. Quel che non esiste come esperienza presenre non esiste: essere contemporanei a CRisto è l’unica condizione perché inizi realmente la conoscenza di Lui come consistenza di tutte le cose (Col 1,17).


Il Provinciale Fra Raimondo sente il bisogno di portare la sua grande famiglia ospedaliera, fatta di religiosi, professionisti laici e di donne e uomini dal volto sfigurato dalla sofferenza, alla scoperta o ri-scoperta dell’avvenimento cristiano. Le riforme istituzionali sono possibili solo se gli uomini sono colti da un grande stupore. Gli scoraggiati, gli avviliti, i depressi, non solo faticano ma rallentano la marcia dell’intera carrovana. Egli non ama tenere discorsi. Lascia ai suoi confratelli sacerdoti di fare buon uso del servizio della Parola. Lui si ritaglia lo spazio che gli appartiene: creare per tutti le condizioni affinché giunga a quanti più possibile di fare nel presente l’esperienza dell’Avvenimento cristiano.


Oggi, più che un tempo, il Priore Provinciale di un Ordine Religioso come quello dei Fatebenefratelli, da un certo punto di vista, assume una responsabilità che è superiore a quella del Priore Generale, chiamato a dare gli “orientamenti generali”. Il compito di concretizzarli è demandato al Priore Provinciale con il suo Consiglio, giacchè i contesti socio-politici sono diversi in ogni Stato dove i religiosi operano.


Egli, dunque, conosce la realtà che lo circonda e non si fa illusioni: non bastano le riunioni, le tavole rotonde, il viaggi, le pubblicazioni. Dalla tradizione ha sempre ha sentito dire che l’esempio trascina. Realisticamente crede nel miracolo del “contagio”. E lo provoca. Il tentativivo che pone in atto con Don Giussani è di immettere nel circuito surriscaldato, l’olio lubrificante: è l’energia nuove di donne e uomini “appassionati” di Cristo e del Vangelo ma anche validi professionisti. Entrambi credono che il portare una ventata di freschezza giovanile, di ardore missionario in contesti stagnanti, la partecipazione ai nuovi carismi che lo Spirito suscita nei Movimenti che si moltiplicano, possa rinverdire l’albero secolare che patisce per la siccità.

Oggi tanti si chiedono: era opportuno, necessario? Non so a quali altre alternative avrebbe potuto aggrapparsi. Egli, non avendo la stoffa del “fondatore”, non ha pensato di assumersi l’iniziativa di dare vita alla creazione di un movimento Juandiano laicale con il medesimo DNA dell’Ordine, come è, ad esempio, nei movimenti francescani. Stimola certamente i collaboratori laici a partecipare attivamente allo spirito dell’ istituzione, incoraggia le iniziative locali ma si rende anche conto dei limi e delle difficoltà reali di attuazione che s’ incontrano nell’applicare le sollecitazioni del Capitolo Generale sulla promozione dei laici. Chi non lo sa che nella nostra Penisola essi faticano a trovare il loro spazio anche nella Chiesa locale che, a sua volta denuncia la scarsa partecipazione e l’arretratezza culturale in campo biblico-teologico? Nulla s’improvvisa; tutto richiede tempi di maturazione.

Anche il Giussani è realista: “Andare a Cristo per avere la vita non è costruire ragionamenti, ma seguirlo attraverso ciò con cui egli ci chiama…

Cercare di fare da sé, tentare di convocare le proposte di Dio al tribunale dei propri criteri sarebbe la vanità più grossa: sarebbe il peccato di Lucifero, che pretese il significato della sua persona da sé…

  • La vita è una strada e occorre seguire un altro che guida…

  • Seguire non vuol dire copiare in modo meccanico. Esso è un fenomeno umano, proprio della persona, che quindi richiede l’impegno delle energie più caratterizzanti la personalità, cioè l’intelligenza e la volontà, e che perciò senza un profondo e libero impegno non troverà la sua realizzazione…

  • Seguire non è un atteggiamento passivo, quasi un agire in stato di suggestione senza sapere quel che si fa…

  • Seguendo con gli occhi spalancati, con attenzione viva, si capisce e si impara, ciè s’ingrandisce nello spirito…

  • Seguire non può essere un gesto automatico, un essere trasportati una volta per tuttw, in modo irreversibile, da una corrente, ma è una decisione personale che diventa un gesto continuo della propria libertà…

  • Seguire è insomma amare, poiché è proprio affermare un altro come se stessi…


Il cammino del Signore è semplice come quello di Giovanni e Andrea, di Simone e Filippo, che hanno cominciato ad andare dietro a Cristo: per curiosità e desiderio. Non c’è altra strada, al fondo, oltre questa curiosità desiderosa destata dal presentimento del vero.” Partivano da questi presupposti, i due, convinti che “l’avvenimento cristiano ha come inevitabile conseguenza l’inaugurarsi di un nuovo tipo di “moralità”, che avviene secondo la dinamica ben compresa da Romano Guardini: “Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito”.

Mi convinco sempre più: parole così efficaci che circolano in questi giorni di lutto, non possono venire che dal cielo. Le intendo come il “regalo di nozze” che ci fa il nuovo intercessore Fra Raimondo. Sono quelle espressioni che ogni religioso vorrebbe sentir proferire dal suo superiore, condivise in comunita, all’ordine del giorno in ogni Comunità Teraputica. E lui, che conserva la paternita conferitagli, adeguandosi ai tempi, ce le fa pervenire via internet. L’operatore è solo uno strumento: le capta, le digita, le fissa. Perché non vederci il miracolo dela tecnologia moderna a disposizione anche del cielo?

Non potendo moltiplicare le citazioni, mi limiterò a questa: “Ogni obbedienza ad una qualsiasi aggregazione , se non è un ripercorrere e percorrere quella strada per rintracciare ogni più piccolo segnale, se non è ricerca attiva della memoria di Cristo, è assurda e alienante; rende preda comunque di meschine soggezioni alle proprie e altrui piccolezze. Diceva S:Ambrogio: “Quanti padroni finiscono per avere coloro che rifiutano l’unico Signore!” E’ la scintilla di questa coscienza che il movimento di Comunione e Liberazione vuole accendere in coloro che si sentono mossi a parteciparvi“.


Il teologo Balthasar mette sull’avviso sia CL che le famiglie religiose che i movimenti ecclesiali: “
Se il movimento dovesse chiudersi in sé, contento di se stesso e dei suoi successi, si allontanerebbe dal suo programma, perderebbe anche ogni drammaticità che risulta proprio dal continuo, nostalgico sforzo di andare oltre se stesso. Accontentarsi significherebbe essere arrivati, significherebbe riposo; ma questo riposo equivarrebbe alla morte“.


Anche questi sono petali di rosa che ci piovono addosso. E’ ancora lui, il perenne sconcontento, sempre desideroso di andare oltre se stesso e di portarci anche gli altri, confratelli e collaboratori. Ma questa si chiama “ascesi”. Non so se la sua serietà ascensionale è stata recepita e apprezzata. Comunque, se desta ammirazione il Raimondo frate, austero, autorevole ma dialettico, è perché lo si scopre camminare su questa line d’obbedienza. E’ la stessa sulla quale si va muovendo anche il prete di Desio. E’ su questo binario che matureranno i punti d’incontro e d’intesa tra i due. Il Fabello viene da un’esperienza consolidata. Ma il don Gius è alla ricerca del volto umano.
Il punto in comune è questo: “l’accoglienza e la condivisione sono l’unica modalità di un rapporto umanamente degno, perché solo in esse la persona è esattamente persona, vale a dire rapporto con l’infinito”;”
E’ per questo che nell’accoglienza di un povero e in quella della persona più amata ultimamente deve vivere la stessa gratuità“.


Balthasar ci aiuta a carpire il senso. Si tratta di quella “
mortificatio” paolina senza la quale non si dà vera “vivificatio” in Cristo. Poichè il Cristo è il fondamento della creazione (Ap. 9,14) e della redenzione (Col 1,19s) non può esserci per il cristiano una vera tensione tra spiritualità e lavoro culturale. Questo è autentico solo se svolto con lo sguardo rivolto alla Totalità di Cristo in cui converge (Ef 1,10) anche tutto quanto vien fatto sulla terra. Dal canto suo la spiritualità non è avulsa dal mondo, ma consiste nell’autentica sequela di Cristo fin dentro al mondo, fino alla morte in croce”.
Balthasar cita Francesco d’Assisi come miglior esempio di unità dei due aspetti .

Ma avrebbe potuto benissimo citare San Giovanni di Dio o il nostro giovane Pampuri, sul quale, ad un certo momento, si poseranno gli occhi di Giussani: “Proprio lui che ha ricevuto le stigmate può amare autenticamente la creazione di Dio. Nel lavoro culturale del cristiano diviene attuale la sua liberazione, raggiunta tramite la comunione con Dio: la sua obbedienza non è legata alla lettera, ma è mediata dalla sua libertà e quindi dalla sua responsabilità. Dio prende sul serio la libertà umana, in tutta la creazione essa è il dono supremo che può essere concesso alla creatura. Non si deve tuttavia pensare che Dio abbandoni l’uomo nel vuoto; lo accompagna invece costantemente con la sua presenza, di modo che l’uomo, anche quando è impegnato nel lavoro culturale, può e deve rivolgergli costantemente lo sguardo“.

Mi chiedo ancora una volta se si i può essere in disaccordo con questa riflessione così critica e che riguarda ognuno da vicino. Da queste considerazioni il ritratto di Fra Raimondo ne esce esaltato e pienamente riabilitate certe sue scelte da tanti non condivise. Che, se, nonostante tutto, alcuni componenti delle due famiglie parlano bene e razzolano male, i padri possono rammaricarsi, soffrire ma non sostituirsi ai figli. Epperò, se si preferisce leggere fatti ed avvenimenti solo in chiave utilitaristica, ossia nei termini di “perdite e profitti”, in tal caso, cade tutto il discorso.

L’illustre teologo conclude le sue osservazioni con un augurio che vale per tutti: “E’ mia convinzione che il padre di Comunione e Liberazione ha donato al movimento con queste sue cristalline dissertazioni un definitivo radicamento nella sapienza cristiana e quindi anche garanzia della sua autentica fecondità.


Possa egli essere ascoltato, compreso e seguito! Solo in questo caso il movimento, secondo la sua intenzione, potrà divenire un modello di cattolicità in tutto ed evitare quel settario chiudersi in se stessi che sta diventando esiziale per alcuni nuovi movimenti”.


A conclusione di queste riflessioni verrebbe spontanea una battuta: “
Chi può capire, capisca !”

Non so quanti hanno letto il libro di Don Giussani, edito da PIEMME – Religio, “Il miracolo dell’ospitalità – Conversaioni con le Famiglie dell’accoglienza“. La prima edizione è del 2003. Ma il Primo capitolo, “La ragione della carità”, riporta l’intervento di monsignor Luigi Giussani intitolato Fondamenti antropologici e metodologici della condivisione, in Accoglienza, volto del gratuito, Atti del Convegno organizzato dall’Associazione Famiglie per l’Accoglienza, Milano 8 Giugno 1985, EDIT Editoriale Italiana, Milano 1985, pp.1-9.


Questa lunga citazione è necessaria sempre per una comparazione di date che vengono a coincidere con un “movimento dello Spirito” in entrambe le direzioni. Così, dire “FABELLO & GIUSSANI due paternità – La visione profetica: comunione dei doni. – Punto di convergenza: l’ospitalità, non è un titolo azzardato perché ci sono buoni e fondanti motivi per ritenere che entrambi non si sono mossi di propria iniziativa.


Don Giussani arriva al “Miracolo dell’ospitalità” quasi condotto per mano dagli avvenimenti sui quali poi si posa la sua riflessione, ricavandone le parole da trasmettere al movimento perché le incarni. Sono circostanze contingenti in cui si vengono a trovare singoli membri che poi si aggregano, convinti che un’amicizia stabile “costituisce un luogo di confronto e di dilatazione della propria umanità che le istituzioni non possono dare”.

Egli si accorge dell’ evolversi del movimento dal quale, date le premesse, vede sorgere il carisma e moltiplicarsi quasi naturalmente, come una necessità vitale del cuore trasformato dall’ Evento Gesù. E’ un carisma in divenire che potrebbe benissimo integrarsi con quello dei Fatebenefratelli, i “fratelli ospedalieri” che da sempre privilegiano l’attenzione su alcuni settori della comunità umana: la malattia fisica e psichica. Potrebbe essere il connubio religiosi-laici auspicato dalla Chiesa, dove i primi vivono nella realtà temporale ma come segno escatologico, ed i secondi vivono nella carne a tutto tondo.


Il Fabello si è formato alla scuola di San Giovanni di Dio e all’ospitalità ha persino legato la sua vita con un voto solenne davanti alla Chiesa. Ma non si è fermato lì. Ha respirato l’aria che circola, ha recepito ciò che il prete va sussurrando all’orecchio di tanti giovani: “Il modo per fare crescere la fede è “rischiarla, confrontarla con ciò che accade”… con le circostanze tutte, piccole o grandi; perché la vita è questa trama di circostanze che, assediandoti, ti toccano e ti provocano… perché Cristo è la risposta… è la forma, è il significato del vivere”. I presupposti ci sono ed entrambi ci provano perché non temono il rischio ed hanno una comune visione della realtà che trovo ben sintetizzate sulla copertina del volume:

In una società dove spesso si invoca una diversa qualità della vita, raramente si evidenzia quell’elemento fondamentale che consente alla vita d’essere vissuta: l’ospitalità.

Essa è l’imitazione più grande che l’uomo possa vivere dell’amore stesso che costituisce la vita di Dio: una totalità di disponibilità di fronte ad una totalità di presenza.
Supremo esempio dell’accoglienza è Dio, che ha avuto una tale pietà per l’uomo da diventare uno fra noi e da morire per noi.

L’accoglienza è perciò la realizzazione in sommo grado della carità, vale a dire del riconoscimento di Cristo, di Dio che ci ha amati.

Accogliamo, infatti, perché siamo accolti; amiamo, perché siamo amati.


  • La parola
    ospitalità, di cui l’adozione è un concreto sinonimo, è significativamente espressiva di tutto il fenomeno dell’accoglienza: non esiste oggettivamente atto più grande.

  • Ospitare una persona è implicarla nei confini stessi della propria vita.
    A differenza di tutte le altre forme di caritò, l’ospitalità riguarda la persona intera, non un aspetto o un bisogno particolare di essa.

  • Nel gesto di accoglienza e di ospitalità rivive allora la persona e si rende sensibile l’amore di Cristo all’umano.

  • Dice san Paolo: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degl’angeli senza saperlo” (Ebrei 13,2).


Nell’omelia per il trigesimo della morte, P. Luca Beato OH lo ha paragonato al Battista: “
Fu capace di andare controcorrente. Come il Battista è stato spesso un precursore, anticipando le linee strategiche di ciò che altri avrebbero poi realizzato.” Trovo significativa la convergenza di vedute. Infatti, in altra parte, appunti non ancora in circolazione, a me è parso di vedere in lui alcune sembianze del profeta Elia. Il suo ruolo nell’Ordine, per chi lo ha conosciuto, già intuibile nel Fabello ragazzo, non sarà quello del fondatore. Egli è chiamato a “camminare innanzi con lo spirito di Elia, per ricondurre il cuore dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo [la Fraternità] ben disposto” (Lc 1,15-17)

E cosa dice testualmente il Vangelo? Questo: “molti si rallegreranno. 15Egli infatti sarà grande nei progetti di Dio. Egli non berrà mai vino né bevande inebrianti ma Dio lo colmerà di Spirito Santo fin dalla nascita. 16Questo tuo figlio riporterà molti Israeliti al Signore loro Dio: 17forte e potente come il profeta Elia, verrà prima del Signore, per riconciliare i padri con i figli, per ricondurre i ribelli a pensare come i giusti. Così egli preparerà al Signore un popolo ben disposto.” (Lc 1,15-17).


Cos’è questo “spirito e forza di Elia” ? Ce o spiega Sant’Ambrogio commentando il passo evangelico: “
Elia ebbe una grande virtù e grazia: la virtù di convertire gli animi dalla incredulità alla fede, la virtù di una vita mortificata e paziente e lo spirito della profezia”.

Raimondo non si sente profeta, né un dottore della legge o un maestro della Parola, non assume atteggiamenti da convertitore carismatico. E’ uno che sta semplicemente davanti a Jahvé: “Per la vita del Signore Dio d’Israele alla cui presenza io sto” (1 Re 17,1). Questo è il segreto della sua forza: “Oggi si sappia che tu sei Dio in Israele e che io sono tuo servo” (1 Re 18,36).

E’ stato un servitore fedele che conosce i pensieri del Re, che ascolta dalla viva voce i suoi comandi e li esegue prontamente. 

Come vive Fra Raimondo la ricerca del Dio solo, lo stare alla sua presenza, il regolarsi soltanto sulla parola del Signore? Come Elia:


· Egli non ha paura di nessuna autorità umana;
· Egli non ha paura del giudizio della gente
· Egli è pieno di zelo per il Signore
· Egli vive la solitudine spirituale, senza temerla

Sono atteggiamenti che andrebbero esplicitati ma già sufficientemente indicativi di una dimenticanza di se stesso, nella povertà di spirito, nella riverenza adorante.


Il 28 gennaio 1996, Fabello povinciale, Giussani al Direttivo Nazionale delle “FAMIGLIE PER L’ACCOGLIENZA” così esordisce: “
In questi tempi mi ha sorpreso il fatto che capisco , a settantatre anni, cose che ho sempre dette: a settantatre anni capisco che le capisco ora”.

Il 22 giugno 1991, in analoga circostanza aveva esordito così: “Quando si diventa vecchi, si diventa saggi e il pensiero di Dio diventa abituale, si capisce che sarebbe inutile fare qualsiasi cosa, se non ci fosse Iddio. Diciamo perciò una preghiera alla Madonna, la prima che ha accolto in sè il “grande diverso”, ha accolto in sé Dio”.


E’ il periodo in cui quel germe timidamente e confusamente sbocciato, quello delle Famiglie per l’accoglienza, di cui non era promotore diretto ma di cui atto nel 1985, va sviluppandosi fino a farsi quercia e dalla sua penna escono parole sull’ospitalità meritevoli di grande attenzione e memorizzazione. Il suo atteggiamento è sempre di grande stupore; non si vede all’altezza, si sente soltanto graziato: “
Ho visto una giovane mamma che imboccava il figlio spastico con un cucchiaio che si perdeva sulla faccia: è divino, è grande come Dio! Per questo io avevo vergogna a vinire da voi”.


Fra Raimondo, l’uomo di Dio per la sua Provincia, scruta gli orizzonti, annusa l’espandersi di un carisma che da San Giovanni di Dio è ormai nella Chiesa e per la Chiesa, proprietà di nessuno, pilotato solo dallo Spirito. Memorizza, fa sue parole che sono care a Don Giussani e rivelatrici del carisma a lui affidato:
· l’amicizia
· la dimora
· l’amore a Cristo
· la memoria
· l’offerta
· il senso del destino
· il compito della vita
· la moralità
· il sacrificio
· il carisma
· la verginità
· il popolo
· la compagnia
· la libertà…

Egli, perfettamente consapevole della situazione dell’Ordine in casa e nel mondo, (vedi 20 servo e profeta – o.donnell ) le condivide perché sono chiavi che possono aprire compatimenti a stagno, sbloccare situazioni arrugginite. Sono sentieri, itinerari, o, meglio, binari sui quali può transitare a velocità sostenuta il treno della sua ospitalità che rischia ritardi storici sulla tabella di marcia. Egli è solo davanti a Dio e con le mani legate ad una realtà mastodontica, una struttura plurisecolare, un apparato istituzionale che, per forza di cose, non può essere che strutturato, radicato, stabile. E’ realistico pensare che un ospedale, un centro, non possono avere le ruote, non sono realtà mobili; sono fisse, rigide per natura.


Ma i tempi mutano e le situazioni devono adeguarsi profeticamente al mutamento. Così egli, con lo spirito e il coraggio di Elia, “
Per la vita del Signore Dio d’Israele alla cui presenza io sto” (1 Re 17,1), forte dell’intuizione ispirata che quel movimento agile, dinamico, capace di penetrazione nel tessuto sociale, carismatico e additato dalla Chiesa, sempre più sensibile all’ABBRACCIO DEL DIVERSO, incoraggiato dal fondatore a volare sulle ali dell’ospitalità, prova, come abbiamo detto, a gettare un ponte tra l’Ordine e Comunione e Liberazione. Egli è convinto che, attraverso questo aggancio, il carisma si dinamizzerà, potrà uscire dall’istituzione, sconfinare, dilatarsi, penetrare nel tessuto sociale, coinvolgere il territorio, farsi Chiesa locale che accoglie “ ogni diversità”.


Ora che Fra Raimondo non c’è più, è doveroso tenere in vita la visione profetica e porre attenzione ai segnali che lo Spirito non mancherà di ripetere. Come non rendersi conto che,
se Benedetto XVI nella sua enciclica Deus Caritas Est pone all’attenzione della Chiesa universale San Giovanni di Dio, accanto a un San Francesco d’Assisi, è segno che è scoccata l’ora della rinascita. Abbiamo soltanto bisogno di imboccare coraggiosamente sentieri che lo Spirito non cessa di additare a coloro che si pongono nell’atteggiamento di Elia: “Per la vita del Signore Dio d’Israele alla cui presenza io sto(1 Re 17,1)


“Non ostacolate l’azione dello Spirito Santo.
Non disprezzate chi profetizza: esaminate ogni cosa e tenete ciò che è buono“. (1Tess 5,19-20)


Quando ho saputo da Fra Raimondo che avrebbe dovuto sottoporsi a trapianto di fegato, mi sono permesso di dirgli: “
Ma è proprio necessario? E se ricorressimo a San Riccardo Pampuri ? “


La risposta è stata: “
Sarebbe bello. Solo che fra Riccardo non fa miracoli ai frati “. Mi sembrava strano questo ragionamento perché i miracoli determinanti li ha fatti proprio a Gorizia, “Villa San Giusto” e alla “San Giuseppe” di Milano, grazie ai frati che lo avevano invocato.

Poi l’ho assicurato che, nel giro delle persone di mia conoscenza, compresi alcuni di CL, avrei sollecitato preghiere affinché alla fine si rivelasse inutile l’intervento. E lui di ciò era molto contento.

Poi un giorno, sempre tornando sull’argomento mi ha detto al telefono: “Io san Riccardo lo prego…Ma ho più fiducia in Don Giussani. Anzi: mi piacerebbe tanto che il suo primo miracolo lo facesse a me, a uno dei Fatebenefratelli, perché noi lo abbiamo trattato male. Abbiamo trattato male un santo…Capisci?”. Poi naturalmente non è entrato in particolari e non ha fatto nomi, com’era suo solito, per non colpire o anche soltanto sfiorare qualcuno.


In quale modo stiano esattamente le cose non lo so. Nè mi compete indagare. Ma testimoniare, questo sì; posso e devo farlo, in omaggio ad
un caro amico, compagno di cordata sulle pareti rocciose dell’ hospitalitas.

 

L’11 Giugno 2007 ho diffuso la mail che mi ha inviato:

 

 

Sono stato inserito in lista d’attesa. Ora resta ancora la possibilità di pregare il Signore (fiduciosi nella intercesione del nostro Medico) perché la mano del chirurgo vada sicura e il pezzo di ricambio sia di buona qualità.
Il Signore vede e provvede.


Saluti e se vuoi collaborare……………..


fra raimondo fabello o.h.


IRCCS “Centro San giovanni di Dio-Fatebenefratelli” – Brescia


Caro Fra Raimondo,

siamo memori delle parole dell’Apostolo :

Chi tra voi è nel dolore, preghi.Pregate gli uni per gli altri per essere guariti.
Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza. (Giacomo 5, 13.16)Unisciti a noi che ci uniamo ai tuoi confratelli per pregare CON SAN RICCARDO per la tua richiesta di fiducioso abbandono.

Noi preghiamo per lo staff chirurgico che ti prenderà in cura e per il povero donatore per il quale invochiamo che venga compensato con il Regno dei Cieli…Ma chiediamo, fiduciosi, che il tuo intervento, all’ultimo momento, sia cancellato perché non serve più e che il fegato a te destinato, passi al successivo in lista d’attesa.


Se osiamo chiedere il miracolo è perché non ci appoggiamo ai nostri meriti ma alla fede della Chiesa. Chiediamo che il tuo fegato si rigeneri per la Potenza che viene dall’Alto, cui nulla è impossibile.

Chiediamo che questo “segno” giovi ad aumentare la fede della comunità.Chiediamo che tu possa ritornare nella Comunità Ecclesiale con rinnovate energie a proclamare le Sue misericordie e a realizzare la tua vocazione di frate-sostegno per chi è nella sofferenza, dopo esserci passato in prima persona ed aver vissuto l’ansia delle interminabili e logoranti attese.

E tu, San Riccardo Pampuri, non dimenticare che stiamo parlando di un tuo confratello. Prega con noi per lui, tu che ormai conosci il “punto debole” di Dio.”

VIOLENZA IN TELEVISIONE – MARTINI

 

Pubblichiamo l’intervento del Cardinale Arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, all’incontro promosso il 26 marzo dalla Rai a Roma.

Questo il tema della “lezione” di Carlo Maria Martini: “Troppa violenza in televisione”

di Carlo Maria Martini

Esprimo un vivo ringraziamento al Presidente e alla dirigenza della Radiotelevisione Italiana e un cordiale saluto a tutti gli operatori e partecipanti al nostro incontro. Ricordo di essere venuto in questa sala decine di anni or sono, in qualità di consulente biblico, per collaborare con Roberto Rossellini che preparava una serie di filmati sul libro degli Atti degli Apostoli. Ora sono lieto di ritornare per rispondere al vostro invito e onorare un’iniziativa che ritengo molto interessante e degna di attenzione. Naturalmente non ho competenza sufficiente per trattare temi riguardanti i problemi della comunicazione sociale, che diventano sempre più complessi: mi mancano inoltre i parametri per valutare l’impatto del mercato e dell’audience sulla qualità della produzione televisiva. Cercherò quindi di offrire qualche riflessione propria di chi sta all’esterno e condivide con la gente certe preoccupazioni per la nostra società e per quella sorta di specchio opaco della società che sono appunto i mass media. Nella lettera di invito mi é stato chiesto di parlare sull’informazione e il ruolo del servizio pubblico, e cito un passaggio: “Mantenere ferma la natura di servizio pubblico che persegue e soddisfa esigenze e interessi di carattere generale e, nello stesso tempo, rispettare i vincoli di economicità, competitività e modernità, che garantiscono la sopravvivenza di un’impresa che agisce in un sistema di mercato, è una sfida che richiede, assieme ad adeguate strutture politiche e amministrative e ad elevati livelli e motivazioni professionali, anche una costante percezione e sintonia con le aspettative dei cittadini e della società“. Mi sono fermato a lungo su questa frase, colpito in particolare dalle parole “sfida“ e “aspettative dei cittadini e della società“. Penso che il mio ruolo consista nel chiarire quali possono essere alcune aspettative rispetto a tale servizio pubblico, soprattutto in questo momento sociale e culturale, e userò il linguaggio simbolico a me più consono del linguaggio tecnico dei media. Non intendo proporvi un’esegesi dei testi sacri e nemmeno intendo fare una lezione biblica; impiegherò semplicemente immagini e simboli che traggo dalla Sacra Scrittura e che fanno parte del tesoro della letteratura mondiale, del patrimonio comune dei popoli europei e dunque dei nostri valori più cari. Ho pensato a una serie di immagini che inizia con la parabola dei talenti e riprende poi altre icone da me evocate in precedenti occasioni a proposito dei media: i mercanti cacciati dal tempio, la tunica insanguinata di Giuseppe e il lembo del mantello.

I – La parabola dei talenti

1. La parabola evangelica è abbastanza nota: un servitore riceve cinque monete di grande valore e le fa fruttare in modo da ricavarne altre cinque. Riflettendo sulla corrispondenza dei cinque talenti che ne rendono cinque, né più né meno, ci viene suggerito che ciascuno dei talenti ha reso la sua parte, che nessuno di essi é stato impiegato male e che il servitore ha tenuto conto di un insieme, di una totalità da salvare e da far fruttare. Notiamo che la parabola dice lo stesso dei due talenti che fruttano il doppio, non però dell’unico talento; l’unico non entra nel ciclo fecondo che moltiplica i beni e possiamo intuire una certa diffidenza verso il talento lasciato a se stesso, alle sue dinamiche interne, e sottratto, per così dire, a un insieme. 2. Come applicare la parabola? Prendo il servitore dei cinque talenti a simbolo di una società, o meglio dell’insieme delle forze sociali, pubbliche, private e miste – o comunque le si definiscano – che devono servire al bene comune. Questa società dispone di talenti singoli e in essi leggiamo i nomi specifici dei beni di interesse pubblico, che il servitore è chiamato a utilizzare. Sono beni come la sanità, l’istruzione, l’ordine pubblico, l’ordine internazionale (cioè la promozione della pace e la rimozione della guerra) ecc. In ogni caso uno di questi talenti è indubbiamente quello della comunicazione pubblica che non può essere considerato soltanto come un bene in sé, con i suoi fini, le sue dinamiche, le sue leggi proprie. Fa parte di un insieme di talenti e va fatto fruttare in relazione e in armonia con tutti gli altri. Fuor di metafora, la comunicazione pubblica é parte di un insieme che comprende sanità, cultura, ordine pubblico, giustizia, pace e così via. Non serve considerare ogni talento per conto suo; ciò che importa è ottenere una somma di beni e di servizi che si aiutino reciprocamente per un risultato complessivo. 3. Leggo qui una prima richiesta e attesa fondamentale che sale dalla società verso il servizio pubblico nel campo dei mass media e della comunicazione sociale: che il servizio pubblico si ponga come elemento che assicuri garanzia ed esemplarità al processo di sviluppo globale della società, vivendo le proprie dinamiche (mass mediali e anche economiche) non in isolamento, non facendo riferimento soltanto al proprio ambito, bensì nell’insieme di cui è parte. Questo vuol dire che c’è una responsabilità condivisa e un’interazione tra sanità, cultura, istruzione, ordine pubblico, pubblica moralità, grado di educazione di una società, promozione della pace e dell’intesa tra i popoli e la comunicazione sociale. Essa è parte di un insieme di tale importanza da avere la priorità su tutte le pur legittime esigenze e i condizionamenti particolari del mercato e dell’audience. Si ha spesso timore che la concezione dei cinque talenti presi globalmente conduca a vincoli o a censure che limitino la libertà dei media o li rendano fragili nella competitività del mercato. Ciò può essere vero se libertà e mercato vengono visti come sganciati da tutti gli altri valori sociali, civili e morali che fanno una società giusta. Non è però così se si considera che libertà ed efficienza economica sono funzioni non di una realtà isolata – dei media e basta -, ma di un corpo sociale complessivo a cui va assicurato quell’insieme di valori e di beni che fanno di una società una realtà libera, efficiente, vivibile, educata, colta, amante della pace e del dialogo. L’uso spericolato e slegato di un talento, senza tener conto degli altri, può produrre vantaggi immediati e tuttavia alla fine danneggia l’insieme e logora la libertà e il profitto che sembrava volesse perseguire. Un talento che va per conto suo è dunque sprecato. In una società democratica, il modo migliore per convincere ciascuno a usare bene dei propri talenti non sta nella repressione o nella censura, bensì nello stabilire esempi e modelli che mostrino cosa vuol dire promuovere l’interesse di tutti e rispondere ai bisogni di libertà, sincerità, buon vicinato e serietà che ciascuno ha a cuore. 4. Mi pare si collochi in tale contesto la prima responsabilità di un servizio pubblico nel campo dei media, responsabilità che risponde a una grande attesa sociale. Si tratta di una responsabilità talmente grande, talmente importante, che definisce anche alcune prerogative del servizio pubblico e – diciamo così – alcune libertà specifiche che pure sono parte dell’attesa della gente: la libertà dalla schiavitù dell’audience e dalla dipendenza dal solo criterio del maggior guadagno. Queste libertà devono, di per sé, essere in qualche misura proprie di tutto il mondo dei media, e una società dovrebbe poterle esigere, quindi promuovere presso tutti coloro che entrano in questo campo. Una società può però affidare in maniera specifica a un servizio pubblico di essere garante di tali beni e di tale globalità, e di mostrare come una realtà mass mediale è capace di promuovere non soltanto se stessa, ma l’insieme di beni e di valori che sono essenziali per la convivenza civile. Se a tutta la comunicazione pubblica si chiedono livelli adeguati di qualità, intelligenza, eleganza, questi livelli sono tanto più attesi da un servizio pubblico che é anche chiamato a fare da contrappeso a tendenze degradanti. Non c’è infatti solo la banalità del mele; c’è pure il male della banalità che è un venire meno alle aspettative proprie di ogni cultura tesa a un di più di umanità, di civiltà, di bellezza, di correttezza, di eleganza.

II – L’icona dei venditori cacciati dal tempio

Da quanto ho espresso seguono delle conseguenze, che mi limito a richiamare per quanto riguarda alcuni problemi seri della comunicazione pubblica di carattere ‘negativo’. Penso, in particolare, al modo con cui i media trattano o possono trattare della violenza, della criminalità, della guerra, delle contese tra etnie e nazioni. 1. Passo allora alla seconda immagine che ho evocato soprattutto lo scorso anno parlando ad un’assemblea di giornalisti riuniti a Graz, in Austria: è l’icona dei venditori cacciati dal tempio. A Graz, infatti, gli operatori della comunicazione, provenienti da ogni parte del mondo, si interrogavano seriamente sul rapporto tra media e violenza. Alcuni di loro erano testimoni oculari di eventi drammatici accaduti in Rwanda, altri erano stati anche vittime. Molti avevano negli occhi e nel cuore episodi che comprovavano le ricerche dei sociologi sul crescere della violenza in tutti i campi: familiare, urbano, civile, politico, religioso. Del resto tali episodi sono sotto gli occhi di tutti, dalle violenze sulle donne e sui minori fino agli attentati orrendi di Israele. Ora non possiamo ignorare che il modo della comunicazione pubblica non è estraneo a tutto questo, anche se non è la prima causa dei fenomeni di violenza e se vi è diversità tra immagini di violenza ed episodi della stessa. E’ chiaro comunque che vi é modo e modo di parlare della violenza e si può descriverla – come fa la Bibbia – senza incitare ad essa. Nell’analizzare il rapporto perverso che può instaurarsi tra violenza e mass media, mi è venuta alla mente l’icona biblica dei mercanti cacciati da Gesù dal tempio, per indicare come i comunicatori, che si fanno moltiplicatori di violenza, meritino il grido drammatico di Gesù: fuori dal tempio! Quello della comunicazione è un tempio in cui devono venire promossi rapporti autentici: chi ci sta é invitato a contribuire per rinsaldare tali rapporti, non a romperli o a renderli impossibili. 2. Vedo, in proposito, una grande responsabilità del servizio pubblico verso quel fermentare di modi e di rapporti violenti che sta avvelenando anche le relazioni sociali del nostro paese. Rispetto ad altre società, quella italiana è sempre stata una collettività caratterizzata da relazioni umane pacifiche. Le eccezioni, pur gravi, a questa regola, rimangono eccezioni e talora sono dovute persino a un eccesso di paciosità e di acquiescenza che si lascia strumentalizzare o manipolare. In ogni caso la bontà dei rapporti è una caratteristica che viene messa a rischio quando le relazioni correnti vengono rappresentate, nei media, come contrassegnate in prevalenza da conflittualità e violenze. Anche dal punto di vista della corretta informazione si crea uno squilibrio tra il costume quotidiano e la sua rappresentazione pubblica. Voi sapete com’é grande la preoccupazione delle famiglie che vedono apparire con sorpresa nei loro figli parole, gesti ed atteggiamenti non riscontrabili nell’ambiente in cui vivono, ma solo nei media e nei gruppi che li imitano. E’ dunque importante l’esistenza di un servizio che, volendo davvero essere specchio del paese, lo sia pure nella sua qualità di un paese amante della pace, della buona educazione, della correttezza sociale.

III – L’icona della tunica insanguinata di Giuseppe

Quanto detto sulla violenza può dirsi per altri fenomeni negativi o devianti: la pornografia, la droga, la furberia, l’ipocrisia, la menzogna e ogni altra forma di esaltazione di costumi e abitudini che non rispondono alla realtà civile e morale della collettività. Una menzione particolare meritano le notizie cosiddette drogate. Parlando qualche tempo fa a giornalisti, ho richiamato, dal libro della Genesi, la storia della tunica di Giuseppe figlio del patriarca Giacobbe; tunica imbrattata di sangue di animali dai fratelli, per far credere al padre che il figlio fosse stato divorato da una bestia selvaggia. In realtà, erano stati i figli di Giacobbe a tradire e vendere il fratello Giuseppe. Togliendogli però la veste e rendendola insanguinata al padre costruiscono, con spezzoni veri, una notizia falsa e, per di più, atta e suscitare ira, sdegno, commozione intensa e, alla fine, e dirottare le indagini che il padre avrebbe potuto fare sulla sorte del figlio. Mi pare si possa parlare, al riguardo, di “notizie drogate“, di notizie imbastite di particolari singoli veri ma combinati o titolati in modo da suscitare scandalo, vendetta, furore, ben al di là dei limiti dell’oggettività della notizia e, anzi, capaci di depistare ogni ricerca della verità. So perfettamente che è difficile definire in astratto che cosa significhi l’oggettività di una notizia. Tuttavia è chiaro che esistono almeno delle graduatorie, delle approssimazioni all’oggettività che definiscono una informazione come il più possibile corretta e onesta. Mentre l’audience, intesa in senso generale, può gradire una notizia drogata perché sensazionale, il pubblico, inteso in senso qualificato e cioè come colui che esige un servizio a favore dell’interesse di tutti, ricerca una notizia oggettiva, corretta, onesta. Non sempre l’audience numerica equivale al pubblico reale, a quello che chiede il servizio e lo giudica; ed è a quest’ultimo che deve rispondere chi compie una funzione sociale di interesse comune. C’è quindi motivo di preoccupazione e di allarme per quanto avviene nel mondo della comunicazione di massa sia rispetto al valore educativo che al valore informativo. Spesso viene usata in proposito la categoria dell’ambiguità, ossia di uno strumento neutro che può essere impiegato bene o male. Vi ha fatto riferimento anche Giovanni Paolo II in un recente discorso del 16 gennaio. Parlando del prossimo Giubileo del 2000, il Papa lo designava come il primo “dell’era telematica“, notando che la Chiesa non può non cogliere tale novità. Ma ricordava che “attraverso essi (i mass media) hanno modo di entrare nelle case messaggi e proposte di vita talvolta lontani dal Vangelo, sconvolgendo tradizioni e consuetudini secolari“, affermando tuttavia che “è possibile usare degli stessi mezzi per alimentare l’intesa e la solidarietà tra gli individui e i popoli“. Le parole del Papa mi spingono ora, dopo aver richiamato alcuni problemi e pericoli, a sottolineare in positivo le grandi possibilità e le occasioni favorevoli che può avere un servizio pubblico di fronte all’intera società.

IV – Il lembo del mantello

Riprendo l’immagine del lembo del mantello, che esprime la pars costruens del rapporto società-media e del rapporto Chiesa-media perché dice tutte le speranze che la Chiesa, pur convinta di una certa marginalità dei media rispetto al grande tema dell’evangelizzazione, nutre nel ruolo di questi strumenti per la comunicazione interpersonale, per la stessa comunicazione evangelica e, più in generale, per la pace nel mondo, per la solidarietà e l’intesa tra individui e popoli. Sintetizzo così la scommessa: come la donna del vangelo, che fa parte di una folla nascosta e anonima che circonda e preme Gesù da ogni parte, viene risanata, esce dall’anonimato, assume un volto, una dignità e il pieno possesso del suo corpo, grazie al contatto con il lembo del mantello di Gesù, non potrà anche un uso retto dei media aiutare tanti a passare da massa a persone, da moltitudine a popoli, dando coscienza, dignità, cultura, slancio, capacità comunicativa? Se non é il caso di dare ai media un posto centrale nel grande processo di rifare umana l’umanità, non potranno essere almeno una frangia, un lembo del mantello, cioè del potere comunicativo e risanatore che è attribuito, nella grazia del vangelo, al linguaggio umano e alla comunicazione tra gli uomini? E’ questa la grande scommessa dei media su cui punta la Chiesa e su cui deve puntare ogni società che vuole un servizio pubblico propositivo: fare sì che gli strumenti detti di massa diventino fattori personalizzanti nella vita sociale e civile. E’ la scommessa espressa nell’immagine del lembo del mantello; è la fiducia nella possibilità di vincerla che ha permesso all’insegnamento della Chiesa cattolica, negli ultimi decenni, di trattare dei media collegandoli addirittura col mistero comunicativo della Chiesa, con la stessa comunicazione divina ed evocando persino il mistero della Trinità. La Chiesa cattolica avverte, nel suo sensorio profondo, che deve pur esserci, nell’emergenza dei mass media nel nostro secolo, una grande intenzione divina salvifica, un qualche bene per la comunità umana, anche se spetta a noi scoprire e mettere in atto potenzialità che il Creatore ha posto nelle sue creature. Proprio in questo senso il Papa, nel discorso citato, ha sottolineato che i mass media sono “strumenti di enorme diffusione che possono senz’altro facilitare le relazioni tra gli uomini rendendo il mondo un villaggio globale“. Simili sottolineature positive erano risuonate nel Convegno della Chiesa italiana tenutosi a Palermo nel novembre 1995. Il messaggio finale, ad esempio, affermava: “Poiché la comunicazione, e in specie quella di massa, è forgiatrice di cultura, ci faremo interpreti con la parola e con la pluralità di iniziative, del desiderio di una comunicazione vera, capace di far crescere le persone“. Vorrei insistere sull’espressione “comunicazione forgiatrice di cultura“. In essa è menzionato un aspetto fondamentale del servizio pubblico, che è corresponsabile del progresso culturale di un’intera nazione. Vi sono state in questi anni, nel campo scientifico, letterario e filosofico iniziative importanti, che vale la pena continuare e non penalizzare relegandole ad ore impossibili. E’ un dono fatto a tutti. Anche in mancanza di un’audience immediata molto consistente, ce ne sarà una più ampia di tipo mediato per l’accresciuto livello di coscienza civile che suscitano tali programmi culturali.

V – L’esperienza di un Vescovo e le sue attese

Ho esposto alcuni aspetti positivi, incoraggianti, nel desiderio di dare conforto e stimolo al vostro lavoro spesso difficile e di aiutarvi ad affrontare la sfida. Per quanto riguarda questi aspetti, la mia esperienza di Vescovo mi rende consono con simili attese fiduciose. Ho potuto infatti sperimentare, nel mio contatto con i mass media, in particolare con la radio e la televisione, che esistono vie possibili di comprensione e anche di collaborazione. Ci sono tanti giornalisti e operatori attenti, coscienziosi e intelligenti; esiste una buona volontà di operatori e comunicatori di servire il pubblico con sincerità e di dare notizie oggettivo e non drogate. Rimane tuttavia vero che navigare sulle onde dell’opinione pubblica servendosi delle barche o delle navicelle dei mass media comporta rischi di strumentalizzazioni, semplificazioni e travisamenti, e ha bisogno di conseguenza di attenzioni e correzioni continue. Vi è sempre, a ogni ora del giorno a della notte, a ogni battito di comunicato di agenzia, la possibilità di essere ingoiati dalle acque, di essere spruzzati in maniera indebita, di essere agitati da onde che fanno il gioco di altre onde e venti nascosti. Tuttavia, rifiutarsi di entrare nel mare della comunicazione pubblica equivale alla scelta che Gesù avrebbe potuto fare non scendendo a Cafarnao ma rimanendo nella tranquilla Nazaret. Avrebbe certamente avuto più pace, più silenzio, meno guai; però molto meno capacità di entrare in contatto con le gente. Occorre quindi scendere e anche un poco rischiare. Nessuna grande istituzione pubblica (la Chiesa non fa eccezione) può oggi sfuggire al rapporto quotidiano con i mass media, e Giovanni Paolo II lo ha capito perfettamente. La domanda però più pungente che il Vescovo si pone di fronte all’ambiguità dei media riguarda in maniera particolare il loro modo di trattare le notizie religiose e specialmente quelle del mondo ecclesiastico, della Chiesa. Non é più lo stesso problema! Il parlare della Chiesa come società richiede correttezza di informazione, capacità di valutazione globale della complessa vita di una grande realtà mondiale. E il parlare di temi religiosi, riferiti alla Chiesa cattolica o a qualunque altra realtà, richiede il senso del mistero, dell’oltre, del trascendente, del totalmente altro. Per questo i media, soprattutto la televisione, possono essere specchi riduttivi o addirittura deformanti del fatto religioso; essi tendono, infatti, a ridurre a moduli o a schemi di facile lettura verità di ordine trascendente. Ci si domanda, da parte di tanti, quale sia l’attitudine, ad esempio, di un programma televisivo a recepire ed esprimere quel mistero che è affidato ella comunicazione interpersonale nella parola e nel gesto sacro. Contro tali riserve – legittime e che mettono in trepidazione quanti trattano temi di religione e di Chiesa – sta il significato positivo pubblico di tante parole e gesti del Papa trasmessi per televisione; sta il successo di programmi seri non basati solo sull’effimero; sta il desiderio di molti di ascoltare parole dense di senso. Credo si possa chiedere a un servizio pubblico nel campo della comunicazione, non soltanto di essere attento e sensibile a valori millenari che sono alla base della nostra società e al modo di esprimerli con competenza e rispetto, ma pure di rendersi un po’ empatico con quei supplementi d’anima che fanno sì – come diceva B. Pascal – che l’uomo superi infinitamente l’uomo stesso. La mia esperienza attesta che non mancano registi, produttori, giornalisti capaci di empatia profonda.

Conclusione: il tesoro delle Scritture ebraiche e cristiane

In conclusione, al di là dei simboli e delle immagini richiamate e con cui ho cercato di dare voce ad alcune attese riguardanti il ruolo del servizio pubblico nel campo dei mass media, voglio dire una cosa importante. Il fatto che le Chiese cristiane e in genere tutto il mondo occidentale posseggano il tesoro delle Scritture ebraiche e cristiane, offre – ne sono convinto – una possibilità particolare di promuovere la buona Comunicazione anche mediante i media. Lo dico per una persuasione interiore profonda e perché l’esperienza mia e altrui lo conferma. La Bibbia parla molto alla gente di oggi e il suo linguaggio, i suoi metodi narrativi, il suo uso frequente di simboli sono qualcosa di assai vicino a ciò di cui ha più bisogno il linguaggio dei mass media per essere incisivo. La Bibbia é una miniera inesauribile anche per un’etica corretta dell’informazione e per una dinamica dei processi informativi. I processi medianici di oggi non sono di natura del tutto diversa da quei processi informativi che sottostanno al mondo della Scrittura e che hanno prodotto un universo comunicativo che ha riempito di sé l’universo. Sotto la Bibbia sta lo Spirito del Signore ed esso, come leggiamo nel libro della Sapienza, “riempie l’universo e, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce“ (1,7). Ben prima che le diverse onde dei processi mediatici abbracciassero il globo, il globo era già tutto pervaso dalle onde di quello Spirito che promuove comunicazione, vita, giustizia e pace. Dio infatti, dice ancora il libro della Sapienza, “ha creata tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è immortale“ (1,14-15). E’ questa la fiducia che desidero infondere in tutti i comunicatori affinché affrontino coraggiosamente le sfide da cui sono nati questi incontri tra la dirigenza e i giornalisti della Rai e i rappresentanti di diverse realtà del nostro paese.

(Documento inserito il 21 aprile 2005)

SAN GIOVANNI DI DIO: FOLLIA O CONVERSIONE? – Angelo Nocent

SAN GIOVANNI DI DIO:  IL PUNTO DI PARTENZA? – PARTIRE DAL CUORE DELL’UOMO

di Angelo Nocent

 

Fra le tante disavventure in cui è incorso San Giovanni di Dio, c’è anche quella di essere stato diagnosticato affetto da sindrome schizofrenica, per via di una caduta da cavallo durante la vita militare. Picchiando la testa, sarebbe rimasto tramortito per alcune ore.

 

LA CADUTA DA CAVALLO

 

Quando si parla di San Giovanni di Dio, il punto di riferimento è ed è sempre stato Francesco de Castro, suo primo biografo, considerato come la fonte più autentica. Lui stesso esordisce dicendosi chiamato a “risuscitare la verità che col passare del tempo è stata sepolta e messa in oblio…essendo mancato chi mettesse in scritto le cose essenziali della sua vita, ed essendo egli stato un uomo silenzioso, che poche volte parlava di cose che non riguardassero la carità e il soccorso dei poveri, non abbiamo notizia di molte cose che appartengono a questa storia, di molte cose, cioè, notevoli che gli accaddero dopo la vocazione avuta da Dio… Pertanto, ciò che si riporterà qui è ciò che si è potuto sapere con molta certezza e verità”.

 

Del Castro il Padre Gabriele Russotto si sente di scrivere: “Storico e narratore onesto, come e più di tanti storici e narratori moderni, il Castro merita la più assoluta credibilità”.

 

La premessa mi serve per introdurmi più serenamente nel Cap. VII che narra DELLA CONVERSIONE DI GIOVANNI DI DIO AL SIGNORE, argomento cruciale e delicato.


Questo il fatto narrato da primo da Castro: “Giunto ad età conveniente, costui lo mandò in campagna insieme agli altri suoi servitori che guardavano il gregge. Ivi attendeva a prendere e portare l’approvvigionamento necessario con ogni diligenza, perché, essendogli venuti a mancare i genitori in così tenera età, procurò di compiacere e servire questo brav’uomo nella menzionata e come pastore tutto il tempo che stette in casa sua. Per questo i suoi padroni gli volevano molto bene, ed era amato da tutti.

 

Essendo ormai giovane di 22 anni, gli venne la volontà di andare in guerra, e si arruolò in una compagnia di fanteria d’un capitano di nome Giovanni Ferruz, che allora il conte di Oropesa inviava al servizio dell’Imperatore per soccorrere Fuenterrabía, che era stata occupata dal re di Francia.

Mosso Giovanni dal desiderio di vedere il mondo e godere di quella libertà che comunemente sogliono prendersi coloro che vanno in guerra correndo a briglia sciolta per il cammino largo (benché faticoso) dei vizi, incontrò in essa molti travagli e si vide in molti pericoli.

 

Trovandosi, infatti, in quella frontiera, un giorno a lui e ai suoi compagni venne a mancare l’approvvigionamento. Essendo egli giovane e molto volenteroso si offri per andare a cercare da mangiare presso certi casali o fattorie, che si trovavano un po’ distanti da loro. Per potere andare e tornare più presto, montò su una giumenta francese, che era stata presa ai nemici. Arrivato a circa due leghe da dove era partito, la giumenta, riconoscendo i luoghi nei quali di solito andava, cominciò a correre furiosamente per rientrare nella sua terra.

 

Siccome, però, non aveva per briglia che una cavezza, con la quale Giovanni la guidava, non fu possibile trattenerla, e corse tanto per le falde di un monte che lo scaraventò contro alcune rupi, dove rimase per oltre due ore, senza parola, buttando sangue dalla bocca e dalle narici, completamente privo dei sensi, come un morto, senza che vi fosse alcuno che potesse vederlo ed aiutarlo in tanto pericolo.

 

Ripresi i sensi, tormentato dal colpo ricevuto per la caduta e visto il rischio di incorrere in altro non minor pericolo di esser fatto, cioè, prigioniero dai nemici, si sollevò da terra come meglio poté, senza quasi poter parlare, si mise in ginocchio e, alzati gli occhi al cielo, invocò il nome di nostra Signora la Vergine Maria, della quale fu sempre devoto, cominciando a dire: «Madre di Dio, venite in mio aiuto e soccorso, pregate il vostro santo figlio che mi liberi dal pericolo in cui mi trovo e non permetta che venga preso dai miei nemici».

 

Poi, sforzandosi alquanto e preso in mano un palo ivi trovato, col quale si aiutava, si mise in cammino e piano piano giunse dove stavano i suoi compagni ad aspettarlo.

 

Avendolo visto così mal ridotto e credendo che lo avessero incontrato i nemici, gli chiesero che cosa fosse accaduto. Egli raccontò loro quanto gli era occorso con la giumenta, ed essi lo fecero mettere a letto e sudare, ponendogli molti panni addosso. Così di lì a pochi giorni, guarì e stette bene”.

 

LE VOCI DISCORDANTI

 

Quel volo contro le pietre del bordo della strada, dove rimase per due, tre, cinque…ore privo di sensi, privo di parola, di conoscenza, come morto, gli procurarono una commozione cerebrale? Una lieve frattura della scatola cranica? Probabilmente sì.

Qualcuno ha insinuato che la “pazzia” di San Giovanni di Dio, ossia le sue “stranezze” manifestate durante la conversione origino da questo infortunio. Nessuno è in grado di provarlo. Jean Caradec Cousson o.h. sostiene che il Castro ha il pregio di riferire fedelmente i fatti ma l’abitudine a interpretarli a modo suo. Ad esempio, “per lui è evidente che Giovanni Cidade ha recitato la parte del folle. Ora, contro questa opinione illogica, si leva la descrizione così viva dello stesso Castro che descrive Giovanni Cidade impegnato in atteggiamenti e attività esplosive, incoercibili e non dirette a calcolare come lo sarebbe necessariamente degli atti simulati: inoltre, conviene prendere alla lettera le parole di Giovanni che non mentiva: “Fratello mio, che Nostro Signore vi ricompensi per la carità che mi avete testimoniato in questa casa di Dio, per tutto il tempo che sono stato malato. Ora mi sento bene e in grado di lavorare; per amor di Dio, lasciatemi dunque uscire!”.


Carade Cousson, autore di “GIOVANNI DI DIO dall’angoscia alla santità” – Città Nova, pag 61) conclude così il ragionamento: “In breve, la Vita di Giovanni di Dio secondo il suo contemporaneo Castro, letta attentamente ed interpretata secondo i criteri scientifici moderni, come anche le testimonianze concordi dei notabili di Granata, del direttore dell’ospedale regio e del paziente stesso, ci permettono di dedurre molto verosimilmente che : “No, Giovanni di Dio non ha simulato la follia. Egli è stato malato, come lo esprime lui stesso in termini moderni e dignitosi: “He estado enfermo” .

 

Nelle note a piè di pagina si legge: “Per provare che Giovanni Cidade non ha simulato la follia, l’autore invoca la testimonianza dei notabili e del direttore dell’ospedale, ma non condivide affatto il loro punto di vista sullo stato reale del suo eroe.

 

Alcuni lettori del Capitolo V (apparso sul “Lien Hospitalier” del novembre 1972 sembrano però supporlo, nonostante l’esposizione di un’opinione diversa, forse un po’ diluita nel corso del capitolo. Per togliere ogni equivoco in merito, ecco, in termini concisi la convinzione dell’autore. “ Giovanni Cidade, affetto da uno shock nervoso acuto e breve, di forma angosciosa, conserva, nonostante tutto, la propria lucidità, ma diventa preda momentanea di impulsi disordinati, irresistibili, accettati, d’altra parte, con soddisfazione, perché appagano i suoi profondi desideri di espiazione”.

 

Quest’opinione è confermata dai gesti e dalle parole di Giovanni Cidade, riferiti fedelmente da Castro. Infatti, “dopo alcuni giorni di ospedale, Giovanni dichiara di essere uscito dall’angoscia” (Ya me siento sano y libre…del dolor y angustia…).

 

La CHEMIOTERAPIA dello spirito è già in atto.

Nelle lunghe pause, Giovanni ha sfogliato i libri ascetici che vende e s’è fatto una modesta cultura. La vita ascetica è farcita di norme: non fare questo, non fare quello…Noi oggi diremmo che la norma morale è un “semaforo”. Epperò, dietro ogni comportamento deviante di chi non rispetta la segnaletica e passa con il “rosso”, c’è un uomo che non sempre ha coscienza del reato e magari neppure ha il senso del peccato.

In Giovanni ribellione, disarmonia e smarrimento, entrambi sono presenti e pulsano dentro di lui.

Per occhi attenti, colpisce sempre questa dimensione molto umana, di umana fragilità e spesso di umana inconsistenza, che si cela dietro ogni nostro comportamento deviante. E il “giudice” che gli si troverà davanti, il santo Giovanni d’Avila, ha la consapevolezza della “personalizzazione della colpa”.

Se i suoi sermoni attirano è perché il popolo percepisce che dietro il “giudice” del confessionale c’è l’uomo di Dio che in ogni comportamento deviante sa scorgervi la persona, la sua ribellione o il suo smarrimento. Il suo compito di fondo è di restituire la libertà alla persona che ha di fronte, sottraendola proprio alla ribellione, allo smarrimento, alla disarmonia interiore in cui per tanti e oscuri motivi si è imprigionato con le sue stesse mani.

Il messaggio contenuto nel panegirico è lacerante: Giovanni si sente come sul banco degli imputati, avverte che è giunto il momento, adesso, qui, ora, di uscire dall’ambiguità.

Alla “verità dell’oscuro”, farà seguire la terapia contenuta nel salmo 50: “crea in me”, “rendimi la gioia”. Ed il punto di partenza per comprendere la sindrome da Miserere che colpisce il quarantacinquenne avventuriero è di assimilare il Testo:

 

3

Pietà di me, o Dio, nel tuo grande amore;

nella tua misericordia cancella il mio errore.

4

Lavami da ogni mia colpa,

purificami dal mio peccato.

5

Sono colpevole e lo riconosco,

il mio peccato è sempre davanti a me.

6

Contro te, e te solo, ho peccato;

ho agito contro la tua volontà.

Quando condanni, tu sei giusto,

le tue sentenze sono limpide.

7

Fin dalla nascita sono nella colpa,

peccatore mi ha concepito mia madre.

8

Ma tu vuoi trovare dentro di me verità,

nel profondo del cuore mi insegni la

sapienza.

9

Purificami dal peccato e sarò puro,

lavami e sarò più bianco della neve.

10

Fa’ che io ritrovi la gioia della festa,

si rallegri quest’uomo che hai schiacciato.

11

Togli lo sguardo dai miei peccati,

cancella ogni mia colpa.

12

Crea in me, o Dio, un cuore puro;

dammi uno spirito rinnovato e saldo.

13

Non respingermi lontano da te,

non privarmi del tuo spirito santo.

14

Ridonami la gioia di chi è salvato,

mi sostenga il tuo spirito generoso.

15

Ai peccatori mostrerò le tue vie

e i malvagi torneranno a te.

16

Liberami dal castigo della morte, mio Dio,

e canterò la tua giustizia, mio Salvatore.

17

Signore, apri le mie labbra

e la mia bocca canterà la tua lode.

18

Se ti offro un sacrificio, tu non lo gradisci;

se ti presento un’offerta, tu non l’accogli.

19

Vero sacrificio è lo spirito pentito:

tu non respingi, o Dio, un cuore abbattuto

e umiliato.

20

Dona il tuo amore e il tuo aiuto a Sion,

rialza le mura di Gerusalemme.

21

Allora gradirai i sacrifici prescritti,

le offerte interamente consumate:

tori saranno immolati sul tuo altare.

 

A proposito del “Pietà di me o Dio nel tuo amore”, il Martini è illuminante: “La prima parola è racchiusa in un verbo ma, in realtà, è la radice. di un sostantivo. Quello che in italiano traduciamo con: «Pietà di me, o Dio», in ebraico è semplicemente: «Grazia, fammi grazia, riempimi della tua grazia». Si chiede dunque a Dio che sia per noi grazia, che prenda interesse per chi sta male, per chi si trova in difficoltà, che ci dia una mano. È l’esperienza di Maria che canta: «Signore, tu hai guardato alla povertà della tua serva e mi hai fatto grazia, mi hai riempito della tua grazia».

 

Ed un’altra osservazione ci è preziosa e ci sarà di aiuto: “Dio è dono gratuito, è l’essenza della gratuità. Quando noi diciamo che Dio non può aver alcun interesse a pensare a noi, ad occuparsi di noi, riveliamo di avere un’idea falsa di Dio. Abbiamo di Lui, per dirlo con una parola tecnica, un’idea farisaica, che cerca cioè di capire Dio partendo dalle categorie del calcolo. Dio gode nel poter donare qualcosa a chi ha bisogno di essere sostenuto, a chi non si sente nessuno, a chi si sente in basso. Egli vuole versare il suo valore in noi e non giudica il nostro”.

 

Va spesa una parola a proposito dei Salmi. André Chouraqui fa una considerazione che merita di essere rilevata. Egli scrive che “Noi nasciamo con questo libro nelle viscere. Un piccolo libro: centocinquanta canti, centocinquanta gradini eretti tra la morte e la vita; centocinquanta specchi delle nostre rivolte e delle nostre fedeltà, delle nostre agonie e delle nostre resurrezioni. Più che un libro, un essere vivente che parla – che vi parla – che soffre, che geme e che muore, che resuscita e canta, sulla soglia dell’eternità – e vi prende e vi porta con sé, voi e i secoli dei secoli dall’inizio alla fine”.


La sottolineatura è importante perché la vedremo posta in essere in Giovanni Cidade, alle prese con il suo dramma esistenziale. Pur non proferendo parola, il salmo 51 respira con lui, i battiti del cure scandiscono uno ad uno i ventuno stati d’animo che lo compongono. Tanto da assistere ad una reazione liberatoria che si verifica sì nella sua coscienza ma si manifesta anche esteriormente, tanto da essere notata, annotata e trasmessa a noi come un “fatto”, lì per lì irrazionale ma chiaritosi nel tempo, pur con le diverse e talora opposte interpretazioni.

 

Dall’Avila, ministro della Parola, Giovanni riceve una chiara indicazione:

 

  • Non ci può essere riconciliazione di nessun genere senza conversione del cuore.
  • La conversione del cuore comprende delle tappe che non sono ad libitum: non è possibile saltarle o disattenderle.
  • E’ un itinerario che va acquisito e percorso perché è fatto a partire dal cuore dell’uomo.
  • Il cammino penitenziale personale ha ripercussioni sul mondo: Giovanni di Dio accelera in sé la riconciliazione umana e cosmica.

 

LA CONFESSIONE

 

Giovanni, prima ancora di recarsi dal confessore d’Avila, fa una confessione pubblica. Ma non è tanto un’autoaccusa: ho fatto questo, ho commesso quest’altro…ho fatto ciò che non dovevo fare, ho sbagliato…Il rischio dell’autocritica è proprio l’ autogiustificazione che non necessita del perdono di Dio. Nel nostro caso c’è piuttosto un dialogo intimo, personale, filiale con Colui che lo ha cercato, atteso all’appuntamento, amato: “ho fatto ciò che ai tuoi occhi è male”. Non ho fatto male soltanto contro la tua legge ma quello che è male “ai tuoi occhi”.

 

Ovviamente Giovanni non procede con questa visione schematica ma sotto l’impulso della Parola (Spirito) che lo ha braccato, amorevolmente ferito come una lancia nella sua parte più vulnerabile: l’orgoglio. In ginocchio, sul pavimento gelido di una chiesa, il 20 gennaio 1539, capisce che è giunto il momento di “decidersi per Dio”. E fa la sua scelta, la sua solenne “professione religiosa”, non prevista, non programmata, con una liturgia non canonica. La consacrazione è in questi termini: “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù”. E’ l’anticipazione dei quattro voti che professeranno i suoi discepoli.

 

Non veste un abito, non professa una regola, non appartiene a una famiglia monastica, non ha un Cardinale protettore. E’ uomo del Vangelo. Nudo, povero, libero obbediente alla Voce del “Maestro interiore” ed al suo “ministro” che gli a posto al fianco come guida: il sacerdote Giovanni d’Avila.

 

CAMMINO PENITENZIALE

 

Da questo momento inizia il suo cammino penitenziale.

 

Il “grazie” per queste riflessioni va detto al mio Arcivescovo, il Cardinale Carlo Maria Martini per il commento al Salmo 50 che fece tra il 1983-84, quando convocò in Duomo i giovani per ascoltare e per pregare con il loro Arcivescovo, dando vita a quella esperienza contagiosa organizzata dall’Azione Cattolica Ambrosiana, che va sotto il nome di SCUOLA DELLA PAROLA. Ricordo benissimo quei tempi perché si è trattato di uno dei momenti più forti e significativi della sua esperienza episcopale insieme ai giovani, che ha lasciato un segno duraturo. Non più giovane, (allora avevo 41 anni) necessitavo anch’io proprio di questa riconciliazione con me stesso e le sue riflessioni mi hanno segnato profondamente.

 

Da quelle sue meditazioni ho tratto due insegnamenti fondamentali:

 

  1. La chiave di lettura della “conversione” di Giovanni di Dio, risultata “eccessiva” per i suoi contemporanei, tanto da farlo internare nel manicomio dell’Ospedale Regio di Granada.
  2. La linfa che potrà alimentare anche le generazioni future che sempre assomiglieranno a Davide, il peccatore pentito.

L’unico a vederci chiaro, sarà proprio San Giovanni d’Avila, con il quale Dio aveva predisposto l’incontro che avrebbe modificato definitivamente l’itinerario del suo penitente. Perché l’iniziativa, il punto di partenza di ogni cammino di conversione del cuore è sempre un’iniziativa divina: Dio, il leale, l’affidabile, il fedele, il buono, il tenero, il costante nell’attenzione e nell’amore, espressioni riassumibili in una: il Misericordioso è sempre il primo a dare la mano;il piatto della bilancia pende sempre dalla parte della Sua bontà”.

 

Le parole che c’introducono, sono semplici e brevi: “Pietà di me...”. La parola forte, il pugno nello stomaco è il termine “peccato”. Nel testo ebraico il significato è più precisato, usa tre parole che andrebbero lette così:

 

  • …cancella la mia ribellione,
  • lavami da ogni disarmonia,
  • mondami (tirami fuori da ogni mio smarrimento) ”.


Senza bisogno di scomodare psichiatri e psicologi, la vera risonanza magnetica che non mente è la Parola di Dio che ci dice per filo e per segno cos’è accaduto a Giovanni di Dio all’Eremo dei Martiri in quel lontano 1539. Di suo egli ha messo solo quell’eccesso di esteriorizzazione mal interpretato che solo degli innamorati come lui, folgorati da una luce interiore accecante sarebbero stati in grado di comprendere. Tant’è che l’unico a non meravigliarsi sarà proprio il “provocatore” della situazione Giovanni d’Avila. Un miracolo della Grazia che ha dato vita non solo a una personale conversione ma ad una nuova famiglia religiosa e fatto di lui un vir misericordiae” additato alla Chiesa universale. Da un evento personale, a un progressivo mutamento di mentalità ecclesiale che perdura.

 

Giovani di Dio all’Eremo non ha da presentare a Dio che la sua fragilità: egli si percepisce come uomo peccatore. Epperò avverte che Dio è attivo su di lui: lo sta lavando, lo monda, sente che è in corso una purificazione, una dialisi potremmo dire; egli sta sperimentando una cosa inedita: che il Dio della sua vita è buono, è verità, è misericordia.


Anche se non trova le parole giuste come Davide, le sue sillabe, le lettere dell’alfabeto che farfuglia, vengono trasformate dallo Spirito che prega in lui:
«Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Romani 8, 26-27).

 

Bello! Nella Lettera a Proba, Agostino scrive: «Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi. Dio infatti “pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime“(Salmo 55, 9), e il nostro gemito non rimane nascosto (cf. Salmo 37,10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uomini» (2).

Risuona il monito di Gesù. “Quando pregate, non pensate di ottenere attraverso il vostro molto pregare, perché il Padre sa benissimo ciò di cui avete bisogno”. Tuttavia Gesù stesso ci insegna a esprimere i nostri bisogni. Non tanto però – dice Agostino – con la moltiplicazione delle parole in quanto tale, bensì con una moltiplicazione che esprima il gemito del credente. Viene così introdotta la nozione di «gemito» che ritroviamo nella pagina di san Paolo.

In Giovanni di Dio accade proprio questo: la preghiera di richiesta di vita nuova parte dal cuore, non è superficiale, più che di parole, assomiglia a un gemito, un desiderio profondo. Gemere, infatti, significa anelare a qualcosa di cui si ha estremo bisogno; anche fisicamente il gemito è l’espressione di chi, mancando di aria, cerca di aspirarla.

Egli si appropria, per così dire, della sua povertà e miseria; riconosce il suo stato di uomo peccatore, ammette la sua incapacità ad armonizzare la sua vita morale, si dichiara bisognoso di perdono. Questo quarantacinquenne avverte che Dio vuole sincerità nel cuore e non esita ad accettare il poco, il niente che è. Questa confessio vitae è corrispondente ai vv. 5-8 del salmo 50 ma sfugge, non è capita dalle persone chi gli stanno attorno. Solo Giovanni d’Avila si rende conto del miracolo della Grazia che è in atto e non esita a riconoscerlo. Per gli altri è uno che merita solo commiserazione; un poverino uscito di senno. Ma egli, dopo l’elettrochoc provocato dalla Parola di Dio, a poco a poco, avverte che Dio è capace di fare in lui qualcosa di nuovo. Lui che ha sperimentato la sua insufficienza morale, non esita a riconoscere l’azione dello Spirito in atto e accetta di fare pace con se stesso: è la confessio fidei : “Lavami, e sarò più bianco della neve”.

La gioia, la letizia, non arrivano subito. Il “Ridonami la gioia di chi è salvato; mi sostenga il tuo spirito generoso.”(v.14), verrà. Ma lui ormai è stato collocato sul binario giusto e la potenza di Dio non tarderà a manifestarsi.

Il passato è passato. Dio, che gli ha fatto grazia di guardare in avanti, ora gli mette in cuore la confessio laudis. Ha sperimentato il soffio di vita, la forza di Dio? Qui riceve l’investitura: va e annuncia quanto Dio ha fatto per te, sìì testimone della salvezza che hai ricevuto: Ai peccatori mostrerò le tue vie e i malvagi torneranno a te”(v. 15).

D’ora innanzi dovrà essere un predicatore del Dio che salva: “Dona il tuo amore e il tuo aiuto a Sion, rialza le mura di Gerusalemme”.(v.20) E’ la missione che avrà nella Chiesa. A cominciare da Granada. La sua croce sarà la sua gioia, ora che è stato reso capace di annunziare le grandi opere di Dio. Il suo motto sarà “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù”.

E’ evidente che questo percorso di ri-conversione del cuore non si è esaurito nell’arco di una giornata. Ha compreso delle tappe che il nuovo Giovanni non ha potuto disattendere o saltare. Quanto più cercheremo di ripercorrere quel processo che abbiamo chiamato sindrome da Miserere, tanto più ci convinceremo che si è trattato sì di vera follia ma di quella contagiosa del Signore Crocifisso e Risorto. Non lo ha scritto proprio l’apostolo Paolo che “la parola della croce sembra una pazzia a quelli che vanno verso la perdizione”, mentre “per noi che Dio salva, è la potenza di Dio?” Paolo sa bene di non dire una cosa nuova e cita le Scritture dei padri: “Sta scritto infatti: ”Distruggerò la sapienza dei sapienti e squalificherò l‟intelligenza degli intelligenti” (1Cor 1, 18-19).

 

E poi aggiunge di suo: “Dio ha deciso di salvare quelli che credono, mediante questo annuncio di salvezza che sembra una pazzia. Gli Ebrei infatti vorrebbero miracoli, e i non Ebrei si fidano solo della ragione.

Noi invece annunziamo Cristo crocifisso, e per gli Ebrei questo messaggio è offensivo, mentre per gli altri è assurdo.

Ma per quelli che Dio ha chiamati, siano essi Ebrei o no, Cristo è potenza e sapienza di Dio. Perché la pazzia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini.

 

Guardate tra voi, fratelli. Chi sono quelli che Dio ha chiamati? Vi sono forse tra voi, dal punto di vista umano, molti sapienti o molti potenti o molti personaggi importanti? No!

Dio ha scelto quelli che gli uomini considerano ignoranti, per coprire di vergogna i sapienti; ha scelto quelli che gli uomini considerano deboli, per distruggere quelli che si credono forti.

Dio ha scelto quelli che, nel mondo, non hanno importanza e sono disprezzati o considerati come se non esistessero, per distruggere quelli che pensano di valere qualcosa. Così, nessuno potrà vantarsi davanti a Dio.

Dio però ha unito voi a Gesù Cristo: egli è per noi la sapienza che viene da Dio. E Gesù Cristo ci rende graditi a Dio, ci dà la possibilità di vivere per lui e ci libera dal peccato. Si compie così quel che dice la Bibbia: Chi vuol vantarsi si vanti per quel che ha fatto il Signore” (idem 21-31).

 

La riflessione potrebbe estendersi ulteriormente ma ci porterebbe molto lontano, perché la Bibbia è un pozzo senza fondo. Vorrà dire che sarà per un’altra volta.

 

Si noti l’antica iconografia: Giovanni di Dio è ripetutamente riprodotto con il simbolo della somma follia: la Croce.

 

San Giovanni di Dio affascina non per le cose dette o scritte, che sono poche, ma per la la testimonianza. La sua esistenza, del resto come quella di ogni altro uomo, in qualunque sistema sociale ed economico si inquadri, è un evento attraversato, segnato dalla croce: dal dolore, dall’affanno, dalla sofferenza e dalla morte. Oggi come ieri, come domani.

 

La Costituzione Conciliare Lumen Gentium al par. 50, sulla santità è illuminante:

  • Il contemplare infatti la vita di coloro che hanno seguito fedelmente Cristo, è un motivo in più per sentirsi spinti a ricercare la città futura (cfr. Eb 13,14 e 11,10);
  • nello stesso tempo impariamo la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno [157], potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità.
  • Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell’immagine di Cristo (cfr. 2 Cor 3,18), Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto.
  • In loro è egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo Regno [158] verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni (cfr. Eb 12,1) e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati”.

Per queste ragioni San Giovanni di Dio ci parla ancora.

Angelo Nocent

 

FRA RAIMONDO FABELLO – Per la morte – Angelo Nocent

MONDO fratello mio carissimo,

non solo il tuo Ordine Religioso ma anche il Friuli  sente di aver perso un caro figlio. E perfino noi della COMPAGNIA…, pur così insignificanti, avvertiamo di non avere più in terra il riferimento di un caro fratello che ci ha compresi ed ha voluto condividere comuni ideali.

Un dolore così forte per la perdita di un amico non lo ricordavo. Lo è per tante ragioni ma mi limito a ricordarne due sole:

  • la prima è che la nostra fede affonda le sue radici, appartiene al ceppo del Patriarcato di Aquileia, la Chiesa dei Santi Martiri Ermacora, Fortunato, Crisogono, dei fratelli Canziani, del vescovo Cromazio…;
  • la seconda è che ho seguito con trepidazione la lunga preparazione al trapianto, la tua dieta ferrea, le lunghe pedalate sulla ciclette per perdere chili di troppo, l’ansiosa preoccupazione del quando e da chi, l’attesa di un donatore del tuo gruppo, non facile da reperire, il lavorio interiore della Grazia per sostenerti nell’ora della prova e conservarti la fede, quel mettere in conto che potrebbero anche essere gli ultimi giorni…

Dalle telefonate mi accorgevo che, mentre ti alleggerivi fisicamente, guadagnavi in spessore spirituale. Era nel tuo temperamento di frate “friulano” quel pudore dei sentimenti e quella riservatezza, coperti di una scorza di timidezza, capace di mettere in rispettosa ma involontaria soggezione, tipica dei nostri uomini tutti d’un pezzo. Epperò non mi impedivano di intravedere dagli spiragli della finestra dell’anima la fisionomia dell’atleta spirituale.

Permettimi di entrare in punta di piedi nel chiostro della tua esistenza e dei tuoi sentimenti, per ricordare…

Ricordo che fin da ragazzo eri intelligente, sapiente, buono, studioso, attento, riflessivo, severo con te stesso, cocciuto, rigoroso…(Povero il mio vocabolario traditore e presuntuoso che si permette di qualificarti!)

Amavi l’altare e Padre Tarcisio Morini ti aveva affidato l’incarico di “cerimoniere” nelle funzioni religiose del collegio. Spesso avevi tra le mani il testo delle “norme”, tantissime, che studiavi e facevi scrupolosamente osservare. Talvolta poteva sembrare che il rubricismo avesse il sopravvento sul senso della liturgia. Ma poi è arrivata  la “Sacrosantum Concilium” e la costituzione  sulla Sacra Liturgia ha cambiato la tua e la nostra mentalità.  Il “Culmen et fons” ha influito radicalmente sulla tua persona, costretta a fare i conti, nei ruoli di superiore, con una realtà non sempre ricettiva del fondamentale substrato teologico contenuto nel documento conciliare più lungamente dibattuto dai Padri.

Eri portato per le scelte audaci, non retoriche. Eri una presenza attiva ma senza rumore. Solo che le opzioni difficili corrono il rischio di essere maledettamente incomprese perché esigono fondamenta stabili e viaggiano sui tempi lunghi della gestazione: un paziente maturare insieme.

Come l’incontro con Don Giussani al quale ti sei rivolto nell’ora storica più propizia. Vi siete parlati, vi siete capiti, avete cominciato a collaborare in sintonia per introdurre in sanità laici preparati non solo professionalmente ma anche spiritualmente. Eri consapevole che il tutto e subito non paga ma presume la metànoia, il cambiamento di mentalità che non è mai facile per nessuno.

Quando ne abbiamo parlato, ho capito che sarebbe stato necessario sintonizzarsi sulla stessa frequenza, possedere un lessico comune, condividere un progetto obiettivo, frequentare la “scuola di comunità” seguire il “per-corso” che ha forgiato migliaia di giovani, attuare un mirabile scambio di doni e carismi per trasmettere e con-dividere il carisma dell’ospitalità, termine abusato e inflazionato che può risultare obsoleto, incomprensibile e frainteso se ci si ferma al significato più superficiale.

Hai tentato una cura di ringiovanimento al tuo Ordine. Gli ingredienti c’erano ma, per tante ragioni, la ciambella non è riiuscita col buco. Ho avuto l’impressione che ti siano arrivate più delusioni che consolazioni che  però hai saputo sopportare nell’ottica della fede evangelica:

  • Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto.
  • Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
  • Se uno mi vuol servire mi segua…” (Gv 12, 20-33)

T’ho perso di vista per almeno trent’anni per un salto nel buio. Sono proprio quelli che ti hanno visto in posti di responsabilità: priore, superiore provinciale, definitore generale, ecc. Nulla so di quegli anni né mi compete indagare. Altri sapranno dire più e meglio di me.

Poi t’ho ritrovato ed eri l’amico di sempre. E sei stato il primo discepolo di san Giovanni di Dio che ha compreso il senso un po’ colorito della COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI ed hai voluto dare la tua adesione, arruolandoti in un progetto ideale che già vivevi e che  vorrebbe radicare e diffondere nella Chiesa locale, nella sanità pubblica,  il carisma dell’Hospitalitas, lo spiritum hospitalitatis,  in sintonia con il Magistero Pontificio e le Conferenze Episcopali.

Avevi fatto la tua iscrizione al sito il 1 Aprile 2006 perché condividevi l’idea di uno sforzo per aprire un varco, creare uno spazio, indicare un itinerario evangelico, nello spirito di una tradizione monastica, la tua, condivisibile anche dai laici, perché segno dei tempi.

Ricordo quel 1 Aprile.

Sembrava trattarsi di uno scherzo, di un vero “pesce d’Aprile” .

Ma in quell’ acrostico che ti avevo affibbiato nel darti il benvenuto, (un enorme pesce),

precisavo che nella rete non era finita una comune sardina ma un bel tonno.

L’immagine o il nome del pesce (ychthus) è sempre stato usato dai primi cristiani per identificarsi.

Perché in questa parola si trovano le iniziali di Yesus Christos Theou Uios Soter cioè Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore.

Tutto mi faceva pensare che dietro quella tua apertura espressa con la tua adesione, si celasse il Signore Gesù, in vesti dimesse, senza paroloni e senza frastuono. Speravo, ma non hai voluto metterti in mostra. Ma eri sempre in prima fila per non perdere nessuna battuta. C’eri ma più semplicemente più per condividere che per insegnare, come mi sarei aspettato. . .

Alle espressioni dei testi liturgici che ascolteremo all’Eucaristia esequiale di mercoledì 5 Settembre, ore 15.30 nel Duomo di Brescia, vorrei che risuonassero nei nostri cuori le parole rivolte da san Paolo al discepolo Timoteo, dopo aver combattuto la buona battaglia della fede.

Sei stato un uomo di Dio, impegnato a “conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento” e a diffondere la dottrina salvifica del Signore Gesù, in attesa della sua definitiva manifestazione. Hai vissuto anche un’esistenza operosa, che fu una continua ascensione alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza.

Negli anni giovanili abbiamo vissuto insieme, con grande trepidazione, il Concilio Vaticano II:

  • Cristo! Cristo nostro principio, Cristo nostra vita e nostra guida! Cristo nostra speranza e nostro termine!…
  • Nessun’altra luce sia librata su questa adunanza, che non sia Cristo, luce del mondo; . . .
  • Nessun’altra aspirazione ci guidi, che non sia il desiderio d’essere a Cristo assolutamente fedeli”. (Insegnamenti di Paolo VI, I [1963] 170)

È qui la radice degli atti e dei gesti di cui hai cercato di riempire le tue giornate di servizio alla Chiesa e al tuo Ordine. Da Cristo parte e a Cristo conduce quell’umanesimo plenario che  il nostro indimenticabile Pontefice ci ha iniettato nelle vene, lui che  fu intrepido assertore:

  • Se nel volto d’ogni uomo, specialmente se reso trasparente dalle sue lacrime e dai suoi dolori, possiamo e dobbiamo ravvisare il volto di Cristo . . .
  • e se nel volto di Cristo possiamo e dobbiamo ravvisare il volto del Padre celeste . . .
  • il nostro umanesimo si fa cristianesimo e il nostro cristianesimo si fa teocentrico, tanto che possiamo enunciare: per conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo” (Ivi, III [1965] 731).

In quegl’anni abbiamo respirato quest’aria e, nell’ampiezza di tale cornice, siamo stati segnati da un nuovo ordine sociale che il Papa andava delineando, generatore di quella pace fondata sulla giustizia, che gli uomini non possono dare: “La civiltà dell’amore prevarrà sull’affanno delle implacabili lotte sociali, e darà al mondo la sognata trasfigurazione dell’umanità finalmente cristiana” (Ivi, XIII [1975] 1568).

Oggi mi sento di poter attribuire anche a te, nel tuo piccolo, l’elogio alla tua fedeltà. Ai “Pilastroni”, in  quella Brescia che ti ha accolto dodicenne, sei stato coltivato come un pulcino, innaffiato come un tenero alberello, avviato incontro alla vita, per ritrovarti nuovamente, alla fine di molteplici incarichi, a chiudere i tuoi giorni tra i malati di alzahimer del prestigioso Istituto che hai diretto e portato a significativi primati di ricerca scientifica in tal campo.

Non credo tu abbia fatto testamento spirituale. Ne dubito. Proprio per quella tua ritrosia a metterti in mostra. In attesa di essere smentito, provo io a tessere l’elogio della tua fedeltà. Lo attingo dall’umiltà di Papa Montini. Infatti da una sua testimonianza sulla verità della fede ne è scaturita come una confessione testamentaria che che ritengo ti si addica benissimo, ora che stanno per spegnersi i riflettori della tua scena pubblica:

  • Ci sentiamo, a questa soglia estrema, confortati e sorretti dalla coscienza di aver instancabilmente ripetuto davanti alla Chiesa e al mondo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»;
  • Anche noi, come Paolo, sentiamo di poter dire: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» . . . Ecco, fratelli e figli, l’intento instancabile, vigile, assillante che ci ha mossi in questi quindici anni di pontificato. «Fidem servavi» possiamo dire oggi, con la umile e ferma coscienza di non aver mai tradito il «santo vero» . . .
  • In questo impegno offerto e sofferto di magistero a servizio e a difesa della verità, noi consideriamo imprescindibile la difesa della vita umana
  • Abbiamo fatto programma del nostro pontificato la difesa della vita, in tutte le forme in cui essa può esser minacciata, turbata o addirittura soppressa” (Insegnamenti di Paolo VI, XVI [1978], 322-523).

Sai, mi sovvengono in questo momento anche le accalorate esortazioni al presbiterio romano di Giovanni Paolo I, il papa dei 33 giorni: “La grande disciplina esiste soltanto se l’osservanza esterna è frutto di convinzioni profonde e proiezione libera e gioiosa di una vita vissuta intimamente con Dio”.

Da questa finestra intravedo, come attraverso uno spiraglio, il fondamento e la ricchezza della tua vita interiore. La fase terrena del tuo viaggio si è conclusa rapidamente, contro le fervide speranze e gli unanimi auspici con i quali ti abbiamo accompagnato prima e dopo il trapianto del fegato .

In tanti abbiamo pregato per te in questi giorni. Chiedevamo poco, una cosa ovvia: un corpo ristabilito, una buona riparazione meccanica al fegato e che fosse rimandata la tua “partenza”.A conti fatti, quel “qualche anno in più” della nostra supplica, al buon Dio è parso inutile ed ha ritenuto di mutarlo subito in qualcosa di eterno: ”vita mutatur, non tollitur”. Così ti ha trasformato la vita che può agire ancor più e meglio per noi e con noi, povera Chiesa pellegrina sulla terra .

E ora, col capo chino dinanzi alla imperscrutabile volontà della Provvidenza, a nomi di tutti gli amici mi rivolgo a te per implorare che voglia intercedere presso Dio per ottenere alla Chiesa, al tuo Ordine, alla Compagnia…le grazie di cui ognuno ha bisogno nel difficile passaggio del momento presente.

Ma permetti al mio cuore di piangere l’amico e di guardare a Cristo che è risurrezione e vita.

Sono qui a parlare di te, uomo di Dio, solo ieri dal Signore Gesù chiamato a sé. Sono qui a parlare con te, alla vigilia della tua sepoltura.

Tu, Adolfo, sotto il nome di Fra Raimondo sei stato servo di Dio, consacrato per il ministero dell’hospitalitas nella Chiesa e nell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio; tu, secondo le parole dell’Apostolo, hai teso alla giustizia, alla pietà, alla carità, alla pazienza, alla mitezza (1 Tm 6, 11).

O amico di Dio! Davanti al tuo feretro, ringrazio Colui che si è degnato di chiamarti dopo averti permesso “di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (1 Tm 6, 14).

Quello del tuo ministero fu un tempo salutare, un tempo utile, complesso; non sempre sei riuscito a farti comprendere, ma hai lasciato tracce sulle quali sarà utile RI-FLETTERE. Non solo io, ma anche tanti altri non dimenticheremo, raccomandando all’eterno Padre il frutto della tua vita.

O uomo di Dio: a te, sotto il nome di frate Raimondo, è stato dato di combattere “la buona battaglia della fede”. Oggi diciamo: raggiungi “la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni” (cf. 1 Tm 6, 11-12): la Chiesa e i tuoi Fratelli.

Oggi noi tutti, a diverso titolo, sentiamo il bisogno di chiedere

  • a Colui che è “il Re dei regnanti e Signore dei signori”,
  • a Colui che solo “possiede l’immortalità”,
  • a Colui che “abita una luce inaccessibile: che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere” (cf. 1 Tm 6, 15-16),
  • a Lui chiediamo di invitare te, servo fedele, all’eterna comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Beati . . . i morti che muoiono nel Signore” (Ap 14, 13). Beato te che ci hai lasciato, perché ci hai lasciato morendo nel Signore. “Sì, dice il Signore, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono” (Ap 14, 13). Amen!

E’ l’ora delle confidenze. Non osavi dirlo perché speravi nel miracolo di San Riccardo Pampuri e più ancora di Don Giussani,  ma tu, Fra Raimondo,  presagivi la fine. Mentre eri in lista d’attesa, alla mia richiesta di qualche tuo scritto da pubblicare, di qualche foto da mettere in circolazione su internet hai semplicemente risposto con un sorriso disincantato che stavi alleggerendo la tua cella, riducendo i bagagli all’essenziale. Così il 10 Giugno u.s. mi hai scritto:

Dal giorno 5 u.s. sono entrato il lista per il trapianto.
Aspettiamo che il nostro “Dottore”, [s.Riccardo Pampuri] anche con l’aiuto di qualche Altro, mi trovi un ricambio di buona qualità e quando sarà il momento dia una mano al chirurgo.

Il Signore ha dato ……………….”

Nel tuo riferimento a Giobbe è chiarissima la professione di fede nella adorabile Volontà di Dio:

  • Allora Giobbe si alzò, si stracciò il mantello, si rase il capo, si prostrò a terra e adorò dicendo: “Nudo sono uscito dal grembo di mia madre, e nudi tornerò in grembo alla terra;
  • il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore’.
  • In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nessuna colpa”, (Giobbe 1).

Se devo essere sincero, non mi sento di augurarti il “Requiescat in pace”, per il semplice motivo che non ti vedo chiamato a riposare in pace ma piuttosto ad essere attivo nella Pace di Dio. E se vorrai, stanne certo, non ti faremo mancare il lavoro.

In questa tragica circostanza del cuore agitato e della mente confusa, il nostro Santo Padre Agostino, Vescovo d’Ippona che  ci ha insegnato a volare alto, mi offre consolanti spunti di riflessione che vorrei mettere sulle tue labbra di uomo di fede perché le ripeta a ciascuno di noi ( e siamo tanti) come sgorgate dal tuo cuore:

Se mi ami non piangere!

Se tu conoscessi il mistero immenso del cielo dove ora vivo,
se tu potessi vedere e sentire quello che io vedo e sento
in questi orizzonti senza fine,
e in questa luce che tutto investe e penetra,
tu non piangeresti se mi ami.

Qui si è ormai assorbiti dall’incanto di Dio, dalle sue espressioni di infinità bontà e dai riflessi della sua sconfinata bellezza.
Le cose di un tempo sono così piccole e fuggevoli al confronto.

 

Mi è rimasto l’affetto per te:
una tenerezza che non ho mai conosciuto.
Sono felice di averti incontrato nel tempo,
anche se tutto era allora così fugace e limitato.

Ora l’amore che mi stringe profondamente a te,
è gioia pura e senza tramonto.
Mentre io vivo nella serena ed esaltante attesa del tuo arrivo tra noi,
tu pensami così!
Nelle tue battaglie,
nei tuoi momenti di sconforto e di solitudine,
pensa a questa meravigliosa casa,
dove non esiste la morte, dove ci disseteremo insieme,
nel trasporto più intenso alla fonte inesauribile dell’amore e della felicità.

Non piangere più, se veramente mi ami! “

 

Il Santo Vescovo ci aiuta anche a capire il senso di ciò che sta avvenendo, commentandoci il Vangelo di Giovanni:

Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se è morto vivrà (Gv 1,25)

Chi crede in me anche se è morto vivrà, e chiunque vive e crede in me non morirà in eterno”. Che vuol dire questo?

Chi crede in me, anche se è morto come è morto Lazzaro,vivrà, perché egli non è Dio dei morti ma dei viventi. Cosí rispose ai Giudei, riferendosi ai patriarchi morti da tanto tempo, cioè ad Abramo, Isacco e Giacobbe: Io sono il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe, non sono Dio dei morti ma dei viventi: essi infatti sono tutti vivi.

  • Credi dunque, e anche se sei morto, vivrai; se non credi, sei morto anche se vivi. Proviamolo. Ad un tale che indugiava a seguirlo: Permettimi prima di andare a seppellire mio padre, il Signore rispose: Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu vieni e seguimi. Vi era là un morto da seppellire, e vi erano dei morti intenti a seppellirlo: questi era morto nel corpo, quelli nell’anima.
  • Quando è che muore l’anima? Quando manca la fede.
  • Quando è che muore il corpo?
  • Quando viene a mancare l’anima. La fede è l’anima della tua anima. Chi crede in me – egli dice anche se è mortonel corpo, vivrà nell’anima, finché anche il corpo risorgerà per non più morire. Cioè: chi crede in me, anche se moriràvivrà. E chiunque vive nel corpo e crede in me, anche se temporaneamente muore per la morte del corpo, non morirà in eterno per la vita dello spirito e per l’immortalità della risurrezione.

Questo è il senso delle sue parole: E chiunque vive e crede in me non morirà in eterno. Lo credi tu? – domanda Gesù a Marta -; ed essa risponde:

  • Si, Signore, io ho creduto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, che sei venuto in questo mondo. E credendo questo, ho con ciò creduto che tu sei la risurrezione, che tu sei la vita;
  • ho creduto che chi crede in te, anche se muore, vivrà, e che chi vive e crede in te, non morirà in eterno.

(S. Agostino, Comm. al Vangelo di Giovanni 49, 15)

R a y m u n d u m,

fratello ed amico carissimo

dal Cielo infinito di Dio,

ricordati anche di noi “globuli rossi”

e continua a far parte della Compagnia…

Mandi, frari. A riviodisi!

PER LA MORTE DELL’AMICO FRA RAIMONDO FABELLO – Angelo Nocent – SAN RICCARDO PAMPURI MEDICO INTERCESSORE – PRONTO SOCCORSO (laporta.altervista.org)

 

PER UNA SALUTARE “SBORNIA” ALLE ASSI – Angelo Nocent

 

 

GIOVANNI DI DIO: FU VERA FOLLIA? – Angelo Nocent

IL PUNTO DI PARTENZA

A PARTIRE DAL CUORE DELL’UOMO

SAN GIOVANNI DI DIO – FU VERA FOLLIA? – Angelo – Nocent

 

Nella “SINDROME DA MISERERE” il punto di partenza è il cuore dell’uomo

PREMESSA – Questa “ricerca” non è di oggi. Risale a qualche hanno fa. Era pensata per una qualche rivista interessata, alla quale avrei ceduto volentieri diritti, compensi ed esonerata da vincoli editoriali. MA NON L’HO TROVATA. Epperò è qui a disposizione.

Alla vigilia della festa del Santo, anno 2023, ho pensato di diseppellirla e metterla in circolazione. Può darsi che altri sappiano prenderne lo spunto per fare di più e meglio.

A Giovanni di Dio chiedo solo di venirmi a dare una mano nell’ora dei SUDORI FREDDI che non è molto lontana.

 

Di Angelo Nocent

Mentre scrivo, penso agli attuali ragazzi del nuovo Noviziato Europeo Fatebenefratelli di Brescia ed a coloro che si aggregheranno nel tempo. Sono passati ormai 470 anni dalla morte del Fondatore San Giovanni di Dio che tetimoni del suo tempo hanno visto in lui un amico del silenzio, tanto che evitva di pererdersi in chiacchere e non amava parlare se non di caritá e di cura dei malati. Mi domando come faccia a parlare ancora e ad essere tutt’ora capace di trasmettere fascino e suscitare discepoli.

 

La sola spiegazione: pazzo lui allora, pazzi gli scolari di oggi e di domani, incredibilmente ammagliati da un silente Amore Crocifisso, un tempo considerato anche lui fuori di testa perfino dai suoi familiari: “20Gesù tornò in casa, ma si radunò di nuovo tanta folla che lui e i suoi discepoli non riuscivano più nemmeno a mangiare.21Quando i suoi parenti vennero a sapere queste cose si mossero per andare a prenderlo, perché dicevano che era diventato pazzo. (Marco 3,20-21).

 

Fra le tante disavventure in cui è incorso San Giovanni di Dio, c’è anche quella di essere stato diagnosticato post mortem affetto da sindrome schizofrenica, per via di un fatto risalente alla caduta da cavallo durante la vita militare. Picchiando la testa, sarebbe rimasto tramortito per alcune ore, senza che qualcuno o aiutasse. Questo incidente spiegherebbe certi suoi comportamenti che gli procurarono un ricovero coatto nell’Ospedale Regio di Granata, settore…

II bello è che, secondo la tradizione, sarebbe stato soccorso nientemeno che da notra signora la Vergine Maria.

 

LA CADUTA DA CAVALLO

Quando si parla di Giovanni Cidade (San Giovanni di Dio), un laico dalla vita tormentata, che diventa “la meravigli di Granata”, “l’onore del suo secolo”, “santo” per la Chiesa, il punto di riferimento è ed è sempre stato Francesco de Castro, suo primo biografo, considerato come la fonte più autentica. Lui stesso esordisce dicendosi chiamato a “risuscitare la verità che col passare del tempo è stata sepolta e messa in oblio…essendo mancato chi mettesse in scritto le cose essenziali della sua vita, ed essendo egli stato un uomo silenzioso, che poche volte parlava di cose che non riguardassero la carità e il soccorso dei poveri, non abbiamo notizia di molte cose che appartengono a questa storia, di molte cose, cioè, notevoli che gli accaddero dopo la vocazione avuta da Dio… Pertanto, ciò che si riporterà qui è ciò che si è potuto sapere con molta certezza e verità”.

 

Di Francesco de Castro il Padre Gabriele Russotto si sente di scrivere: “Storico e narratore onesto, come e più di tanti storici e narratori moderni, il Castro merita la più assoluta credibilità”.

La premessa mi serve per introdurmi più serenamente nel Cap. VII che narra DELLA CONVERSIONE DI GIOVANNI DI DIO AL SIGNORE, argomento cruciale e delicato.

Questo il fatto narrato dal Castro: “Giunto ad età conveniente, costui (il conte di Oropesa) lo mandò in campagna insieme agli altri suoi servitori che guardavano il gregge. Ivi attendeva a prendere e portare l’approvvigionamento necessario con ogni diligenza, perché, essendogli venuti a mancare i genitori in così tenera età, procurò di compiacere e servire questo brav’uomo nella menzionata e come pastore tutto il tempo che stette in casa sua. Per questo i suoi padroni gli volevano molto bene, ed era amato da tutti.

Essendo ormai giovane di 22 anni, gli venne la volontà di andare in guerra, e si arruolò in una compagnia di fanteria d’un capitano di nome Giovanni Ferruz, che allora il conte di Oropesa inviava al servizio dell’Imperatore per soccorrere Fuenterrabía, che era stata occupata dal re di Francia.

Mosso Giovanni dal desiderio di vedere il mondo e godere di quella libertà che comunemente sogliono prendersi coloro che vanno in guerra correndo a briglia sciolta per il cammino largo (benché faticoso) dei vizi, incontrò in essa molti travagli e si vide in molti pericoli.

Trovandosi, infatti, in quella frontiera, un giorno a lui e ai suoi compagni venne a mancare l’approvvigionamento. Essendo egli giovane e molto volenteroso si offri per andare a cercare da mangiare presso certi casali o fattorie, che si trovavano un po’ distanti da loro. Per potere andare e tornare più presto, montò su una giumenta francese, che era stata presa ai nemici. Arrivato a circa due leghe da dove era partito, la giumenta, riconoscendo i luoghi nei quali di solito andava, cominciò a correre furiosamente per rientrare nella sua terra.

Siccome, però, non aveva per briglia che una cavezza, con la quale Giovanni la guidava, non fu possibile trattenerla, e corse tanto per le falde di un monte che lo scaraventò contro alcune rupi, dove rimase per oltre due ore, senza parola, buttando sangue dalla bocca e dalle narici, completamente privo dei sensi, come un morto, senza che vi fosse alcuno che potesse vederlo ed aiutarlo in tanto pericolo.

Ripresi i sensi, tormentato dal colpo ricevuto per la caduta e visto il rischio di incorrere in altro non minor pericolo di esser fatto, cioè, prigioniero dai nemici, si sollevò da terra come meglio poté, senza quasi poter parlare, si mise in ginocchio e, alzati gli occhi al cielo, invocò il nome di nostra Signora la Vergine Maria, della quale fu sempre devoto, cominciando a dire: «Madre di Dio, venite in mio aiuto e soccorso, pregate il vostro santo figlio che mi liberi dal pericolo in cui mi trovo e non permetta che venga preso dai miei nemici».

Poi, sforzandosi alquanto e preso in mano un palo ivi trovato, col quale si aiutava, si mise in cammino e piano piano giunse dove stavano i suoi compagni ad aspettarlo.

Avendolo visto così mal ridotto e credendo che lo avessero incontrato i nemici, gli chiesero che cosa fosse accaduto. Egli raccontò loro quanto gli era occorso con la giumenta, ed essi lo fecero mettere a letto e sudare, ponendogli molti panni addosso. Così di lì a pochi giorni, guarì e stette bene”.

 

LE VOCI DISCORDANTI

Quel volo contro le pietre del bordo della strada, dove rimase per due, tre, cinque…ore privo di sensi, privo di parola, di conoscenza, come morto, gli procurarono una commozione cerebrale? Una lieve frattura della scatola cranica? Probabilmente sì.

Qualcuno ha insinuato che la “pazzia” di San Giovanni di Dio, ossia le sue “stranezze” manifestate durante la conversione originino da questo infortunio. Nessuno è in grado di provarlo. Jean Caradec Cousson o.h. sostiene che il de Castro ha il pregio di riferire fedelmente i fatti ma l’abitudine a interpretarli a modo suo. Ad esempio, “per lui è evidente che Giovanni Cidade ha recitato la parte del folle. Ora, contro questa opinione illogica, si leva la descrizione così viva dello stesso de Castro che descrive Giovanni Cidade impegnato in atteggiamenti e attività esplosive, incoercibili e non dirette a calcolare come lo sarebbe necessariamente degli atti simulati: inoltre, conviene prendere alla lettera le parole di Giovanni che non mentiva: “Fratello mio, che Nostro Signore vi ricompensi per la carità che mi avete testimoniato in questa casa di Dio, per tutto il tempo che sono stato malato. Ora mi sento bene e in grado di lavorare; per amor di Dio, lasciatemi dunque uscire!”.

Caradec Cousson, autore di “GIOVANNI DI DIO dall’angoscia alla santità” – Città Nova, pag 61) conclude così il ragionamento: “In breve, la Vita di Giovanni di Dio secondo il suo contemporaneo de Castro, letta attentamente ed interpretata secondo i criteri scientifici moderni, come anche le testimonianze concordi dei notabili di Granata, del direttore dell’ospedale regio e del paziente stesso, ci permettono di dedurre molto verosimilmente che: “No, Giovanni di Dio non ha simulato la follia. Egli è stato malato, come lo esprime lui stesso in termini moderni e dignitosi: “He estado enfermo” .

 

Nelle note a piè di pagina si legge: “Per provare che Giovanni Cidade non ha simulato la follia, l’autore invoca la testimonianza dei notabili e del direttore dell’ospedale, ma non condivide affatto il loro punto di vista sullo stato reale del suo eroe.

Alcuni lettori del Capitolo V (apparso sul “Lien Hospitalier” del novembre 1972 sembrano però supporlo, nonostante l’esposizione di un’opinione diversa, forse un po’ diluita nel corso del capitolo. Per togliere ogni equivoco in merito, ecco, in termini concisi la convinzione dell’autore. “Giovanni Cidade, affetto da uno shock nervoso acuto e breve, di forma angosciosa, conserva, nonostante tutto, la propria lucidità, ma diventa preda momentanea di impulsi disordinati, irresistibili, accettati, d’altra parte, con soddisfazione, perché appagano i suoi profondi desideri di espiazione”.

 

Quest’opinione è confermata dai gesti e dalle parole di Giovanni Cidade, riferiti fedelmente da de Castro. Infatti, “dopo alcuni giorni di ospedale, Giovanni dichiara di essere uscito dall’angoscia” (Ya me siento sano y libre…del dolor y angustia…).

 

Sul ricovero di Giovanni di Dio come pazzo nell’ospedale di Granata è intervenuto nel lontano 1951 anche un certo DON GIOVANNI COLOMBO, futuro cardinale arcivescovo di Milano in questi termini: “Su quest’ultima notizia (il ricovero) temo che un sorrisetto malizioso sforerà le labbra degli uomini moderni, saputi e prevenuti.Era da aspettarselo; ecco un soggetto da clinica psichiatrica!”. Non intendo qui rispondere esaurientemente, ma solo indurli a una riflessione che li renda più dubbiosi della loro opinione, più prudenti nel giudicare ciò che forse non è facile capire, insomma, più profondi. Il nemico irriducibilmente feroce dell’amore di Dio è l’egoismo che s’abbarbica nei fondi e sottofondi della natura umana con mille indistricabili radici ripullulanti ad ogni taglio. Solo a prezzo di trivellanti sofferenze lo si può disbarbicare (sradicare).

 

A volte, specialmente quando i disegni di Dio richiedono una bonifica completa, o quasi, della natura, la volontà umana non basta, occorre che intervenga l’azione di Dio con le cosiddette prove passive. Ecco, allora, le tribolazioni straordinarie interne ed esterne, le umiliazioni più cocenti, le malattie fisiche e psichiche. Non è da meravigliarsi se in questo arduo lavoro di purificazione la natura possa risentire scosse che talora ne facciano perdere momentaneamente il normale equilibrio. Anche la santità, come la scienza ed ogni altra grandezza, ha i suoi rischi.

Può darsi che la follia di Giovanni Ciudad sia stata soltanto una simulazione ricercata di proposito, a scopo ascetico.

Può darsi che sia stata un’interpretazione volgare del fervore che lo trasportava ad atteggiamenti inconsueti, ad azioni singolari, giustificabili in quel clima d’esaltazione mistica che non raramente si riscontra nella spiritualità iberica.

E può darsi pure che in parte sia stata anche un reale morbo psichico: contraccolpo nervoso del logorio intenso a cui la grazia purificatrice sottoponeva quell’ardente natura e in pari tempo esperienza preziosa per le imprese che Dio lo chiamava a compiere.

Comunque, fu tale malattia che per troppi aspetti sconcerterà sempre le dotte diagnosi dello psichiatra. Basti pensare all’uomo nuovo e all’opera meravigliosa, che ne uscirono. Poiché fu proprio nella notte di quel morbo che spuntò nello spirito di San Giovanni di Dio la luce riorganizzatrice ed orientatrice delle sue aspirazioni eroiche, fin allora saltuarie e disperse in molteplici direzioni.

 

Uscito dall’ospedale, egli è deciso a seguire un’idea che ormai gli brilla chiara davanti: amare Dio nel prossimo, e il prossimo nella sua carne sofferente. Sarà ancora e sempre l’avventuriero del buon Dio, ma non più ramingo per le strade del mondo esteriore, bensì per le vie del mondo interiore della carità: mondo assai più vasto di quello fisico, più interessante, più irto di rischi e di sorprese, più ricco di tesori.

Cominciano così le nuove avventure del cavaliere innamorato che va a liberare i poveri dalla schiavitù del bisogno, che, abbattendo pareti d’ipocrisia e di vergogna, salva ragazze pericolanti e risolleva donne cadute nella cattiva vita, che esplora con ronde infaticabili di giorno e di notte i vicoli malfamati e la periferia della città per raccogliere e soccorrere bambini e vecchi, orfani e vedove, sventurati e malati.

 

San Giovanni di Dio non è stato uno speculatore teorico, ma un attuatore pratico. Non ci ha lasciato una dottrina sulla carità, ma un esempio affascinante. Egli è uno che sulla terra ha aumentato l’amore, non “con le labbra e le parole” ma “coi fatti e in realtà” (1 Gv 3,18).

Gli bastò un passo del Vangelo: “Qualunque cosa farete anche al più piccolo dei miei fratelli l’avrete fatto a me” (Mt 25,40).

Di questo passo gli è bastato il comandamento dell’Evangelista di cui portava il nome: “Noi sappiamo di essere passati da morte a vita perché amiamo i fratelli…Se uno pretende d’amar Dio e resta freddamente indifferente davanti al suo fratello, sappiamo che è un mentitore. Infatti, non amano il fratello che egli vede, come potrà amare Dio che non ha mai visto?” (1 Gv 3,13; 4, 19-20). Su queste lineari verità della rivelazione divina ha costruito tutto l’edificio della sua santità personale e della sua opera ospedaliera. Si persuase irremovibilmente di due cose.

1. La prima è che uno dei modi di permanenza di Gesù sulla terra sta nella sofferenza degli umili, degli abbandonati, dei poveri e dei malati: ogni corpo umano è carne del corpo mistico di Cristo, ogni piaga e ogni agonia umana è un prolungamento nei secoli delle piaghe e dell’agonia del Figlio di Dio.

2. La seconda è che la via dell’amore vero si trova nella concretezza del sensibile: non si giunge all’amore del Dio invisibile se non attraverso l’amore dell’uomo visibile, non si giunge a guarire le piaghe invisibili dell’anima dell’uomo se non attraverso l’amore alle piaghe visibili del suo corpo sofferente.

Nella luce di queste certezze egli dell’OSPEDALE fece un TEMPIO: il servizio degli ammalati divenne un OPUS DEI, una liturgia d’amore e di dolore con le sue rubriche minuziose indicanti la cura, la dieta, la visita, a ore fisse e a qualsiasi ora”.

Come si vede, anche questo punto di vista ha le sue interessanti suggestioni ma non “s-velano il travaglio interiore di quest’uomo, sconvolto da un panegirico su San Sebastiano, in un freddo inverno (qualcuno parla d’estate), all’Eremo dei Martiri di Granata, mescolato tra una folla amante della tradizione e richiamata dal nome famoso dell’oratore. Sembra che “le frecce divine” scagliate con veemenza abbiano preso di mira proprio lui, nudo come e fragile come il cristiano martire militare romano, sotto l’impero di Diocleziano.

 

La CHEMIOTERAPIA dello spirito è già in atto.

Nelle lunghe pause, Giovanni ha sfogliato i libri ascetici che vende e s’è fatto una modesta cultura. La vita ascetica è farcita di norme: non fare questo, non fare quello…Noi oggi diremmo che la norma morale è un “semaforo”. Epperò, dietro ogni comportamento deviante di chi non rispetta la segnaletica e passa con il “rosso”, c’è un uomo che non sempre ha coscienza del reato e magari neppure ha il senso del peccato.

In Giovanni “ribellione, disarmonia e smarrimento”, entrambi sono presenti e pulsano dentro di lui.

Per occhi attenti, colpisce sempre questa dimensione molto umana, di umana fragilità e spesso di umana inconsistenza, che si cela dietro ogni nostro comportamento deviante. E il “giudice” che gli si troverà davanti, il santo Giovanni d’Avila, ha la consapevolezza della “personalizzazione della colpa”.

Se i suoi sermoni attirano è perché il popolo percepisce che dietro il “giudice” del confessionale c’è l’uomo di Dio che in ogni comportamento deviante sa scorgervi la persona, la sua ribellione o il suo smarrimento. Il suo compito di fondo è di restituire la libertà alla persona che ha di fronte, sottraendola proprio alla ribellione, allo smarrimento, alla disarmonia interiore in cui per tanti e oscuri motivi si è imprigionato con le sue stesse mani.

Il messaggio contenuto nel panegirico è lacerante: Giovanni si sente come sul banco degli imputati, avverte che è giunto il momento, adesso, qui, ora, di uscire dall’ambiguità.

Alla “verità dell’oscuro”, farà seguire la terapia contenuta nel salmo 50: “crea in me”, “rendimi la gioia”. Ed il punto di partenza per comprendere la sindrome da Miserere che colpisce il quarantacinquenne avventuriero è di assimilare il Testo:

3 Pietà di me, o Dio, nel tuo grande amore; /nella tua misericordia cancella il mio errore.

4 Lavami da ogni mia colpa, / purificami dal mio peccato.

5 Sono colpevole e lo riconosco, / il mio peccato è sempre davanti a me.

6 Contro te, e te solo, ho peccato; / ho agito contro la tua volontà.

Quando condanni, tu sei giusto, / le tue sentenze sono limpide.

7 Fin dalla nascita sono nella colpa, / peccatore mi ha concepito mia madre.

8 Ma tu vuoi trovare dentro di me verità, / nel profondo del cuore mi insegni la

sapienza.

9 Purificami dal peccato e sarò puro, / lavami e sarò più bianco della neve.

10 Fa’ che io ritrovi la gioia della festa, / si rallegri quest’uomo che hai schiacciato.

11 Togli lo sguardo dai miei peccati, / cancella ogni mia colpa.

12 Crea in me, o Dio, un cuore puro; / dammi uno spirito rinnovato e saldo.

13 Non respingermi lontano da te, / non privarmi del tuo spirito santo.

14 Ridonami la gioia di chi è salvato, / mi sostenga il tuo spirito generoso.

15 Ai peccatori mostrerò le tue vie / e i malvagi torneranno a te.

16 Liberami dal castigo della morte, mio Dio, / e canterò la tua giustizia, mio Salvatore.

17 Signore, apri le mie labbra / e la mia bocca canterà la tua lode.

18 Se ti offro un sacrificio, tu non lo gradisci; / se ti presento un’offerta, tu non l’accogli.

19 Vero sacrificio è lo spirito pentito: / tu non respingi, o Dio, un cuore abbattuto e umiliato.

20 Dona il tuo amore e il tuo aiuto a Sion, / rialza le mura di Gerusalemme.

21 Allora gradirai i sacrifici prescritti, / le offerte interamente consumate: tori saranno immolati sul tuo altare.

 

A proposito del “Pietà di me o Dio nel tuo amore”, il Martini è illuminante: “La prima parola è racchiusa in un verbo ma, in realtà, è la radice. di un sostantivo. Quello che in italiano traduciamo con: «Pietà di me, o Dio », in ebraico è semplicemente: «Grazia, fammi grazia, riempimi della tua grazia». Si chiede dunque a Dio che sia per noi grazia, che prenda interesse a chi sta male, a chi si trova in difficoltà, che ci dia una mano. È l’esperienza di Maria che canta: «Signore, tu hai guardato alla povertà della tua serva e mi hai fatto grazia, mi hai riempito della tua grazia».

Ed un’altra osservazione ci è preziosa e ci sarà di aiuto: “Dio è dono gratuito, è l’essenza della gratuità. Quando noi diciamo che Dio non può aver alcun interesse a pensare a noi, ad occuparsi di noi, riveliamo di avere un’idea falsa di Dio. Abbiamo di Lui, per dirlo con una parola tecnica, un’idea farisaica, che cerca cioè di capire Dio partendo dalle categorie del calcolo. Dio gode nel poter donare qualcosa a chi ha bisogno di essere sostenuto, a chi non si sente nessuno, a chi si sente in basso. Egli vuole versare il suo valore in noi e non giudica il nostro”.

UNA PAROLA A PROPOSITO DEI SALMI

André Chouraqui fa una considerazione che merita di essere rilevata. Egli scrive che Noi nasciamo con questo libro nelle viscere. Un piccolo libro: centocinquanta canti, centocinquanta gradini eretti tra la morte e la vita; centocinquanta specchi delle nostre rivolte e delle nostre fedeltà, delle nostre agonie e delle nostre resurrezioni. Più che un libro, un essere vivente che parla – che vi parla – che soffre, che geme e che muore, che resuscita e canta, sulla soglia dell’eternità – e vi prende e vi porta con sé, voi e i secoli dei secoli dall’inizio alla fine”.

La sottolineatura è importante perché la vedremo posta in essere in Giovanni Cidade, alle prese con il suo dramma esistenziale. Pur non proferendo parola, il salmo 51 respira con lui, i battiti del cure scandiscono uno ad uno i ventuno stati d’animo che lo compongono. Tanto da assistere ad una reazione liberatoria che si verifica sì nella sua coscienza ma si manifesta anche esteriormente, tanto da essere notata, annotata e trasmessa a noi come un “fatto”, lì per lì irrazionale, ma chiaritosi nel tempo, pur con le diverse e talora opposte interpretazioni.

Dall’Avila, ministro della Parola, Giovanni riceve una chiara indicazione:

  • Non ci può essere riconciliazione di nessun genere senza conversione del cuore.
  • La conversione del cuore comprende delle tappe che non sono ad libitum: non è possibile saltarle o disattenderle.
  • E’ un itinerario che va acquisito e percorso perché è fatto a partire dal cuore dell’uomo.
  • Il cammino penitenziale personale ha ripercussioni sul mondo: Giovanni di Dio accelera in sé la riconciliazione umana e cosmica.

LA CONFESSIONE

Giovanni, prima ancora di recarsi dal confessore d’Avila, fa una confessione pubblica. Ma non è tanto un’autoaccusa: ho fatto questo, ho commesso quest’altro…ho fatto ciò che non dovevo fare, ho sbagliato…Il rischio dell’autocritica è proprio l’autogiustificazione che non necessita del perdono di Dio. Nel nostro caso c’è piuttosto un dialogo intimo, personale, filiale con Colui che lo ha cercato, atteso all’appuntamento, amato: “ho fatto ciò che ai tuoi occhi è male”. Non ho fatto male soltanto contro la tua legge ma quello che è male “ai tuoi occhi”.

Ovviamente Giovanni non procede con questa visione schematica ma sotto l’impulso della Parola (Spirito) che lo ha braccato, amorevolmente ferito come una lancia nella sua parte più vulnerabile: l’orgoglio. In ginocchio, sul pavimento gelido di una chiesa, il 20 gennaio 1539, capisce che è giunto il momento di “decidersi per Dio”. E fa la sua scelta, la sua solenne “professione religiosa”, non prevista, non programmata, con una liturgia non canonica.

La consacrazione è in questi termini: “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù”. E’ l’anticipazione dei quattro voti che professeranno i suoi discepoli.

Non veste un abito, non professa una regola, non appartiene a una famiglia monastica, non ha un Cardinale protettore. E’ uomo del Vangelo. Nudo, povero, libero obbediente alla Voce del “Maestro interiore” ed al suo “ministro” che gli a posto al fianco come guida: il sacerdote Giovanni d’Avila.

CAMMINO PENITENZIALE

Da questo momento inizia il suo cammino penitenziale.

Il “grazie” per queste riflessioni va detto al mio Arcivescovo, il Cardinale Carlo Maria Martini per il commento al Salmo 50 che fece tra il 1983-84, quando convocò in Duomo i giovani per ascoltare e per pregare con il loro Arcivescovo, dando vita a quella esperienza contagiosa organizzata dall’Azione Cattolica Ambrosiana, che va sotto il nome di SCUOLA DELLA PAROLA. Ricordo benissimo quei tempi perché si è trattato di uno dei momenti più forti e significativi della sua esperienza episcopale insieme ai giovani, che ha lasciato un segno duraturo. Non più giovane, – allora avevo 41 anni – necessitavo anch’io proprio di questa riconciliazione con me stesso e le sue riflessioni mi hanno segnato profondamente.

Da quelle sue meditazioni ho tratto due insegnamenti fondamentali:

1. La chiave di lettura della “conversione” di Giovanni di Dio, risultata “eccessiva” per i suoi contemporanei, tanto da farlo internare nel manicomio dell’Ospedale Regio di Granada.

  1. La linfa che potrà alimentare anche le generazioni future, paragonabili in ogni epoca a Davide, il peccatore pentito.

L’unico a vederci chiaro, sarà proprio San Giovanni d’Avila, con il quale Dio aveva predisposto l’incontro che avrebbe modificato definitivamente l’itinerario del suo penitente. Perché l’iniziativa, il punto di partenza di ogni cammino di conversione del cuore è sempre un’iniziativa divina: Dio, il leale, l’affidabile, il fedele, il buono, il tenero, il costante nell’attenzione e nell’amore, espressioni riassumibili in una: il Misericordioso è sempre il primo a dare la mano; “il piatto della bilancia pende sempre dalla parte della Sua bontà”.

Le parole che c’introducono, sono semplici e brevi: “Pietà di me…”. La parola forte, il pugno nello stomaco è il termine “peccato”. Nel testo ebraico il significato è più precisato, usa tre parole che andrebbero lette così:

cancella la mia ribellione,

lavami da ogni disarmonia,

mondami (tirami fuori da ogni mio smarrimento”.

Senza bisogno di scomodare psichiatri e psicologi, la vera risonanza magnetica che non mente è la Parola di Dio. Essa che ci dice per filo e per segno cos’è accaduto a Giovanni di Dio all’Eremo dei Martiri in quel lontano 1539.

Di suo egli ha messo solo quell’eccesso di esteriorizzazione mal interpretato che solo degli innamorati come lui, folgorati da una luce interiore accecante sarebbero stati in grado di comprendere. Tant’è che l’unico a non meravigliarsi sarà proprio il “provocatore” della situazione Giovanni d’Avila. Un miracolo della Grazia che ha dato vita non solo a una personale conversione ma ad una nuova famiglia religiosa e fatto di lui un “vir misericordiae” additato alla Chiesa universale. Da un evento personale, a un progressivo mutamento di mentalità ecclesiale che perdura.

Giovani di Dio all’Eremo non ha da presentare a Dio la sua fragilità: egli si percepisce come uomo peccatore. Epperò avverte che Dio è attivo su di lui: lo sta lavando, lo monda, sente che è in corso una purificazione, una dialisi potremmo dire; egli sta sperimentando una cosa inedita: che il Dio della sua vita è buono, è verità, è misericordia.

Anche se non trova le parole giuste come Davide, le sue sillabe, le lettere dell’alfabeto che farfuglia, vengono trasformate dallo Spirito che prega in lui: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Romani 8, 26-27).

Bello! Nella Lettera a Proba, Agostino scrive: «Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi. Dio infatti “pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime”(Salmo 55, 9), e il nostro gemito non rimane nascosto (cf. Salmo 37,10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uomini» (2).

Risuona il monito di Gesù. Quando pregate, non pensate di ottenere attraverso il vostro molto pregare, perché il Padre sa benissimo ciò di cui avete bisogno. Tuttavia Gesù stesso ci insegna a esprimere i nostri bisogni. Non tanto però – dice Agostino – con la moltiplicazione delle parole in quanto tale, bensì con una moltiplicazione che esprima il gemito del credente. Viene così introdotta la nozione di «gemito» che ritroviamo nella pagina di san Paolo.

In Giovanni di Dio accade proprio questo: la preghiera di richiesta di vita nuova parte dal cuore, non è superficiale, più che di parole, assomiglia a un gemito, un desiderio profondo. Gemere, infatti, significa anelare a qualcosa di cui si ha estremo bisogno; anche fisicamente il gemito è l’espressione di chi, mancando di aria, cerca di aspirarla.

Egli si appropria, per così dire, della sua povertà e miseria; riconosce il suo stato di uomo peccatore, ammette la sua incapacità ad armonizzare la sua vita morale, di dichiara bisognoso di perdono. Questo quarantacinquenne avverte che Dio vuole sincerità nel cuore e non esita ad accettare il poco, il niente che è.

Questa confessio vitae è corrispondente ai vv. 5-8 del salmo 50 ma sfugge, non è capita dalle persone che gli stanno attorno. Solo Giovanni d’Avila si rende conto del miracolo della Grazia che è in atto e non esita a riconoscerlo. Per gli altri è uno che merita solo commiserazione: un poverino uscito di senno. Ma egli, dopo l’elettrochoc provocato dalla Parola di Dio, a poco a poco, avverte che Dio è capace di fare in lui qualcosa di nuovo. Lui che ha sperimentato la sua insufficienza morale, non esita a riconoscere l’azione dello Spirito in atto e accetta di fare pace con se stesso: è la confessio fidei : “Lavami, e sarò più bianco della neve”.

La gioia, la letizia, non arrivano subito. Il “Ridonami la gioia di chi è salvato; mi sostenga il tuo spirito generoso.”(v.14), verrà. Ma lui ormai è stato collocato sul binario giusto e la potenza di Dio non tarderà a manifestarsi.

IL PASSATO E’ PASSATO

Dio, che gli ha fatto grazia di guardare in avanti, ora gli mette in cuore la confessio laudis. Ha sperimentato il soffio di vita, la forza di Dio? Qui riceve l’investitura: vai e annuncia quanto Dio ha fatto per te, sìì testimone della salvezza che hai ricevuto: “Ai peccatori mostrerò le tue vie e i malvagi torneranno a te”(v. 15).

D’ora innanzi dovrà essere un predicatore del Dio che salva: “Dona il tuo amore e il tuo aiuto a Sion, rialza le mura di Gerusalemme”.(v.20) E’ la missione che avrà nella Chiesa. A cominciare da Granada. La sua croce sarà la sua gioia, ora che è stato reso capace di annunziare le grandi opere di Dio. Il suo motto sarà “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù”.

E’ evidente che questo percorso di ri-conversione del cuore non si è esaurito nell’arco di una giornata. Sono state necessarie delle tappe che il nuovo Giovanni non ha potuto disattendere o saltare. Quanto più cercheremo di ripercorrere quel processo che abbiamo chiamato sindrome da Miserere, tanto più ci convinceremo che si è trattato sì di vera follia ma di quella contagiosa del Signore Crocifisso-Risorto. Non lo ha scritto proprio l’apostolo Paolo che “la parola della croce sembra una pazzia a quelli che vanno verso la perdizione”, mentre “per noi che Dio salva, è la potenza di Dio?” Paolo sa bene di non dire una cosa nuova e cita le Scritture dei padri: “Sta scritto infatti: ”Distruggerò la sapienza dei sapienti e squalificherò l‟intelligenza degli intelligenti” (1Cor 1, 18-19).

E poi aggiunge di suo: Dio ha deciso di salvare quelli che credono, mediante questo annuncio di salvezza che sembra una pazzia. Gli Ebrei infatti vorrebbero miracoli, e i non Ebrei si fidano solo della ragione.

Noi invece annunziamo Cristo crocifisso, e per gli Ebrei questo messaggio è offensivo, mentre per gli altri è assurdo.

Ma per quelli che Dio ha chiamati, siano essi Ebrei o no, Cristo è potenza e sapienza di Dio. Perché la pazzia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini.

Guardate tra voi, fratelli. Chi sono quelli che Dio ha chiamati? Vi sono forse tra voi, dal punto di vista umano, molti sapienti o molti potenti o molti personaggi importanti? No!

Dio ha scelto quelli che gli uomini considerano ignoranti, per coprire di vergogna i sapienti; ha scelto quelli che gli uomini considerano deboli, per distruggere quelli che si credono forti.

Dio ha scelto quelli che, nel mondo, non hanno importanza e sono disprezzati o considerati come se non esistessero, per distruggere quelli che pensano di valere qualcosa.

Così, nessuno potrà vantarsi davanti a Dio.

Dio però ha unito voi a Gesù Cristo: egli è per noi la sapienza che viene da Dio. E Gesù Cristo ci rende graditi a Dio, ci dà la possibilità di vivere per lui e ci libera dal peccato. Si compie così quel che dice la Bibbia: Chi vuol vantarsi si vanti per quel che ha fatto il Signore (idem 21-31).

La riflessione potrebbe estendersi ulteriormente ma ci porterebbe molto lontano, perché la Bibbia è un pozzo senza fondo. Vorrà dire che sarà per un’altra volta.

Si noti l’antica iconografia: Giovanni di Dio è ripetutamente riprodotto con il simbolo della somma follia: la Croce.

San Giovanni di Dio affascina non per le cose dette o scritte, che sono poche, ma per la la testimonianza. La sua esistenza, del resto come quella di ogni altro uomo, in qualunque sistema sociale ed economico si inquadri, è un evento attraversato, segnato dalla croce: dal dolore, dall’affanno, dalla sofferenza e dalla morte. Oggi come ieri, come domani.

FATEBENEFRATELLI”: E’ SOGNO AD OCCHI APERTI CHE PERDURA – Angelo Nocent

Granada sarà la tua croce”. La leggenda del Gaucín” – Nonostante la mancanza di fonti storiche, una delle storie più significative ed evocative che cercano di spiegare l’arrivo di San Giovanni di Dio a Granada è la celebre leggenda del Gaucín.

Si tratta di questo: “il santo ebbe un incontro con un umile trovatello, mentre passeggiava presso il piccolo comune di Gaucín, in Spagna.

Deciso a non abbandonarlo, Giovanni prese il bambino con sé sulle spalle e proseguì il cammino.

Fermatosi per bere ad una fonte, Giovanni adagiò il bambino sotto un albero, il quale mostrò al santo un melograno spaccato, dal quale fuoriusciva una croce, e gli disse: “Granada sarà la tua croce”.

  • L’emblematica assonanza tra il nome della città e la leggenda del frutto costituisce ancora oggi per i Fatebenefratelli un lascito importante per la cultura dell’Ordine.”

Dunque: LEGGENDA o LASCITO ?

Mi rifiuto di sottoscrivere che quella di Gaucín sia leggenda, perché ritengo l’interpretazione fuorviante: non è VERO solo tutto ciò che è dimostrabile e documentabile.

Mi chiedo: ci si può innamorare di una leggenda a tal punto da farla sbarcare sui cinque continenti e moltiplicare esponenzialmente gli “illusi” o “infatuati” durante i successivi cinque secoli fino ad oggi?

Nessuno è autorizzato a definire “LEGGENDA” quella che vede per protagonista lo sbandato Giovanni di Dio. Perché c’è di mezzo il Maestro interiore, lo Spirito di Gesù che lo ha preso per mano e lo sta conducendo perché si realizzi il progetto che l’Eterno ha su quest’uomo, sbandato ma credente e pensante.

L’annunciazione dell’Angelo a Maria è leggenda? Nessuno osa pensarlo. Per noi è un “fatto”. Ed è anche sconvolgente. Noi testimoni solo degli effetti che ha provocato non riusciamo a credere che l’ effetto si ha senza causa.

Perciò, senza cadere nel miracolistico, mi sento di dire che tutta la nostra vita, compresa quella di Giovanni di Dio, è fatta di appelli, vocazioni, annunciazioni, che Dio rivolge in tutti i tempi, ad ogni ora del giorno ma anche della notte. Se in principio era il Verbo, ora Egli è un CONTEMPORANEO che abita fra noi. Ma se di messaggi, vocazioni, annunciazioni, sollecitazioni, inviti… è piena la nostra vita, senza l’illuminazione del Vangelo, il rischio è di non accorgercene.

Mi viene in mente Francesco d’Assisi. Nessuno definisce leggenda la sua esperienza: “In preghiera, davanti al Crocifisso di San Damiano, scoprì in modo più chiaro la via da seguire: il “Cristo povero e crocifisso”. Da lui ricevette un ordine ben preciso che si accinse a seguire con tutto se stesso: «Francesco, va’ ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina» (2 Cel. 3).

Francesco ebbe, per tutta la vita, la persuasione di essersi mosso sotto l’azione dello Spirito Santo fin dall’inizio della sua conversione. Tutto è dono e iniziativa del Signore:

«Il Signore concesse a me, frate Francesco»,

«Il Signore mi condusse tra i lebbrosi»,

«Il Signore mi dette tanta fede»,

«Il Signore mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo»

A fare attenzione, non è difficile avvertire che la nostra vita è piena di angeli, di messaggeri, di apparizioni. Ma è solo l’esperienza religiosa dei primi testimoni che può aiutarci a identificarli.

Il modo migliore di leggere il Vangelo è proprio quello di pensare che tutto quanto vi si trova, capita anche nella nostra vita. Ciò che è accaduto ai primi testimoni, succede anche ai nostri giorni.

Il modello ideale di lettura del Vangelo è Maria.

Da che cosa ha riconosciuto l’angelo?

Come è giunta alla certezza che quel messaggio veniva da Dio?

Ognuno ha il diritto di chiedersi:

da che cosa potrei riconoscere un angelo?

Da che cosa riconoscere che un pensiero, un incontro, un avvenimento vengono da Dio?

E’ un problema vitale, lo stesso che dovette risolvere Maria. Lei come ha fatto?

Anzitutto, non si è lasciata indurre a credere immediatamente.

Ha riflettuto, si è interrogata, ha messo in questione questa vocazione straordinaria.

In presenza di una Parola di Dio, ci sono due attitudini pericolose:

quella di rifiuto, del lasciar perdere perché non ci si vede chiaro;

l’altra, di capirci tutto, dell’evidenza, della non meraviglia, dello scontato.

Ma il solo modo ragionevole è quello assunto da Maria: “Ella non capiva ciò che egli diceva, ma conservava tutte quelle cose e se le ripeteva nel cuore” (Luca 2,51).

Tutto avviene nel tempo, col tempo, mettendovi del tempo, perché il discernimento dello Spirito non funzione come il caffè liofilizzato istantaneo.

Poi Maria ha consultato le scritture. Tutti i testi di Luca come anche di Matteo, sono citazioni di profeti ed il Magnificat ci dice come Maria vedeva la sua vocazione: nella linea di tutti quei poveri, di tutte quelle fecondità che l’avevano preceduta.

Come si dirà più avanti, si diventa FATEBENEFRATELLI non tanto per scelta ma per ACCETTAZIONE di una chiamata dall’alto, nel consenso quotidiano di un destino che oltrepassa la nostra previsione e immaginazione. Anche Giovanni di Dio si è trovato coinvolto in un progetto talmente più grande di lui da sembrare folle il progetto e più folle il consenziente.

A chi accetta di inoltrarsi in questa avventura umana e divina è richiesto di muoversi nella logica della fede:

ricettività e riflessione,

gioia e timore,

senso di Dio e buon senso umano.

Le grazie di Dio talvolta giungono come tegole sulla testa. Lasciarsi sconvolgere e pregare, leggere e riflettere le Scritture, conservare e ruminare dentro l’anima gli avvenimenti, è il solo modo ragionevole di procedere.

Perché Dio interpella proprio me?

Perché mi fa rivivere tutte le angosce dei poveri, dei perseguitati, delle sterili, degli esseri duramente abbandonati da Dio nel quale hanno messo la loro fiducia?

Degli innocenti calpestati, accusati, respinti?

Dei sofferenti senza via d’uscita, degli angosciati dalla vita?

Maria scopre che dietro c’è la fedeltà di Dio, il suo stare ai patti, il suo mantenere le promesse:

– “Ha accolto Israele, suo servo…

la sua misericordia di generazione in generazione verso coloro che si fidano di Lui”.

L’angelo in carne ed ossa che Maria ha incontrato è Elisabetta, una donna anziana che aveva sofferto come lei e che l’ha incoraggiata a credere, lei così giovane è già così coinvolta nei destini di Dio.

Anche Giovanni di Dio quando riconosce la sua annunciazione canta il Magnifica a modo suo. Gli altri ridono, prendono le distanze dall’impazzito. Lui invece vede realizzarsi le promesse di Dio proprio là dove non aveva sperimentato che i suoi tormenti e disagi assieme a quelli di sventurati suoi simili internati e incatenati nel manicomio.

Come Maria e Giovanni di Dio, i discepoli, consacrati o laici, accettano di associarsi alle follie di Dio, ai suoi progetti grandiosi. Presi singolarmente, essi sono piccola cosa. Messi insieme, diventano trasportatori di ossigeno nel tessuto umano in preda all’anemia, a rischio di cancrena.

La loro determinazione al “servizio trasporto ossigeno” la imparano dalla MATER HOSPITALITATIS, nel senso del suo Magnificat:

1. “Cerco nel cuore le più belle parole per il mio Dio,

2. l’anima mia canta per il mio amato” (Lc 1,46).

3. “Perché ha fatto della mia vita un luogo di prodigi,

4. ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore” (Lc 1,47)

5. “Ha guardato me che non sono niente:

6. sperate con me, siate felici con me,

7. tutti che mi udite.

8. Cose più grandi di me stanno accadendo.

9. E’ Lui che può tutto, Lui solo, il santo!” (Lc 1, 48-49)

10. “ E’ lui che ha guardato, è lui che solleva,

11. è Lui che colma di beni, è lui…”

12. “Santo e misericordioso, santo e dolce,

13. con cuore di madre verso tutti, verso chiunque”

(Lc 1,50).

14. “Ha liberato la sua forza,

15. ha imprigionato i progetti dei forti” (Lc 1,51).

16. “Coloro che si fidano della forza sono senza troni.

17. Coloro che non contano nulla hanno il nido nella sua mano” ( Lc 1,52)

18. “Ha saziato la fame degli affamati di vita,

  1. ha lasciato a se stessi i ricchi:
  2. le loro mani sono vuote,
  3. i loro tesori sono aria” (Lc 1,53)

DISTRIBUTORI DI OSSIGENO

Essere FATEBENEFRATELLI vuol dire CANTARE IL MAGNIFICAT CON LA VITA, ossia portare e TRASFONDERE Vangelo, le gioiose notizie che tutti devono venir a sapere, ossia:

1. Che Dio ha attraversato i cieli,

2. Che l’emoglobina, ossia l’amore, scende dal cielo verso

la terra e non viceversa,

3. Che Lui ci conosce così bene che sarebbe capace di dirci

quanti capelli abbiamo in testa,

4. Che Dio ci conosce uno per uno, si ricorda il nostro

nome,

5. Che ci incoraggia a respirare meglio con il Suo respiro,

6. Che a sognare con Lui i sogni si avverano,

7. Che a vivere la Sua vita, non c’è nulla da perdere, anzi!

  1. Che Dio è totalmente a disposizione dell’uomo,
  2. Che Egli prova più gioia nel dare che nel ricevere.

Se i FATEBENEFRATELLI si fanno guidare da Maria percepiscono ciò che Lei per prima ha intuito dalle confidenze dello Spirito: che, rispetto al decalogo della Antica Alleanza, che era al centro della Tôrah, il Nuovo Decalogo non è più PRESCRITTIVO di comportamenti dell’uomo verso Dio e i fratelli, ma NARRATIVO, DESCRITTIVO di un Dio che è per l’uomo.

Decalogo che Luca illustra con meticolosità nella parabola del buon samaritano, dove in quella catena di verbi è evidente che il contare di Dio non si ferma a dieci ma sconfina alla grande quando s’impegna con l’uomo che incontra sulla Gerusalemme-Gerico del mondo (Lc 1o,25-37):

“…Invece un uomo della Samaria, che

1. era in viaggio,

2. gli passò accanto,

3. lo vide,

4. ne ebbe compassione

5. Gli andò vicino,

6. versò olio e vino sulle sue ferite

7. e gliele fasciò.

8. Poi lo caricò sul suo asino,

9. lo portò a una locanda

10. e fece tutto il possibile per aiutarlo.

11. Il giorno dopo tirò fuori due monete

12. le diede al padrone dell’albergo

13. e gli disse:”Abbi cura di lui

14. e se spenderai di più

15. pagherò io quando ritorno “

FATENBENEFRATELLI significa sottoscrivere il decalogo che è di ogni credente, anzi, riguarda ogni uomo che sogni il sogno di Dio: UNA TERRA FATTA DI PROSSIMI (di tanti globuli rossi TRASPORTATORI DI OSSIGENO).

Con gli occhi di Maria, già vedo germinare i glomeruli dal midollo osseo della Cina. Donne e uomini, dalle campagne alle città, dagli ospedali alle trascurate periferie, muoversi in direzione delle persone più “anemiche”. Ci confermano che i “pionieri o.h.” sono già in avanscoperta a trattare con le Autorità Cinesi. Ma, per un Paese così sterminato, dovranno seguire consistenti rinforzi, tutti ancora in incubazione. E con la Cina, la sterminata Africa…il Mondo…

La fortuna è che tutto il mondo (O  stupore immenso!) può contare sulla stessa Messa, sull’EUCARISTIA, SACRAMENTUM HOSPITALITATIS !

Chi incappa in un’annunciazione, trovi il coraggio di rispondere come Maria: “Fai di me ciò che tu vuoi”. Il dopo si sa a priori come finirà: non può essere che un GIOVANNI DI DIO CONTEMPORANEO con in testa la medesima profezia:

ha fatto della mia vita un luogo di prodigi,

ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore” (Lc 1,47).

 

 

RICCARDO PAMPURI: VANGELO VISSUTO – Angelo Nocent

PRIMA DI PORTARLO IN CIELO perché venisse posto all’attenzione della Chiesa Universale, il giovane ERMINIO-RICCARDO PAMPURI è stato inviato dal Signore in diversi luoghi che ha attraversato con tenacia, tra mille difficoltà, spargendo “SOAVE ODORE”: “Non rendete triste lo Spirito Santo che Dio ha messo in voi come un sigillo come garanzia per il giorno della completa liberazione. Fate sparire dalla vostra vita l’amarezza, lo sdegno, la collera. Evitate le urla, la maldicenza e le cattiverie di ogni genere. Siate buoni gli uni con gli altri, pronti sempre ad aiutarvi; perdonatevi a vicenda, come Dio ha perdonato a voi, per mezzo di Cristo.” (Efesini 4, 30-32).

E ancora: “Poiché siete figli di Dio, amati da lui, cercate di essere come lui: 2vivete nell’amore, prendendo esempio da Cristo, il quale ci ha amati fino a dare la sua vita per noi, offrendola come un sacrificio gradito a Dio. (”di soave odore)(Ef. 5, 1-2).

Al suo passaggio egli ha lasciato tracce di VANGELO VISSUTO in contesti differenti: famiglia adottiva, ginnasio, liceo, università, parrocchia, attività missionaria, servizio militare, condotta medica… e per ultimo in convento.

In ogni percorso ha messo se stesso a DISPOSIZIONE DI DIO seguendo il GESU’ del Vangelo. E se il progetto è brillantemente riuscito è perché ha saputo coltivare la sua capacità di giudizio, sviluppare in modo intelligente la sua personalità mettendola unicamente al servizio di Cristo, sempre sottomesso all’OBBEDIENZA.

Nei vari contesti ha cercato di scoprire la sua VOCAZIONE PERSONALE, mai separato dalla comunità, sia civile che ecclesiale o religiosa, un “CONSACRATO” ogni volta e in ogni circostanza a tutti i membri del corpo di Cristo, a tutti gli esseri umani, percepiti come fratelli, tralci di un’ unica Vite, anticipando il Concilio Vaticano II. Sulla CONSECRATIO MUNDI, infatti, per definire la funzione sacerdotale del FEDELE LAICO, nella Lumen Gentium, afferma: «Cosí anche i laici, operando santamente dappertutto come adoratori, consacrano a Dio il mondo» (LG 34).


Luce posta sul candelabro, lievito nella pasta, consapevole che non a tutti sono date le medesime intuizioni, le stesse grazie, un’unica vocazione, ispirandosi ai santi che man mano veniva a conoscere, in definitiva si è immedesimato nello stampo di GESU’ CROCIFISSO.

Cammin facendo ha compreso che, se si vuol DONARE LA VITA IN MODO TOTALE, non c’è alternativa: il modello unico è IL GESU’ DEL VANGELO, fermento divino della pasta umana.

Ma seguire questa via comporta dei rischi: essere trattato come hanno trattato Lui, il Maestro, visto o come un rivoluzionario o come un povero illuso, e sarà molto duro resistere. Il Pampuri lo aveva capito prima ancora di entrare in convento. E la conferma in seguito gli verrà proprio da San Giovanni di Dio che, nella lettera inviata a Luigi Battista, un ragazzo desideroso di seguire le sue orme, non gli prospetta illusioni.

Chi ne è affascinato e vorrebbe tentare la scalata deve anche sapere che LA FRAGILITA’ non solo non è un impedimento, ma può diventare perfino un punto di forza, perché DIO AMA LE MANI VUOTE. Egli infatti è pronto a versare MISURE TRABOCCHEVOLI a coloro che APRIRONO IL SACCO dell’esistenza: “Non giudicate e Dio non vi giudicherà. Non condannate gli altri e Dio non vi condannerà. Perdonate e Dio vi perdonerà. 38Date agli altri e Dio darà a voi: riceverete da lui una misura buona, pigiata, scossa e traboccante. Con la stessa misura con cui voi trattate gli altri, Dio tratterà voi‘. (Luca 6, 37-38)

Allora una via, per quanto piena di difficoltà e di pericoli, con le sue svolte ed i precipizi di lato, senza barriere umane protettive e sicure, richiedono formazione solida dell’intelligenza, del giudizio, della volontà e del cuore. Occorrerà soprattutto un IMMENSO AMORE, quello che lo SPIRTO DI GESU’ NON FA MAI MANCARE a chi lo chiede.

RICCARDO PAMPURI E IL TERZO MILLENNIO – Nocent Angelo

 

COSA PUO’ DIRE UNO CHE GUARDA IL PAMPURI OGGI?

GRAZIE !
– Grazie anzitutto a Dio, Padre della luce, dal quale viene ogni buon regalo e ogni dono perfetto: Lui solo PUO’ SUSCITARE nel cuore dell’uomo un desiderio efficace di mettere in gioco la vita consacrandola al vangelo.
– Grazie al Signore GESU’ che ha portato a compimento il cammino iniziato da RICCARDO, ha mantenuto salda in lui la decisione, gli ha la forza di superare la sfida del tempo e di portare il peso del quotidiano senza lasciarsi fiaccare da fatiche, critiche, insuccessi, umiliazioni.
– Grazie per averlo mantenuto FERVENTE NELL’AMORE e non aver lasciato INARIDIRE il suo cuore con l’attaccamento a soddisfazioni meschine.
– Grazie alla famiglia che lo ha adottato e nella quali il senso della fede è stato trasmesso con la parola e con l’esempio, con l’amore e col sacrificio.
– Grazie alla comunità cristiane di Trivolzio, al Terz’Odine Francescano, alla comunità di Morimondo, ma non solo, grazie all’Ordine dei Fatebenefratelli che HA TROVATO IL CORAGGIO di accoglierlo nonostante le precarie condizioni di salute.
– Grazie a tutti coloro che hanno accompagnato questo giovane nel cammino di fede con l’annuncio della Parola, con l’insegnamento della fede, il discernimento, con l’Eucaristia, il dono sempre rinnovato e rigeneratore della grazia di Dio.
– Grazie infine a lui per il ‘SI’’ con cui ha risposto alla chiamata di Dio. In realtà ha fatto una scelta saggia perché ha preferito ciò che è più prezioso ed ha potuto cantare col salmista “Sei tu, Signore, la mia eredità, il calice che mi dà gioia; il mio destino è nelle tue mani. Splendida è la sorte che mi è toccata, magnifica l’eredità che ho ricevuto.” (Salmo 16, 5-6)
Ma rimane vero che lui ha rinunciato a cose del mondo che frequentemente sono CONSIDERATE ESSENZIALI per la felicità umana: i SOLDI, il PIACERE SESSUALE, l’esercizio del DOMINIO e del POTERE.
– Grazie dunque a Riccardo , perché HA CREDUTO CHE ESISTE QUALCOSA DI PIU’ IMPORTANTE DELLA GRATIFICAZIONE MATERIALE IMMEDIATA.
– Era chiamato ad annunciare il VANGELO DELLLA GRAZIA: come avrebbe potuto farlo se non fosse stato ‘in stato di grazia’, colmo di gioia per il dono di Dio? – Doveva FARSI PANE nutrendosi dell’Eucaristia, il corpo di Cristo spezzato per la vita del mondo; come avrebbe potuto farlo senza il coraggio di SPEZZARE LA PROPRIA VITA PER LA VITA DEL MONDO?- Dove veniva mandato DOVEVA CONTRIBUIRE ALLA EDIFICAZIONE DELLA COMUNITA’ CRISTIANA come popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo; come avrebbe potuto farlo se non avesse RINUNCIATO liberamente e consapevolmente al SUCCESSO PERSONALE, se non avesse saputo PORTARE onorevolmente IL PESO DELLE BESTEMMIE E DEGLI INSULTI che avvelenano le relazioni umane?
Il suo modello è stato GESU’, VANGELO INCARNATO. A somiglianza del Maestro, Riccardo non ha sposato la RAGIONEVOLEZZA CALCOLATRICE ma l’ECCESSO DELL’AMORE.
Egli ha affermato con la vita ciò che Paolo scriveva ai Galati: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me.” (Galati 2, 20).
Riccardo crocifisso? Direi di sì e lo ha fatto senza esitazione. La spiegazione ce la dà l’Apostolo stesso: A MOTIVO DELLA CROCE DI CRISTO, “portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo… di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita”.

FERVENTE NELL’AMORE, – egli non si è lasciato INARIDIRE IL CUORE attaccandosi a soddisfazioni meschine, a situazioni affettive infantili.- Ha saputo risolvere difficoltà comuni ai consacrati di ieri, di oggi, di domani che sono: – sia il prudenziale CALCOLO PRECISO (egoistico) che IL DONO ESAGERATO;- discernere tra AMICIZIE SINCERE e RELAZIONI APPICCICATICCE;- evitare le ESCLUSIONI. – non è diventato STUPIDO per un attaccamento infantile,- non è diventato ARIDO per una ragione strettamente di opportunità. – Ha tenuto saldo il TIMONE DELLA BARCA evitando che, piegandosi al desiderio di tutti, girasse su se stessa.
– I suoi 33 anni di vita non sono stati FACILI. Ma non sono mai facili per nessuno. SANTO DEL SECONDO MILLENNIO, è venuto a dire ai GIOVANI che non saranno facili nemmeno gli anni futuri: anche la loro barca sarà sballottata dalle onde.
– Dovranno essere SALDI DI NERVI e FORTI NELLA FEDE come Gesù per riuscire a dormire a poppa sul cuscino. Ma, pur senza la presunzione di avere una tale padronanza di sé, dovranno puntare DECISAMENTE a essere SANTI DEL TERZO MILLENNIO. – Fiducia in Dio, amore per le persone, disponibilità verso tutti: a me pare sostanzialmente questo IL MESSAGGIO DEL GIUBILEO PAMPURIANO.

Nella preghiera composta dal Card. NEWMAN, suo compagno di banco in Paradiso e che proviamo a recitare insieme, per NOI e per i NOSTRI RAGAZZI, c’è la fotografia di TERESA e RICCARDO, del secondo millennio, che passano il TESTIMONE alle nuove generazioni:

“Caro Gesù / aiutami a diffondere il profumo di Te / ovunque io vada. / Sommergimi con il tuo Spirito e la tua vita. / Entra in me e prendi possesso del mio essere così pienamente che tutta la mia vita possa essere solo / irradiazione della tua. / Risplendi attraverso di me e in me. / Ogni persona con cui entro in rapporto possa sentire la tua presenza dentro di me. / Che osservino e non vedano più me, ma solo Gesù! / Rimani con me! / Allora comincerò a risplendere come tu risplendi; / a risplendere così da essere una luce per gli altri; / la luce, Gesù, verrà tutta da Te, / niente di essa sarà cosa mia; / sarai Tu che risplendi sugli altri attraverso di me. / Che io possa lodarti come tu vuoi; / risplendendo su chi mi sta attorno. / Che io predichi Te senza predicare, / non con la parola, ma con l’esempio:/ con la forza che avvince, / con il fascino attraente di ciò che faccio, / con l’evidente pienezza dell’amore che il mio cuore nutre per Te. AMEN(J. H. Newman)

 

Pampuri-Giussani – Miscellanea – Angelo Nocent

ALZATI, VA’ A NINIVE

Cosa ci sta a fare il Pampuri ibernato sulle guglie del duomo di Milano?


  • Un medico santo al nostro capezzale per un accurato checkup.
  • Un profeta per capovolgere situazioni stagnanti.
  • Una terapia evangelica radiante contro il sordomutismo (Marco 7, 31-37)

 

Su San Riccardo Pampuri, negli anni ho aperto più di un blog ma sul più bello, dopo tanto lavoro, una mano invisibile decideva, co o senza preavviso, di chiudere baracca e burattini.

Nell’ultima morte annunciata, come ho potuto, ho cercato di salvare il salvabile stipando all’inverosimile un file che poi è rimasto lì in attesa di risurrezione.


PREAMBOLO


Nel posto in cui veniamo a trovarci, due sono le possibilità.

  1. o ci ha collocati Dio
  2. o ha permesso ad altri di collocarvici.

In entrambi i casi è sapienza restarci con spirito di fede.

 

PERCHE’ UN NUOVO BLOG

I motivi sono tanti, ma così riducibili: questo ulteriore sito su San Ricardo Pampuri è pensato per i Religiosi Fatebenefratelli e per i Laici, donne e uomini, di ogni estrazione e qualifica che intendono fare quadrato intorno alla sua persona ed iniziare un percorso di ricerca e di RI-CONVERSIONE.
L’averlo ideato è poca cosa: sarebbe già morto in partenza, se non avesse un seguito di persone disposte a lasciarsi coinvolgere direttamente da lui.

Pur nella sua breve esistenza, egli ha assunto ruoli significativi e indossato particolari e impegnative divise che ha saputo onorare:

  • è rimasto orfano in tenera età,
  • studente,
  • universitario,
  • militare al fronte,
  • medico condotto,
  • terziario francescano,
  • laico impegnato nella Chiesa locale,
  • promotore di esercizi spirituali,
  • una “caritas” parrocchiale ambulante e segreta in contesti di dura povertà,
  • spirito missionario,
  • frate dell’hospitalitas.
  • E in ogni situazione, cercatore di Dio, la Bibbia nello zaino.

Mentre gli chiediamo di implorarci i doni della saggezza e del coraggio, qui lo vorremmo nella duplice veste di provocatore e provocato, interrogante e interrogato.
E noi, ognuno con il suo bagaglio di esperienze, a confrontarci, a muovere osservazioni e promuovere riflessioni.
Procederemo per tappe: ogni tanto sara’ necessario sostare per trarne conclusioni provvisorie ma poi si dovra’ tenacemente ripartire  con nuovo slancio.
E’ un’avventura, una rischiosa avventura dove si può anche naufragare in un mare di parole vuote e sterili.
Ma i giovani chiedono eroismo e a chi non lo è più, è richiesta almeno l’audacia di mettersi in discussione, di stare al gioco e di non puntare al ribasso.

L’idea propulsiva è di provare a mettere a fuoco gli aspetti profetici di cui il santo medico è portatore. Alcuni sono evidenti nelle diverse biografie degli ultimi anni, altri  non emergono o lo sono in modo larvato e necessitano di essere messi in risalto.

Nel chiamare a raccolta i Confratelli di San Riccardo Pampuri ed i Laici seriamente intenzionati a maturare in se stessi la spiritualità che passa anche attraverso la sua luminosa persona,  provo un certo disagio e chi  mi conosce può bene immaginare il perchè.

Ma se oso farlo, è proprio in forza della mia inadeguatezza che mi preserva da ogni presunzione. Ed è lei stessa ad incoraggiarmi, per via del preambolo, a manifestare anche pubblicamente e senza esitazione, il mio sincero stupore per la magnanimità del nostro Dio. uesta è davvero  una bella opportunità che mi permette di esprimere tanta gratitudine anche  a coloro che hanno allietato la mia giovinezza ed ancor più sostenuto doviziosamente quel tratto di strada che ha segnato più marcatamente la mia vita: gli anni della teologia, sferzati dal vento gagliardo dello Spirito che si sentiva aleggiare ovunque nella Chiesa convocata in assise con Maria, la Madre della Chiesa, come veniva per la prima volta invocata, durante il Concilio Vaticano II.

Non occorrerebbe precisare che sono qui in veste di allievo curioso ed appassionato delle cose di Dio e non di docente. Sono sicuro che proprio lo Spirito, invocato e amato, non tarderà a manifestarsi con   stupefacenti sorprese.

 

Innamorato almeno quanto voi della primitiva vocazione, dopo ormai quarant’anni di navigazione, porto anch’io i segni fisici e morali della lunga e faticosa attraversata di mari, talvolta tempestosi.

Non ho collezionato medaglie nè trofei. Con ciò non intendo dire di essere a mani vuote:

  • certamente più smaliziato di un tempo lo sono e meno portato ai facili entusiasmi;
  • ora pompiere più che incendiario, come succede a una certa età…
  • disposto a lasciarmi provocare dalla Parola, lo Spirito Santo che ci è stato donato;
  • bambino, talvolta loquace, noioso, impertinente.
  • Sì, vero: un novizio che non ha ancora raggiunto il punto giusto di cottura.

La sola autentica ricchezza che vanto di aver posseduto è quell’amore trabocchevole di Dio che mi ha sempre pervaso. Mi è stato riversato nella Cresima. Ma poi si è manifestato  sorprendentemente in tantissime altre circostanze, le più immeritevoli. Lui non se n’è mai andato, mai m’ha piantato in asso ed ha saputo sopportare pazientemente tutte le mie non poche giornate di luna storta.


Amici, vengo semplicemente a condividere con chi lo vorrà i risultati di una incessante ricerca spirituale, compresa quella sul Pampuri.


Vorrei che tutto risuonasse come lode al Misericordioso che non ci lascia mai affondare, nemmeno quando ce le andiamo a cercare.
Le pagine già stese in questi mesi e quelle che andrò stendendo,  rispecchiano più e meglio di tutto il modo di sentire e di pensare, peraltro sempre bisognoso di ripensamenti e correzioni che proprio il dialogo favorisce.

Forse troverò qualche curioso lettore. Mi auguro di essere sorpreso anche da qualche corrispondente, deciso ad intervenire per dire la sua ed ampliare gli orizzonti.


Dopo questa premessa introduttiva e tanto per non uscire dal seminato, almeno una piccola confessione pubblica sento  il dovere di farla.


Ebbene, lo confesso: io da giovane, San Riccardo non l’ho mai amato perchè mi sembrava fatto di nulla. Mi piacevano le forti personalità, mi attraevano gli uomini audaci. E lui non mi sembrava di questa stoffa.


Leggevo le sue lettere unitamente agli scritti di Don Primo Mazzolari, sette anni più di lui,  e quelle del “dottorino”  mi sembravano acqua fresca, incapaci di reggere in una competizione col grande prete di Bozzolo che tanto ha infiammato il mio giovane cuore e che ancora riesce ad entusiasmare. Epperò, da quando la Chiesa lo ha proclamato ‘Beato’ e poi ‘Santo’, non ho mai smesso di chiedermi cosa ci trovasse di così straordinario in questo ragazzo di campagna, laureato, pio, devoto e in seguito, le mani congiunte sotto lo scapolare.


Mi veniva spontaneo di pensare che a renderlo interessante era proprio la sua fortuna di possedere una bella laurea in medicina e chirurgia, capitatagli perché ben accasato, ossia grazie all’essere rimasto orfano di madre e poi di padre nell’arco dei primi dieci anni di vita. Se tutto fosse andato per il verso giusto, ultimo di dodici figli di cui otto in vita, lo sarebbe diventato? Probabilmente no. E santo?

 

Probabilmente…!?


Probabilmente cosa ! Meglio evitare i se e i ma e andare al sodo. In un primo tempo mi sono accorto che a stupire un po’ tutti è stata la sua “ordinarietà“. I biografi sono unanimi nel sottolinearlo. Ma le mie obiezioni  sono ben presenti nella biografia del Camilleri che scrive: “Qualcuno potrebbe chiedersi che senso abbia proporre all’attenzione di un mondo che fatica ad accettare  anche l’idea di anima, un personaggio che non ha scelto Dio dopo aver provato quanto sia amaro starne lontani“. Ma proprio da questa unanimità m’ è sorto un ulteriore travaglio: possibile che nessuno ci veda nient’altro e si limiti a girare e rigirare i soliti pochi aneddoti triti e ritriti nella medesima salsa?


Effettivamente, il ritratto che ne esce è proprio quello di un bravo ragazzo che potrebbe anche sembrare di Comunione e Liberazione, se non fosse quel timido e imbranato che appare e perciò molto distante dai disinvolti e determinati ciellini di oggi.

 

Mi chiedo: a renderlo atipico è solo l’attenuante d’esser d’altri tempi o non piuttosto d’ una pasta un po’ diversa?


Non lo so. Me lo chiedo ora per la prima volta.


E mi chiedo inoltre: che sia stato davvero così o ne abbiamo fatto una lettura riduttiva?

La processione di coloro che gli chiedono grazie è sempre in aumento. Ma esisteranno anche gli imitatori di questo straordinario modo d’esser ordinari ?


Tante volte mi sono detto: e se anche i biografi avessero preso un abbaglio? Pensate a Madre Teresa di Calcutta: chi avrebbe mai osato scommettere sulla sua “
notte oscura” che l’ha afflitta per anni, senza che nulla mai trapelasse? Cosa ne capiamo noi dei santi?


Da questo dubbio metodico, a poco a poco m’è sorta la convinzione che se in lui c’è una cosa che non è ordinaria, è proprio questa: la sua “straordinaria vocazione all’ascolto“, perfezionatasi giorno dopo giorno, tra onde di frequenza disturbate e fruscii di ogni genere.


Ma che scoperta! Che sia poco? Fate voi. Quando guardo con onestà e distacco il mio “ordinario” mi faccio semplicemente pena.


Ma vorrei aggiungere un altro aspetto che va convincendomi sempre di più ed è proprio  la ragione dell’apertura di questo nuovo blog: mi sto persuadendo  che in lui sia  stata posta una “bomba a orologeria”, destinata a scoppiare proprio all’inizio del terzo millennio.

 

Anche al fronte, con le stellette, il soldato Erminio Pampuri ha LA BIBBIA NELLO ZAINO.

Pur cercando di accettare il verdetto comune e per non essere tacciato di “bastian contrario“, non mi sono mai voluto pronunciare pubblicamente in modo diverso. Ma non ho smesso di interrogarmi su questa stupefacente ma non so quanto contagiosa ordinarietà.

Chissà, forse è stato un bene ciò che è accaduto, ossia che le sue spoglie mortali non siano state consegnate ai suoi confratelli bensì alla Chiesa locale. Magari avrebbe rischiato la fine che fanno i quadri di valore: vengono esposti in una sala inaccessibile, esibiti ai rari ospiti e servono per aumentare il prestigio del casato.

 

Così invece, la sua Provincia Lombardo-Veneta in particolare ma anche il resto dell’Ordine, dovranno cominciare a desiderarlo e in un futuro, che sento molto prossimo, saranno costretti a rivolgersi a lui per severi ripensamenti non più rimandabili. Così lui finalmente troverà la sua giusta collocazione ed assumerà il ruolo che si merita: di profeta riformatore.

 

Penalizzato da altre voci che hanno saputo farsi più roboanti e invadenti, impadronendosi e soffocando quella di un vero “servo di Dio”, la sua sarà voce persuasiva che non userà le parole sferzanti del Battista ma quelle persuasive della consolazione. Perché di questo hanno bisogno i frati. Sono tanti gli spiriti affranti, smarriti e umiliati, di confratelli senza voce che si son visti gettare allo sbaraglio, sradicati in nome di progetti illusionistici e di falsi miraggi, privati della sola certezza evangelica fondante la vocazione di un fatebenefratello:

  • vivere accanto al malato,
  • essere la sua “consolazione”,
  • condividerne la “provvida sventura”, molto spesso percepita soltanto come inopportuna e maledetta .

LA CARITA’ DI FRA RICCARDO

Forse in questi ottant’anni scritti e biografie non hanno sottolineato abbastanza che il Dott. Pampuri non si è rivolto solo al corpo, ai bisogni fisici degli uomini e della società del suo tempo.

Senza nulla togliere all’importanza del pane materiale, a cominciare da quello della salute, c’è un altro pane forse più importante da imbandire sulla tavola dei popoli e, senza andare sul generico e sul vago, anche sulla tavola degli operatori culturali, sanitari e sociali: il pane del pensiero. Nelle sue lettere quest’ansia è presente e operativa.

A volte si tende a restringere la testimonianza cristiana alla sola carità e alla sola carità materiale. Ma così la si impoverisce e ci impoveriamo. Nell’anno in cui il cristiano intellettuale Rosmini assurge alla gloria degli altari, è indispensabile riscoprire questo aspetto, presente e operante in Fra Riccardo fin dai tempi dell’università. In una società che non ragiona più, perché è in balia di un pensiero unico e che sembra aver rinunciato a capire i valori di fondo dell’uomo, porre al centro della carità riccardiana l’impegno sui valori è una forma alta di carità.

Non solo Hospitalitas, ossia apertura ai bisogni, charitas locale, nazionale, internazionale, ma anche CHARITAS INTELLETTUALE.

Un fatto di cronaca.

In piccoli convegni periodici in quel di Brescia Sant’Orsola, fine anni sessanta, allora studente di teologia, avevo cominciato a radunare il personale laico che già non intendevo come collaboratore dei religiosi ma come “collaboratore di Dio” alla pari dei religiosi per la realizzazione del Suo Regno. Nella sala delle riunioni avevo posto sulla parete, davanti agli occhi dei convenuti, una scritta cubitale in rosso: “COMUNITA’ DI UOMINI NUOVI”.

Per chi no lo sapesse, c’ era una volta a Brescia un simpaticissimo frate dal cuore d’oro e coccolo della comunità che sapeva alimentare di buon umore. Si chiamava Padre Dalmazio Puia, era zio del grande calciatore juventino che noi definivamo un “brocco” per farlo accaldare e, forzatamente, anche mio parente alla lunga per via delle origini Aquileiesi e dello stesso cognome materno. Arguto osservatore, era anche molto critico; appena poteva, sfotteva amabilmente col suo “Mmm! Lasciamola lì” ma si lasciava sfottere da tutti, compreso noi giovani che non perdevamo l’occasione per provocarlo e puntualmente farlo cadere sui punti deboli: i giudizi sui confratelli. Con la solita ironia di me era solito dire: “Buono, ne! Ma che rogna…”.

In quel tempo era attivamente in pensione ma trent’anni prima fu il priore di Fra Riccardo Pampuri proprio nello stesso luogo. E raccontava, lui non dentista, di aver sostituito chissà quante volte il mingherlino dottore, in crisi davanti a un “molare” di quelli ben radicati, da estrarre con prudente ma energica manovra della tenaglia.

Lo ricordo con affetto perché, leggendo quella scritta, era solito mettersi le mani nei bianchi capelli rasati a zero e ridere, sornione, su quel”uomini nuovi” di cui non riusciva o non voleva afferrare il senso profondo. Epperò si rendeva anche conto che l’affluenza c’era e l’interesse pure. Così, stupìto per i tempi in evoluzione, concludeva con il suo solito “Ma!… Lasciamola lì ! ” che alcuni ricordano ancora.

Ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20,22).

 

A non ridere e a prendere seriamente la cosa c’era invece la Teresina Prati, tecnica di laboratorio, un San Riccardo al femminile, sempre in azione, sorridente e straripante di un non so che…

Precisa nel suo lavoro accanto al Dott. Montini, il fratello di Papa Paolo VI, trovava il tempo di visitare i malati. Mai a mani vuote: sempre con un pacchettino di caramelle, di caffé, di biscotti, una letterina… e confortanti parole.

La Messa era il suo pane quotidiano, come la visita ai malati; si preoccupava dei colleghi ed estendeva il raggio della sua azione anche all’esterno dell’ospedale. Di lei ho perso le tracce ma proverò a indagare.

Ma torniamo a noi. Ce lo chiediamo: che cos’era andato a fare in convento il dott. Erminio Pampuri se non a diventare un “uomo nuovo”, a “rinascere in acqua e Spirito Santo?”

Il sito trova anche un ulteriore giustificazione.

Apparteniamo alla schiera, ormai sempre più risicata, di quelli che hanno conosciuto coloro che il Pampuri l’hanno conosciuto di persona.

Possediamo notizie dirette. Insieme, forse potremo trovare qualcosa da aggiungere, da sottolineare, da lasciar detto, sfuggito ai biografi. Essi, per quanto ben intenzionati, hanno dovuto far riferimento soltanto alle carte processuali, alle lettere ed agli appunti della prima ora del Padre Gabriele Russotto. Ma non hanno conosciuto l’ambiente né la mentalità dei religiosi di quel tempo che per noi è istintivo cogliere, dal momento che li abbiamo frequentati.

Sarebbe una grave omissione andare nella tomba e seppellire per sempre le nostre esperienze e conoscenze. Quelli dopo di noi dovranno accontentarsi dei libri. Ma se è già in atto una specie di ostracismo del Santo anziché di una riappropriazione, cosa ne sarà fra qualche anno, quando le nostre voci taceranno per sempre?


Ma nella sventurata ipotesi che la ricerca non approdi a nulla, un risultato ci sarebbe egualmente:

  • il beneficio di ripercorrere quella strada che da Trivolzio ha portato Fra Riccardo in convento,
  • dapprima a Solbiate Comasco per un periodo di prova;
  • poi a Milano dove il Padre Castelletti ha detto sì alla sua ammissione;
  • a Brescia come luogo privilegiato della sua vocazione di frate dell’hospitalitas;
  • a Gorizia, luogo di convalescenza, di lunghe riflessioni e patteggiamenti con Dio;
  • per finire in gloria alla “San Giuseppe”, casa del “bel morire”,
  • prima di tornarsene al suo paese natale, luogo della sepoltura ma anche della fede nel Signore Risorto e segno della Comunione dei Santi che tutt’ora sussiste.

Il percorso avrebbe il significato del pellegrinaggio alla riscoperta di un testimone sempre più apprezzato dai laici e sempre meno dai suoi confratelli. La butto lì: cosa si aspetta a fare nel “San Giuseppe” di Milano, dove il Pampuri è stato reclutato e dove ha concluso la sua  giornata  terrena, a due passi dall’Università Cattolica, un “Centro di spiritualità Riccardiana” nel cuore della  Città ?

La Chiesa c’è. Cos’ altro potrebbe servire? Ben poco e a costo zero.

Mi rendo conto che le mie  possono sembrare battute sconvenienti o interferenze indebite. Ma la prova è negli atti dei Capitoli Generali o Provinciali: egli continua a restare nell’ombra, come un tempo al Sant’Orsola di Brescia, quasi gli fosse stato riconfermato, in virtù di santa obbedienza, il ruolo di “tacere” anche da morto.

In verità, a Brescia era stato autorizzato ad insegnare infermieristica ai frati. Ma ora che disponiamo di scuole alternative, altamente specializzate, buona cosa sarebbe invitarlo a insegnarci teologia biblica, lui che ha trascorso la sua vita all’ascolto della Parola di Dio e a metterla in pratica.

Due date significative ce ne offrono il pretesto:

  1. 21 Ottobre 1927: nel Convento-Ospedale di Sant’Orsola in Brescia il dott. Erminio Pampuri veste l’abito religioso ed assume il nuovo nome: Fra Riccardo;
  2. 24 Ottobre 1928: Fra Riccardo emette la Professione Religiosa.

Pochi di noi avranno la gioia di celebrare il centenario di questi eventi. Di qui allora l’opportunità di farne memoria durante il 2007-2008 nell’ ottantesimo, in concomitanza o come preparazione all’anno paolino indetto dal Papa tra il 28 giugno 2008 e il 29 giugno 2009 indicendo magari, con un suggestivo riferimento storico, le “giornate bresciane” che da qui, anche se in modo virtuale e del tutto informale ma propedeutico, già prendono il via.

Il motivo è presto detto:

  • il prof. Mario Meda, compagno di Pampuri all’università e sotto le armi, ha affermato al processo che anche al fronte Erminio aveva con sè il Vangelo, le Lettere di San Paolo e l’Imitazione di Cristo, che meditava nei momenti di riposo e di silenzio.
  • Egli cercava con ogni mezzo di dare ai malati e ai commilitoni un messaggio diverso, quello della sua fede. Sentiva e comunicava il fascino di Dio.
  • Questo amore per le Scritture è presente con citazioni evangeliche e paoline in molte sue lettere.
  • E allora perché non abbinare le celebrazioni in modo che siano proprio le lettere di San Paolo a rendere ancor più luminoso il nostro fratello santo? Sarebbe bello che la sua urna con le spoglie mortali, sull’esempio della sorellina Santa Teresa di Gesù e del Santo Volto, sempre pellegrinante, facesse ritorno per qualche tempo nella città che racchiude i segreti della sua anima di frate dell’ospitalità, data e ricevuta, in un mirabile scambio di Comunione tra Chiesa e Mondo, e si concludesse nel Duomo di Brescia, come evento ecclesiale.

 

PIERLUIGI MICHELI medico di Dio nella città dell’uomo.

Ma c’è un ulteriore motivo che meriterebbe di aggiungersi: il decimo anniversario della morte del Dott. Pierluigi Micheli, nato il 27 Ottobre 1916  e morto il 22 Giugno 1998,  medico “aggregato” all’Ordine dei Fatebenefratelli.

 

Egli ha svolto per lunghi anni la sua attività-missione presso l’Ospedale San Giuseppe di Milano, in veste di laico coniugato ma con il medesimo spirito di San Riccardo.

 

(Vedi PIERLUIGI MICHELI medico di Dio nella città dell’uomo in

 

 

e www.compagniadeiglobulirossi.org

 

Parlavo di riappropriazione del personaggio. Notate: cosa siamo?

TRALCI DI UN’UNICA VITE

  • A parte don Giussani, di cui abbiamo già riferito e dovremo prendere ancora in considerazione,
  • L’Azione Cattolica Italiana lo sente come il suo primo santo,
  • Il Card. Carlo Maria Martini, per via che Morimondo appartiene alla Diocesi di Milano, lo considera un figlio della Chiesa ambrosiana che fa una gran bella figura sulle guglie del Duomo di Milano, in compagnia di tanti santi e gloriosi martiri,

L’elenco potrebbe prolungarsi…

E NOI ?

Io sostengo che Fra Riccardo è portatore di numerosi carismi. E’ curioso e normale al tempo stesso notare come ognuno sia incline a cogliere il lato che gli è più congeniale.

Prendiamo Don Giussani che su di lui ha puntato i riflettori e lo ha fatto conoscere nel mondo.     E prendiamo l’Ordine. L’interesse che nutre per questo confratello santo e’ zero. Nessuno se ne risenta perché, sì, viene ogni tanto invocato come intercessore, ma finisce lì. Quando mai è preso in considerazione come modello da imitare, facendolo entrare a tutto tondo nella programmazione della vita fraterna e delle opere istituzionali?

 

Del materiale archiviato riporto solo una parte, interessante perché a Parlare del Pampuri e Don Giussani in persona.
Scrivevo anni fa, in piccola polemica con i suoi frati che di lui si ricordano solo il 1 Maggio:

Non basta intestargli case o reparti; bisogna carpirgli  i brevetti di una santità popolare, nata nella Chiesa locale, sviluppatasi nel convento-ospedale, per tornare a irradiare il mondo proprio a partire dalla Chiesa locale che è in Trivolzio. Il fatto, se letto con occhi profetici, la dice lunga: in lui si è già realizzato proprio ciò che chiedono i Vescovi del nostro tempo:

 

PER PROMUOVERE LA SALUTE (coinvolgimento di tutte le componenti del popolo di Dio nella pastorale della salute) n.4

PER DARE VOCE ALLE CHIESE LOCALI (sostenere l’integrazione della pastorale sanitaria nella pastorale d’insieme delle comunità cristiane) n.4

PER EDUCARE ALLA “SPERANZA CHE NON DELUDE” (progettualità…itinerari formativi) n.4

 

EDUCATO ALLA SPERANZA

Così scriveva alla sorella:

  • Il Signore non mancherà di compiere l’opera sua,
  • e di mano in mano che riuscirò a diventare un sempre più buon frate, vedrò anche sempre più risplendere in me quella gioia, quel gaudio e quella pace che con tanto amore mi auguri
  • e che di tutto cuore auguro a te pure nella sovrabbondanza delle benedizioni di Dio, soprattutto in queste feste del Santo Natale in cui tutta la Chiesa, anzi tutto il mondo, esulta di riconoscenza d’amore
  • per il Verbo Divino fattosi per noi uomo come noi”.

Da un frammento di lettera quante sottolineature possibili:

  • Opus Dei,
  • io, tu, Chiesa, Mondo,
  • diventare per vedere,
  • gioia, gaudio, pace, riconoscenza…
  • Verbum caro, uomo come noi…

Questo e’ l’AVVENIMENTO ! Cosa ne ricava Don Giussani? Il senso della sua vocazione di uomo e di frate:

 

  1. Questo amore a Cristo si distese in lui in una serie infinita di gesti di attenzione agli uomini e alle donne che incontrava nei loro bisogni elementari, curando e sanando fino alla fine dei suoi giorni”.
  2. Erminio Pampuri era un piccolo medico condotto. All’inizio del secolo si fece frate Riccardo nell’ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio – i Fatebenefratelli – perché voleva diventare santo.
  3. C’è un modo di intendere questa parola che la identifica con una sorta di eccezionalità strana, quasi una stravaganza legata a particolari doti di carattere e di coerenza etica.
  4. Ma noi sappiamo che  la santità’ nella vita della Chiesa è la “stoffa” della vita di fede.
  5. Dunque l’ideale di tutti e di ciascuno che sia raggiunto e investito dall’Avvenimento cristiano che ha salvato l’uomo dalla distruzione.
  6. San Riccardo ci offre un esempio eclatante di questa grande verità egli fu un uomo vero perché aderì con semplicità e sincerità a una Presenza familiare.
  7. Non è diventato grande per essersi impegnato in un grintoso affronto della realtà, inevitabilmente destinato a delusione per l’originale peccato dei nostri progenitori.
  8. Egli è per noi una testimonianza solare di quanto san Paolo dice di se stesso: “Pur vivendo nella carne io vivo nella fede del Figlio di Dio” (Gal 2,20).
  9. E tutta la vicenda umana di San Riccardo, tanto fu breve quanto resterà per sempre a segnare il destino per cui siamo stati fatti: riconoscere Colui che era tra noi, il volto buono del Mistero che fa tutte le cose, presente qui ed ora, secondo la modalità descritta da San Giovanni nel Prologo del suo Vangelo: “Il Verbo si è fatto carne e abita in mezzo a noi”(1,14)
  10. Da quasi duemila anni l’eco di quell’annuncio ha attraversato il tempo e lo spazio e si è comunicato al mondo, come fece con Giovanni e Andrea, i primi due che seguirono Gesù, quel giorno, sul far della sera.
  11. E così è arrivato fino a noi, attraverso i nostri genitori e coloro che ci hanno parlato.
  12. E oggi ci raggiunge anche per via dei segni imprevedibili che san Riccardo opera nella vita di tanti, segni positivi che aumentano la gloria umana di Cristo nella storia.
  13. San Riccardo fu determinato – sentimento, pensiero e azione – dall’amore per cui Cristo si è fatto uomo e da un’energia di abbandono a Lui, che ha già vinto la morte: “E sono persuaso che Colui che ha già iniziato in voi quest’opera buona la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù”(Fil 1,6).
  14. Per questo san Riccardo, come ogni santo, è parte di un popolo, fattore di costruzione di un popolo nuovo, quella realtà insieme umana e divina che Paolo VI chiamava entità etnica sui generis.
  15. Da quando lo abbiamo conosciuto, qualche anno fa attraverso il racconto stupefatto di chi ne ha avuto beneficio nel corpo e nello spirito, san Riccardo è per noi la testimonianza mirabile che la santità come ideale di umanità vera è alla portata di tutti.
  16. Nella sua figura semplice e discreta di medico condotto – che giganteggia nella nostra campagna lombarda – ciascuno di noi ritrova i lineamenti del proprio volto umano autentico. Tanto che non si può non aderire alla verità dell’invito della Didache’: “Cercate ogni giorno il volto dei santi e traete conforto dai loro discorsi”.
  17. Il santo dei Fatebenefratelli ci insegna che il grande problema della santità cristiana è riconoscere una Presenza eccezionale che è entrata nella storia del tempo. Così che la creatura generata dall’acqua del Battesimo si erge sulla scena del mondo, come un protagonista nuovo, chiamato a cambiare la terra insieme ai fratelli uomini, fino al suo compimento finale, che sarà come e quando al misterioso disegno del Padre piacerà. Milano, 26 febbraio 1997 sac. Luigi Giussani

Se a noi questi aspetti sfuggono, cos’ha da dire Riccardo? Nulla.

 

Ed è proprio a partire da qui che proveremo a scandagliare la sua interiorità, insondabile, profonda, misteriosa ma non ermeticamente chiusa, dunque accessibile.

Mi chiedo: cosa ne sarebbe stato di lui se, una volta collocato in una bellissima urna di cristallo e compiuti i solenni festeggiamenti della canonizzazione, fosse rimasto là, nella penombra della sua parrocchia di Trivolzio e non fosse passato di lì il Giussani ad azionare la potente leva della scossa elettrica, ossia dello Spirito Santo, avvertita ovunque nel mondo?


I Santi sono per la Chiesa Universale. Va riconosciuto al sacerdote brianzolo di aver saputo cogliere immediatamente in lui il precursore del suo Movimento. E lo vede ben tratteggiato proprio in una lettera alla sorella suor Longina per le feste Natalizie. Quanti di noi hanno letto quella lettera? E che cosa ha detto? Forse nulla. Per Giussani invece, in quelle poche righe, se vogliamo anche retoriche, è la chiave di volta per la lettura del giovane santo:

Fermiamoci un attimo sui fatti di cronaca che riporto da Tracce pp.71 ss / 01/06/2007. Come titola?

 

LA GRATITUDINE DI TRIVOLZIO

Martedì 1 maggio 2007, monsignor Giudici, vescovo di Pavia, ha inaugurato a Trivolzio, nei pressi del santuario di san Riccardo, il piazzale dedicato a don Giussani.

 

Da Trivolzio a tutto il mondo

 

Monsignor Giussani è stato l’artefice della diffusione, non solo in Italia, ma in tutto il mondo, della conoscenza e della devozione a san Riccardo Pampuri. Da dodici anni, il sabato sera, centinaia di giovani provenienti da ogni parte, anche da molto lontano, vengono qui in chiesa, a Trivolzio, per chiedere tante Grazie a san Riccardo. E la domenica giungono tantissime famiglie con tanti bambini. In un piccolo paese sconosciuto c’è un giovane medico santo, ed ecco che improvvisamente basta un invito perché la sua conoscenza con un passaparola si diffonda ovunque.


Trivolzio vuole dire «grazie» a monsignor Giussani per avere indicato e valorizzato la figura di san Riccardo.


Un uomo vero

 

Avete voluto dedicare questa piazza a don Luigi Giussani perché è un uomo vero. Lo possiamo testimoniare noi che abbiamo avuto il dono di conoscerlo e vivere con lui; ma lo possono riconoscere tutti, anche quelli che non lo hanno mai incontrato, attraverso il prolungarsi della sua opera, l’umanità di chi è stato affascinato dalla sua umanità e lo ha seguito. Don Luigi Giussani seppe cogliere da piccoli avvenimenti l’opera dello Spirito attraverso San Riccardo Pampuri e la indicò. Così divenne anche in questa vicenda strumento dello Spirito per attuare le grandi opere di Dio che stanno davanti ai nostri occhi quasi quotidianamente qui a Trivolzio, come ci testimonia commoventemente, ogni volta che veniamo qui, don Angelo.

Mauro Ceroni, responsabile di Cl a Pavia.


Nel gennaio del 1995 Cristina Bologna, su invito di don Giussani che era rimasto molto colpito dalle vicende che lei gli aveva raccontato, scrisse una lettera alla nostra rivista nella quale descriveva una guarigione inspiegabile accaduta dopo che a una persona gravemente malata era stata data un’immaginetta di san Riccardo Pampuri (cfr. Tracce, febbraio 1995, p. 51). In quella circostanza don Giussani iniziò a suggerire di invocare quotidianamente il Santo medico: «Dite qualche Gloria a san Riccardo Pampuri: dobbiamo valorizzare i Santi che Dio ha creato tra noi, nella nostra epoca e nella nostra terra. Bisogna invocarlo: un Gloria a Pampuri tutti i giorni».


Le parole del Vescovo

 

All’inaugurazione del piazzale il vescovo di Pavia, monsignor Giovanni Giudici, ha detto di don Giussani: «Un cristiano tipico della nostra terra: mite, intraprendente e deciso nel bene da compiere, ma che vive ciò nel nascondimento e senza troppo clamore. Questo stile caratteristico della nostra gente, ci porta a comprendere che vita cristiana è dono gratuito agli altri», ricordando che «oggi con la benedizione di questo piazzale noi ricordiamo anche i sacerdoti che si sono spesi con gratuità per gli altri, sacerdoti a cui l’Amministrazione di Trivolzio ha dedicato nel passato vie del paese».

 

Può essere che a più d’uno le iniziative che si vanno moltiplicando – e qui son state messe in evidenza di proposito e con uno spirito un po’ provocatorio possano far storcere il naso. Ma a cosa varrebbe sognare il “santuario” se prima non sogno il “santo” e lo amo e lo incarno e lo trasfondo e lo faccio conoscere nella mia cerchia ?


Le reliquie sono preziose ma vale la spiritualità del santo  che è patrimonio di tutta la Chiesa. Se prima dimostro di essermene appropriato e di essere capace di trasmetterla, potrebbe anche risultare sensato  avanzare delle particolari richieste al Vescovo. Diversamente, ne uscirebbe soltanto una bega di “primogenitura”.


Qual’è il messaggio che viene trasmesso dalla Parrocchhia di Trivolzio ?

La comunione dei santi e la preghiera

di Lorenzo Cappelletti

San Riccardo Pampuri (1897-1930) è sepolto nella chiesa parrocchiale di Trivolzio, di cui era nativo.


Pubblichiamo il racconto di don Angelo Beretta, parroco di questo piccolo paese fra Milano e Pavia, su come in questi anni, assieme ai miracoli di san Riccardo, sia cresciuta la devozione a lui, e su come, in particolare negli ultimi dieci anni della sua vita, don Giussani l’abbia proposto quasi a immagine vivente di ciò che gli stava più a cuore.

La chiesa parrocchiale dei Santi martiri Cornelio e Cipriano in Trivolzio, dove è conservato e venerato il corpo di san Riccardo Pampuri.

Nel febbraio 1995 don Giussani diceva: «Noi siamo in un tale degrado universale che non esiste più niente di ricettivo del cristianesimo se non la bruta realtà creaturale.
Perciò è il momento degli inizi del cristianesimo, è il momento in cui il cristianesimo sorge, è il momento della resurrezione del cristianesimo. E la resurrezione del cristianesimo ha un grande unico strumento.
Che cosa? Il miracolo. È il tempo del miracolo. Bisogna dire alla gente di invocare i santi perché sono stati fatti per questo».


Don Giussani, che anche quando parlava dell’Eucarestia amava dire che furono le circostanze che suggerirono al Signore quell’ “idea”, fra tutte la più geniale, pronunciò quelle parole anche in forza dell’incontro, come racconta don Beretta, con san Riccardo Pampuri.

Nei dieci anni che seguirono, come abbiamo detto, don Giussani ha invitato più volte a rivolgersi a san Riccardo (lo documenteremo in forma più sistematica in un prossimo articolo) e ha continuato a frequentarlo. Ricorda don Angelo Beretta che anche in occasione del suo ottantesimo compleanno (15 ottobre 2002), don Giussani aveva espresso il desiderio di andare a celebrare la messa a Trivolzio, ma varie circostanze glielo impedirono. «Quando ormai pensava che non avrebbe più potuto venire, il 22 gennaio 2003 arriva a Trivolzio. Era una giornata molto fredda. Ha celebrato la Santa Messa stando in piedi e rifiutando la carrozzella che gli offrivano. Ha distribuito la comunione ai presenti e con loro ha pregato per i malati e per tutte le varie necessità. Al termine abbiamo parlato un po’ anche del restauro della cascina per il centro di accoglienza che non eravamo ancora riusciti ad iniziare. All’uscita della chiesa si è intrattenuto con alcuni che stavano venendo da san Riccardo».


Pure le ultime parole pubbliche di don Giussani, per l’intenzione della Santa Messa dell’11 febbraio 2005, giorno anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e liberazione, pochi giorni prima della sua morte avvenuta il 22 febbraio 2005, furono un invito alla dolce memoria di Gesù all’opera nei santi: «R
icordiamoci spesso di Gesù Cristo, perché il cristianesimo è l’annuncio che Dio si è fatto uomo e soltanto vivendo il più possibile i nostri rapporti con Cristo noi “rischiamo” di fare come lui».

 

A chi fosse a suo agio più con termini teoretici che narrativi, si potrebbe far notare che in questa vicenda viene in rilievo la verità dogmatica della comunione dei santi che il Credo degli Apostoli pone tra gli effetti dello Spirito Santo e con cui papa Paolo VI termina il Credo del popolo di Dio, in consonanza non casuale con la sensibilità di don Giussani: «Crediamo nella comunione di tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la loro purificazione e dei beati del cielo, i quali tutti insieme formano una sola Chiesa; noi crediamo che in questa comunione l’amore misericordioso di Dio e dei suoi santi ascolta costantemente le nostre preghiere, secondo la parola di Gesù “Chiedete e riceverete”».

 

 

Note biografiche

 

Erminio Filippo Pampuri, poi fra Riccardo, nasce il 2 agosto 1897 a Trivolzio (Pv). Decimo di undici figli, rimasto orfano della madre a soli tre anni, viene accolto in casa degli zii materni, a Torrino, frazione di Trivolzio.     Nella locale chiesa parrocchiale viene battezzato, riceve il sacramento della Cresima e la prima Comunione. Nel collegio vescovile Sant’Agostino di Pavia compie gli studi ginnasiali e liceali, si iscrive poi all’Università di Pavia dove, il 6 luglio 1921, si laurea a pieni voti nella facoltà di Medicina, dopo essere stato militare durante la Prima guerra mondiale e avere ricevuto la medaglia di bronzo per aver portato in salvo i medicinali. Dal 1921 al 1927 fu medico condotto a Morimondo, donandosi con tanto amore agli ammalati (veniva chiamato “il dottor carità”) e collaborando con il parroco alle varie attività della parrocchia.


Nel luglio del 1927 entra nell’Ordine ospedaliero dei Fatebenefratelli, assumendo il nome di fra Riccardo.     Muore a Milano il 1° maggio 1930. I funerali si svolgono a Trivolzio, nel cui cimitero viene sepolto. Il 16 maggio 1951 il corpo viene collocato nella locale chiesa parrocchiale, dove tuttora è custodito, visibile e venerato.
Giovanni Paolo II lo beatifica il 4 ottobre 1981 e lo proclama santo il 1° novembre 1989. San Riccardo Pampuri è festeggiato il 1° maggio (giorno della sua morte). Viene ricordato anche il 16 maggio (giorno della traslazione del suo corpo).     Da 30 Giorni / 2006

Da Trivolzio a Rochester

Due lettere a don Giussani. Il ringraziamento di padre Gerry per il dono di una statua di san Riccardo posta nella chiesa di Saint John, a un passo dalla Mayo Clinic. E la testimonianza di don Angelo dopo una messa in onore del santo lombardo

17 gennaio 2003 – Caro don Giussani, ti scrivo per dirti la mia sentita gratitudine per il tuo prezioso dono della statua di san Riccardo. La mia personale esperienza di guarigione fisica e la profonda consapevolezza del significato della Sua presenza mi ha portato a riconoscere il Mistero in modi che non avrei mai immaginato prima di questa esperienza.

Sono profondamente commosso dalla tua generosità e dal tuo desiderio che san Riccardo possa essere presente nella chiesa di San Giovanni Evangelista, qui a Rochester, Minnesota, alla luce del fatto che nelle immediate vicinanze sorge la Mayo Medical Community, un istituto di fama mondiale.

Dall’arrivo di san Riccardo ho continuato a indirizzare a lui gente di ogni parte del mondo e degli Stati Uniti, che veniva nella nostra chiesa provenendo dalla Mayo Medical Community. Per darti un’idea del numero di pazienti nella nostra città e nella nostra chiesa, dalla Mayo dipendono circa 2.000 medici e c’è un afflusso costante di pazienti che visitano la nostra comunità e la nostra chiesa.

È ormai una consuetudine per me invitare i pazienti a visitare san Riccardo chiedendogli di intercedere per la loro salute. C’è qualcuno che ha appena saputo di avere un tumore al cervello, o che si sta preparando a un grave intervento chirurgico, o ancora che si è appena visto sospendere l’assistenza sanitaria in seguito a un male incurabile, e tutti vengono qui a cercare conforto. Ci sono anche dei medici che hanno cominciato a mettermi al corrente del fatto che nell’incontrare i loro pazienti domandano la presenza di san Riccardo, e sono spalancati nella ricerca della saggezza del Mistero.

Ci sono pazienti che si recano in visita da san Riccardo perché il loro cuore è colmo di gratitudine in seguito a notizie molto positive che hanno ricevuto attraverso la loro esperienza di cure alla Mayo. Le storie sono infinite e le possibilità cominciano ad aprirsi solo ora. San Riccardo ha uno spazio particolare nella nostra chiesa; stiamo preparando un volantino che spieghi la sua storia, e la frase che ci hai inviato sarà collocata permanentemente accanto alla statua di san Riccardo.

Don Giussani, non posso nemmeno immaginare quali possibilità si aprono grazie a questo dono che ci offri, né sono in grado di vedere quello che vedi tu, nel comprendere come la presenza di san Riccardo sarà così profonda e vivificante. Sono particolarmente grato per la particolare assistenza di don Fabio e di Giorgio Vittadini per facilitare tutti i passi necessari affinché san Riccardo potesse arrivare nella nostra chiesa. E ancora, ringrazio te per questa amicizia attraverso il tuo carisma, che realizza e tocca la mia vita e la vita di tante altre persone.

Ho sempre bisogno delle tue indicazioni come di un padre e riconosco umilmente la nostra amicizia. Ho continuamente bisogno di essere stimolato a vivere questa compagnia sul cammino che ho davanti qui a Rochester, Minnesota, Usa. Ti ricordo ogni giorno davanti alla statua di san Riccardo, qui nella nostra chiesa, pregandolo perché ti conceda la benedizione della salute, e sono pieno di gratitudine per il carisma che hai ricevuto e così apertamente metti in pratica nell’annunciare la Buona Novella di Gesù Cristo. Con affetto. Padre Gerry Mahon, Parrocchia di Saint John, Rochester, Minnesota

25 gennaio 2003     Carissimo monsignore, grazie. Grazie di essere venuto mercoledì 22 gennaio ancora una volta a celebrare la santa Messa in onore di san Riccardo Pampuri in questa chiesa ove è custodito il suo corpo. Grazie di avere fatto conoscere il Pampuri in tutto il mondo indicandolo come il cristiano che ci aiuta a capire che la santità non è un privilegio di pochi, ma tutti, se vogliamo, possiamo diventare santi se, come Riccardo, anche noi mettiamo Dio al centro della nostra vita e cerchiamo di fare ogni cosa con amore nell’adempimento del nostro lavoro quotidiano.     Mentre lei celebrava la santa Messa, io ripensavo ai miei 15 anni a Trivolzio. Sono giunto nel 1988, il Pampuri era beato, io lo conoscevo, ma non avrei mai pensato che la sua devozione potesse diffondersi così tanto. Appena giunto a Trivolzio pensavo in modo particolare all’oratorio, alle attività parrocchiali… Poi nel 1989 ho avuto il privilegio di concelebrare in piazza San Pietro la santa Messa con il Papa per la canonizzazione di Riccardo Pampuri.     In questa nostra chiesa veniva gente a pregare il Santo, ma questa devozione era solo in ambito locale da parte dei Fatebenefratelli. Poi nel 1995 la svolta: lei ha indicato, dopo un miracolo, san Riccardo Pampuri al popolo di Comunione e Liberazione e da allora sempre più persone di tutto il mondo giungono qui a chiedere al medico salute, grazie e guarigioni per il corpo e al santo l’aiuto a capire la propria vocazione e il senso della vita da realizzare con amore.     I giovani, i tantissimi giovani che vengono qui, lo sentono come un amico che come loro ha faticato e tribolato e a cui chiedere aiuto nel cammino della propria vita. Una giovane, tempo fa, mi raccontava che al sabato sera diceva al padre, che non frequentava la chiesa, di andare dal Pampuri e il padre pensava andasse in discoteca; poi, quando ha scoperto che il Pampuri era un santo che distribuisce grazie, ha chiesto di venire qui anche lui.     Vengono poi le famiglie con tanti bambini a chiedere a san Riccardo la forza per il loro cammino quotidiano. Alcuni mesi fa ho trovato rotta una statua di san Riccardo che era in vendita; alcuni miei collaboratori si sono preoccupati, ma alla sera ho trovato in una cassetta una busta con i soldi della statua e con questa letterina: «Per vedere bene la statua l’abbiamo rotta involontariamente. Allora abbiamo rotto il salvadanaio e paghiamo. Chiediamo perdono a don Angelo e a san Riccardo. Saluti, ciao. Sandro ed Emanuel. Perdonaci e san Riccardo ci benedica». Certamente san Riccardo ha perdonato e benedetto quei bambini e io avrei voluto ringraziarli per la loro onestà e l’esempio che ci hanno dato.     Qui oggi è sorto un santuario ed è nato per un disegno di Dio. Io mi sono limitato a non oppormi a quello che lui, il Signore, voleva e il Signore per intercessione di san Riccardo continua a distribuire grazie.     Monsignore, le rinnovo l’invito che le ho fatto al termine della santa Messa: venga quando vuole qui a pregare san Riccardo e a celebrare la santa Messa.     Io la ricordo tutti i giorni a san Riccardo Pampuri perché le sia vicino con il suo aiuto e protezione e lei possa ancora per molti anni essere guida in mezzo a noi e chiedo a lei una preghiera perché io possa essere sempre disponibile e accogliente verso tutti quelli che vengono qui. Don Angelo Beretta, Parrocchia dei SS. MM. Cornelio e Cipriano, Trivolzio, Pavia


Da TRACCE 2003 / n.3

Dieci anni di incontri. Di preghiere di un popolo Renato Farina

L’inizio in una lettera pubblicata da Tracce. La devozione di don Giussani al medico santo dei Fatebenefratelli. In questi dieci anni da tutto il mondo sono giunte preghiere, richieste, notizie di grazie. E ogni domenica la chiesa si riempie di pellegrini.


Una qualsiasi domenica dell’anno, da dieci anni a questa parte (anche se la domenica non è mai qualsiasi). Sull’autostrada che da Milano va a Genova, verso le 10.30 del mattino e poi a metà pomeriggio, molte auto, scorgendo un campanile nella bella campagna, escono al casello di Bereguardo-Pavia Sud. Si entra nel paesino di Trivolzio (poco più di mille abitanti). Qui c’è qualcosa che cattura e non è una fiera, o forse sì, ma di altro genere. Non ci sono mercanzie in vendita, ma ci sono persone che camminano chi svelte, chi piano piano. Ma i volti! È uno spettacolo. I volti sono trasparenti e protesi a commerciare con Qualcuno i desideri più grandi, a mettersi nelle sue mani. È come se tutti fossero costretti da un padrone di casa premuroso a levarsi le armature invisibili con cui ci si protegge dallo stupore. Si entra nella chiesa cinquecentesca dei Santi Cornelio e Cipriano. Sulla porta ad accogliere c’è sempre il parroco, don Angelo Beretta. Ed ecco, c’è una grande teca di cristallo. In essa un corpo nelle nere vesti dei Fatebenefratelli e la maschera argentea sulla faccia. È il corpo di un morto, ma tutti sanno che è per la resurrezione, è così evidente: san Riccardo Pampuri.     Intorno ci sono grandi libri dove si scrivono le invocazioni. Si fa la fila. C’è la santa messa, si recita la preghiera a san Riccardo e poi si bacia la reliquia. Accanto c’è la stanza-museo, dove ci sono oggetti e indumenti del Santo. Si possono raccogliere immaginette e corone del Rosario. Qualcosa, però, accade. C’è un incontro. La medaglietta strofinata Chi scrive è uno dei pellegrini. Impressiona chiunque questa unicità del cattolicesimo: ciascuno è da solo con il Signore, eppure si è un popolo. Lo si capisce leggendo le preghiere che riempiono ormai 143 grandi volumi. Quelle scritte, le altre poi… Ne parliamo ora perché c’è un anniversario. Questo rinascimento religioso (o forse Medioevo d’oro) a venti minuti d’auto da Milano compie dieci anni. Gli inizi sono tutti in una lettera pubblicata da Tracce nel febbraio del 1995. Cristina Bologna racconta la visita «al vicino di casa san Riccardo» con alcune Memores che abitano da quelle parti. La richiesta di una grazia per un’amica malata di tumore. La semplicità dello strofinare un’immaginetta del Santo sulla divisa della banda musicale. «Questo gesto è per sottolineare la fisicità della domanda. Non è un gesto da fanatici, ma perché siamo concreti», spiega Laura che consigliò a Cristina di far così. Data l’immagine all’amica malata, sparì ogni segno del male. Può accadere, non è per forza un miracolo in senso, diciamo così, tecnico. Ma la guarigione era certa. Tracce raccontò questo sotto l’impulso di don Giussani, da allora vivamente devoto a questo Santo, appena proclamato tale da papa Wojtyla (1989). Un giovane medico condotto, che stava tra i ragazzi, poi membro dei Fatebenefratelli. Opere? La carità, «far sempre la volontà del Signore», «aver sempre grandi desideri». Sono anch’io testimone di un miracolo: la trasformazione di un luogo di dolore e morte in qualcosa di risorto. Negli ultimi mesi del 2000 mio padre Guido fu ricoverato per un cancro all’ospedale di Desio. Nulla da fare. Nei mesi precedenti, di fede robusta ma non particolarmente devoto, era stato con la famiglia da san Riccardo e ne fu toccato. Nella sua stanza di malati terminali, di atei, e forse persino di un musulmano, la vita cambiò. Persino quando morì uno di loro, e non era ancora giunto l’infermiere, dinanzi a quel defunto essi pregarono il Requiem e la preghiera di san Riccardo. Io vidi qualcosa di simile solo a Calcutta, nella casa dei moribondi di Madre Teresa. La vita nuova, nella morte.

 

Il “custode” di san Riccardo Don Angelo Beretta è il custode sollecito di tutto questo movimento riccardiano. Racconta di come ormai la fama di questo santuario si sia sparsa nel mondo, e di come gli telefonino da ogni dove, ben oltre i confini di Comunione e Liberazione e perfino del cattolicesimo, per farsi spiegare come arrivare, per domandare una preghiera. Ora racconta con gratitudine: «Mentre stavamo pensando se era possibile organizzare qualche manifestazione per il 1997, centenario della nascita di san Riccardo, un sabato mattina del febbraio 1995, vengo chiamato in chiesa e la trovo piena di gente. «San Riccardo ha fatto un miracolo», mi si dice. Certo, san Riccardo di miracoli ne ha fatti certamente, altrimenti non sarebbe santo. La gente che è in Chiesa appartiene a Comunione e Liberazione e mi mostrano una copia di Tracce, ove c’è il racconto della vita del nostro Santo e il racconto di un miracolo appena fatto da san Riccardo.

Da quel momento inizia il pellegrinaggio di tantissima gente qui a Trivolzio, al sabato sera ci sono tantissimi giovani e alla domenica ci sono famiglie con tanti bambini. Alcuni di Cl conoscevano già san Riccardo: qui vicino, a Coazzano, c’è una casa dei Memores da tanto tempo dedicata al beato Riccardo Pampuri; e Lorenzo Frugiuele, che ha scritto una vita in versi di san Riccardo, veniva già prima del 1995 a pregarlo per avere aiuto nella sua malattia. Era don Giussani ad aver spinto a questo».


Le sorprese del Signore Continua don Beretta: «Io non appartenevo a Cl, ma ne avevo sentito parlare da don Giulio Bosco, un mio compagno di seminario, morto giovane in montagna. Io sono convinto che dobbiamo essere attenti a ciò che il Signore compie in mezzo a noi e favorire il bene anche se non lo abbiamo organizzato noi. Ho incontrato monsignor Giussani quando è venuto la prima volta a celebrare la santa messa da San Riccardo. Vado in piazza della chiesa e lo vedo arrivare. Era la prima volta che lo incontravo, eppure dopo poche parole sembrava che mi conoscesse da sempre. Dopo la messa, è venuto all’oratorio a prendere un caffè, non con il latte, ma con un grappino. Abbiamo parlato e mi sentivo veramente a mio agio. Poi mi chiede perché non compero la cascina che c’è a lato della piazza della chiesa e che era appena rimasta disabitata, per creare un luogo di accoglienza. Io ero perplesso, ma lui mi ha incoraggiato dicendomi: «Ti mando io i soldi per la caparra», lasciando meravigliati quelli che lo accompagnavano. È stato questo l’inizio del progetto per un centro di ospitalità e di ristoro, dove si possano anche tenere incontri. Almeno per il primo lotto speriamo di inaugurarlo – e ringrazio soprattutto per questo Antonio Intiglietta, Saverio Valsasnini, Mauro Berti – il prossimo maggio». È sempre molto pratico san Riccardo, e lo sono anche quelli che ne continuano la missione. Gli chiedo: come intitolerebbe questi dieci anni? Don Angelo sospira, mentre guarda l’orologio e cerca di fare accomodare i fedeli: «Le sorprese del Signore…».

 

Sì, bisognerà proprio ripartire da lui, il giovanissimo figlio di San Giovanni di Dio. Perché è proprio ciò che chiede il  glorioso Padre e Fondatore, orgogliosissimo di una tale discendenza.

E’ proprio lui a non vede l’ora che ci si affidi al riformatore Fra Riccardo e che venga lasciato libero di prendere in mano la situazione che si presenta senza apparenti vie d’uscita.

Nella sua spiritualità, troppo poco indagata, vi sono le premesse per una corretta interpretazione della Pentecoste Conciliare. Agli allegri e forse troppo disinvolti passeggeri del treno dell’Ospitalità oggi viene offerta la grande opportunità di ripensare i percorsi ad alto rischio di deragliamento, sui quali sta transitando il convoglio. Essi sono facilmente individuabili perchè ormai evidenti.
Sarebbe grave assistere ad un’ecatombe prima che vi si sia posta mano per porvi rimedio. Ormai tutti sanno che, anche una lunga e bellissima storia d’amore può esaurirsi e collassare, se non viene rianimata per tempo.

Il Concilio ha chiesto agli ordini religiosi di revisionare le Costituzioni per allinearle alle indicazioni espresse dai Padri negli Atti. Per anni tutti sono stati coinvolti in una  consultazione di base. Le giornate di convegno, i viaggi e le tavole rotonde non si contano. Poi gli esegeti ed i teologi hanno dato il tocco finale. Il risultato è davvero encomiabile!

Ho appena preso in mano quelle dei Fatebenefratelli. Bellissime! Forse le migliori che mai siano state scritte nei cinque secoli dell’Ordine. Esse sono una sorgente di citazioni bibliche, i documenti del magistero fungono da tessuto connettivo. A confronto, le precedenti impallidiscono.

Ma… Pur mantenuta nella forma e, nonostante le indicazioni contrarie, forse è saltata la Vita Comune. Che non sia da reinventarecome  Fraternità, più che luogo di “appartamento” per il cibo e il riposo? I laici sono sempre più spesso commensali. Ma basta?

Lex orandi, lex credendi: si crede come si prega.”

Ma si potrebbe aggiungere: si ama come si vive.

E’ impressione diffusa che le riforme abbiano riguardato i testi, non le persone che, un po’ alla volta si son fatte i “vade mecum” personalizzati, ossia degli auto-regolamenti molto permissivi, a misura d’uomo, con i quali una percentuale significativa tutela la sua libertà personale che è sacra. Che, se in essi fosse prevista anche la “libera circolazione delle merci”, sul modello della comunità europea, senza il condizionamento dei disgustosi dazi di povertà e obbedienza, tanto cari al pregresso periodo oscurantista, allora la frittata è fatta.
Meglio buttarla in ridere , se non fosse una tragedia.

A ottant’anni dalla sua morte e superati tutti gli esami canonici sulla santità, a me sembra che stia per esplodere il grande carisma di Fra Riccardo, solo apparentemente “riformatore silenzioso“,  ma già all’opera da tempo.
Se fosse vera l’impressione, i primi ad essere “amorevolmente colpiti” saranno proprio i Fatebenefratelli. Che, se da un lato di lui si sentono quasi defraudati, espropriati, dall’altro troppo poco fanno per rivalutarlo e sdoganarlo dal ruolo di comprimario che sembra aver acquisito nel tempo.


AMBULATORIO

SAN RICCARDO PAMPURI

E’ frquentato giorno e notte sul seguente sito:

San Riccardo Pampuri nell’ambulatorio dentistico a Brescia

O santo fratello Riccardo,

figlio del nostro tempo,

povero cuore verginale

solo obbediente a Dio,

votato a Lui per sempre,

meteora di santo

vestito di camice bianco

sull’umile saio,

segno

di vita donata ai fratelli,

ti prende l’amore di Dio per l’uomo

nel Cristo che passa e risana.

Carisma

ti dona lo Spirito Santo:

è tuo il dolore degl’altri

che mescoli a tisica carne,

la tua,

e al Corpo di Cristo.

Ed è comunione.

Hai occhi che vedono Dio

Sul volto dell’Uomo.

Nel dono

è la gioia.

Ed è diaconia.

Tu, giovane medico

chinato a curare

prescrivi ricette di scienza.

Al farmaco credi.

Ma qui non ti fermi:

abbini e trasfondi

per fede

il sangue di Cristo.

Nell’uomo malato,

se inietti la Vita,

recidi i legami profondi del male.

Ed è la missione.

Conosci il Signore,

la Carne risorta.

Il grano che muore

È già nel futuro di pane.

A trentatre anni

Ti fai profezia.

(A. Nocent)

Poni attenzione a questo ragazzo:

è il frate della debolezza,

accolto in convento nonostante la nota sua gracile salute. Chi lo ha ammesso, ha profeticamente intuito che egli aveva qualcosa d’importante da dire e da dare ai suoi fratelli e al mondo intero.

 

Fra Riccardo Pampuri

Fìssalo ora su questa foto di gruppo:

 

Lui è il  primo a sinistra. Il dolore è scritto sul suo viso scarno, emaciato. Una pleurite presa sul fronte del Piave, lentamente lo consuma come una candela, fino ad annientarlo.

Cos’ha da dire al mondo un ragazzo “stroncato”, riuscito a metà, seppur con una laurea di successo  in medicina e chirurgia (110 e lode) ?

Cos’ha da dire un serio professionista, medico condotto,  ma che si ritrova, di fatto, impotente e crocifisso da uno stupido male che degenera e non gli dà tregua, fino a schiantarlo a 33 anni?

 

Fra Riccardo ha posto la sua vita sotto il segno della croce e per questo è diventato sapiente. Di una sapienza che non ha finito di sprigionarsi ancora, là, sulla sua tomba a Trivolzio di Pavia.

Alle lacrime degli innocenti nessuno di noi sa dare consolazione. Fra Riccardo èstato chiamato a parlare con la vita per i sofferenti di questo mondo che si era scrupolosamente preparato a servire al meglio. Il suo quarto voto di ospitalità ha trovato il suo pieno significato, fino a tramutarsi in carisma, proprio prendendo parte alle sofferenze che intendeva combattere e debellare, diventando così un annunciatore credibile della compassione divina. Ciò gli permette di esortarci anche oggi alla compassione umana.

Chi ha lacrime da versare, trova in lui un contenitore. Oggi, il suo ruolo di frate dell’ hospitalitas è di presentarle al trono di Dio.

Elevato agli onori degli altari, posto al centro, ci fa capire che il centro non è la sua persona, ma CRISTO, che egli solo rappresenta. Viene a dirci, come lo stesso Papa Giovanni Paolo II che lo ha proclamato santo, “mi glorio della mia debolezza”. (2 Cor 12,10)

Nessuno di noi è chiamato a costruire qualcosa per se stesso, non siamo noi a costruire la Chiesa universale: la forza viene da un’altra parte. A noi, l’esortazione dell’Apostolo che fra Riccardo ha preso alla lettera: “Per conto mio mi prodigherò volentieri, anzi consumerò me stesso per le vostre anime.” (2 Cor 12,14)


Inaugurata la prima Odontoclinica Militare.

Èstata inaugurata, alla città militare della Cecchignola, la prima Odontoclinica militare dedicata a “fra Riccardo Pampuri”. La cerimonia di inaugurazione, a cui hanno partecipato tra gli altri il prof. G. Dolci (Presidente del Collegio dei Docenti) ed il dr. G. Renzo (Presidente Commissione Centrale dell’Albo Odontoiatri) si è svolta presso il 16 febbraio presso la Scuola di Sanità e Veterinaria dell’Esercito. L’Odontoclinica militare, che si integra in un panorama già abbastanza nutrito e qualificato di strutture sanitarie militari dedicate all’Odontoiatria, sarà aperta non solo al personale militare ma anche ai familiari e, prossimamente, anche ai civili in generale.

Caro Fra Marco

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SASSO NELLO STAGNO – GIORNO DOPO – Angelo Nocent

IL MEDICO: SACERDOZIO – ARTE – PROFESSIONE – MESTIERE – Dr. Luigi Oreste Speciani

Minerva Medica, 1960

Il materiale documentario per questo saggio, nato da un’inchiesta apparsa sul quindicinale “Il Carroccio Medico”, è stato raccolto di prima mano dall’autore nella sua multiforme attività medica, che va dalla ricerca scientifica alla libera professione, dallo studio dei problemi sociali al giornalismo.

Grazie a questa inconsueta ampiezza di informazione vissuta il libro riesce ad offrire un panorama spesso imprevedibile, anticonformista, talora spregiudicato, ma sempre affascinante e soprattutto vero, della controversa realtà medica attuale, la cui crisi evolutiva interessa non solo i medici e gli studenti, ma anche i pazienti e la comunità sociale nel suo complesso.

Prefazione

trascrizione di Mila Speciani

Lessicalmente «mestiere», nonostante la nobile origine dal vocabolo latino «ministerium», significa arte manuale esercitata per vivere e, nelle arti liberali, «quella che si esercita non con anima e ingegno, ma quasi meccanicamente e per solo lucro».

Nessuno dunque desidererebbe avere al suo fianco nel momento della sofferenza e nell’angoscia di una minacciosa malattia, un medico che della propria arte abbia fatto «mestiere»: e nessun vero medico accetterebbe per la propria professione, abbracciata con giovanile purezza di propositi, una così cruda ed avvilente definizione.

Ma a chi fosse turbato dal titolo che il dott. Speciani ha voluto scegliere per questo suo, saggio appassionato e coraggioso, con l’intento di stigmatizzare un pericolo in atto più che di introdurre un discorso polemico, non posso che consigliare la pensosa lettura di queste pagine dalle quali scaturisce un serio grido di allarme contro il declinare dell’arte medica verso un tecnicismo sperso­nalizzato e socialmente pernicioso.

La problematica che l’A. affronta va tuttavia al di là del generico avvertimento e tende a cogliere con minuta analisi tutti gli aspetti che nella nostra società e nel momento attuale della nostra cultura insidiano il processo formativo tecnico-professionale e morale del medico e lo sviluppo della struttura di una assistenza sanitaria

INTRODUZIONE

Sacerdozio, arte, professione, mestiere: così, per tappe successive raggiunte in lento volger di secoli, salvo l’ultima recentissima e illecita, è decaduta la Medicina nell’opinione del mondo.

Il mestiere di medico, oggi, è un nodo gordiano di controverse opinioni e di pratici paradossi. Sui diversi piani dell’economia, della scienza, dell’etica, della deontologia, del prestigio sociale, della preparazione professionale, sul loro stesso numero, persino sul loro titolo qualificante, si può dire dei medici (e quasi solo dei medici) una cosa e il suo perfetto contrario, con la certezza di essere sempre nel vero, almeno in Italia.

Vogliamo degli esempi? Si dice che i loro guadagni sono iperbolici e scandalosi, ed ecco i concorsi pubblici d’ospedale a posti che offrono mensilmente un po’ meno di quel che la legge Conci impone per le “lavoratrici di case private”. Sono onorati come i salvatori del mondo, e insieme insultati dai pazienti con la discussione delle diagnosi e delle ricette. Sono considerati dei santi, ma anche degli sporchi arrivisti da trascinare nei tribunali. Istituiscono società deontologiche ed escogitano nuove formule di giuramento, mentre in realtà manca ai loro Ordini Professionali qualunque potere, non solo di coercizione ma di persuasione. Ricevono dai grandi della Terra i supremi onori, e sono nello stesso momento considerati come loro servi dai più bassi livelli umani. Escono dagli Atenei tutti quanti onusti di un titolo che in altre parti del mondo è privilegio di pochissimi eletti, e sono praticamente umiliati da un qualsiasi infermiere che sa fare meglio di loro un’iniezione o una fasciatura, solo perché a lui hanno insegnato a farle e agli studenti di medicina no.

Si dice che siano pletora e in Italia esistono oltre tremila centri abitati senza medico residente. Sono per definizione medici chirurghi, padroni per legge della vita dei loro simili, e capaci per decreto di laurea di indicare (se non personalmente di esperire) i modi medici o chirurgici di terapia e fra breve, se si insisterà nel distinguere rigidamente, in sede sia accademica sia applicativa, le infinite specializzazioni e superspecializzazioni che il progresso tecnico ha reso possibili, tutti i medici si vedranno retrocessi di colpo nella scala sociale.

Dalla dignità attuale, confusa ma ancora viva, scadranno al semplice ruolo di “tecnici della salute”, ciascuno con un campo di lavoro strettamente limitato e angusto; condizione non solo insoddisfacente ma, alla lunga, sicuramente dannosa per la corretta esplicazione di una buona Medicina.

L’arte medica, da sempre considerata, e giustamente,  come una felice sintesi mentale e operativa propria a individui singoli dotati di superiori capacità, finirà così con lo smembrarsi in una polverizzazione di albi chiusi professionali, simili a quelli degli engineers americani, che almeno sanno di essere solo degli operai specializzati, anche se guadagnano il doppio della media dei medici italiani.

Cos’è, infine, questa “professione medica” così contradditoria da spaventare, e che vede invece ogni anno nuove valanghe di adepti, attirati probabilmente da chissà quale antico miraggio e ai quali nessuno ha il coraggio di chiarire la situazione presente, nella sua realtà, evitando gli interessati pessimismi e le avveniristiche illusioni? Neppure la legge ci illumina. Infatti, secondo la giurisprudenza (Corte di Cassazione, Sez. III, 16-4-1953, in «Giust. Pen.», 1953, II, 700) essa “è caratterizzata dallo scopo cui è diretta, e cioè dal fine di curare gli infermi, con qualsiasi metodo e con qualunque mezzo che ciascun medico, avvalendosi delle proprie cognizioni culturali, ritenga opportune adottare nei singoli casi”. Ciò che significa, in parole povere, che neppure il Legislatore riesce a coagulare per essa un concetto ben definito, né, tanto meno, univoco.

La cosa può anche non stupire: significa tuttavia che il Legislatore non dispone in questo momento di elementi sicuri e stabili sui quali appoggiare il suo giudizio.

In verità, la Medicina (e la professione ne è solo una fugace espressione ambientale) sta ora attraversando una delle crisi più gravi della sua esistenza; il travaglio di questa crisi, che può dar vita a un fenomeno superiore oppure a un mostro teratologico (e fino ad ora le probabilità sono uguali, forse addirittura a vantaggio del mostro) interessa contemporaneamente l’interno della Medicina, e anche l’esterno.

Nell’intimo c’è crisi tra l’arte tradizionale e la tecnica ingigantita, crisi di equilibrio tra le funzioni, crisi di fiducia, di verità e di vocazione. All’esterno la crisi di rapporto rivela infiniti problemi piccoli e grossi, che tutti insieme possono essere riassunti in uno solo, fondamentale e di principio, che riguarda il modo di seguire senza troppe sofferenze e disastri e soprattutto conservando all’arte del guarire il suo significato, la fatale evoluzione della medicina da fenomeno di carattere individuale e di natura privata in un altro di carattere collettivo e di interesse pubblico.

Così, per capirci finalmente qualcosa, non resta che scegliere una strada diversa: studiare la professione nella sua esplicazione pratica, vedere come funziona e perché, e come si adatta all’ambiente o ne viene condizionata.

La sintesi ultima ci potrà dare, se non un universale, per lo meno le caratteristiche attuali d’uso o di funzione e potrà servire a delineare le esigenze minime che il mestiere, nella sua proiezione sul mondo moderno, richiede a quelli che intendono seguirlo.

Ciò comporta, di necessità, una ricerca analitica dei fattori interagenti, che sono l’ambiente comune al medico e a tutti gli altri uomini (il mondo indifferenziato dei sani); il malato; la medicina; il medico; l’atto medico; il rapporto professionale.

Queste varie “categorie” non sono fisse, ma variabili nel tempo. Negli ultimi cinquant’anni quasi tutte hanno assunto, per ragioni intime o d’ambiente, caratteri, forme, metodiche ed espressioni profondamente diverse dall’antico.

Sarebbe piuttosto facile, ma fors’anche intinto di faciloneria, sostenere che la crisi della medicina, e in particolare della professione medica, sia qual è, cioè grave e apparentemente insolubile, proprio perché essa vuole applicare, a una mutata realtà presente, schemi teorici e funzionali sorpassati o logorati dal tempo.

Probabilmente invece la realtà è alquanto diversa, e come sempre molto più difficile da interpretare. Gran parte della evoluzione che la Medicina ha subìto nell’ultimo cinquantennio, e che comprende il progresso tecnico in tutti i suoi settori, la conseguente impossibilità per un uomo singolo a dominarne le infinite espressioni particolari, il suo costo in progressivo aumento, e infine l’esigenza sociale della difesa della salute a spese della comunità, è in realtà solo forma ambientale e non sostanza. La sua sostanza è sempre l’uomo, l’uomo singolo, individuale e non ripetibile, nella sua duplice caratteristica di numero statistico sulla carta, ma insieme di sofferta umanità privata quando si ammala, guarisce o muore.

Il disagio moderno della medicina, e probabilmente il suo più serio peccato sociale, sta nel dimenticare troppo spesso questa realtà. Dentro la capsula spaziale non c’è solo la tecnica perfezionata, ma l’uomo che la condiziona per il successo o per la sconfitta; anche nel fondo della “medicina collettiva” o della “medicina strumentale” esiste l’uomo, sintesi di corpo e d’anima che come tale va inteso e avvicinato, e rispettato, sotto pena di insuccesso e di insoddisfazione privata e pubblica.

Per questa ragione è possibile che la crisi sia intervenuta, in medicina, non dal contrasto sostanziale tra la sua essenza tradizionale e quella “moderna”, ma dall’aver trascurato la necessità di approfondire sempre di più il lato interiore e metafisico dell’arte e i rapporti con l’uomo totale, man mano che la sua espressione esteriore si allargava. Al momento attuale esiste comunque uno squilibrio, ed è piuttosto urgente  riconoscerlo e mettervi rimedio. Per poter disporre degli elementi indispensabili al giudizio diventa così necessario, anche se faticoso, rivedere analiticamente la realtà moderna, almeno nei suoi rapporti con la medicina nelle sue varie forme e modalità.

Solo alla fine dell’analisi sarà lecito trarre delle conclusioni, interpretando con rigore sperimentale gli elementi raccolti, e soprattutto il loro significato. Ma, già in questo momento è possibile - e indubbiamente lecito - stabilire che le conclusioni dovranno concernere esclusivamente le modalità operative della medicina, e non la sua sostanza intangibile, di rapporto intimo e insostituibile dell’uomo con l’uomo.

La “medicina collettiva”, sia essa di gruppo privato o statale, ha edificato nel corso di alcuni decenni un corpus ormai quasi perfetto di schemi e regole e tabelle attuariali. Alla raggiunta perfezione sul piano organizzativo non corrisponde però, al momento attuale, una soddisfacente “erogazione” del bene per il quale gli Enti collettivi sono stati istituiti; il fenomeno non è locale, ma si estende senza eccezioni a tutti gli esperimenti finora compiuti nel mondo; dunque l’errore - se c’è - dev’essere radicale e profondo. E c’è: consiste nel dimenticare l’uomo, o nel considerarlo artificiosamente solo numero economico o statistico.

È stato recentemente scritto che “una buona Medicina (collettiva) è fatta per un terzo da buone medicine e per due terzi da buone leggi”; dov’è dunque l’uomo, in essa? L’uomo medico e l’uomo malato, intendiamo, in quale ulteriore inesistente “terzo” vengono confinati?

Proprio per questo spirito di soddisfatto formalismo esteriore, che rifiuta di scendere alla radice dei fenomeni, la Medicina è malata. Sia quella collettiva per lo schermo dei numeri e degli inquadramenti, sia quella “strumentale”, per l’ingombro eccessivo e maldigerito della tecnicizzazione ipertrofica.

Dunque sarà questione di studiare, e al caso di modificare, le presenti metodiche applicative, per adeguarle all’essenza antica della Medicina. E non, mai, il contrario.

Perché, se accadesse questo, la Medicina puramente nominale finirebbe con l’usurpare, nel suo intimo, una delle più importanti conquiste dell’umanità: cioè quello stimolo affettivo primordiale che sospinge a chinarsi sul proprio simile sofferente, ed è la sola caratteristica sociale che distingue l’uomo dagli animali.

LA MEDICINA

Il progresso è scomodo

La storia della Medicina dimostra che l’arte medica ha prodotto le figure più brillanti di clinici e di diagnosti nei periodi di relativa stasi scientifica. A rifletterci bene, non stupisce affatto che l’epoca aurea dei dottissimi consulti a quattro, cinque o dieci fosse proprio quella in cui, dopo interminabili discussioni infarcite di latino, di greco e di arabo, la cura consigliata, vincessero gli iatrochimici, o gli iatromeccanici o i vitalisti, era in ogni caso unica: salasso e purga.

Ma vi è di più, cioè, per quanto possa sembrare paradossale, lo stesso paziente ne ricavava un vantaggio.

Infatti, solidamente ancorato a teorie ritenute esatte in lungo volger di secoli, e sicuro in ogni caso della terapia che avrebbe in seguito applicata col consenso unanime dei colleghi e dei pazienti, il medico poteva dedicare quasi tutto il suo tempo allo studio personale e individualizzato del suo particolare malato, contribuendo in larga misura, durante il decorso della malattia, ad aiutarlo spiritualmente conferendogli la sua stessa tranquilla fiducia nei poteri di guarigione. La suddetta fiducia, pur nella scarsezza e nell’inadeguatezza dei mezzi di cura, veniva puntualmente confermata nella maggioranza dei casi, soprattutto perché, quando non sia disturbato nella sua ripresa da erronei interventi esterni, è statisticamente accertato che l’organismo umano supera, assolutamente da solo, almeno due terzi delle malattie che lo possono colpire (non per nulla è ancor oggi valido, e lo sarà sempre, l’aforisma ippocratico del «Primum non nocere».

Infine, considerando le poche e spuntate armi di cui disponeva, nonché l’intimo convincimento che la sua «scienza» (nella quale il malato riponeva totale fiducia) era in realtà una massa di tradizioni e di teorie spesso contraddittorie, il medico antico si sentiva sospinto al fianco del paziente e sul suo medesimo piano, nella lotta contro il mistero del male, che veniva perciò condotta in umiltà ed era permeata di dedizione. Dal che nasceva immediatamente un sentimento profondo di solidarietà umana assai favorevole, comunque andassero le cose, al mantenimento di una fiducia basata sulla mutua comprensione, sulla considerazione e la gratitudine verso il curante, sul rispetto e l’amore verso il sofferente.

In grazia di questo atteggiamento spirituale, mantenutosi di necessità quasi universale fino all’inizio dei tempi veramente «scientifici», la Medicina aveva conservato il riflesso, sia pure sempre più pallido nei secoli, della investitura semideistica propria dello stregone e dello sciamano, cioè all’unico uomo di tutta la tribù che aveva il coraggio di avvicinarsi al malato per opporsi, con le sue sole forze, alla «collera degli Dei» mentre gli altri, capo compreso, si allontanavano presi dal terrore.

L’antica dignità

Ne deriva logicamente, in caso di guarigione, l’attributo allo stregone di una potenza uguale a quella degli Dei sconfitti, e una dignità preter-umana o almeno sacerdotale, assai spesso superiore, sebbene su un piano diverso, a quella strettamente naturale del capo tribù.

Con la fondazione della scienza, questo carattere è stato progressivamente perduto dalla Medicina, e sostituito, man mano che le conoscenze mediche si organizzavano in teorie sempre più logiche e generali, da un continuo accrescersi della «coscienza scientifica». Questo fenomeno ha conferito una nuova e tutta umana superiorità al medico nei confronti del malato, ma come fatale contropartita ha reso sempre più difficile l’immediato contatto spirituale tra i due, per la progressiva scomparsa di quell’amore che il grande e controverso Paracelo poneva invece, definendolo «charitas et pietas» alla base stessa della professione medica.

La carenza di amore nell’atto medico è ormai divenuta quasi una necessità, mentre la sua importanza non è così trascurabile come si crede: le statistiche dei brefotrofi, dove l’igiene e l’assistenza sono ineccepibili, segnano quote di complicanze e di mortalità, nelle malattie infantili, assai più alte di quelle domiciliari per gli stessi casi. Ciò che manca nei brefotrofi, ed è invece offerto dalle madri in tale quantità da compensare eventuali inefficienze igieniche non è altro, appunto, che l’amore dato e ricevuto.

Ed oggi finalmente, in colpa della troppo orgogliosa scienza e della troppo poca umanità, il ciclo sta per chiudersi su se stesso: i tempi moderni e gli ultimi anni in specie hanno recato una massa tale di conquiste chimiche, biochimiche, chemioterapiche, ormonali e psicosomatiche da mantenere allo stato perennemente fluido gli stessi concetti basilari della Medicina, creduti immutabili per decine di secoli. Ne risulta che persino di fronte ai fondamenti della sua arte, ogni medico meno che superficiale si trova in condizioni di insicurezza e bisognoso di un continuo aggiornamento, che non può tuttavia concedersi in misura sufficiente, distratto com’è dal convulso «surmenage» della pratica professionale.

Medicina facile

Inoltre i potentissimi medicamenti moderni, che sembravano aprire le porte ad un’era di medicina «facile» dove la terapia, in ogni caso efficace, avrebbe potuto precedere lo sforzo diagnostico, hanno persino cambiato alcune delle malattie descritte classicamente come invariabili nei testi, né basta sapere che la patologia è oggi modificata dagli antibiotici, per potersi orientare d’un colpo sull’esatta diagnosi.

Una volta, per esempio, la polmonite veniva diagnosticata con comodo sui rilievi di percussione e di ascolto, che procedevano di pari passo durante diversi giorni, man mano che la zona di polmone infiammato s’induriva e si riempiva di essudato, o ancora oltre, quando lentamente si riassorbiva l’essudato, e il respiro riaffluiva negli alveoli; e un segno esterno importante dell’affezione era l’herpes labiale, che segnalava al medico la reazione di difesa dell’organismo. Oggi, appena uno si mette a tossire e ha la febbre, di propria iniziativa si imbottisce di sulfamidici, e magari anche di penicillina, prima di chiamare il medico; e questi si trova di fronte a un quadro complesso, nel quale il più delle volte i diversi sintomi non concordano come dovrebbero.

Così il medico pratico di oggi, di fronte alle difficoltà sempre crescenti della professione, rinnova spesso il medesimo atteggiamento di sfiducia in se stesso che sembrava un superato «handicap» del suo antico collega. Ma disgraziatamente non sa più valersi, per difetto di abitudine, di educazione e di tempo, delle ampie risorse umane, delle quali si nutriva un tempo la stima e il rispetto verso il curante, di tale grado ed intensità da mantenersi inalterati qualunque fosse l’esito della cura.

Quel che è peggio, la «crisi di sicurezza» è spesso avvertita dal malato, in grazia dell’acutezza che lo stato d’infermità conferisce ai sensi, e da lui viene per lo più interpretata, grossolanamente, nel senso univoco di «incertezza». Ciò è tanto più facile quanto più largamente il paziente si è nutrito, sulla stampa ebdomadaria o quotidiana, di frammentarie ed elementari nozioni del suo male particolare, tanto chiaro da capire e tanto facile da guarire, almeno nell’aulico periodare di qualche incosciente scribacchino.

Così accade che, superficialmente saccente, ma in fondo ignaro affatto del travaglio di spirito e di tecnica che conduce oggi a una diagnosi esatta e soprattutto confermabile da altri a distanza anche breve di tempo, l’infermo giunge a criticare l’operato del medico per le più opposte ragioni: se scrive medicine banali e di poco prezzo perché «non conosce le cure nuove»; se ne scrive troppe e costose perché «esagerato»; se non fa esami perché «cura all’antica»; se ne fa molti perché «tormenta inutilmente il povero malato», e via di seguito.

In persona del suo rappresentante più vicino al pubblico, il medico pratico, la medicina paga con ciò lo scotto della perdita progressiva dell’umiltà.

«Quantizzare» analiticamente i rilievi obiettivi è stata la base di partenza per lo sviluppo scientifico della medicina, e costituisce ancora oggi il fondamento della diagnosi e la conferma della terapia.

Ma si ripete purtroppo anche nell’ambito della medicina la cattiva sorte che il progredire della civiltà delle macchine ha donato all’umanità: le conquiste tecniche sempre più avanzate ingenerano il «tecnicismo» e gli uomini, invece di dominare per mezzo delle macchine, ne subiscono, oltre al fascino, anche la dittatura.

Il tecnicismo

In campo sanitario questo atteggiamento ipocritico (dal quale restano immuni pochi spiriti eletti, che probabilmente sarebbero stati grandi medici anche in altre epoche) ha condotto a diversi sviluppi, tutti egualmente perniciosi:

  1. la specializzazione e l’ultraspecializzazione;
  2. il mito dell’infallibilità dei mezzi tecnici e dei loro referti, tanto più radicato quanto meno ciascun medico ne ha diretta conoscenza (e con ciò l’esatta nozione delle possibilità di errore), che quindi raggiunge logicamente la sua massima esasperazione nei profani;
  3. come conseguenza, l’abdicazione frequente del medico ai suoi mezzi umani, considerati a torto insufficienti e «tecnicamente obsoleti» di fronte a quelli extraumani;
  4. la difficoltà di riassumere in una sintesi operativa la mole crescente dei risultati parcellari raccolti con gli esami complementari (nella prescrizione dei quali la moda momentanea e le simpatie del paziente giocano talvolta un ruolo poco dignitoso), ciò che allarga enormemente il numero degli elementi da interpretare, moltiplicando - secondo che insegna la statistica - l’errore probabile;
  5. la frattura, ogni giorno più larga, tra scienza medica e pratica professionale. Qualcuna di queste categorie, soprattutto la prima, la terza e la quinta, meritano una trattazione meno schematica.

La specializzazione

Siamo tutti d’accordo sul fatto che lo sviluppo esponenziale dimostrato nell’ultimo cinquantennio da ogni branca dello scibile umano (e in particolare da quello medico), ne renderebbe impossibile il dominio anche ad un odierno Pico della Mirandola. Da qui insorge la necessità della specializzazione tecnica, quale esigenza preliminare affinché tutte le infinite applicazioni, per esempio della medicina, alla vita sociale, alla salute, alla malattia, ricevano l’adeguato approfondimento.

Ma se la «divisione del lavoro» è fruttuosa sul piano scientifico e di studio, la sua trasposizione nel piano pratico è foriera di conseguenze spiacevoli.

La medicina specializzata, partita originariamente dalla suddivisione degli apparati, è giunta ormai a quella di organo o addirittura di parcelle topografiche (proctologia, ecc.)

Con ciò le riesce ogni giorno più difficile di sfuggire al pericolo di un esclusivo meccanicismo, e a quello di trascurare la correlazione del danno locale con l’integrità organica e psichica della persona umana.

Di fronte ai referti di analisi, che assumono spesso per malinteso rigore scientifico, la veste di algoritmi sempre meno comprensibili per il medico pratico, questi soggiace, abbastanza facilmente, ad un vero complesso di inferiorità tecnica; né vi è da stupirsi considerando la somma di esami che «si possono» compiere sui malati moderni.

Quanti «esami»?

Ecco un caso semplice e diffuso: l’iperteso. Se il curante vuole evitare il rischio di restare interdetto di fronte alla cortese sufficienza di un eventuale consulente, che gli richiederà proprio i risultati di quelle analisi sofisticate alle quali non aveva ricorso, dovrà, secondo i moderni dettami scientifici, sottoporre il paziente ad oltre una quarantina di esami, i referti dei quali gli saranno probabilmente chiari, almeno in parte, come se fossero redatti in cinese.

La lista, sicuramente incompleta, può comprendere: esame clinico completo; pressione arteriosa; oscillometria; misura della fragilità capillare; radiografia cardioaortica; elettrocardiogramma, balistocardiogramma; esame neurologico; esame endocrino; campo visivo; pressione oculare; esame del fondo oculare; esame chimico completo dell’urina; eventuali albuminuria e glicosuria; sedimento urinario; azotemia; concentrazione ureo-secretoria; rapporto emato-urinario di Cottet; coefficiente di Van Slyke; diuresi provocata secondo Vaquez; esplorazione della funzionalità glomerulare; test di Volare; pielografia; test del freddo; test posturale; test del sonno; test del tetraetile; colesterolemia; glicemia; cloremia; uricoemia; protidemia; metabolismo basale; esame emocromocitometrico e formula; R.W. e collaterali sul sangue e liquor; prova dell’istamina; prova della dibenamina; prova del regitin.

Tutto questo, naturalmente, nel caso eccezionale in cui nessun organo risulti per suo conto sofferente, altrimenti per ciascuno di essi c’è pronta un’altra consimile serie.

Il medico generico può compiere solo i primi due o tre esami; sia per il numero sia per l’apparente importanza, è la folla degli altri a prevalere. È possibile dunque che il curante, il quale conosce le sue limitatezze umane, e crede tanto più infallibili i referti delle analisi quanto meno li sa leggere, giudichi erroneamente trascurabile il suo apporto personale al rilievo degli elementi diagnostici. Ciò conduce a poco a poco alla trascuratezza dei rilievi clinici (comoda oltretutto per il risparmio di tempo) e quindi, fatalmente si arriva ad una conferma della loro inefficacia, chiudendo con ciò il circolo vizioso di un equivoco paradossale.

Così, come conseguenza di questa ingiustificata petizione di principio, una quota sempre più larga di medici va perdendo quella peculiare finezza di sensi e di rilievi che permetteva ai grandi Clinici del passato (ma anche ai loro Assistenti educati con passione e costanza) le diagnosi quasi miracolose, che oggi raggiungiamo con maggior fatica e con oneroso dispendio di mezzi.

È come un serpente che si morde la coda; la medicina attuale fa di tutto perché l’aratro mentale dei medici pratici si arrugginisca. Che meraviglia dunque ch’esso non brilli più come prima, e tagli assai meno profondo?

Gli equivoci e le antinomie della medicina moderna

Chiunque rifletta, con distacco impersonale, sullo stato attuale della Medicina, viene immediatamente colpito dalla impossibilità di inquadrare tutta la materia in un sistema logico omogeneo. Al di là del travaglio evolutivo, sia teorico, sia pratico, che investe ognuna delle sue multiformi espressioni, l’unico punto concorde ……………….. una per una e tutte insieme.

Questo, se su un piano logico si risolve in una babele semantica, sul piano pratico condiziona una serie di equivoci non risolti, fattori gravissimi di malessere per ciascun medico, di incoerenza e di disturbo per la Medicina. È assolutamente certo che se nessuno degli interessati, cominciando dai grandi responsabili, deciderà di dedicare del tempo e del cervello alla chiarificazione dei termini medici e dei fenomeni che gli stessi delimitano, il medico appena laureato continuerà come ora a essere gettato allo sbaraglio professionale senza idee guida, senza principi fondamentali, senza una preparazione, anche embrionale, a quello che veramente lo attende nella realtà, appena al di fuori dei portoni istoriati delle università.

Tanto per esemplificare i principali motivi di equivoco, e le antinomie più palesi, raggruppate eterogeneamente nel termine falsamente univoco di medicina, chi ha mai detto al neolaureato se la «strada» che esso ha scelto, e che crede ingenuamente identificarsi con la cura ed il sollievo del malato, debba intendersi come una scienza o un’arte, come una accademia od una professione, come un rapporto privato o come un servizio pubblico?

Arte o Scienza?

Oggi la medicina è tutto questo, e molto altro ancora; ma le scuole di «medicina» a che cosa singola, di questo universo, preparano?

A tutte, certamente no. A qualcuna certamente assai bene. Ma siamo sicuri che queste siano le più importanti, sia dal punto di vista statistico, sia da quello funzionale?

È proprio questo il nucleo da discutere, e da chiarire pregiudizialmente con la collaborazione di tutti.

Agli inizi del secolo, quando un numero ormai cospicuo di invenzioni e di tecniche cominciava ad essere applicato all’«arte del guarire» veniva spesso dibattuto l’argomento se la medicina fosse una scienza o un’arte; il dilemma nasceva dalla equivalenza dei mezzi umani e di quelli tecnici, presente nella medicina d’allora. Oggi, con l’espansione della medicina scientifica, il dilemma teorico si è risolto in una pratica antinomia.

Il sofisma antico risiedeva nel comprendere in un unico concetto («la medicina») tanto l’insieme delle nozioni che costituiscono la «materia medica», quanto l’applicazione delle medesime conoscenze al singolo malato. Il problema nuovo, ben più complesso di quello antico tutto accademico, sta nel determinare se, ed eventualmente in qual modo, sia possibile oggi raggiungere una soddisfacente sintesi operazionale tra le due distinte «medicine», senza che l’una venga soffocata o addirittura annullata, dalla prepotenza dell’altra.

È impossibile negare, al giorno d’oggi, che la «materia» della medicina sia della vera scienza, con qualche isolata riserva. Quando parliamo di «costanti biologiche» ci riferiamo oramai a dati quantitativi di valore non opinabile, e che, confermati dall’analisi statistica, rivestono la caratteristica di criteri assoluti sia in teoria, sia nella loro applicazione pratica allo studio di una «entità nosologica».

Il colloquio singolare

Ma l’esercizio pratico della medicina, cioè l’applicazione delle scienze mediche all’uomo individuale, per fini diagnostici e curativi che lo investono nella sua integrità corporale e psichica, è cosa totalmente diversa.

L’esame del malato, il suo interrogatorio, il modo di esporgli la diagnosi e il trattamento, la capacità di inspirargli la necessaria fiducia e , caso per caso, o la speranza nella guarigione, o la sopportazione del suo stato; la abilità a suggerirgli per gradi insensibili, nei casi disperati, il miracolo della rassegnazione e ad infondergli tuttavia ad ogni incontro una sempre rinnovellata tranquillità; in una parola il «colloquio singolare», fondamento peculiare dell’incontro professionale, resterà sempre la pratica di un’arte anche quando la scienza medica si sarà ancor più allargata e matematicizzata di adesso.

È appunto alle diverse capacità reattive del medico nel corso di questo incontro, ed alla sua abilità di armonizzarsi senza sforzo apparente con l’ambiente psichico ogni volta imprevedibile che avvicina, che debbono essere attribuite le differenze talvolta enormi di successo professionale, tra medici usciti dalla stessa scuola, cioè dotati di uguale preparazione scientifica.

È ben chiaro che il «successo», cioè l’abilità professionale, dipende assai più dalla personalità profonda piuttosto che dalla istruzione ricevuta, ma occorre anche ammettere, onestamente, che l’attuale ordinamento universitario trascura totalmente la fase professionale, e si dimostra in genere poco adatto alla preparazione strettamente pratica del neolaureato.

Non si fa qui riferimento alla penuria dei mezzi didattici, considerata dai più come l’unica ragione della crisi universitaria, e che invece ha il carattere di una semplice contingenza, anche se di lenta e faticosa risoluzione. Il problema di fondo è la natura ben più seria, e riguarda l’indirizzo generale degli studi, che – in quasi tutti i paesi d’Europa – è prevalentemente «accademico» cioè, almeno nell’intenzione, scientifico puro invece che «professionale».

Ora, se si considera la realtà statistica che solo il 6% circa degli studenti si dedica dopo la laurea alla ricerca o alla carriera di docente, risulta chiaro che il restante 94% è costretto ad imbottirsi di nozioni che in pratica non userà quasi mai e, all’incontro, dovrà costruirsi del tutto individualmente, in altra sede che non l’universitaria e sotto l’assillo della fretta, quella tecnica professionale minima, indispensabile all’esercizio pratico. Ciò viene compiuto (salvo i casi fortunati di frequenza ospitaliera) a spese dei primi pazienti, con molta fatica, inorganicità e pericolo di errori.

La condizione del 6% di «élite» non è, peraltro, più felice; essa soffre dello scarso approfondimento degli studi, dovuto all’enorme sciupio dei mezzi, pariteticamente distribuiti, pur senza alcuna utilità presente o futura, anche alla restante pletora di concorrenti al medesimo indifferenziato diploma.

Il problema è già stato praticamente affrontato in alcuni paesi, ma le soluzioni proposte non sono ancora soddisfacenti. Nell’U.R.S.S. la durata temporale e la profondità della preparazione sono già diversificate, e lo sono anche i titoli «medici» ai quali danno accesso. Ma il sistema, che presenta effettivamente dei vantaggi funzionali relativi a quel paese, sembra poco accettabile alla mentalità occidentale perché declassa estesamente la dignità e il prestigio del medico pratico, se non quello della Scienza Sanitaria e della ristretta cerchia dei suoi cultori.

In alcune università scozzesi si è pensato invece di inserire dei corsi di tecnica professionale nel piano organico degli studi di Medicina: in attesa di una radicale riforma di principio, questa metodica potrebbe dimostrare un suo valore contingente, contribuendo almeno a restringere l’attuale distanza tra lo studio e la sua applicazione alla realtà.

Comunque, se si vorrà por mano a una riforma strutturale o funzionale dell’insegnamento, occorrerà tener conto di questa fondamentale necessità, criticamente rivelata dalla moderna «produzione di massa» dei medici e che un tempo si risolveva da sé. Quando però, in grazia del piccolo numero degli studenti, e della consuetudine giornaliera col Maestro, si trasmettevano con caratteri quasi invariati dall’Uno agli altri non solo le tecniche diagnostiche e gli schemi di terapia, ma anche l’arte di avvicinare il paziente. Tanto che era spesso possibile riconoscere, nel comportamento tecnico e in quello umano del medico, il trasparente riflesso degli insegnamenti creditati, con la parola e con l’esempio, da questo o da quel Caposcuola.

La crisi di sviluppo della Medicina moderna, insorgente da molteplici motivi di intimo travaglio, risulta oggi acutizzata ed esasperata dall’interferenza di un fattore assolutamente estraneo ad essa, cioè le cosiddette «istanze sociali» sollecitate e in qualche caso imposte dagli «uomini politici».

La medicina socializzata

Prima di legiferare insindacabilmente che la Medicina deve essere estesa a tutto il complesso sociale, parificandola così a un qualunque servizio di pubblica utilità finanziato dalle imposte, sarebbe giustificato che i sullodati «uomini politici» si chiedessero se la società moderna dispone di medici preparati alle nuove esigenze in numero sufficiente, o se almeno fa tutto il possibile per procurarseli. A una disamina obiettiva risulta vero, purtroppo, il caso opposto. Onde è perfettamente inutile voler imporre delle soluzioni di forza, giustificandole con la «democratica» prevalenza numerica degli assistibili sui sanitari, se non viene pregiudizialmente risolto il problema dei medici.

Soprattutto della massa d’urto di quelli pratici e generali, sulla cui preparazione, efficienza e convinzione, prima ancora che sulla reperibilità dei mezzi di finanziamento, deve basarsi per necessità qualunque programma di assistenza collettiva che aspiri ad essere serio e non solo di figura.

Altrimenti sarebbe come voler costruire, perché richiesto a furor di popolo (mosso inizialmente da agitatori più o meno interessati), un imponente edificio pubblico, valendosi di mattoni crudi o di malte senza cemento: probabilmente crollerebbe sulla testa dei convenuti già durante la bella festa e le tronfie discorse inaugurali.

È pacifico che il voler cominciare la casa dal tetto finisce sempre in un disastro, né la Medicina può fare eccezione alla regola. Eppure in gran parte del mondo civile, mentre i piani di sviluppo economico vengono sottoposti al parere dei tecnici più qualificati, e si preparano fondamenta ben salde prima di procedere alla erezione di programmi ambiziosi, la malintesa urgenza delle «istanze sociali» spinge a bandire programmi sempre più vasti di assistenza totale, spregiando dilettantescamente non solo i consigli, ma addirittura il contrario avviso dei tecnici responsabili.

Persino l’esperimento inglese di assistenza totale gratuita (cioè pagato dalle tasse) che è stato il primo in ordine di tempo (5 luglio 1948) e che poteva avere quasi tutti i motivi di perfetto successo poggiando la sua struttura sui risultati di uno studio ventennale, presentato nel 1942 al Governo di Sua Maestà dal liberale Lord Beveridge, ha dimostrato, in fase applicativa, e soprattutto nei primi anni di funzionamento, delle pecche abbastanza serie, tanto da portare alla sconfitta elettorale il governo (laburista) che l’aveva trasformato in legge funzionante.

Il fatto è che persino il grande economista Beveridge aveva trascurato di tabulare, nello studio sociologico preliminare, proprio il fattore fondamentale dell’assistenza, cioè la crisi evolutiva attuale della Medicina; alla chiarificazione e alla possibile soluzione di questo sfuggente fattore di base possono dare un efficiente contributo soltanto i medici, e soltanto dopo averli risolti per loro. Il che, ancora oggi, non è. Tuttavia anche l’esperimento inglese, paradigma di tutti gli altri, non ha insegnato nulla ai politici. Questi «tirano dritto» dovunque, e al momento attuale sono già arrivati a «mutualizzare» o «nazionalizzare» su queste premesse errate almeno il 60% della popolazione europea, e circa l’80% di quella italiana. Così tutti hanno ampie ragioni di giustificato scontento: i malati, che non si sentono curati; i medici, che vedono snaturata la loro arte; e i governi o gli enti assicuratori, impotenti a frenare le emorragie finanziarie.

In questo clima assurdo, che interferisce negativamente sul sereno esercizio e sulle possibilità stesse della professione in qualsiasi sua branca, si trova proiettato senza alcuna istruzione pratica il neolaureato in Medicina, ed è costretto, per poter vivere della sua arte, a dominarlo, oppure ad adattarvisi; o infine a subirlo.

È perciò di grande interesse gettare una occhiata sulle modalità pratiche dell’esercizio professionale moderno, sulle difficoltà che lo inaspriscono, e sulle sue differenze, supposte o reali, nei confronti del passato.

Le difficoltà dell’inserimento nella professione

In quasi tutto il mondo e particolarmente in Italia, il laureato in Medicina, abilitato più o meno «provvisoriamente» ad esercitarla, può fare in teoria di tutto, dalla più semplice fasciatura alla più pericolosa manualità chirurgica: essendo infatti ancora corazzato, come nel medio evo, da quel famoso «ius necandi et occidendi» che i goliardi celebravano nei loro canti.

In pratica tuttavia resta disoccupato, e deve superare una feroce competizione persino se vuole essere accolto in qualche clinica privata o pubblica col titolo assolutamente onorario di «interno».

Se non ci riesce, può sempre occupare utilmente il suo tempo divertendosi a calcolare tutte le possibilità che gli studi percorsi gli aprono: una rosa di attività (pochissimo o moltissimo distinte l’una dall’altra) il cui numero è così alto da risultare a prima vista incredibile.

Se consideriamo infatti che quella multiforme «Medicina» alla quale un unico diploma indifferenziato dà accesso, può essere distinta in non meno di sei classi (scientifica-pratica, libera-dipendente, generica-specializzata) ciascuna delle quali può distribuirsi su almeno sette categorie applicative: preventiva, d’ambiente (scolastica, militare, di fabbrica, ecc.), tecnica (o di laboratorio), ospitaliera, fiscale e assicurativa, amministrativa e funzionaristica, e finalmente sindacalistica, risulta che la somma totale delle diverse combinazioni possibili in base alla semplice formula xn (dove x è il numero delle classi, cioè 6, e l’esponente n è ancora 6, cioè 7 categorie applicative meno 1, l’amministrativa e funzionaristica, che può essere solo dipendente) e che risponde dunque a 6°, raggiunge l’impressionante valore di 46.656.

66=46.656

Il numero infinitamente minore delle reali possibilità di lavoro medico dipende dal fatto che ciascun sanitario cumula in se stesso, contemporaneamente una serie più o meno ampia dei diversi elementi di combinazione, per lo più allo scopo preminente di ricavarne sufficienti mezzi di vita, essendo di regola insufficiente la retribuzione di ogni singolo servizio.

Ammettendo che la scelta del nostro neolaureto sia già avvenuta, e riguardi una delle possibilità  pratiche, nasce subito il problema di conquistare la «clientela». È a questo scopo, privatamente, che i giovani cercano la frequenza ospitaliera, che offre la prima larga occasione di venire a contatto  con il serbatoio di potenziali pazienti, unita alla possibilità di assimilare la massa di quelle indispensabili nozioni di ordine strettamente pratico, che vengono fornite in modo non organico o francamente insufficiente  dall’istruzione accademica ricevuta nelle aule universitarie. Ed è così che, come il nettare dei fiori, attirando gli insetti, adempie alla fondamentale funzione della fecondazione entomofila, l’ospedale insegna al giovane medico la pratica di quelle piccole, cose neglette dal corso accademico e apprese con l’esempio dolo dalla piccola percentuale dei frequentatori delle Cliniche, quali la tecnica delle iniezioni endovenose e le altre piccole manualità mediche, sulla scorta delle quali e in relazione diretta con la maggior o minore abilità del medico a compierle,  i pazienti giudicano assai spesso il suo «valore».

Negli ultimi anni di corso e nei primi mesi della sua nuova dignità, il neo laureato crede ancora nella Medicina. Naturalmente a quella tradizionale, fondata sul l’incontro benefico del medico con il suo personale malato, cioè a dire con colui che lo chiama tra i mille per la libera elezione, innalzandolo su un così alto piedistallo di rispetto, di fiducia e di aspettazione da trovare del tutto naturale l’incondizionata dittatura di un uomo sulla vita dei suoi pari. Infiammato di sacro entusiasmo, attende solo un cenno per gettarsi all’azione e pulire la faccia del mondo dalla bruttura dei mali. Per il medico neonato l’importanza dei primi pazienti è pari a quello della notte nuziale: l’esito felice o infelice dei primi incontri condizionerà in futuro, nascosto profondamente nel subconscio, la confortante tendenza alla fiducia in sé stesso o il deprimente sospetto di una vita sbagliata.

Ma spesso il primo cliente tarda troppo a venire. E nel frattempo il medico viene a conoscenza delle prime brutture della pratica professionale, come la redditizia pratica dello «smistamento» su base dicotomica verso alcuni specialisti e i laboratori privatamente «convenzionati»  contro i dettami delle deontologia.  Con la quale nozione, e considerata  la grande difficoltà e il reddito inadeguato della Medicina generale, comincia a risentire gli allettamenti  di una di una qualsiasi specializzazione, intesa spesso come possibilità di più facili e maggiori guadagni, invece che come espressione di un interesse particolare.

Ma in ogni campo in cui cerca di inserirsi, si scontrerà, inevitabilmente, con il medesimo fenomeno: la pletora dei colleghi.

Distribuzione ineguale

Che i medici siano molti e sembrino troppi è un fatto indubitabile. Tanto per riferirsi a cifre italiane, i laureati in Medicina sono passati dai 600 all’anno del 1914 ai 4000 circa degli ultimi anni; il numero assoluto di quelli iscritti agli albi professionali dai 23.424 del 1911 agli oltre 74.000 del 1959, con un aumento progressivo della densità per centomila abitanti (totale italiano), da 65 medici nel 1911, a 104 nel 1948, a 140 nel 1954, a 160 nel 1956.

Ma la loro distribuzione è assolutamente ineguale. In  Italia il computo statistico delle provincie, riferito ai 72.527 iscritti nel albi 1958, dimostra 1 medico su 285 abitanti  nella provincia di Roma; 1:416 in quella di Milano, 1:474 a Napoli e, per converso , solo 1:1.148 ad Aosta, 1:1.294 a Cuneo, 1:1.446 a Rovigo.

Il fenomeno è mondiale, e gli altri  Paesi europei rilevano cifre quasi pari alle nostre. Per i nuclei abitati, ad esempio,  si passa in Francia da 1 medico su 4.545 abitanti per i comuni con meno di 1.000 abitanti, a 1:757 per i nuclei da 80 a 100.000 a 1:584 a Marsiglia, a 1:410 a Parigi.

Cosa spinge i medici a inurbarsi?  Il più alto livello di vita ivi esistente. È dimostrato, da ricerche compiute dall’ U.N.E.S.C.O., e pubblicate da Woytinsky, che le spese mediche annuali crescono in  diretta relazione con il reddito. Per riferirsi agli U.S.A.,  dove la situazione, per mancanza di assistenza obbligatoria, è ancora simile alla nostra «libera professione», esse passano gradualmente dai 57 dollari per redditi fino a 1500 dollari, ai 163 dollari dei redditi fino a 5.000, ai 340 dollari dei 10.000 e oltre.

Eppure si parla molto anche  di «pauperizzazione» del medico, e la cosa non è affatto fittizia.

Evidentemente è legge naturale che, come i medici  si trasferiscono nelle città a scopo di miglioramento, così i pazienti si trasferiscano negli ambulatori dei medici dei quali ottengono di più  (estendendosi purtroppo il «più» dalla migliore abilità diagnostica alla maggiore generosità di ricette o di «giorni»).

Così il medico,  sia individualmente sia statisticamente, « o muore di fame o muore di indigestione». Come diretta conseguenza della pletora e della feroce conseguenza ( che giunge talvolta a violare senza ritegno persino le più semplici regole deontologiche), per il discredito riversato sui medici dalle polemiche sindacali, e dalla conoscenza, resa universale dalla stampa, delle indegne «retribuzioni» imposte da alcuni Enti Assistenziali, la gente si è abituata a considerare il medico ( per lo meno quello generico) alla pari di un bene di consumo che diminuisce  di prezzo col crescere della sua produzione in massa. È vero che il costo della Medicina è sempre più alto, ma solo in causa del costo dei medicinali e delle analisi: al contrario il medico generico è sempre più a buon mercato.

Per riferirsi a tariffe ufficiali, la decadenza del valore economico dell’opera medica risulta evidente,  se si pensa che un modesto borgo piemontese conferiva al condotto comunale, nel 1893, un onorar ario annuo di lire 1200  (nell’epoca in cui il solito pollo delle statistiche si pagava 80 centesimi,  e un capomastro 1 lira al giorno). Anche tornando a tempi più vicini, ma ancora precedenti all’esperienza manualistica si massa (il 1936-1937), mentre le uova si vendevano a L.3,90 la dozzina, e la benzina a L. 1,05 al litro, l’onorario minimo per una visita  generica era stabilito in L. 20, per una iniezione endovenosa in L. 25 per una visita specialistica in L. 50. Cioè una  visita normale equivaleva a 5 dozzine di  uova, o a 19 litri di benzina. Una inchiesta francese del controvalore, anch’essa basata sul «poulet» ha rilevato che il più comune atto medico era scambiato contro due polli nel 1914, 1 nel 1939, ½ attualmente.

Le precedenti considerazioni valgono, naturalmente, per l’artigianato medico (tuttavia componente l’80% dei professionisti) restandone finora immune la «aristocrazia» medica, cioè gli specialisti  e i chirurghi di vasta rinomanza e una parte dei titolari di cattedre universitarie.

Ma si tratta di una percentuale assai esigua, non superiore al 6-7% i cui guadagni talvolta troppo elevati sono controbilanciati dagli stipendi vergognosamente bassi, inferiori a quelli legati per le domestiche e gli apprendisti, dei quali alcune amministrazioni ospedaliere «gratificano» gli assistenti  di ruolo, come premio di superati concorsi.

Nonostante tutti questi «handicap» il problema primordiale per il giovane medico resta  quello di vivere «sulla sua laurea», cosa che, assurdamente non è facile come gli aspiranti al titolo dottorale credevano nei sogni rosati del corso accademico.

I metodi possibili per risolverlo sono molteplici, non tutti, peraltro, sul medesimo piano etico o deontologico. La scelta preferenziale di uno di essi, condizionata purtroppo da molti e contrastanti fattori intimi e di ambiente, costituisce la prima vera prova del fuoco,  per la quale,  a differenza dell’epicrisi diagnostica, l’istruzione accademica non dà nessun aiuto e nessuna guida

L’aumento delle spese di esercizio quale fattore di decadimento professionale

Un tempo il medico, giunto al possesso della laurea ed iscrittosi agli Albi professionali, poteva passare immediatamente all’esercizio delle Medicina, accontentandosi i pazienti antichi dei suoi mezzi umani, cioè i sensi e il cervello.

Oggi, invece, un ambulatorio sfornito di almeno una mezza dozzina di luccicanti apparecchi induce il paziente a poco benevoli apprezzamenti, tali da influire negativamente sulla sua scelta. È quindi praticamente un obbligo, anche e sopratutto per il neo-laureato, di immobilizzare grossi capitali in questa scenografia spesso soltanto di figura, indebitandosi per ottenerli e ipotecando così dei guadagni futuri, la cui misura e probabilità costituiscono dei veri azzardi.

Di fronte a questo ostacolo, grave  e per di più imprevisto, una a parte dei laureati uscenti da famiglie non ricche, le quali hanno già sostenuto con fatica progressivamente crescente i diciannove anni di studio improduttivo, si perde di coraggio, «getta alle ortiche» il prezioso bagaglio di cognizioni specifiche e purtroppo esclusive faticosamente accumulato, e si dedica ad altre attività meno lusingatrici ma praticamente più redditizie.

Considerato sul piano dell’economia della comunità ciò assomiglia molto ad uno sciupìo criminoso di pubblico denaro. Tuttavia il fenomeno si verifica (censimento italiano del 1951) in un abbondante 6% dei laureati, cioè, per un contrappeso quasi irrisivo, nella medesima percentuale di quelli, tra i nuovi medici, che si dedicheranno alla carriera accademica.

Una profonda nostalgia dell’arte spinge alcuni di questi involontari apostati della Medicina a ingrossare le già troppe schiere dei «collaboratori scientifici» delle case farmaceutiche, le quali declassano bensì al rango di piazzisti un prezioso materiale umano, tecnicamente preparato a compiti socialmente assai più utili, ma hanno almeno il pregio di pagare generosamente bene e presto, sia in moneta sia in rispetto.

La «Mutualità»

Per la stragrande maggioranza dei giovani medici, la situazione del problema economico si chiama senz’altro «la mutua», i cui assistiti dimostrano esigenze assai più limitate di attrezzatura e di ambiente, e possono essere smistati, all’occorrenza, verso specialisti di ogni ramo senza alcuna formalità, né spesa.

La tendenza sempre più larga verso il «fiduciariato» non corrisponde perciò affatto ad una cosciente adesione ai principi della Medicina socializzata, come qualche volta è stato detto in sedi politiche, ma quasi sempre a una condizione di necessità per chi cerca un immediato frutto alle sue lunghe fatiche.

Il fatto che i vantaggi finanziari eseguibili rimangano, per un tempo più o meno lungo (specie nei centri urbani) a livelli pressappoco infimi, non dimostra alcun effetto deterrente; ne assume al contrario uno lusingatore l’interpretazione della «mutua» (almeno all’inizio) quasi come una terra di emigrazione, dalla quale ricavare, con un forsennato lavoro di qualche anno, i mezzi per tornare a vivere e ad esercitare con soddisfazione nella patria della libera Medicina.

Strana mentalità a dire il vero. Che fa ricordare, per analogia, quei militari inglesi privi di beni di fortuna che accettavano ingaggi addolciti da polpose prebende presso i principotti indiani, con l’intenzione di ritirarsi presto a vivere di rendita. Ma spesso, per il clima o per il costume di vita al quale non potevano più rinunciare, il breve ingaggio si trasformava in legame di tutta la vita; cosa che richiama, sempre per analogia, quel che accade, proprio nella massima parte dei casi, al nostro paradigmatico «mutualista controvoglia».

Ma il desiderio della libera professione rimane. Si spiegano così quelle targhe ineffabili («Mutue e Privati») che possono persino ingenerare il sospetto, in quanti non sono addentro in queste cose, dei due pesi e delle due misure. In pratica però soddisfano anche a una esigenza del pubblico, il quale non incorre ricorre affatto nella libera professione in quella esigua percentuale del 20% che le statistiche dicono non ancora coperto dall’assistenza obbligatoria, ma in misura ben maggiore. Infatti anche i «mutuati» hanno ormai capito, a loro spese, che il problema basilare, in caso di malattia, è soltanto quello di guarire presto e bene, per ritornare immediatamente all’attività; cosa assai più redditizia, nonostante le prime apparenze, della gratuità di un’assistenza inefficiente, e perciò protratta per un tempo assai più lungo.

Su che cosa si fonda, in questi tempi di Medicina socializzata, il richiamo dei liberi professionisti? Non offrono visite o medicine gratuite, né generosità di assenze giustificate dal lavoro, ma danno al paziente, finalmente, la possibilità di un rapporto professionale ed umano basato sulla reciproca fiducia.

Su questo rapporto si fonda (a dimostrare la invariabilità della vera medicina) il ricorso privato ad un medico liberamente scelto, il quale può essere tanto il «libero puro» quanto un mutualista che vi dedica qualche ora libera. Quasi tutti i «mutualisti», infatti, esercitano la doppia attività, però il malato generalmente ricorre, quando sceglie da sé, a un medico diverso da quello il cui timbro orna il suo tesserino. Anche quello, a stretto rigor di termini, lo ha «scelto» lui, ma evidentemente sentendosi non libero, per le limitazioni territoriali o di elenco chiuso che la «mutua» gli ha imposto.

Si paga due volte

Così, oltre tutto, si avvera il paradosso che la società, cercando l’illusione della Medicina gratuita, finisce per pagarla due volte: la prima, quando è sana, attraverso i «contributi»; la seconda quando è malata, in «via breve».

A questa luce si possono spiegare più facilmente le strane inefficienze tecniche, in sede «manualistica» di medici rivelanti altrove una buona preparazione, nonché le pecche funzionali del sistema, tra i quali basilare il sostanziale disinteresse per la personalità del malato. Il mutualista giovane di regola ha molto tempo da usare: all’inizio della sua attività regala generosamente agli Istituti della Medicina di ottima fattura, pago, più che della insufficiente retribuzione, della possibilità di applicare praticamente la sua tecnica e il suo entusiasmo taumaturgico.

La buona fama che così acquisisce attrae a lui una schiera ognor più larga di assistiti, per lo più cronici, scontenti del loro medico introvabile e frettoloso. Ne risulta che in breve tempo anch’egli si trova nelle medesime condizioni dei colleghi più anziani, e costretto ormai come loro, dalla mancanza di tempo, a subire i pericoli della superficialità e i facili allettamenti della terapia sintomatica.

Il medico convenzionato direttamente non ha alcun mezzo (quello finanziario gli è in teoria negato), per limitare l’afflusso dei tesserini a quel tanto che soddisfi i suoi bisogni e non più, lasciandogli il tempo per vivere, oltre che per esercitare degnamente.

Dall’altra parte lo spinge a moltiplicare gli atti medici, sfuggendo i più impegnativi in favore dei più elementari, il livellamento incongruo di tutte le «prestazioni», dal semplice rinnovo di una ricetta alla formulazione prognostica che impegna l’avvenire di un malato e della sua famiglia; cosa, con le attuali tariffe, assai vicina alla prevaricazione: del medico nel primo caso, dell’Ente nel secondo.

Insoddisfatto com’è, il medico potrebbe, quest’è vero, lasciare la «mutua» quando essa gli ha donato, con un anticipo di anni sull’antico, una discreta fama e una sufficiente clientela. Ma la decisione, oltre a rappresentare un’incognita, è resa assai difficile dal fatto che, come ognuno sa, quando arriva la prima automobile crescono i bisogni e il gusto delle comodità, i quali portano ad accettare anche le attività poco congeniali, purché il loro reddito sia sufficienti a soddisfarli.

Il momento cruciale

Questo è il momento più drammatico e penoso, superando il quale scompare finalmente la riserva mentale dell’adesione «provvisoria» e che coincide con la possibilità di gravi pericoli etici o deontologici. Mentre l’arte (per la trascuratezza) si degrada progressivamente anche nella sua saltuaria applicazione ai pazienti cosiddetti «privati», si richiede al mestiere di rendere ai massimi vantaggi con la minor fatica. Ciò può finalmente sospingere, nell’eventualità di deboli freni morali, a indulgere a colpe gravi quali il comparaggio e persino la sfacciata richiesta della «giunta» al bollino.

È naturalmente pacifico che questa pessimistica sequenza di degradazione pratica, deontologica e morale non si verifica nella generalità dei casi, anzi è del tutto eccezionale nella realtà. Ma basterebbe un unico esempio (e la realtà purtroppo, non è così ristretta) per squalificare moralmente un sistema che la rende possibile o la facilita.

Ad una cruda disamina, risulta comunque che nell’ambito della cosiddetta «mutualità» (come è oggi) esistono quasi tutte le condizioni determinanti perché una previsione così tragica possa avverersi. Regolamentazioni cervellotiche e necessità inderogabili di bilancio, indirizzi politici e pressioni demagogiche dal vertice o dalla base, ma sopratutto l’ignoranza fondamentale della realtà assistenziale da parte degli amministrativi che codificano le «normative di erogazione», tutto congiura e rendere estremamente difficile, per il medico, la corretta applicazione sulla scala di massa della sua arte tanto desiderata e tanto benefica.

Nonostante tutte le remore e tutti gli inciampi, la massima parte dei medici mutualisti è cercata, seguita, e persino stimata dai propri assistiti. E questo significa – al di là di ogni agiografico complimento – che esercitano bene il loro mestiere. Ma per farlo sono costretti qualche volta a infrangere (e diciamo pure a «correggere») almeno alcune prescrizioni burocratiche pleonastiche o gratuitamente dannose. Per citare qualche «correzione» tra le più banali ed utili: la incompleta scritturazione dei modulari e la indicazione di urgenza al ricovero ospedaliero.

Quest’ultima pratica sopratutto, può servire da esempio e merita di essere chiarita almeno sommariamente per riconoscere le differenze abissali tra la «realtà assistenziale», cioè i veri bisogni dell’assistibile, e la distorta rappresentazione mentale che se ne fanno i burocrati.

Dunque, quando il medico curante mutualista decide (secondo scienza e coscienza, e in possesso di tutti gli elementi di giudizio) che un suo malato abbisogna di ricovero ospedaliero, si trova nell’alternativa di infrangere o le regole della sua convenzione con l’Ente mutualistico, o quelle della sua coscienza sanitaria.

Se, infatti, come richiede il caso, indica un ricovero ospedaliero semplice, da compiere cioè non perforando il traffico cittadino a strepito di sirena su un’ambulanza, ma su un comune mezzo di trasporto entro le prossime ventiquattr’ore (non di più, evidentemente, altrimenti si curerebbe il suo paziente da sé, almeno per un giorno ancora) sa a priori che non sarà possibile al paziente di ottenerlo.

E questo perché – con un disposto burocratico irridente nella teoria e nel fatto – le richieste di ricovero non urgente sono soggette a «visto» da parte di qualsiasi ente di mutualità. «Visto», ripetiamo, non «controllo medico della necessità». Tanto è vero che nessuno si sogna di visitare il malato, ma è la richiesta del medico che gira di qua e di là per il paese o la metropoli, da un ambulatorio a un ufficio sezionale, in caccia del sospirato «timbro e firma» apposto magari proprio da un medico (ma dietro a una scrivania) dopo code e discussioni penose subite in momenti psicologicamente drammatici; cosa che non fa certo benedire la organizzazione e le sue impostazioni extramediche.

Così il medico mutualista prescrive l’urgenza dei ricoveri per le bronchiti, le flebiti, le appendiciti fredde così via. Ma non volendo perdere del tutto la faccia, almeno sui moduli, aggiunge alla diagnosi reale quel tocco di complicazione inesistente ma attendibile che può giustificare la richiesta, comunque interpretata per quel che vale, e in genere senza stupore, dai medici dell’accettazione ospedaliera.

Resta così dimostrato che il sistema riesce a soddisfare i bisogni degli assistiti (almeno in questi casi) grazie alla continua serie di falsi in atto pubblico, compiuti in favore dell’assistito dal medico, a suo esclusivo rischio materiale e morale. Perché magari accade, se il medico dell’accettazione dell’ospedale non è esperto dei meandri operativi della mutualità che il malato, urgente sulla carta e non in corpore si senta dire in più: «Ma chi è quel cretino di medico…, ecc.» con tutto il danno psicologico che ne consegue, a scapito – come sempre – del cireneo mutualista.

Come regola fissa della mutualità infatti si può affermare che se le «correzioni» del sistema sono in qualche caso possibili a livello dell’assistito, per quanto riguarda il medico esse non hanno alcuna efficacia; né remunerativa né di stima.

Nell’ambito della libera professione, a una intensificazione e a un approfondimento del lavoro svolto corrisponde sempre, presto o tardi, una resa economica o di fama in progressivo crescere. Nel settore della mutualità attuale, il miglioramento del servizio prestato corrisponde sempre ad una perdita. Il maggior tempo dedicato alla singola «prestazione» non appare né viene considerato; chi fa di meno, ance se meglio, paga anzi di tasca sua, rimettendoci nel confronto. Infine – ed è una considerazione urtante – la sola possibilità che il sistema induca a una frettolosità forfettaria ha condotto l’opinione pubblica a «declassare» praticamente il mutualista e la sua capacità diagnostica e terapeutica. Ma se il giudizio dei profani dispiace, la medesima opinione, esplicita o implicita, offende i mutualisti e con loro tutti i medici, se proviene da altri colleghi o addirittura da cosidetti Maestri, i quali ostentano in qualche caso, privatamente o in pubblico, il disprezzo per la «medicina mutualistica» e per chi individualmente la pratica, quasi fosse una sottospecie deteriore e non la loro medesima arte.

Con questo possa poi conciliarsi con i grossi introiti che la mutualità concede prevalentemente ad essi, attraverso al finanziamento dei ricoveri con i «compensi ospedalieri forfettari» o attraverso alla tariffe preferenziali concesse ai numerosi «Centri» dell’una o dell’altra specializzazione, resta finora un insoluto mistero psicologico e pratico.

Tutto questo conduce a concludere che, se la medicina corre oggi il rischio di screditarsi nella pratica, una grossa parta di responsabilità ricade sugli Istituti assistenziali, i quali propugnano in tutto il mondo dei sistemi che, in base a errate premesse, agiscono largamente come corruttori del costume e dell’etica medica moderna. Tanto è vero che altre professioni liberali, per le quali nessuno ha pensato di programmare una socializzazione gratuita (e non sono tuttavia meno costose della Medicina) godono tuttora la piena considerazione e il rispetto del pubblico. Valgono gli esempi banali del notaio, dell’avvocato, dell’ingegnere.

Ma la medicina purtroppo costituisce, come il pane, un bene di consumo di tale immediatezza e importanza da incorrere, per sua disgrazia, nella determinazione di un prezzo politico non corrispondente alla realtà. Per questo il medico riesce a guadagnare più degli altri liberi professionisti, ma solo in caso di successo, lavorando quasi come uno schiavo, e a spese della normalità della sua vita. Né, in pratica, riesce a morire ricco. Anche se il suo livello di vita è apparentemente elevato (e tuttavia costituisce, come l’automobile, quasi un mezzo di «produzione» di lavoro, utile al prestigio professionale nel mondo) la quota di medici che diventano ricchi con la pratica professionale è irrisoria. Disponiamo di uno studio statistico compiuto per la contea di Hartford, Conn., U.S.A, su 144 medici deceduti tra il 1940 e il 1953. Soltanto uno di essi lasciò una fortuna di 1.000.000 di dollari ma alla cui raccolta la medicina aveva contribuito solo in minima parte. Il 55% valeva alla morte meno di 100 mila dollari, il 31% meno di 10.000, il 13% era ancora indebitato.

Cifre, naturalmente, valide solo per gli U.S.A., dove il costo della Medicina è altissimo e le mutue ignote.

In compenso – e quest’ultimo dato può valere anche per tutti gli altri paesi del mondo - il 63% di essi era morto improvvisamente, spesso sul lavoro, per infarto cardiaco o emorragia cerebrale.

Delle qualità ideali del medico cosi scriveva Amiel , nel 1873: «Per me il medico ideale deve essere un uomo con profonda conoscenza della vita dell’anima, che intuisca per divinazione le sofferenze e i disturbi di qualsiasi specie, capace di ridare la tranquillità con la sua sola presenza.»

«Il Dottore ideale deve perciò essere, nello stesso tempo, un genio, un santo, un uomo pio».

Ma proprio questo uomo dalle qualifiche eccezionali, che oltretutto reca con sé la maledizione di vivere tutta la sua vita, e tanto più strettamente quanto più ha successo, a perenne contatto con i dolori degli altri e che, oberato di lavoro ai limiti della resistenza umana e oltre, rileva una incidenza di infarti del 330% rispetto a quella generale, alcuni istituti assistenziali si sono abbassati a offrire la vergognosa quota capitaria annuale di ben 450 lire, e hanno trovato persino chi era disposto ad accettarla!

Cosa è dunque avvenuto, della dignità di questo professionista, di quest’uomo riconosciuto per millenni superiore persino ai Re, perché si lasci trascinare così in basso senza ribellarsi? Cercheremo di analizzare il fenomeno nei prossimi capitoli.

IL MEDICO

Come è perché viene scelta la professione di medico

Il capitolo precedente finiva con una domanda piuttosto cruda, dettata dalla realtà dei fatti. La risposta più ottimistica e rispettosa per i medici è quella di considerare la categoria (che ogni giorno ci fornisce ancora esempi preclari di forza morale, di virtù e di eroismo) come non più omogenea e selezionata su standard elevati, al pari del tempo passato, ma inquinata da apporti individuali meno validi sotto tutti gli aspetti, che potrebbero essere i soli responsabili (a danno dell’intera categoria) della decadenza pratica e sociale della figura del medico.

Effettivamente, mentre ancora un secolo fa la «leva» media degli iscritti a Medicina apparteneva alla borghesia benestante, e spesso era già spiritualmente preparata all’arte da «dinastie» mediche di famiglia, oggi l’afflusso dei neo-immatricolati proviene da tutte le categorie sociali, con prevalenza, almeno numerica, della piccola borghesia impiegatizia; e anche da quello che un tempo si usava definire «proletariato» in percentuale ben maggiore che in antico.

Nella «bontà intrinseca» di un medico, com’è perfettamente ovvio, non interferisce per nulla la sua «estrazione» familiare; ma nel completamento della sua preparazione tecnica (ben lontana dall’essere perfetta al momento della laurea) il censo familiare assume – almeno sulla scala statistica e riferendoci alla presente situazione sociale e professionale – una importanza non trascurabile, alla quale (e alle cui conseguenze) abbiamo già implicitamente accennato in uno dei capitoli precedenti.

Considerato poi il fatto che, se una pletora esiste, essa è di laureati in Medicina piuttosto che di medici, occorrerebbe provvedere in qualche modo a inscrivere nelle scuole mediche i soli giovani che si avvicinano alla medicina per vera vocazione, o (se la parola sembra troppo grossa) almeno per la spinta di un sano interesse, piuttosto che, come accade troppo spesso oggi, in conseguenza di ragionamenti più o meno capziosi, responsabili già pregiudizialmente di equivoci pericolosi.

Per citar qualche esempio di numeri, è chiaro che l’anormale aumento degli iscritti alle Facoltà Mediche nei periodi bellici non si può giustificare con una improvvisa esaltazione dello spirito sanitario o degli ideali umanitari della Croce Rossa, ma appare piuttosto il riflesso sociale del desiderio animale proprio a ciascun uomo, di sfuggire, in qualsiasi modo possibile, alla morte e alla sofferenza.

Matricole di guerra

Ogni conflitto mondiale ha prodotto infatti nelle Facoltà Mediche una ipertrofia di nuove immatricolazioni, le quali perdurano per qualche anno, fino a che si spegne nell’animo degli studenti il «condizionamento» familiare, di solito il solo che spinge il giovane verso una carriera che può tenerlo lontano dai fronti di battaglia o, nella peggiore delle ipotesi, destinarlo a un’«arma» non combattente.

Per l’Italia le cifre sono queste: dai 10.900 iscritti del 1938-1939 si è progressivamente arrivati, nel 1946-1947, a ben 35.000; ma nel 1951 si era già tornati a 22.000. Se tutti gli iscritti del decennio fossero giunti alla laurea, oggi i medici in Italia non sarebbero 74.000 ma molti di più. Dove sono finiti tutti gli altri? Evidentemente, cessato il pericolo, una parte degli studenti, per i quali l’interesse precipuo non era la Medicina ma le maggiori probabilità di salvezza personale che le sembravano connesse, si sono indirizzati ed altre attività più congeniali.

Tuttavia i giovani si inscrivono nelle facoltà mediche anche sulla base di altri atteggiamenti mentali, non meno equivoci di quello «bellico», ma che purtroppo, a differenza di quest’ultimo, si dimostrano persistenti e conducono quasi sempre alla laurea.

La medicina, rende?

Si tratta per esempio dell’opinione, diffusa ancora oggi largamente, che la Medicina dia un facile pane ai suoi cultori, e consenta una più pronta e stabile ascesa sociale nel mondo.

Gioca in questo atteggiamento psicologico il riflesso dell’antica dignità del medico e della sua arte, e l’apparenza esteriore della sua vita, di uomo generalmente ben vestito e «motorizzato». Ciò induce, parallelamente al crescere del livello di vita, un numero sempre maggiore di famiglie meno abbienti ad avviare i figli sulla strada della Medicina.

Sarebbe perciò estremamente utile che il pubblico, e particolarmente gli interessati, venissero esattamente informati delle realtà attuali offerte dalle professioni sanitarie, le cui remunerazioni, per quanto effettivamente più alte della media nei casi fortunati sono tuttavia inadeguate alla somma totale di sacrifici che esse impongono giornalmente, e che possono essere sostenuti con serena sopportazione solo se l’esercizio medico si identifica assolutamente con la passione dominante della vita.

In difetto di questa adesione totale, non solo il medico avverte, ogni giorno rinnovato, lo scontento disarmante di un errore non più riparabile, ma, ancor peggio, non riesce più a dare neppur quel che potrebbe, diventa frequentemente scadente nelle sue prestazioni, e si avvia fatalmente all’insuccesso professionale e alla insoddisfazione personale.

È con questi tempi disgraziati, soprattutto, che la Medicina perde il suo prestigio, in quanto è in mezzo a loro, prevalentemente, che alligna la mala pianta del comparaggio e delle altre miserie pratiche, le quali sembrano rinverdire le perdute speranze di un guadagno ottenuto con minore fatica (sia pure a spese di una grave degradazione morale).

Il compito di questa preventiva informazione, altamente meritoria, potrebbe essere demandato a corsi di orientamento professionale, da introdurre obbligatoriamente negli ultimi anni delle superiori, e che naturalmente dovrebbero illustrare, parallelamente alla Medicina, anche le altre attività principali di lavoro che si offrono all’uomo nella società moderna.

Ciò potrebbe attuare una selezione di massa su base psicologica, la cui efficacia è certo difficilmente prevedibile (in relazione alla somma dei molti fattori concorrenti su scala sia individuale sia sociale) ma che porterebbe comunque ad una utile chiarificazione, alla quale si potrebbe sempre fare riferimento per l’applicazione successiva di qualsiasi selezione, togliendo a questa l’eventuale fama di ingiusta discriminazione.

La vocazione «economica»

La medesima esigenza chiarificatrice, applicata al sacerdozio (a parte il giudizio critico preliminare sulla validità della vocazione) prevede durante i successivi gradini del corso clericale la possibilità, più volte rinnovata, senza alcuna infamia per chi se ne va. Per la Medicina, invece (che, sia pure su un piano diverso, impegna ugualmente tutta una vita) nulla di simile. Si presume aprioristicamente che un vero e perfetto medico, questo eccezionale esempio delle possibilità umane al loro limite superiore, si trovi nascosto in ciascuno, senza esclusioni, dalla massa dei nuovi immatricolati, per il solo fatto che può dimostrare la potenzialità economica sufficiente per sostenere l’onere delle tasse universitarie.

Al contrario la realtà è ben diversa, e assai più oscura. Né può essere un indice la percentuale elevatissima dei fuoricorso, pari sul totale delle facoltà mediche italiane nel 1955-1956, al 34% degli iscritti globali, cioè per chiarire meglio, oltre un fuoricorso su due iscritti regolari. Questa massa ingente di statici ipertrofizza, almeno teoricamente, la popolazione scolastica e contribuisce ad abbassare la quota individuale di disponibilità didattica, a scapito dei normali.

Di questo clima di fallimento, o almeno di concordato obbligatorio, ha cominciato ad occuparsi la stampa, ormai da anni, e finalmente l’opinione dei profani viene aggiornata, a ondate ricorrenti, dello stato di disagio esistente nell’ambiente universitario. Accade così che la mancata soluzione interna del problema (cioè la forzosa dimissione dei fuoricorso ingiustificabili o recidivi) comincia a riflettersi negativamente sulle nuove immatricolazioni, le quali sono scese, per le facoltà mediche italiane, del 28% in cinque anni (dal 1951 al 1955).

Evidentemente una certa quota di studenti liceali ha dirottato verso altre facoltà che permettono maggiore completezza di preparazione, oltre al vantaggio di un corso o due anni più breve. Per quelli che credono nella pletora medica (e ignorano che in Italia esistono tremila nuclei abitati senza medico residente) ciò può sembrare un avviamento alla risoluzione di un apparente problema. Ma chi ci assicura che nei «dirottati» non vi siano in potenza dei medici altrettanto e forse più idonei degli iscritti? È un altro grave punto da accertare con serie inchieste e con lo studio da parte di veri competenti.

Comunque, superato il passo preliminare della immatricolazione, lo studente si dedica a un «cursus» preparatorio tecnico e informativo, alla fine del quale consegue l’abilitazione all’esercizio professionale, parola assai fredda e inadeguata ad esprimere l’intensità della dedizione totale, sempre entusiasmante, al sollievo dei propri simili.

Ma è chiaro che (a parte qualsiasi disquisizione sulla efficienza tecnica dell’apparato didattico italiano moderno) il «cursus» informativo è destinato a macinare a vuoto se non trova nello studente, almeno in potenza, i requisiti indispensabile della idoneità professionale futura, ed un loro sufficiente livello.

VLa somma di queste qualità fondamentali (e pregiudiziali) investe almeno quattro piani della personalità, i quali si possono un po’ artificiosamente, contraddistinguere come segue in ordine di importanza crescente:

  1. a) piano fisico;
  2. b) piano mentale e psicologico;
  3. c) piano tecnico-professionale
  4. d) piano etico.

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L’UOMO SENZA FUTURO 

Mursia, 1976

L’uomo senza futuro è una rigorosa ricerca scientifica, più affascinante di un romanzo di fantascienza, che denuncia in maniera documentatissima la nostra sfrenata corsa verso il suicidio sociale.

L’autore “limita” la sua indagine alle “cose mediche”, il che include quasi tutta la vita singola e collettiva; ma gli impone l’obbligo (assolto attraverso un’interpretazione assolutamente originale dei documenti disponibili) di ricercare la diagnosi causale dei tragici flagelli moderni: dal drogaggio chimico e ideologico di massa alla sovrappopolazione, dall’inquinamento all’epidemia universale di odio, dal fallimento di ogni assistenza sanitaria organizzata al dilagare “misterioso” delle cardiopatie e del cancro.

Speciani riscopre che è la civiltà delle macchine a uccidere l’uomo; ma, in più documenta che il vizio meccanicistico ha infettato l’attuale medicina, così che anch’essa collabora alla rovina dell’uomo, invece di difenderlo.

Sennonché, a differenza di tutte le critiche precedenti, solo angoscianti perché incapaci di indicare qualsiasi soluzione, la presente ricerca irradia un messaggio di consolazione e di speranza, offrendo, nella medicina a misura d’uomo, l’alternativa per sopravvivere non solo realizzabile ma già realizzata e operante in mezzo a noi.

Ipotesi per un inventario

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Un’antica maledizione cinese si cela dietro questo testo soave: «Ti auguro di vivere in tempi interessanti…». Troppo sottile? Vediamo. Non c’è dubbio che i tempi nei quali ci è toccato di vivere sono davvero i più interessanti dell’intera storia dell’uomo. Esistono oggi più scienziati e più poeti, più pittori e più politici, più libri d’arte e più matematici, più telefoni e più velocità, più macchine e più denaro, più congressi e più pianificazione, più medici e più medicine, di quanti ne siano apparsi durante tutta la vita precedente dell’umanità. Abbiamo fisicamente raggiunto la Luna, e strumentalmente Marte, Venere, e da poco Giove. Eppure il mondo non ha mai sofferto come ora tanta fame e tanta angoscia, tanti squilibri sociali e turbamento, tanti cronici, tanta povertà e tanto cancro. Per limitarci alle cose mediche – argomento esclusivo del libro – l’insoddisfazione privata e pubblica verso l’attuale medicina è così universale da far temere in ogni momento l’esplosione di una rivolta eversiva. Perché?

È un fatto che la crisi della civiltà, diventata ormai globale, sta in mezzo a noi e ci circonda, causa ed effetto insieme del nostro soffrire. La sua intensità, in aumento progressivo da trent’anni, ha sollecitato centinaia di testi critici: da Huizinga a Mumford, da Marcuse a Toffler, da Calder a Malleson. Ma tutte queste lucidissime analisi negative, mai confortate dall’offerta di una possibile alternativa, più che chiarire le idee hanno contribuito ad esasperare (come la propaganda-shock del «fumo = cancro») l’angoscia esistenziale del mondo.

Una sola certezza risulta condivisa tanto dalla critica dei sociologi quanta dalla sofferenza sentimentale collettiva: il progressivo allontanamento dall’uomo delle scienze. Se questo è doloroso per quelle umanistiche, diventa addirittura tragico per l’unica che trova nell’uomo la sua sola validità e significato, cioè la medicina. Eppure è forse, oggi, la più disumanizzata di tutte; anche per questo siamo ora esposti al pericolo definitivo, cioè l’estinzione di specie.

Nel corso della sua storia l’umanità ha ottenuto altre volte il consiglio della medicina: del celebre medico e architetto Imhotep, deificato dagli egizi (e trasformatosi presso i greci in Asclepio), scrivono gli annali del Regno Antico (circa 2800 a.C.), che «la sua scienza ha posto fine a sette anni di carestia». Ma il sistema di canali irrigui, da lui disegnato e costruito per fecondare le terre, ha anche risparmiato all’Egitto la malaria per i successivi quarantacinque secoli, finché nel XVIII la dominazione turca non li ha lasciati insabbiare.

medicina zoppa

Oggi, di fronte a problemi umani ben più gravi e universali, non solo non abbiamo nessun Imhotep sottomano, ma la medicina stessa è in crisi nella pratica, nella teoria, persino nei risultati. La sua struttura attuale in tutto il mondo – tanto più là dove più perfezionata – è ammalata di gigantismo e di pleonasmo, di incompetenza e soprattutto di superbia, perché ha dimenticato la sua identità con l’uomo e pretende di risanarlo aggredendone i più intimi equilibri psico-organici, in gran parte ancora ignoti. Così accade che possa vantare trionfi eccezionali forse illeciti (come le sostituzioni globali del cuore, o le plastiche viscerali ampiamente demolitive nei cancri preagonici) e sogni addirittura le chimere del «cyb-org»;1 ma nello stesso tempo si dimostri penosamente incapace di guarire causalmente un banale raffreddore o una emicrania, e persino un «alito cattivo». Come sarà anche troppo facile documentare in seguito, non ha saputo né sa, nonostante la priorità assoluta di questi problemi, risparmiare alla comunità umana le sofferenze della civiltà: dall’inquinamento dell’aria, dell’acqua, del suolo, all’eccesso della popolazione; dalla decadenza della qualità della vita all’aumento esponenziale delle malattie psicosomatiche.

Per quest’ultimo settore della patologia umana, che oggi si estende dall’ipertensione arteriosa alle allergie, dagli infarti cardiaci all’asma, dall’ulcera gastroduodenale al diabete, dai disturbi ormonali al cancro, la medicina ufficiale non sa offrire nessun rimedio causale, ma solo un’indigestione di farmaci sintomatici ogni giorno rinnovati, che lasciano il tempo che trovano.

Quel ch’è ancora più grave – e rivela la tragica incompetenza del sistema – essa non riesce neppure a leggere, nelle esatte statistiche disponibili, le evidenti ragioni del loro aumento che è strettamente parallelo alla progressiva disumanizzazione dell’esistenza. Cosicché nei paesi tecnologicamente più avanzati la durata probabile della vita ricomincia a diminuire, dai 70 e più anni raggiunti lentamente dai tempi preistorici fino a ieri (O.M.S. 1971); il che confina nel limbo delle pie illusioni le trionfalistiche previsioni «scientifiche» dei «120 anni di vita nel 2000».


[1] Organismi umani o animali integrati da parti meccaniche o elettroniche potenzianti il loro «rendimento biologico»: per esempio la sostituzione di un occhio con una telecamera; dei polmoni con branchie elettroniche che consentano la respirazione subacquea ai palombari, e così via.

L’inventario essenziale

Considerato il fallimento statistico della civiltà tecnologica, particolarmente grave nella sua espressione medica, e di fronte all’ipotesi concreta di una imminente crisi globale, sembra arrivata l’ultima ora utile per provvedere alla nostra sopravvivenza. Si impone un indilazionabile inventario del ridondante patrimonio strumentale della medicina, discriminato sulla pietra di paragone della sua utilità per l’uomo.

Qualcosa di simile, dunque, ai corredi vitali ai quali si attenevano, con giudizio critico essenziale, le carovane che partivano dalla civiltà dell’800 per raggiungere il Far West; che lasciavano i biscotti e i pianoforti a Boston, ma si portavano dietro le sementi e le zappe, la dinamite e, magari, la chitarra. Altri (Vacca per esempio) hanno già redatto elenchi di manufatti preziosi da tenere in riserva, in previsione di un futuro tecnologicamente più arretrato del presente. Per la medicina questa analisi dell’essenziale irrinunciabile non è ancora stata compiuta; ne avrebbe avuto l’obbligo istituzionale la medicina sociale, ma purtroppo si è dedicata allo studio dei sintomi invece che delle cause dei mali della comunità. Come restaurare insomma gli stucchi sui soffitti, mentre la casa è squassata dal terremoto e brucia.

C’è tuttavia la diffusa sensazione (tra i profani più acuta che tra i medici) che molte delle sue scintillanti conquiste siano in realtà assai meno indispensabili di quel che sembrano e che essa, nella sua totalità, risulti assai meno soddisfacente, per l’uomo, di quanto se ne vanti. Anzi talvolta il suo rapporto moderno con la medicina (paradossale a quello antico, tecnicamente meno valido ma spiritualmente più consolante) ricorda la condizione del prigioniero nei «malconfort» medievale, citato da A. Camus.

Perciò l’obiezione che l’ingrato lavoro di revisione e di scelta critica, al quale questa necessità costringe, risulterebbe superfluo nel caso (da tutti auspicabile) che la prevista crisi non si verificasse, non è sostenibile.

Se la riscoperta della essenzialità umanistica in medicina fosse riconosciuta valida, non occorrerebbe attendere il giorno del giudizio per applicarne nella pratica le conclusioni concrete. La loro adozione immediata potrebbe invece ridurre a livelli più tollerabili i costi e gli impegni sociali delle comunità, che le stanno precipitando verso la bancarotta. Naturalmente ciò imporrà alla medicina d’oggi, che maschera col sovrabbondante orpello tecnologico la sua immensa carica di dubbi, un serio esame di coscienza e probabilmente anche di ribattezzarsi, se vuole riaffermare la sua indispensabile presenza nel mondo, di nuovo a vantaggio dell’uomo e non solo di se stessa. Per questo occorrerà che la medicina (e per essa i suoi cultori) accetti serenamente l’ammonimento scolpito da quindici secoli nel battistero di S. Sofia in Costantinopoli: «Lavati gli errori, non solo la faccia».

La presente ricerca medico-sociale intende documentare la possibile rinascita di una Medicina dell’uomo, che non auspica il ritorno all’empirismo delle caverne, ma la ricerca onesta del vero dovunque esso si trovi, e l’integrazione di ogni apporto valido della millenaria scienza medica nell’eterno significato essenziale dell’arte del guarire. Perciò si propone, sulla stessa linea di umiltà ma di urgenza, come il semplice tentativo di informare meglio tutti, perché non vada perduta colposamente la speranza esigua di un futuro per noi, vivi oggi, e per i nostri figli, domani.

LA MEDICINA 

«Signore liberaci
dal troppo zelo per le novità;
dall’anteporre la cultura alla saggezza;
la scienza all’arte;
l’intelligenza al buon senso;
dal curare i malati come se fossero malattie;
dal rendere la guarigione più penosa
del persistere del morbo».

SIR JONATHAN HUTCHINSON, Londra, 1904

CAPITOLO I – Origini e significato della medicina 

 

La medicina è nata con il secondo uomo. Cioè, sulla falsariga del Genesi biblico, con la prima donna.

Rimandando a più innanzi la documentazione di questo fenomeno, possiamo chiederci subito il significato della medicina, allo scopo di accertarne la validità passata e presente, ma soprattutto quella futura.

Un errore logico quasi universale, chiaramente implicito nello schema comune del comportamento umano, riguarda il concetto che la medicina serva a curare le malattie. Il che non è vero né in pratica né in teoria; a parte il fatto storico che le malattie sono comparse sulla Terra prima dell’uomo. A. Cockburn, del comitato per lo sviluppo delle risorse umane di Detroit (U.S.A.) è riuscito a documentarne almeno una dozzina presenti, nei primati antropoidi antenati comuni delle scimmie e dell’uomo, da oltre 25.000.000 di anni. Tra esse la dissenteria amebica, la febbre gialla, le artrosi, l’ossuriasi, la malaria, la fromboesia, la sifilide. Coetanee dell’uomo (Homo erectus e sapiens, 750.000-250.000 anni fa) sembrano il tifo, la lebbra e forse il colera; soltanto fuori della preistoria sarebbero comparsi il morbillo, la parotite, il raffreddore comune e l’«influenza», cioè le moderne maledizioni da virus, bisognose, per svilupparsi, di forti concentrazioni di popolazione (tanto virale quanto umana).

Un altro errore di mira, prevalente nell’epoca cosiddetta «scientifica», tende a identificare la Medicina con le medicine. Cioè con gli strumenti tecnici del suo progresso applicativo, dai medicamenti alle attrezzature chirurgiche fino alle possibilità fantascientifiche dell’ingegneria cromosomica. Questo errore di bersaglio, rimasto per millenni più potenziale che reale in conseguenza dell’arsenale esiguo e immutabile del medico, minaccia oggi, ingigantendo contemporaneamente al progresso, di denaturare nell’opinione universale (medici compresi) il vero significato della medicina.

È invece incontestabile che l’apparato strumentale medico, sempre più fascinoso per le meraviglie che ogni nuovo giorno ci regala, si rivela ad una critica disinibita come la parte meno valida della medicina. Esso infatti ha seguito nei millenni la stessa sorte di tutte le realizzazioni tecniche dell’uomo, cioè la insopprimibile tendenza a una durata sempre minore, sia per il continuo superamento operativo sia per la sottomissione alle assurde leggi della moda, della novità o del diverso, nel rifiuto acritico di tutte le realizzazioni precedenti. Soltanto nell’ultimo trentennio i più illuminati storici della medicina si sono accorti della complessità inscritta nello sviluppo delle idee scientifiche e degli strumenti pratici da parte dell’uomo.

Così, mentre H. W. Haggard lo dava ancora nel 1941 come ovvio, già A. Castiglioni, pochi anni dopo, dichiarava non più accettabile l’antiquato concetto delle «fioriture auree» della medicina in tempi prima e dopo oscuri, come quelle connesse con la scuola pitagorica, con Alcmeone e Ippocrate, con Galeno e Salamanca, con la scuola salernitana del 1200 d.C., col Rinascimento italiano, con gli illuministi francesi. Il sottofondo condizionante di questo prolungato errore consisteva nella impossibilità di attingere facilmente come oggi una documentazione completa. Questo manteneva gli studiosi all’oscuro dei collegamenti inapparenti ma reali con altre «facies culturali» risalenti, anello per anello, lungo una catena primigenia della quale non ancora vediamo l’inizio: dai sumeri ai cinesi, dagli indiani agli aztechi, dai maya all’Egitto, all’Atlantide mitica… Tuttavia a mano a mano che la nostra conoscenza della verità si allarga, scopriamo, con sorpresa, che molte tecniche a torto ritenute moderne sono state già largamente utilizzate, poi travolte e dimenticate per nuove mode, e magari riscoperte e ridimenticate.

Cure «moderne» di 75.000 anni fa. – Tra gli esempi documentabili ne esistono di assolutamente incredibili, se non fossero confermati dai reperti archeologici distribuiti nei musei di tutto il mondo. Le fasciature delle mummie egiziane presentano, per dirne una, tutti i sistemi di bendaggio usati e insegnati fino ad oggi (dalla «minerva» alla «spica reversa»); o meglio fino a qualche anno fa, quando l’uso delle reticelle elastiche ha cominciato a fare anche di questa un’arte perduta…

L’enteroclisma ci arriva dagli egiziani, che l’hanno appreso dai fenicotteri sulle rive del Nilo; la detensione endocranica, ottenuta dai neuro-chirurghi con la trapanazione, è documentata su crani fossili di Cro-magnon (40.000) e di Neanderthal (75.000 anni a.C.) con esito in guarigione: le proprietà antiuriche e antiblenorragiche del pepe (che oggi sfruttiamo, dimenticandone l’origine vegetale, sotto la forma dei composti chimici come la piperazina e derivati) sono state descritte e utilizzate dagli araucani e dagli aztechi; i digestivi a base di succo di ananas (oggi tanto di moda) dai più antichi samoani; l’ipnosi medica come anestetico e antiemorragico negli interventi, dagli «stagnatori di sangue» d’Egitto, chiamati durante la rituale trapanazione cranica preagonica su ogni faraone; il concetto e la profilassi dell’allergia («favismo») irrisi come antiscientifici per i successivi 25 secoli, dalla scuola pitagorica; le virtù terapeutiche dell’herba mate e del guaranà, le qualità eccitanti del caffè, del tè, delle foglie di coca, della scopolamina (Datura stramonium) sono state usate fin dalla preistoria centroamericana; il più attivo antiprostatico non ormonale, di recentissima introduzione in terapia, è stato «adottato» concentrando gli estratti naturali della medesima corteccia del Pygeum africanum (Hooker) che da oltre cinquemila anni gli stregoni del Natal (Sudafrica) somministravano ai vecchi della tribù per liberarli dalla difficoltà ad urinare. La radice di Rauwolfia serpentina, usata in India fin dai tempi pre-ariani di Moenjo-Daro, è il miglior trattamento oggi conosciuto e prescritto nell’ipertensione arteriosa, che riesce spesso a curare causalmente grazie alla tripla azione circolatoria, renale e psicotropa. I cardiotonici più attivi (digitale e strofanto) risalgono alla preistoria centroeuropea, centroafricana e centroamericana, dove l’ultimo era usato, insieme al paralizzante curaro (l’unico mezzo chimico che ha reso possibile la grande chirurgia moderna del polmone e del cuore) come veleno delle frecce per la caccia ai grossi mammiferi. Le droghe allucinogene più moderne, dall’hashish o mariuhana alla mescalina alla psilocibina, che hanno recentemente dato origine al settore addirittura fantascientifico degli psicofarmaci, sono usate da millenni in Europa, in Asia e particolarmente in centro-America, sotto la forma naturale del cactus peyotl, del fungo teonanacatl («carne divina»), del convolvolo ololuiqui («serpente verde»).

Per concludere una lista di straordinario interesse, ma che ha qui una semplice finalità dialettica, basterà ricordare che persino la forma (a «foglia di giglio») dello strumento medico per antonomasia, cioè il bisturi, è ritrovabile, perfettamente uguale a quella funzionale attuale, non solo nella romana Pompei, ma in alcuni reperti ateniesi del VII sec. a.C., e persino tra gli stupendi bronzi di 5-7.000 anni fa del museo preistorico di Este (Padova). E sarebbe anche giusto che le nostre donne quando giornalmente trafficano con la base obbligatoria di ogni cosmetica (la universale cold cream) ricordassero che la sua formula ripete, quasi immutata nei secoli, una precisa ricetta del famoso Claudio Galeno, medico dell’imperatore romano Marco Aurelio (II secolo d. Cristo).

Ma l’«emulsione di olio di mandorle, cera d’api e acqua di rose» ch’egli prescriveva con enorme successo alle matrone della corte imperiale, era in realtà giunta a lui da informazioni persiane di quasi certa derivazione indiana, recate a Roma dai legionari di Lucio Vero insieme, purtroppo, alla peste del 166 d. Cristo.

Rieccoci dunque tornati alle donne, alle quali sono state attribuite, all’inizio, la responsabilità e l’onore della nascita della medicina. Vediamone finalmente il perché. Secondo J. E. Pfeiffer, la famiglia è nata con lo Australo-pithecus (quattro-cinque milioni di anni fa), il primo ominide che riveli utensili straordinariamente avanzati e specialistici, indizio certo di attività e progetti comunitari, quindi dell’esistenza di un linguaggio almeno rudimentale, e della possibilità di una organizzazione sociale.

Dal bacio sulla «bua» allo scienziato. – La divisione familiare del lavoro conferiva all’uomo il ruolo di cacciatore, con la conseguente lontananza temporanea dal luogo stabile di residenza, nel quale restavano le donne e i figli (con l’incombenza della raccolta, vicina, di cibi vegetali). Senza alcun dubbio, allora come oggi, i bambini giravano per casa e appena fuori combinavano i soliti piccoli disastri attraverso i quali costruivano la propria esperienza educativa: dalla carezza abrasiva di una suppellettile alla classica bozza in testa, alla vescica sul dito per aver voluto toccare, contro l’avvertimento materno, l’affascinante tizzone rosso.

Allora, come d’altronde oggi, i risultati patologici di questi piccoli guai erano curati esclusivamente dalle madri e da nessun altro, per lo più a base di ipnotiche carezze, e con ottimo esito. Se a questo si aggiungono per la sola donna (mestruazioni!) l’assenza del terrore irrazionale per il sangue e l’esperienza frequente del parto, è certo che la massima disponibilità per la cura del cacciatore ferito risiedeva nelle donne, più che nei suoi compagni di banda. Ma è importante riconoscere in questo comportamento, oltre al fatto tecnico, la comparsa primigenia della motivazione non temporanea della medicina, rimasta valida anche sotto le successive etichette di empirica, sciamanica, sacerdotale, scientifica; l’unica motivazione che possa garantire la sua indispensabilità lungo tutta l’evoluzione futura del genere umano. Essa non è altro che una profonda sollecitazione emotiva indotta nella sfera dei sentimenti (non in quella razionale) dall’atteggiamento interpersonale di solidarietà, coinvolgente nello stesso tempo tanto chi la dona quanta chi la riceve.

La «medicina femmina» è nata dalla evidente necessità che la donna più esperta (o le donne in gruppo, visto che dovunque al mondo le comari adottano da millenni il team-work) non poteva limitare la sua opera benefica al proprio figlio o compagno, ma era eticamente obbligata ad estenderlo a qualsiasi membro sofferente della comunità. E ai suoi pazienti essa donava, oltre alla limitata scienza, sia che questa li guarisse oppure no, tutta intera la sua carica sostanziale di consolazione e di amore. La medesima motivazione etica, esaltata in difesa della comunità, e nella potenza e responsabilità da esse discendenti, è alla radice dello status sociale dello stregone o sciamano, comparso quando la divisione del lavoro si è ulteriormente specializzata col progresso. Per questo nelle pitture paleolitiche (per esempio nella caverna Trois-Frères dell’Ariège) lo stregone, coperto di una pelle di cervo, è rappresentato - come il capo - a parte e sopra la folla dei cacciatori, quale uno dei numi tutelari della tribù.

E, comunque, non si trattava di una sinecura puramente onorifica. Dall’esperimento in proprio della potabilità dell’acqua ad ogni nuovo campo e della commestibilità di ogni frutto sconosciuto, dalla conservazione del fuoco all’esorcismo per la buona caccia, dalla cura dei feriti al mistero delle malattie, dalle nascite alle morti, quasi tutte le manifestazioni importanti della vita avevano (e hanno ancora oggi) poco o molto da spartire con la medicina e con chi la esercita. Senza il sostegno dell’enorme tesoro scientifico presente (e magari anche nonostante quello, come dimostra il troppo facile ricorso alla responsabilità suddivisa) quale medico moderno si sentirebbe disposto ad accollarsi una così terribile responsabilità?

Amplificando progressivamente, nei secoli, il significato e la motivazione originaria di solidarietà singola e comunitaria, la medicina ha guidato l’umanità alla conquista dell’ambiente ostile, per consentire all’uomo la sopravvivenza sempre più facile. Nel corso di questo sforzo, purtroppo coronato da un successo troppo inebriante negli ultimi due secoli, essa è arrivata a perdere quasi del tutto - nella tronfia ricchezza di mezzi e nella troppa certezza di sé - il gusto e persino il ricordo del suo sostanziale significato per l’uomo.

Ora, purtroppo o per fortuna, il tempo della pompa trionfalistica è finito. È il momento di discriminare almeno in questo campo, all’avanguardia etica del mondo, i valori essenziali ed eterni dagli pseudovalori tecnici che ne sono una semplice derivata temporanea. Se ci trovassimo da un’ora all’altra in un tifone atomico, quanta «Medicina» rimarrebbe a disposizione immediata dei pochi superstiti? Forse, nel black-out di ogni sorgente energetica e di ogni tecnologia da essa dipendente, non altro che la motivazione originale della solidarietà interumana, con i soli mezzi umani per esprimerla. Ma quanti «sanitari» modello 1975 sarebbero ancora capaci di «erogarla» in grado soddisfacente, per loro e per gli «assistiti»?

Forse, come all’alba dell’umanità, questo dovere-diritto ricadrebbe ancora una volta sulle donne (che d’altronde non l’hanno mai completamente dimenticato). Cosicché, paradossalmente, di contro alla superbia operativa di tutta la medicina occidentale, in una ipotesi apocalittica le migliori garanzie di sopravvivenza comunitaria potrebbero essere riservate alla Cina di Mao e all’U.R.S.S. dove, sia pure per semplice coincidenza strumentale, il 70% e l’80% rispettivamente dei «medici dai piedi scalzi» e dei «felsher» (medici di base) risultano già ora di sesso femminile.

 

Capitolo II – Nasce la scienza, s’incrina l’uomo

Il significato sostanziale della medicina e il suo beneficio senza prezzo per l’individuo e la comunità riemergono intatti ancora oggi quando ad esercitarla sia un vero medico. Questo dimostra che il suo nucleo si è trasmesso integro dall’una all’altra generazione dell’umanità preistorica e storica, fino a quella odierna. I ritrovamenti archeologici e l’etnologia hanno inoltre accertato che le sue forme operative sono rimaste simili per decine di millenni (e tuttora nelle culture primitive), accentrandosi nella figura onnipresente dello sciamano, medico e insieme sacerdote. La doppia dignità non sorprende perché, intesa la malattia come espressione della collera degli dei, il solo uomo della tribù che aveva il coraggio di sfidarli per sottrarre il malato al suo destino mentre tutti gli altri - compreso il capo - si allontanavano presi dal terrore, riceveva in compenso una investitura quasi semidivina.

Su questa base antologica, che ha accompagnato l’uomo fino alle soglie della storia e anche al di là di esse («le frecce di Apollo»), era fatale che finisse per accentuarsi il lato preternaturale o soprannaturale (perciò magico o divino) della medicina, a detrimento di quello puramente fisico, o naturale. Ne è derivata l’identificazione del medico come di colui che, unico, godeva del diretto ed esclusivo contatto con le divinità, e diventava perciò interprete dei loro voleri arcani ai quali - per suo mezzo - la comunità doveva ubbidire.

La usuale istituzionalizzazione di tutte le cose umane ha quindi favorito, in modo sempre più rigido, il monopolio della medicina-sacerdozio da parte di una casta privilegiata, che puntualmente ritroviamo dagli inizi della storia scritta (3500 a.C., a Kish in Mesopotamia), presso gli assiri e i babilonesi, nel popolo ebraico, in India e soprattutto in Egitto. Il modello teocratico non ha affatto impedito il continuo progresso pratico dell’arte, fino a conquiste farmacologiche o chirurgiche di livello rispettabile anche oggi, storicamente registrate nelle tavolette cuneiformi della biblioteca di Ninive, nei papiri egizi di Ebers, di Brugsch, di Edwin-Smith, nella stele sumera di Hammurabi, e in una serie di altri testi specialistici o medico-sociali. È importante tuttavia sottolineare che, essendo la malattia il sintomo di una colpa personale o sociale, la guarigione o la salute venivano spesso impetrate attraverso sacrifici, purificazioni, astensioni (per esempio, dalle carni di maiale, dal sesso nei mestrui e in puerperio) che nella sostanza risultavano validi precetti igienici, ma nella forma si presentavano, ed erano seguiti, come prescrizioni religiose.

Meno teurgiche ma ancora condizionate dal concetto unitario del male quale rottura dell’equilibrio dell’universo si rivelano le antiche medicine cinese e indiana. La prima, più filosofia che esperimento, ha bensì codificato già nel 2700 a.C. una serie di norme empiriche nel Huang-ti Su-wên («Domande semplici dell’Imperatore giallo») e nel Ling-shu-ching («Libro canonico del perno dell’anima») che insieme formano il cosiddetto Nei-ching («Canone della Medicina»). Ma l’ideogramma mandarino della medicina è composto tuttora con i simboli grafici elementari delle sue motivazioni preistoriche e protostoriche: faretra, frecce, colpire, pozione! E l’agopuntura profonda, che rappresenta ancora per metà nella Repubblica Popolare di Mao Tze-tung la normale forma di trattamento medico, sfrutta da oltre cinquemila anni un sistema generale che non ha nulla a che vedere con l’anatomia.

L’armonia universale. – Esso si basa sulla teoria che l’energia dell’universo, espressione dell’Essere primordiale Hsüan (il mistero) e distinta nelle due modalità antinomiche di yin e yang (femmina e maschio), circoli continuamente nel corpo umano lungo quattordici linee verticali dette meridiani. Su queste linee si riflette la sensibilità di ogni singolo organo, cosicché, per combatterne una eventuale insufficienza funzionale, basterà stimolare l’energia del suo meridiano con aghi d’oro o di rame; per frenarne invece l’esuberanza occorrerà disperdere l’energia dello stesso meridiano, con aghi di argento, platino o acciaio. A parte gli innegabili risultati pratici, riscoperti dalla moderna terapia occidentale del dolore, persino il concetto della riflessione cutanea degli organi interni è stato riconosciuto dalla scienza medica, ma solo verso la fine dell’800 (zone di Head).

Ciò dimostra che in medicina (che è la continua ricerca della verità dell’uomo e del mondo) persino una piattaforma filosofica e non sperimentale può condurre ad una superiore consapevolezza delle cose, molto vicina alle conoscenze moderne della scienza. Questo è infatti avvenuto al pensiero medico-filosofico indiano il quale, partendo dai concetti metafisici del Karma (legge dell’azione) e del Samsara (metempsicosi) è giunto, intorno all’VIII sec. a.C., alla interpretazione dell’organismo come un insieme dove l’armonia delle parti rappresenta la condizione essenziale della salute. Da essa deriva la modernissima nozione (chiara alla scienza speculativa ma non sempre ai medici!) che «l’organo palesemente infermo non deve essere curato come avulso dalla unità di cui fa parte, ma invece considerato nel quadro generale, nelle interazioni con tutto il resto e nella resistenza complessiva dell’organismo» (Susruta: Sutrasthana). Che queste non siano semplici vacuità scolastiche lo dimostra la spiegazione della funzione biologica attraverso i tre «dosa»: Kapha o anabolismo; Pitta o catabolismo; Vayu o energia nervosa. (Noi questo, a differenza degli yoghi, l’abbiamo dovuto reimparare biochimicamente nell’ultimo sessantennio!)

Il concetto metafisico dell’armonia, esteso addirittura dal microcosmo-uomo al macrocosmo-universo, ricompare due secoli dopo (VI a.C.) con Pitagora e la sua scuola, nelle colonie greche d’Italia cioè a Crotone, Sibari, Reggio Calabria, Agrigento, e riuscirà a informare di sé lo stesso pensiero medico di Ippocrate di Coo. Fino a quell’epoca nel mondo occidentale, cioè prevalentemente ellenistico, il concetto dominante in medicina era ancora quello tradizionale e leggendario, «eroico» (la medicina di Omero) e, sul piano operativo, empirico. Tuttavia, nello spirito di esasperata libertà individualistica della civiltà greca (ragione unica del suo fiorire e del suo decadere), le interpretazioni pur teologiche delle malattie non avevano consentito il sorgere della solita casta dominante di medici-sacerdoti. Però gli unici luoghi di cura ufficialmente riconosciuti erano ugualmente i templi, eretti in località di straordinaria bellezza, quasi sempre dotati di una sorgente termale che aggiungeva le sue virtù ai consigli dei sacerdoti.

I templi più prestigiosi, e i sacerdoti più celebri per abilità diagnostica e risultati terapeutici, erano quelli di Asclepio, il dio principe della medicina. Il tempio più antico erettogli in Grecia era a Titanos presso Sicione, il più famoso quello di Epidauro nell’Argolide, due regioni assai ricche di serpenti. Il rettile stilizzato, che orna anche oggi il parabrezza delle automobili dei medici, identifica infatti da sempre il culto e l’esercizio della medicina: il caduceo (bastone con il serpente attorcigliato, prima unico poi duplice) è stato ritrovato in bassorilievi di Ninazu (Signore del medico) e del figlio Ningišzida a Ninive, datati 1200 anni prima di Cristo; e la dea medica di Cnosso (Creta) ne portava due, attorcigliati sulle braccia. A parte la simpatia totemica che ne ha favorito il trapianto nell’Argolide, da dove nasceva il dio Asclepio? Essenzialmente da un errore linguistico.

Un errore linguistico deificato. – Si tratta infatti dello stesso celebre visir egizio Imhotep del 2800 a.C., del quale abbiamo già ricordato i canali irrigui. Medico e architetto, è il costruttore del primo edificio in pietra dell’umanità, la stupenda piramide a gradini (mastaba) di Saqqara, di 60 m di altezza e 1600 di perimetro, tomba del faraone Žoser della III dinastia. Deificato dagli egizi per la medicina, l’architettura e la matematica (una specie di triplo premio Nobel ante litteram) gli furono eretti nei successivi due millenni, templi a Menfi, Karnak, Deir-el-Bahari, Deir-el-Medineh, e nell’isola di File (dai Tolomei). La sua cappella commemorativa a Saqqara era chiamata dai greci Asklepieion. Trasferendo i suoi insegnamenti (materia pratica del culto) in patria, i viaggiatori greci equivocarono il termine come «eponimo» da un non mai esistito Asclepio, che prese a battere le strade del mondo ellenico e romano sotto il mutato nome. Lo ritroviamo anche nelle già citate colonie italiane della Magna Grecia, dove la medicina-sacerdozio fioriva come in ogni altra regione dell’Ellade, e dove abbiamo già localizzato Pitagora e la sua scuola filosofica, di probabile derivazione indiana. Esattamente in questa matrice era destinata a nascere, per la prima volta nella storia umana, la scienza medica.

È a Crotone (sede principale della scuola pitagorica) che essa esplode con la straordinaria figura di Alcmeone (circa 500 a.C.) il quale riuscì a sintetizzare il sistema filosofico dell’armonia pitagorica con la diretta osservazione dell’uomo, eredità della scuola medica italiana (Cnido). Alcmeone definisce, con assoluta precisione, il concetto generale della isonomia, cioè della salute come perfetto accordo di tutte le sostanze che compongono il corpo umano (ripreso poi con assai maggiore fortuna pubblicistica dal ben più famoso Ippocrate); con ciò stabiliva il fondamento di quella patologia umorale che fu per più di venti secoli la base di ogni concezione clinica. Il suo merito maggiore sta nell’aver per primo fatto ricorso all’esperimento pratico (autopsie e chirurgia funzionale) per provare la verità dei suoi ragionamenti. È stato così in grado di localizzare nel cervello – invece che nel cuore o nei polmoni – la sede delle sensazioni e il centro della vita intellettiva; nonché di precisare e descrivere alcune lesioni responsabili di disturbi funzionali fino allora misteriosi (le paralisi); ha studiato l’occhio e il meccanismo della visione; ha distinto le arterie dalle vene; ha individuato il decorso dei nervi ottici e scoperto l’origine (cerebrale) del sonno; gli si attribuisce persino la scoperta della tuba uditiva, detta poi «tromba di Eustachio» dall’anatomico marchigiano che la riscoperse a Roma nel 1560.

La prima rivoluzione scientifica. – Ha perciò origine con lui la prima rivoluzione scientifica, dopo la quale l’uomo non sarà mai più un’unità misteriosa ma comincia a distinguersi nelle sue parti singole, tenute insieme solo da un concetto filosofico: l’astrazione «uomo». Ma in assenza di quest’ultimo il fascino analitico della isolata funzione appena scoperta o da scoprire avrebbe potuto deviare l’interesse di ogni ricerca