CAPITOLO I – Origini e significato della medicina
La medicina è nata con il secondo uomo. Cioè, sulla falsariga del Genesi biblico, con la prima donna.
Rimandando a più innanzi la documentazione di questo fenomeno, possiamo chiederci subito il significato della medicina, allo scopo di accertarne la validità passata e presente, ma soprattutto quella futura.
Un errore logico quasi universale, chiaramente implicito nello schema comune del comportamento umano, riguarda il concetto che la medicina serva a curare le malattie. Il che non è vero né in pratica né in teoria; a parte il fatto storico che le malattie sono comparse sulla Terra prima dell’uomo. A. Cockburn, del comitato per lo sviluppo delle risorse umane di Detroit (U.S.A.) è riuscito a documentarne almeno una dozzina presenti, nei primati antropoidi antenati comuni delle scimmie e dell’uomo, da oltre 25.000.000 di anni. Tra esse la dissenteria amebica, la febbre gialla, le artrosi, l’ossuriasi, la malaria, la fromboesia, la sifilide. Coetanee dell’uomo (Homo erectus e sapiens, 750.000-250.000 anni fa) sembrano il tifo, la lebbra e forse il colera; soltanto fuori della preistoria sarebbero comparsi il morbillo, la parotite, il raffreddore comune e l’«influenza», cioè le moderne maledizioni da virus, bisognose, per svilupparsi, di forti concentrazioni di popolazione (tanto virale quanto umana).
Un altro errore di mira, prevalente nell’epoca cosiddetta «scientifica», tende a identificare la Medicina con le medicine. Cioè con gli strumenti tecnici del suo progresso applicativo, dai medicamenti alle attrezzature chirurgiche fino alle possibilità fantascientifiche dell’ingegneria cromosomica. Questo errore di bersaglio, rimasto per millenni più potenziale che reale in conseguenza dell’arsenale esiguo e immutabile del medico, minaccia oggi, ingigantendo contemporaneamente al progresso, di denaturare nell’opinione universale (medici compresi) il vero significato della medicina.
È invece incontestabile che l’apparato strumentale medico, sempre più fascinoso per le meraviglie che ogni nuovo giorno ci regala, si rivela ad una critica disinibita come la parte meno valida della medicina. Esso infatti ha seguito nei millenni la stessa sorte di tutte le realizzazioni tecniche dell’uomo, cioè la insopprimibile tendenza a una durata sempre minore, sia per il continuo superamento operativo sia per la sottomissione alle assurde leggi della moda, della novità o del diverso, nel rifiuto acritico di tutte le realizzazioni precedenti. Soltanto nell’ultimo trentennio i più illuminati storici della medicina si sono accorti della complessità inscritta nello sviluppo delle idee scientifiche e degli strumenti pratici da parte dell’uomo.
Così, mentre H. W. Haggard lo dava ancora nel 1941 come ovvio, già A. Castiglioni, pochi anni dopo, dichiarava non più accettabile l’antiquato concetto delle «fioriture auree» della medicina in tempi prima e dopo oscuri, come quelle connesse con la scuola pitagorica, con Alcmeone e Ippocrate, con Galeno e Salamanca, con la scuola salernitana del 1200 d.C., col Rinascimento italiano, con gli illuministi francesi. Il sottofondo condizionante di questo prolungato errore consisteva nella impossibilità di attingere facilmente come oggi una documentazione completa. Questo manteneva gli studiosi all’oscuro dei collegamenti inapparenti ma reali con altre «facies culturali» risalenti, anello per anello, lungo una catena primigenia della quale non ancora vediamo l’inizio: dai sumeri ai cinesi, dagli indiani agli aztechi, dai maya all’Egitto, all’Atlantide mitica… Tuttavia a mano a mano che la nostra conoscenza della verità si allarga, scopriamo, con sorpresa, che molte tecniche a torto ritenute moderne sono state già largamente utilizzate, poi travolte e dimenticate per nuove mode, e magari riscoperte e ridimenticate.
Cure «moderne» di 75.000 anni fa. – Tra gli esempi documentabili ne esistono di assolutamente incredibili, se non fossero confermati dai reperti archeologici distribuiti nei musei di tutto il mondo. Le fasciature delle mummie egiziane presentano, per dirne una, tutti i sistemi di bendaggio usati e insegnati fino ad oggi (dalla «minerva» alla «spica reversa»); o meglio fino a qualche anno fa, quando l’uso delle reticelle elastiche ha cominciato a fare anche di questa un’arte perduta…
L’enteroclisma ci arriva dagli egiziani, che l’hanno appreso dai fenicotteri sulle rive del Nilo; la detensione endocranica, ottenuta dai neuro-chirurghi con la trapanazione, è documentata su crani fossili di Cro-magnon (40.000) e di Neanderthal (75.000 anni a.C.) con esito in guarigione: le proprietà antiuriche e antiblenorragiche del pepe (che oggi sfruttiamo, dimenticandone l’origine vegetale, sotto la forma dei composti chimici come la piperazina e derivati) sono state descritte e utilizzate dagli araucani e dagli aztechi; i digestivi a base di succo di ananas (oggi tanto di moda) dai più antichi samoani; l’ipnosi medica come anestetico e antiemorragico negli interventi, dagli «stagnatori di sangue» d’Egitto, chiamati durante la rituale trapanazione cranica preagonica su ogni faraone; il concetto e la profilassi dell’allergia («favismo») irrisi come antiscientifici per i successivi 25 secoli, dalla scuola pitagorica; le virtù terapeutiche dell’herba mate e del guaranà, le qualità eccitanti del caffè, del tè, delle foglie di coca, della scopolamina (Datura stramonium) sono state usate fin dalla preistoria centroamericana; il più attivo antiprostatico non ormonale, di recentissima introduzione in terapia, è stato «adottato» concentrando gli estratti naturali della medesima corteccia del Pygeum africanum (Hooker) che da oltre cinquemila anni gli stregoni del Natal (Sudafrica) somministravano ai vecchi della tribù per liberarli dalla difficoltà ad urinare. La radice di Rauwolfia serpentina, usata in India fin dai tempi pre-ariani di Moenjo-Daro, è il miglior trattamento oggi conosciuto e prescritto nell’ipertensione arteriosa, che riesce spesso a curare causalmente grazie alla tripla azione circolatoria, renale e psicotropa. I cardiotonici più attivi (digitale e strofanto) risalgono alla preistoria centroeuropea, centroafricana e centroamericana, dove l’ultimo era usato, insieme al paralizzante curaro (l’unico mezzo chimico che ha reso possibile la grande chirurgia moderna del polmone e del cuore) come veleno delle frecce per la caccia ai grossi mammiferi. Le droghe allucinogene più moderne, dall’hashish o mariuhana alla mescalina alla psilocibina, che hanno recentemente dato origine al settore addirittura fantascientifico degli psicofarmaci, sono usate da millenni in Europa, in Asia e particolarmente in centro-America, sotto la forma naturale del cactus peyotl, del fungo teonanacatl («carne divina»), del convolvolo ololuiqui («serpente verde»).
Per concludere una lista di straordinario interesse, ma che ha qui una semplice finalità dialettica, basterà ricordare che persino la forma (a «foglia di giglio») dello strumento medico per antonomasia, cioè il bisturi, è ritrovabile, perfettamente uguale a quella funzionale attuale, non solo nella romana Pompei, ma in alcuni reperti ateniesi del VII sec. a.C., e persino tra gli stupendi bronzi di 5-7.000 anni fa del museo preistorico di Este (Padova). E sarebbe anche giusto che le nostre donne quando giornalmente trafficano con la base obbligatoria di ogni cosmetica (la universale cold cream) ricordassero che la sua formula ripete, quasi immutata nei secoli, una precisa ricetta del famoso Claudio Galeno, medico dell’imperatore romano Marco Aurelio (II secolo d. Cristo).
Ma l’«emulsione di olio di mandorle, cera d’api e acqua di rose» ch’egli prescriveva con enorme successo alle matrone della corte imperiale, era in realtà giunta a lui da informazioni persiane di quasi certa derivazione indiana, recate a Roma dai legionari di Lucio Vero insieme, purtroppo, alla peste del 166 d. Cristo.
Rieccoci dunque tornati alle donne, alle quali sono state attribuite, all’inizio, la responsabilità e l’onore della nascita della medicina. Vediamone finalmente il perché. Secondo J. E. Pfeiffer, la famiglia è nata con lo Australo-pithecus (quattro-cinque milioni di anni fa), il primo ominide che riveli utensili straordinariamente avanzati e specialistici, indizio certo di attività e progetti comunitari, quindi dell’esistenza di un linguaggio almeno rudimentale, e della possibilità di una organizzazione sociale.
Dal bacio sulla «bua» allo scienziato. – La divisione familiare del lavoro conferiva all’uomo il ruolo di cacciatore, con la conseguente lontananza temporanea dal luogo stabile di residenza, nel quale restavano le donne e i figli (con l’incombenza della raccolta, vicina, di cibi vegetali). Senza alcun dubbio, allora come oggi, i bambini giravano per casa e appena fuori combinavano i soliti piccoli disastri attraverso i quali costruivano la propria esperienza educativa: dalla carezza abrasiva di una suppellettile alla classica bozza in testa, alla vescica sul dito per aver voluto toccare, contro l’avvertimento materno, l’affascinante tizzone rosso.
Allora, come d’altronde oggi, i risultati patologici di questi piccoli guai erano curati esclusivamente dalle madri e da nessun altro, per lo più a base di ipnotiche carezze, e con ottimo esito. Se a questo si aggiungono per la sola donna (mestruazioni!) l’assenza del terrore irrazionale per il sangue e l’esperienza frequente del parto, è certo che la massima disponibilità per la cura del cacciatore ferito risiedeva nelle donne, più che nei suoi compagni di banda. Ma è importante riconoscere in questo comportamento, oltre al fatto tecnico, la comparsa primigenia della motivazione non temporanea della medicina, rimasta valida anche sotto le successive etichette di empirica, sciamanica, sacerdotale, scientifica; l’unica motivazione che possa garantire la sua indispensabilità lungo tutta l’evoluzione futura del genere umano. Essa non è altro che una profonda sollecitazione emotiva indotta nella sfera dei sentimenti (non in quella razionale) dall’atteggiamento interpersonale di solidarietà, coinvolgente nello stesso tempo tanto chi la dona quanta chi la riceve.
La «medicina femmina» è nata dalla evidente necessità che la donna più esperta (o le donne in gruppo, visto che dovunque al mondo le comari adottano da millenni il team-work) non poteva limitare la sua opera benefica al proprio figlio o compagno, ma era eticamente obbligata ad estenderlo a qualsiasi membro sofferente della comunità. E ai suoi pazienti essa donava, oltre alla limitata scienza, sia che questa li guarisse oppure no, tutta intera la sua carica sostanziale di consolazione e di amore. La medesima motivazione etica, esaltata in difesa della comunità, e nella potenza e responsabilità da esse discendenti, è alla radice dello status sociale dello stregone o sciamano, comparso quando la divisione del lavoro si è ulteriormente specializzata col progresso. Per questo nelle pitture paleolitiche (per esempio nella caverna Trois-Frères dell’Ariège) lo stregone, coperto di una pelle di cervo, è rappresentato - come il capo - a parte e sopra la folla dei cacciatori, quale uno dei numi tutelari della tribù.
E, comunque, non si trattava di una sinecura puramente onorifica. Dall’esperimento in proprio della potabilità dell’acqua ad ogni nuovo campo e della commestibilità di ogni frutto sconosciuto, dalla conservazione del fuoco all’esorcismo per la buona caccia, dalla cura dei feriti al mistero delle malattie, dalle nascite alle morti, quasi tutte le manifestazioni importanti della vita avevano (e hanno ancora oggi) poco o molto da spartire con la medicina e con chi la esercita. Senza il sostegno dell’enorme tesoro scientifico presente (e magari anche nonostante quello, come dimostra il troppo facile ricorso alla responsabilità suddivisa) quale medico moderno si sentirebbe disposto ad accollarsi una così terribile responsabilità?
Amplificando progressivamente, nei secoli, il significato e la motivazione originaria di solidarietà singola e comunitaria, la medicina ha guidato l’umanità alla conquista dell’ambiente ostile, per consentire all’uomo la sopravvivenza sempre più facile. Nel corso di questo sforzo, purtroppo coronato da un successo troppo inebriante negli ultimi due secoli, essa è arrivata a perdere quasi del tutto - nella tronfia ricchezza di mezzi e nella troppa certezza di sé - il gusto e persino il ricordo del suo sostanziale significato per l’uomo.
Ora, purtroppo o per fortuna, il tempo della pompa trionfalistica è finito. È il momento di discriminare almeno in questo campo, all’avanguardia etica del mondo, i valori essenziali ed eterni dagli pseudovalori tecnici che ne sono una semplice derivata temporanea. Se ci trovassimo da un’ora all’altra in un tifone atomico, quanta «Medicina» rimarrebbe a disposizione immediata dei pochi superstiti? Forse, nel black-out di ogni sorgente energetica e di ogni tecnologia da essa dipendente, non altro che la motivazione originale della solidarietà interumana, con i soli mezzi umani per esprimerla. Ma quanti «sanitari» modello 1975 sarebbero ancora capaci di «erogarla» in grado soddisfacente, per loro e per gli «assistiti»?
Forse, come all’alba dell’umanità, questo dovere-diritto ricadrebbe ancora una volta sulle donne (che d’altronde non l’hanno mai completamente dimenticato). Cosicché, paradossalmente, di contro alla superbia operativa di tutta la medicina occidentale, in una ipotesi apocalittica le migliori garanzie di sopravvivenza comunitaria potrebbero essere riservate alla Cina di Mao e all’U.R.S.S. dove, sia pure per semplice coincidenza strumentale, il 70% e l’80% rispettivamente dei «medici dai piedi scalzi» e dei «felsher» (medici di base) risultano già ora di sesso femminile.
Capitolo II – Nasce la scienza, s’incrina l’uomo
Il significato sostanziale della medicina e il suo beneficio senza prezzo per l’individuo e la comunità riemergono intatti ancora oggi quando ad esercitarla sia un vero medico. Questo dimostra che il suo nucleo si è trasmesso integro dall’una all’altra generazione dell’umanità preistorica e storica, fino a quella odierna. I ritrovamenti archeologici e l’etnologia hanno inoltre accertato che le sue forme operative sono rimaste simili per decine di millenni (e tuttora nelle culture primitive), accentrandosi nella figura onnipresente dello sciamano, medico e insieme sacerdote. La doppia dignità non sorprende perché, intesa la malattia come espressione della collera degli dei, il solo uomo della tribù che aveva il coraggio di sfidarli per sottrarre il malato al suo destino mentre tutti gli altri - compreso il capo - si allontanavano presi dal terrore, riceveva in compenso una investitura quasi semidivina.
Su questa base antologica, che ha accompagnato l’uomo fino alle soglie della storia e anche al di là di esse («le frecce di Apollo»), era fatale che finisse per accentuarsi il lato preternaturale o soprannaturale (perciò magico o divino) della medicina, a detrimento di quello puramente fisico, o naturale. Ne è derivata l’identificazione del medico come di colui che, unico, godeva del diretto ed esclusivo contatto con le divinità, e diventava perciò interprete dei loro voleri arcani ai quali - per suo mezzo - la comunità doveva ubbidire.
La usuale istituzionalizzazione di tutte le cose umane ha quindi favorito, in modo sempre più rigido, il monopolio della medicina-sacerdozio da parte di una casta privilegiata, che puntualmente ritroviamo dagli inizi della storia scritta (3500 a.C., a Kish in Mesopotamia), presso gli assiri e i babilonesi, nel popolo ebraico, in India e soprattutto in Egitto. Il modello teocratico non ha affatto impedito il continuo progresso pratico dell’arte, fino a conquiste farmacologiche o chirurgiche di livello rispettabile anche oggi, storicamente registrate nelle tavolette cuneiformi della biblioteca di Ninive, nei papiri egizi di Ebers, di Brugsch, di Edwin-Smith, nella stele sumera di Hammurabi, e in una serie di altri testi specialistici o medico-sociali. È importante tuttavia sottolineare che, essendo la malattia il sintomo di una colpa personale o sociale, la guarigione o la salute venivano spesso impetrate attraverso sacrifici, purificazioni, astensioni (per esempio, dalle carni di maiale, dal sesso nei mestrui e in puerperio) che nella sostanza risultavano validi precetti igienici, ma nella forma si presentavano, ed erano seguiti, come prescrizioni religiose.
Meno teurgiche ma ancora condizionate dal concetto unitario del male quale rottura dell’equilibrio dell’universo si rivelano le antiche medicine cinese e indiana. La prima, più filosofia che esperimento, ha bensì codificato già nel 2700 a.C. una serie di norme empiriche nel Huang-ti Su-wên («Domande semplici dell’Imperatore giallo») e nel Ling-shu-ching («Libro canonico del perno dell’anima») che insieme formano il cosiddetto Nei-ching («Canone della Medicina»). Ma l’ideogramma mandarino della medicina è composto tuttora con i simboli grafici elementari delle sue motivazioni preistoriche e protostoriche: faretra, frecce, colpire, pozione! E l’agopuntura profonda, che rappresenta ancora per metà nella Repubblica Popolare di Mao Tze-tung la normale forma di trattamento medico, sfrutta da oltre cinquemila anni un sistema generale che non ha nulla a che vedere con l’anatomia.
L’armonia universale. – Esso si basa sulla teoria che l’energia dell’universo, espressione dell’Essere primordiale Hsüan (il mistero) e distinta nelle due modalità antinomiche di yin e yang (femmina e maschio), circoli continuamente nel corpo umano lungo quattordici linee verticali dette meridiani. Su queste linee si riflette la sensibilità di ogni singolo organo, cosicché, per combatterne una eventuale insufficienza funzionale, basterà stimolare l’energia del suo meridiano con aghi d’oro o di rame; per frenarne invece l’esuberanza occorrerà disperdere l’energia dello stesso meridiano, con aghi di argento, platino o acciaio. A parte gli innegabili risultati pratici, riscoperti dalla moderna terapia occidentale del dolore, persino il concetto della riflessione cutanea degli organi interni è stato riconosciuto dalla scienza medica, ma solo verso la fine dell’800 (zone di Head).
Ciò dimostra che in medicina (che è la continua ricerca della verità dell’uomo e del mondo) persino una piattaforma filosofica e non sperimentale può condurre ad una superiore consapevolezza delle cose, molto vicina alle conoscenze moderne della scienza. Questo è infatti avvenuto al pensiero medico-filosofico indiano il quale, partendo dai concetti metafisici del Karma (legge dell’azione) e del Samsara (metempsicosi) è giunto, intorno all’VIII sec. a.C., alla interpretazione dell’organismo come un insieme dove l’armonia delle parti rappresenta la condizione essenziale della salute. Da essa deriva la modernissima nozione (chiara alla scienza speculativa ma non sempre ai medici!) che «l’organo palesemente infermo non deve essere curato come avulso dalla unità di cui fa parte, ma invece considerato nel quadro generale, nelle interazioni con tutto il resto e nella resistenza complessiva dell’organismo» (Susruta: Sutrasthana). Che queste non siano semplici vacuità scolastiche lo dimostra la spiegazione della funzione biologica attraverso i tre «dosa»: Kapha o anabolismo; Pitta o catabolismo; Vayu o energia nervosa. (Noi questo, a differenza degli yoghi, l’abbiamo dovuto reimparare biochimicamente nell’ultimo sessantennio!)
Il concetto metafisico dell’armonia, esteso addirittura dal microcosmo-uomo al macrocosmo-universo, ricompare due secoli dopo (VI a.C.) con Pitagora e la sua scuola, nelle colonie greche d’Italia cioè a Crotone, Sibari, Reggio Calabria, Agrigento, e riuscirà a informare di sé lo stesso pensiero medico di Ippocrate di Coo. Fino a quell’epoca nel mondo occidentale, cioè prevalentemente ellenistico, il concetto dominante in medicina era ancora quello tradizionale e leggendario, «eroico» (la medicina di Omero) e, sul piano operativo, empirico. Tuttavia, nello spirito di esasperata libertà individualistica della civiltà greca (ragione unica del suo fiorire e del suo decadere), le interpretazioni pur teologiche delle malattie non avevano consentito il sorgere della solita casta dominante di medici-sacerdoti. Però gli unici luoghi di cura ufficialmente riconosciuti erano ugualmente i templi, eretti in località di straordinaria bellezza, quasi sempre dotati di una sorgente termale che aggiungeva le sue virtù ai consigli dei sacerdoti.
I templi più prestigiosi, e i sacerdoti più celebri per abilità diagnostica e risultati terapeutici, erano quelli di Asclepio, il dio principe della medicina. Il tempio più antico erettogli in Grecia era a Titanos presso Sicione, il più famoso quello di Epidauro nell’Argolide, due regioni assai ricche di serpenti. Il rettile stilizzato, che orna anche oggi il parabrezza delle automobili dei medici, identifica infatti da sempre il culto e l’esercizio della medicina: il caduceo (bastone con il serpente attorcigliato, prima unico poi duplice) è stato ritrovato in bassorilievi di Ninazu (Signore del medico) e del figlio Ningišzida a Ninive, datati 1200 anni prima di Cristo; e la dea medica di Cnosso (Creta) ne portava due, attorcigliati sulle braccia. A parte la simpatia totemica che ne ha favorito il trapianto nell’Argolide, da dove nasceva il dio Asclepio? Essenzialmente da un errore linguistico.
Un errore linguistico deificato. – Si tratta infatti dello stesso celebre visir egizio Imhotep del 2800 a.C., del quale abbiamo già ricordato i canali irrigui. Medico e architetto, è il costruttore del primo edificio in pietra dell’umanità, la stupenda piramide a gradini (mastaba) di Saqqara, di 60 m di altezza e 1600 di perimetro, tomba del faraone Žoser della III dinastia. Deificato dagli egizi per la medicina, l’architettura e la matematica (una specie di triplo premio Nobel ante litteram) gli furono eretti nei successivi due millenni, templi a Menfi, Karnak, Deir-el-Bahari, Deir-el-Medineh, e nell’isola di File (dai Tolomei). La sua cappella commemorativa a Saqqara era chiamata dai greci Asklepieion. Trasferendo i suoi insegnamenti (materia pratica del culto) in patria, i viaggiatori greci equivocarono il termine come «eponimo» da un non mai esistito Asclepio, che prese a battere le strade del mondo ellenico e romano sotto il mutato nome. Lo ritroviamo anche nelle già citate colonie italiane della Magna Grecia, dove la medicina-sacerdozio fioriva come in ogni altra regione dell’Ellade, e dove abbiamo già localizzato Pitagora e la sua scuola filosofica, di probabile derivazione indiana. Esattamente in questa matrice era destinata a nascere, per la prima volta nella storia umana, la scienza medica.
È a Crotone (sede principale della scuola pitagorica) che essa esplode con la straordinaria figura di Alcmeone (circa 500 a.C.) il quale riuscì a sintetizzare il sistema filosofico dell’armonia pitagorica con la diretta osservazione dell’uomo, eredità della scuola medica italiana (Cnido). Alcmeone definisce, con assoluta precisione, il concetto generale della isonomia, cioè della salute come perfetto accordo di tutte le sostanze che compongono il corpo umano (ripreso poi con assai maggiore fortuna pubblicistica dal ben più famoso Ippocrate); con ciò stabiliva il fondamento di quella patologia umorale che fu per più di venti secoli la base di ogni concezione clinica. Il suo merito maggiore sta nell’aver per primo fatto ricorso all’esperimento pratico (autopsie e chirurgia funzionale) per provare la verità dei suoi ragionamenti. È stato così in grado di localizzare nel cervello – invece che nel cuore o nei polmoni – la sede delle sensazioni e il centro della vita intellettiva; nonché di precisare e descrivere alcune lesioni responsabili di disturbi funzionali fino allora misteriosi (le paralisi); ha studiato l’occhio e il meccanismo della visione; ha distinto le arterie dalle vene; ha individuato il decorso dei nervi ottici e scoperto l’origine (cerebrale) del sonno; gli si attribuisce persino la scoperta della tuba uditiva, detta poi «tromba di Eustachio» dall’anatomico marchigiano che la riscoperse a Roma nel 1560.
La prima rivoluzione scientifica. – Ha perciò origine con lui la prima rivoluzione scientifica, dopo la quale l’uomo non sarà mai più un’unità misteriosa ma comincia a distinguersi nelle sue parti singole, tenute insieme solo da un concetto filosofico: l’astrazione «uomo». Ma in assenza di quest’ultimo il fascino analitico della isolata funzione appena scoperta o da scoprire avrebbe potuto deviare l’interesse di ogni ricercatore esattamente e soltanto su una parte avulsa dal tutto. Questo è appunto accaduto, venticinque secoli dopo, quando da quella radice benefica è fiorita la lussureggiante chioma delle specializzazioni microanalitiche, giustificazione di quella produzione industrializzata dell’uomo a pezzi che affligge la nostra età tecnologica.
Nel momento medesimo della sua nascita, la scienza ha dunque incrinato l’uomo. Da allora ad oggi, salvo episodiche inversioni di tendenza, combattute con ogni mezzo per impedire qualsiasi deviazione dal filone aureo tradizionale, la scienza ha continuato ad erigere i suoi fastigi sfruttando - quando più quando meno - le rovine dell’uomo integrale. Pressappoco come facevano i papi e i cardinali romani del Medioevo e della rinascenza, i cui meravigliosi palazzi sono in buona parte contesti dei marmi e delle pietre rubati al Foro e al Colosseo.
Il più famoso utilizzatore del contributo di base fornito da Alcmeone (che oggi definiremmo un ricercatore patologo e neurofisiologo) è stato infatti un primo grandissimo specialista: il clinico Ippocrate di Coo. Nato nei 459 a.C. dal medico Eracleide e da Prassitela, a sua volta figlia del medico Fenarete, assorbì nel prezioso ambiente culturale nativo la somma delle molteplici correnti mediche che vi confluivano: l’osservazione accurata del malato di marchio italico (Cnido); la ricerca analitica di Alcmeone e della sua scuola; infine - come dopo di lui Galeno - l’illuminante studio di antichissimi testi, messigli a disposizione, ancora giovane, dai sacerdoti del tempio di Imhotep in Menfi.
Ippocrate ebbe il merito eccezionale di comporre il tutto in una sintesi originale di tale ampiezza e profondità da farne assai presto il medico più universalmente celebre dei suoi tempi. La fortunata longevità (104 o, più probabilmente, 88 anni) gli consentì non solo di raccogliere intorno a sé, in Coo, la scuola medica più fiorente del mondo, ma di consegnare in cinquantatre opere scientifiche divise in settantadue libri la sua immensa dottrina, esperienza e saggezza. Il corpus hippocraticum, abbinato ai contributi enciclopedici di Celso e Galeno (I e II sec. dopo Cristo) rimase fino al Rinascimento (cioè per ventidue secoli) la materia medica fondamentale dell’insegnamento in Occidente, e il suo autore ne ricavò il titolo di «padre della medicina».
Difatti il contributo positivo di Ippocrate è ancora oggi di valore straordinario; ma è consegnato assai più nei libri «etici» (Aforismi, Il giuramento, Delle prescrizioni, Del comportamento del medico) piuttosto che in quelli di casistica clinica (Delle fratture, Delle ferite al capo, Degli umori, Delle fistole, Dell’uso dei liquidi, Della dentizione, Del parto in sette mesi ecc.). Ciononostante anche in questi esistono linee teoriche e pratiche di enorme progresso metodologico: per esempio la esatta registrazione di alcuni sintomi diagnostici tuttora insegnati perché validi in ogni tempo, come la facies hippocratica preagonica e la succussio hippocratica per la diagnosi non radiologica dei versamenti endotoracici. E ancora il concetto dell’interazione obbligata tra uomo e ambiente, che la medicina sociale inizia soltanto ora ad assimilare (in Delle arie, delle acque e dei luoghi). E ancora la esatta nozione del sintomo, cioè del «segnale» che va inteso come guida per la ricerca della malattia, e mai curato per se stesso. La riaffermazione (dovuta certamente a reminiscenze egiziane e pitagoriche) della fondamentale unità dell’organismo, espressa dall’equilibrio dei quattro umori (sangue, flemma, bile gialla e bile nera), rotto il quale non esiste affezione morbosa che non colpisca tutto l’organismo, anche se si rivela in un organo isolato.
Tuttavia sul piano puramente tecnico, anche Ippocrate deve piegarsi alla legge da lui stesso espressa con insuperata perfezione nei primo degli Aforismi: «La vita è breve, l’arte lunga; l’occasione è fuggevole, l’esperimento fallace; il giudizio difficile». Sul piano etico e comportamentale, invece, alcuni dei suoi concetti rimangono validi in assoluto, anzi - considerata la situazione attuale della medicina - più essenziali ancora che nel suo tempo. Per esempio il comandamento basilare della prudenza in terapia (quante volte oggi infranto?) nel Prius nil nocere, inteso come rispetto della natura guaritrice (vis medicatrix naturae). E ancora l’aver sottratto - per la prima volta - la pratica della medicina tanto alla superstizione magica, quanto alla dipendenza divino-sacerdotale. È perciò merito indiscusso di Ippocrate l’avere innestato sul tronco eterno della medicina («il sentimento della solidarietà umana») la tecnica esatta per esprimerlo in pratica: cioè lo studio e la guarigione dell’uomo ammalato conseguiti con il metodo razionale. E ha impresso il sigillo della sua straordinaria personalità nel lapidario aforisma: «Dove c’è amore per l’uomo, là c’è amore per l’arte».
Invenzione della malattia. – Ma troppi epigoni di Ippocrate, non sorretti dalla sua profondità spirituale, dovevano spesso dimenticarlo. Così appunto il già citato Claudio Galeno, greco di Pergamo, nato all’ombra del famoso tempio di Asclepio (ancora!) ed emigrato a Roma nel 158 d.C., medico della Corte imperiale di Marco Aurelio Antonino, clinico acutissimo e scrittore fecondissimo (oltre centoventi opere mediche). Filtrando col dogmatismo aristotelico l’insegnamento di Ippocrate, e cementandolo con i suoi successi pratici in un sistema rigido, insieme contesto di verità e di errori (purtroppo insegnato per quindici secoli di seguito) egli rivela un interesse per l’arte assai più grande di quello per l’uomo. Pur conservando di Ippocrate la linea strettamente razionale, il suo ragionamento, invece che sintetico e biologico come nel maestro di Coo, diventa rigidamente analitico e morfologico (formale). Con simili premesse teoriche era fatale che Galeno introducesse in medicina due concetti astratti, la cui carica pericolosa, latente per millenni, sta ora raggiungendo la temperatura critica di esplosione.
Il primo è il fondamento sistematico della sua terapia, espresso dalla celebre massima: «contraria contrariis (curantur)», (le malattie si curano con il loro contrario), cioè l’infreddatura con il caldo, la febbre con il freddo, e così via; concetto base della teoria «allopatica» che tuttora domina l’universo medico moderno. Il secondo è l’invenzione di quella fantomatica entità chiamata «malattia», lo sfortunato equivoco analitico che è riuscito a monopolizzare per quasi due millenni l’interesse, le risorse e la ricerca della medicina ufficiale. Così l’elenco delle malattie identificate risulta di circa 60 in Ippocrate; già di oltre 150 in Galeno; e oggi è assurdamente arrivato a circa 35.000 (IBM, 1973), mentre l’uomo (senza il quale nessuna malattia può esistere) è stato progressivamente e colposamente dimenticato.
Capitolo III – La curva evolutiva della medicina nei secoli
Dopo Galeno la medicina ha costruito il suo edificio mattone su mattone, ciascun d’essi corrispondente alla intera vita di un suo artigiano. Nei testi di storia della medicina sono elencati i nomi di molti di loro con l’analisi erudita dei contributi forniti alla fabbrica della scienza. Ma il Who’s Who medico, sia pure plurimillenario, riveste solo un moderato interesse cronistico. È assai più importante invece riconoscere che nel complesso l’edificio ha resistito abbastanza bene, finora, persino alla crescita esagerata degli ultimi due secoli nonostante i molti «mattoni» sgretolati o vanificati dal tempo.
Probabilmente ciò è dovuto alla incrollabile saldezza delle fondamenta (il sentimento della solidarietà umana); tuttavia oggi, raggiunta l’altitudine di un gigantesco grattacielo, la medicina tende spesso a incantarsi dietro le stelle e i satelliti, trascurando gli uomini che, come quelli visti dalla ringhiera dell’Empire State Building, si rattrappiscono alla insignificante entità di impersonali formiche. In nome di queste formiche umane che riacquisterebbero di colpo la piena dignità e statura di uomini solo che il grattacielo crollasse, è giusto rendersi conto dei veri punti di forza dell’edificio, per conservarne il progetto nell’ipotesi che occorresse ricostruirlo.
Il sinusoide smorzato. – Limitando l’analisi storica al solo filone aureo della medicina occidentale - che ci coinvolge personalmente - è noto da tempo che la sua intensità non è stata costante dalla preistoria ad oggi. Ha invece dimostrato periodi più o meno lunghi di stasi e periodi di rapide accelerazioni, corrispondenti a nuove idee sempre più largamente condivise, e finalmente riassunte con la massima efficacia da un personaggio paradigmatico. È stato appunto questo ritmo discontinuo, abbinato alla limitata informazione, a far sorgere il mito didattico delle cosiddette fioriture auree della medicina.
Non è stato invece fin qui rilevato che la comparsa delle «intensità modificanti» (e relativi nomi paradigmatici) dimostra, negli ultimi quarantasette secoli storici, una frequenza progressivamente maggiore. Ci si potrebbe anche rallegrare di un simile andamento, se la sua obbligatoria contropartita non fosse anche l’espressione della minore potenza di ogni successiva pulsione. È persino possibile, confrontando i periodi di dominio scientifico delle singole «onde», riconoscere quasi l’esistenza di una legge matematica (costante di decremento) che domina la storia naturale del fenomeno.
Infatti, mentre l’influsso razionalistico di Imhotep sembra essere durato tredici secoli prima di essere sopraffatto, persino in Egitto, dalla sua distorsione divino-sacerdotale (esoterica) e superstizioso-magica (popolare), dominanti per dieci secoli fino ad Alcmeone e Ippocrate, è del tutto certo l’intervallo di settecento anni tra questi ultimi e Galeno. Seicento anni circa dopo Galeno la prima nuova pulsione modificante è la fioritura degli ospedali, che precede di cinquecento anni la diffusione europea delle università. Quattrocento anni tra questa e Galileo, soli duecento fino a Spallanzani, cento fino a Pasteur; ma cinquanta tra Pasteur e Freud, e poco più di trenta tra quest’ultimo e l’esplosione della tecnologia in medicina.
Se si traccia un diagramma storico del filone aureo sotto forma di onde colleganti le date delle successive idee-forza (vedi fig. 1), esso assume quasi l’aspetto suggestivo di un sinusoide smorzato, descritto dalla formula di Thomson (T = 2 π √LC) come il «decremento esponenziale di una carica elettrica che va esaurendosi»! È certo che alla sempre maggiore frequenza di scoperte scientifiche si è abbinata, nei secoli, una progressiva diminuzione del prestigio sociale e della credibilità professionale della medicina, nonostante la crescente efficienza delle sue realizzazioni tecniche. Questo fa temere ancora
Fig. 1. – Il «sinusoide smorzato» della medicina.
di più il momento (che il sinusoide di Thomson preannuncia assai vicino) nel quale la frequenza parossistica delle nuove scoperte non permetterà a nessuna di sviluppare un qualsiasi dominio-pilota, tutte vicendevolmente annullandosi. Il tracciato oscillatorio potrebbe allora appiattirsi in una asintote, cioè in quella retta orizzontale continua che tanto per l’elettrocardiogramma (cuore) quanto per l’elettroencefalogramma (cervello) segnala in medicina la cessazione totale di ogni carica elettrica, cioè della vita stessa.
L’analisi motivazionale della medicina. – Che cos’è che non funziona, e rende possibile questo tragico paradosso? Nessuna delle componenti concrete del fenomeno Medicina, ma piuttosto le possibili varianti storiche del suo sottofondo di sentimenti, quell’impalpabile fattore di ogni manifestazione umana, che si definisce motivazione. Per quanto incorporeo, questo moto dello spirito condiziona oggi - in mano agli psicologi, ai socio-psicologi e ai marketing experts - l’investimento e la resa di migliaia di miliardi di dollari in tutto il mondo; le analisi motivazionali garantiscono il successo - o determinano il fallimento – di una forma di frigorifero, o di un modello d’automobile, o di una marca di sigarette. Per vedere se nasca qualcosa di utile, per il futuro, da un’analisi motivazionale condotta sugli sviluppi della medicina ripercorreremo perciò le tappe auree della sua evoluzione storica (vedi fig. 2).
Imhotep: del suo contributo pratico e dottrinale alla scienza non abbiamo documenti originali, se non le opere già ricordate (l’architettura e la canalizzazione). Della sua originalità e del suo immenso valore professionale ci dà prova anche solo quest’ultima insuperata realizzazione medico-sociale, vera bonifica ecologica che per quarantacinque secoli ha garantito la salute e la prosperità economica al popolo egiziano, condizionando il successivo profilo di tutta la civiltà occidentale. Della sua dottrina è rimasta l’impostazione strutturale nel culto e nell’insegnamento sacerdotale ed esoterico, rielaborati ma presi a guida – per loro stessa ammissione - da Ippocrate e da Galeno. L’etichetta che lo distingue è perciò la «medicina» senza alcun aggettivo discriminante, nella piena e globale accezione di fattore benefico per la comunità, sostenuta da una tecnica perfetta (Saqqara!) sbocciata splendida come un’aurora boreale sul sottostante baratro di oscurità. La sua motivazione, dedotta dai fini perseguiti e raggiunti, non può che essere anch’essa globale, cioè, per dirla con la definizione ippocratica, l’«amore per l’uomo e per l’arte».
Fig. 2. – Le «etichette storiche» della medicina e la loro motivazione.
Sciamani e sacerdoti: l’etichetta magica e sacerdotale della medicina viene interpretata come una distorsione del fascio principale della scienza. Non essendo riuscita a conservare il suo standard al livello della perfezione tecnica e della potenza logica di un illuminato come Imhotep (d’altronde deificato esattamente per le sue qualità eccezionali e solitarie), essa è certamente decaduta sul piano tecnico, immiserendolo nell’empirismo da una parte, nel mito dall’altra. Tuttavia ha saputo conservare due qualità fondamentali di valore assoluto: la prima è quella «unità uomo-medicina» che oggi sta riemergendo alla coscienza medica, la seconda è «l’amore per l’uomo», coincidente con la motivazione eterna della medicina, addirittura potenziata dalla povertà dello strumentario scientifico, tanto dottrinale quanto pratico. Per questo i maghi e gli sciamani offrivano senza riserve solo (ma tutta) la loro forza umana al malato, sperando con lui di guarirlo. Non sempre ci riuscivano (come d’altronde nemmeno gli scienziati di tanti secoli dopo), però gli donavano sempre quella consolazione (di accertato valore terapeutico) che oggi il malato cerca, senza trovarla, dentro gli apparecchi scintillanti di cromo e di perspex.
Alcmeone fa nascere la «scienza» ma Ippocrate, che la applica all’uomo inventando la «medicina clinica» riesce sotto questa etichetta a mantenere ancora un perfetto equilibrio tra l’amore per l’arte e quello per l’uomo, che ne è insieme oggetto e soggetto. Questa motivazione gli ha dettato i libri etici, di valore duraturo, e ha favorito la grandezza senza uguali del suo esempio professionale. Non così invece Galeno. In lui, affascinato dall’arte fino al punto da affastellare insieme verità ed errori di giudizio pur di raggiungere la perfezione formale di un sistema dottrinale che rifiuta di riconoscere la diversa realtà dell’uomo, osserviamo la prima vera frattura tra l’uomo e la scienza. La sua invenzione delle «malattie», derivazione analitica obbligata della etichetta di «casistica clinica» che lo classifica, ha reso da quel momento sempre più difficili e dispersivi lo studio e la pratica professionale. E, peggio ancora, è riuscita ad immettere nell’acqua cristallina della medicina una corrente sottilmente adulterata, che a distanza di secoli l’ha resa infine imbevibile e inadatta a sostentare l’uomo.
Il ritorno all’«amore per l’uomo» avviene con l’affermazione degli ospedali. Anche se una cronaca cingalese del IV secolo a.C. dà notizia di un ospedale «per uomini e animali» a Ceylon nel 437 a.C., ed esistevano a Roma, già al tempo di Augusto, le medicatrinae o iatreiae (case di cura private organizzate dai medici), è solo con il riconoscimento giuridico del cristianesimo che ne sorge qualche esemplare permanente. L’intento di queste istituzioni era più caritativo che sanitario, ricoveri in genere per anziani invalidi come quello fondato a sue spese da Placidia, consorte dell’imperatore Teodosio. Con un’altra finalità tecnica, sempre però limitata all’aiuto umano, sorsero nei secoli successivi i cosiddetti xenodochi (ricoveri di forestieri) lungo le strade consolari romane, ad uso e asilo dei pellegrini nei loro viaggi rituali a Roma. La vera nascita dell’ospedale, come organizzazione assistenziale per gli infermi, coincide con la fondazione degli ordini cavallereschi, quale strumento tecnico del loro compito istituzionale. Il primo al mondo, verso l’850 d.C., fu eretto e servito dall’Ordine di Nostra Signora della scala a Siena. I problemi logistici connessi con le crociate imposero poi la diffusione tanto degli ospedali sulle strade di Terra santa, quanto degli ordini cavallereschi (O. di S. Lazzaro, per la cura dei lebbrosi, 967 d.C.; degli Ospitalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, 1020 d.C.; dei Templari, 1118 d.C.; dei Cavalieri Teutonici, 1191 d.C. …).
La nuova idea medica rappresentata dagli ospedali si distingue con l’etichetta di «medicina sociale» cioè di servizio medico alla comunità. Essa persisterà per secoli, ampliando nel XVI secolo la sua funzione, non ancora terapeutica, in quella di una difesa sociale contro le malattie (lazzaretti per gli appestati; ospedali «degli incurabili» e così via).
Anche se gli ospedali primevi non curavano, l’incontro tra l’abbondante materiale patologico e la curiosità benefica dei curanti favorì una larga esperienza di sintomi e decorsi, consentendo ai medici una sempre più raffinata abilità di diagnosi e di prognosi. Era giusto perciò che negli ospedali nascessero le scuole mediche, tra le quali famosa quella di Salerno, sviluppatasi intorno a un nucleo ospedaliero monastico (benedettino). Tale fu, nel corso del tempo, il prestigio salernitano, che nel 1134 re Ruggero decretò (e in seguito Federico II di Svevia riconfermò) che «nessuno potesse esercitare la medicina se prima non avesse ottenuto, con pubblico esame, l’approvazione documentata (la laurea!) dei maestri di Salerno».
«Approvazione» tuttavia, non «insegnamento». Questo perché, allora come oggi, negli ospedali il lavoro era durissimo e il tempo sempre insufficiente non consentiva l’insegnamento formale, ma solo quello dell’esempio personale. Nacquero così, per interesse medesimo degli aspiranti alla professione sanitaria, le cosiddette università o studi. Il termine università significava, inizialmente, solo la «federazione corporativa degli scolari» che eleggevano nel consiglio un rappresentante per ogni nazione, uno dei quali, eletto rettore, amministrava l’università e chiamava i lettori (cioè gli insegnanti). La fioritura della nuova idea concreta, nella forma definitiva, avvenne intorno al XII secolo, e la sua validità è confermata dalla fulminea diffusione in Italia e in Europa. La prima università del mondo fu quella di Bologna (privilegiata in un rescritto dell’imperatore Federico Barbarossa del 1158); seguirono Oxford in Inghilterra, 1214; Parigi, 1215; Padova, 1222; Napoli, 1224; Vercelli, 1225; Montpellier, 1228; Ferrara, 1278; Roma, 1303; Parma e Pisa, 1343; Heidelberg, 1385…
Qual è stato il significato, per la medicina, di questa ulteriore conquista scientifica? Insieme favorevole e no, almeno giudicando dagli sviluppi futuri. Infatti la prima grande divisione del lavoro tra chi insegna e chi opera professionalmente ha consentito ai primi un tempo pieno per approfondire gli studi e le ricerche, ma li ha progressivamente distaccati dal contatto con il malato, fecondo di osservazioni sempre nuove e del vero progresso della scienza. E ai secondi, salvo eccezioni personali, ha negato la possibilità di insegnare la realtà se per caso risultasse diversa dalla dottrina scolasticamente accettata.
Nelle università l’etichetta distintiva della medicina diventa quella scolastica, cristallizzata su schemi immutabili: chi non giura sul verbo di Galeno non può ricevere non solo la lode ma neppure la laurea. La motivazione di questa scienza istituzionalizzata, pletorica già al suo nascere di contributi nozionistici, è naturalmente l’esasperato «amore per l’arte». Ne deriva fatalmente il primo solco, all’inizio così sottile da passare inavvertito, tra l’impostazione didattica della materia e le esigenze della professione dopo gli studi; è questo solco, oggi diventato quasi una voragine, che inferisce al neolaureato il primo trauma della sua vita professionale, per il dilemma non ancora risolto tra accademia e scuola professionale nel corso degli studi medici.
Nel 1453 cade l’Impero d’Oriente; letterati, giuristi e medici vanno profughi in tutta Europa, particolarmente in Italia, e portano le opere originali dei classici ellenici nelle corti che li accolgono. Nello stesso tempo (1436) Giovanni Gutemberg inventa la stampa a caratteri mobili; per quanto riguarda la medicina il risultato straordinario di questo incrocio di destini si esprime nelle oltre 900 edizioni delle principali opere mediche, di nuovo conio o ristampe di classici, che videro la luce già entro il secolo XV. La cultura compie la prima cabrata esponenziale, e il suo filone umanistico diffonde con rapidità inaudita il gusto e addirittura il bisogno di indagare con libero pensiero, rifiutando ogni monopolio della verità.
In medicina il più ingombrante feticcio da abbattere, vecchio già di tredici secoli, erano Galeno e il galenismo, pedissequamente insegnati nelle università, con la «coda» di Avicenna e di tutta la scolastica araba. E fu la lotta, appassionata e violenta. Non si trattò all’inizio (come sempre per ogni nuovo corso dell’umanità) di un moto universale, ma piuttosto della ribellione di individui isolati, di eccezionale potenza mentale e coraggio, pronti a sacrificare l’intera vita sull’altare delle nuove idee. Sennonché la loro meravigliosa offerta al progresso dei posteri li privò, quasi sempre, della comprensione dei contemporanei, incapaci sia di riconoscere una grandezza tanto superiore, sia di deificarli per difesa psicologica, com’era accaduto per Imhotep. Ogni figura di vero scienziato, in questo convulso tempo di «rinascimento», finisce sempre con il conformarsi all’uno o all’altro di due schemi antitetici: o trasformando la sua esistenza in un turbine di violenti contrasti con se stessi e col mondo (come Paracelso), o rinchiudendosi sdegnosamente nella torre d’avorio dei suoi sogni concreti (come Leonardo da Vinci).
Paracelso (Teofrasto Bombast), svizzero di Einsiedeln, figlio di medico e regolare studente a Zurigo, comprese ben presto l’insufficienza dell’insegnamento tradizionale. Lo completò con qualsiasi esperienza ritenesse valida: dalla scuola chimico-mineraria dei Fugger in Carinzia, alla frequentazione privata di alchimisti e astrologi, alla peregrinazione da una università italiana all’altra, fino a quella di Ferrara dove conseguì finalmente la laurea in medicina, pochi anni dopo Nicolò Copernico. Nominato professore di medicina a Basilea nel 1527, osò bruciare pubblicamente le opere di Avicenna per significare drammaticamente il suo rifiuto della autorità «scolastica», e la necessità di ricorrere allo studio diretto per conoscere la realtà della natura. Con tutta questa violenza di pensiero e di opere, che lo ucciderà appena quarantottenne, rifiutò sempre di essere considerato una specie di Lutero medico (cioè eretico e scismatico). Sosteneva invece che era appunto la qualità di medico a pieno titolo ad imporgli l’interesse e la conoscenza di qualsiasi linea valida di ricerca che potesse maggiormente avvicinarlo alla verità. Questa intuizione, tanto moderna da non essere tuttora digerita dalla scienza attuale, la espresse lapidariamente in un motto famoso: «Alterius non sit, quis suus esse potest» (non sia d’altri chi può essere di se stesso).
Leonardo da Vinci, l’esempio più insigne del comportamento alternativo, visse quasi settanta anni; pur completamente autodidatta e probabilmente il più grande e poliedrico ingegno espresso dall’umanità; fu largamente celebre anche nel suo tempo, ma solo come architetto militare e civile (i navigli lombardi), pittore irraggiungibile, scultore equestre e scenografo di corte (a Milano, presso Ludovico il Moro)! Ma tutto l’immenso tesoro scientifico delle sue ricerche «futuribili» nei campi della matematica, della fisica generale, dell’ottica e della prospettiva, della balistica, dell’aerodinamica; le centinaia di invenzioni strumentali, dal paracadute all’aliante, dall’automobile all’aeroplano al sommergibile, e soprattutto il vastissimo corpus di studi anatomici e fisiologici, sono stati da lui consegnati unicamente a se stesso, e rivelati al mondo stupefatto solo 250 anni dopo, da Guglielmo Hunter. In un tempo nel quale la necroscopia era ancora una colpa giuridica e religiosa, Leonardo praticò personalmente (e nel contempo disegnò) almeno trenta dissezioni anatomiche. Ciò gli ha consentito di documentare e commentare, in centinaia di perfette tavole (il primo atlante anatomico esistente) una serie di scoperte attribuite nei secoli successivi ad altri: per esempio l’endocardio e le corde tendinee delle valvole cardiache, il cosiddetto «fascio di His», l’«antro di Higmoro», il meccanismo della visione, l’utero (per la prima volta e antigalenicamente descritto a cavità unica), e la esatta conformazione e posizione dell’embrione e del feto.
Contrariamente ad ogni superficiale apparenza, la motivazione più profonda che spingeva Leonardo nella ricerca, soprattutto medica, non era solo «l’amore per l’arte», ma piuttosto quella, fino allora sconosciuta e rivoluzionaria, di un totale «amore per la verità». Infatti, come scrisse nel Codice atlantico: «nessuna cosa si può amare né odiare, se prima non si ha cognition di quella». È esattamente questo concetto, espresso in tanto lucida forma sessant’anni prima che nascesse Galileo, la chiave d’oro che aprirà la via più fulgida della scienza, cioè la «ricerca sperimentale non preconcetta».
Capirolo IV – La seconda rivoluzione scientifica: l’uomo a pezzi
La seconda (e definitiva) rivoluzione scientifica ha nome Galileo Galilei. È stato infatti quest’altro genio benefico dell’umanità, nato a Pisa nel 1564, a stabilire in forma ineccepibile i principi teorici e le linee applicative del metodo sperimentale, cioè della «via per raggiungere la conoscenza attraverso l’esperienza» (tale è l’esatta traduzione, in linguaggio comune, dei termini di radice greco-latina metodo ed esperimento).
Altri prima di lui, Alcmeone e Ippocrate, Galeno e il chirurgo arabo Albucasis (Abu’l-Qasim az-Zahrawi) erano già ricorsi all’esperimento, sia a fini di conoscenza sia per scegliere le terapie più efficaci. Ma in genere la discesa sul campo pratico veniva offerta - con almeno un pizzico di degnazione - solo come prova facoltativa, e ad uso degli altri, della validità del ragionamento deduttivo (dall’universale al particolare) già concluso che la precedeva. È esclusivamente in grazia di questa impostazione dogmatica che fu possibile al corpus Galenicum di resistere per troppo tempo. Non essendo ciechi, i medici e i chirurghi vedevano bene che quanto era stato loro insegnato differiva profondamente dalla realtà che incontravano ogni giorno; ma essendo considerato il livello gerarchico delle cose osservate assai più basso di quello di un sistema teoretico, la somma degli errori non riuscì a scalfire (per quindici secoli!) la dignità della dottrina.
Soltanto Leonardo applicò in tutta la sua feconda perfezione, prima di Galileo, il metodo sperimentale. Come logica conseguenza raggiunse in un ampio ventaglio di campi scientifici (dall’anatomia all’aerodinamica) la verità. Ma preferì tenersela per sé, giudicando i tempi non ancora maturi per accoglierla.
Le tavole della legge scientifica. – Galileo ritenne invece che ormai lo fossero (mentre le sue famose traversie prima universitarie e da ultimo con il Sant’Uffizio dimostrano ancora il contrario); insegnò quindi senza ipocrisie, dalle cattedre di matematica di Padova e di Pisa, il concetto che l’esperimento non è la conferma a posteriori di una ipotesi prevista con il ragionamento, ma invece è l’unica via per raggiungere la verità obbiettiva, scegliendo criticamente quella più convincente tra le diverse possibilità interpretative offerte dall’osservazione della natura, avvicinata senza pregiudizi.
Questa proposizione avrebbe anche potuto risultare inoffensiva per il suo autore, se Galileo non avesse preteso di applicarla praticamente in ogni momento e campo della sua ricerca. È ben vero che questa chiave d’oro gli consentiva di allargare ogni giorno il patrimonio di conoscenza dell’umanità, fin da quando (1583) diciannovenne e ancora studente di medicina, scoprì la legge dell’isocronismo delle oscillazioni del pendolo controllando sul suo polso i tempi uguali di oscillazione della famosa lampada del duomo di Pisa, mossa da una raffica temporalesca. Ma inevitabilmente ogni nuova scoperta smentiva, con la sua inconfutabile verità, le false affermazioni delle imperanti teorie aristoteliche: dalla caduta uguale dei gravi, al lavoro virtuale in meccanica, al termoscopio e da questo alla teoria cinetica del calore, al cannocchiale. Questo meraviglioso strumento gli consentì, purtroppo, di scoprire le stelle novae e le comete, le macchie solari, le montagne e i crateri della Luna, le fasi di Venere, e i quattro satelliti di Giove (che dedicò ai Medici, i granduchi di Firenze). Ma gli aristotelici si rifiutavano di porre l’occhio al cannocchiale. Aristotele non aveva detto che Giove aveva i satelliti, dunque «questi non c’erano». Il vederli era solo un’illusione dei sensi. Fu di fronte a questa ottusa negazione della libertà che Galileo sfogò il suo spirito mordace di toscanaccio pubblicando, nel 1623, Il Saggiatore, capolavoro polemico che distrugge (matematicamente!) le ipotesi di padre Grassi, un gesuita aristotelico, sulle comete. E, nel 1632, l’opera fondamentale del metodo sperimentale di ricerca: il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo.
Sennonché la miscela esplosiva dell’asprezza polemica con lo stile affascinante, della perfezione logico-matematica delle scoperte con le loro conclusioni rivoluzionarie, non fu forse l’ultima causa della condanna che la Santa Inquisizione irrogò all’opera e allo stesso Galileo. Ma ancora oggi nessuno scienziato può rileggere senza commossa ammirazione queste «Tavole della Legge» scientifice, perché esse da allora guidano (o almeno lo dovrebbero) tutto il successivo meraviglioso sforzo di conoscenza compiuto dall’umanità.
Naturalmente, come abbiamo già rilevato nel capitolo precedente, anche Galileo, quale simbolo riassuntivo della nuova conquista umana, cioè la scienza sperimentale, ebbe i suoi precursori e i suoi contemporanei nel medesimo movimento di opinione. Tra essi, oltre al già ricordato Leonardo da Vinci, è il filosofo inglese Francesco Bacone, ingegno tanto poliedrico da avergli fatto attribuire addirittura la vera paternità del teatro di Shakespeare, che sarebbe stato un suo nom de plume o un prestanome. Sul piano filosofico Bacone condusse una perfetta analisi del metodo induttivo («dal particolare all’universale»), indicando le esatte linee del metodo sperimentale, che tuttavia non applicò mai.
Un altro filosofo, la cui opera ebbe una grande influenza sulla medicina, è il francese René Descartes. Osservando nella scienza del suo tempo un caos di contradditorie e incerte opinioni, cercò una base valida di partenza nel pensiero cosciente («cogito, ergo sum»), e fondò il suo «Metodo» (Discours de la Méthode, 1637) sul dubbio metodico verso l’autorità della tradizione, e sulle percezioni soggettive, accettando come vero solo quanto i fenomeni insegnavano («Omne est verum, quod dare et distincte percipio»).
L’analisi della natura, che in Galileo è essenzialmente rivolta al macrocosmo (l’universo) è in Descartes applicata anche al microcosmo più vicino e disponibile (l’uomo). Nasce così, con il Traité de l’homme (1664, postumo) il primo tentativo di spiegare l’organismo vivente secondo schemi funzionali, almeno i più facilmente rilevabili, cioè quelli meccanici e quelli fisico-chimici. Geniale in Cartesio è l’interpretazione del corpo come di una macchina, che avrebbe stimolato tutta la fisiologia e le conquiste dei secoli futuri e persino la dottrina darwiniana dell’evoluzione; non altrettanto felice il dualismo tra anima e corpo, le due sostanze derivate che si escludono reciprocamente. Su di esso è germinata una lunga serie di interpretazioni antinomiche dell’uomo, dal vitalismo al positivismo, nessuna delle quali si è rivelata capace di risolvere in modo soddisfacente la sua unità psicofisica ma che ancora purtroppo ingombrano, dopo più di trecent’anni, la via maestra della medicina.
La macchina-uomo «esplosa». – Sul piano morfologico, un precursore della conoscenza sperimentale dell’uomo è, oltre al solito Leonardo, il belga Andrea Vesalio, insegnante di anatomia all’universita di Padova, dove (1543) pubblico l’opera fondamentale De humani corporis fabrica con le stupende tavole di Stefano von Calcar, allievo di Tiziano Vecellio, tuttora probabilmente insuperate dal punto di vista artistico. II valore dell’opera, oltre che documentario, è filosofico e rivoluzionario. Disegnando con artistica esattezza quanto lo scalpello metteva in luce nel corpo fell’uomo, si andavano smascherando gli errori delle intoccabili verità di Galeno. A tal punto radicali che neppure il Vesalio se ne rese conto appieno. Pag.38…
La crisi professionale del medico, oggi
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Sacerdozio, arte, professione, mestiere: così, per tappe successive raggiunte in lento volger di secoli, è decaduta la medicina nell’opinione del mondo. Il mestiere dei medici, oggi, è un nodo gordiano di controverse opinioni e di pratici paradossi: ricevono dai grandi della terra i supremi onori, ma sono nello stesso tempo considerati come loro servi (dove l’assistenza di malattia è organizzata) dai più bassi livelli sociali. In teoria sono sempre più lodati come i salvatori del mondo, nella pratica sono frequentemente insultati dai pazienti con la discussione delle diagnosi e delle ricette.
Che cosa succede dunque alla medicina? Il terreno è così minato da non consentire discorsi opinabili ma soltanto fatti; e cominciamo subito con il riprodurne testualmente qualcuno. «È ora di parlare francamente del medico di famiglia. La verità nuda e cruda è che egli era generoso del suo tempo e del suo colloquio perché aveva ben poco d’altro da offrire…». «Manca, per l’applicazione ottimale della più avanzata scienza della salute, un generico parasanitario (generalist para-professional) un ‘buon vicino come tutti gli altri’ (neighborhood peer) che coordini i servizi specialistici dei professionisti medici, che spieghi gli elementi tecnici ai profani e questi ultimi ai medici, senza danneggiare i loro mutui rapporti».
Traducendo questa pregevole prosa tecnica appunto in linguaggio paraprofessionale ne emerge il vivace schizzo idealizzato di una figura umana ben nota a tutte le piccole comunità, di ogni tempo e di ogni latitudine, cioè, per dirla alla francese, della «sage femme» o, per dirla all’italiana, della comare. Ma il testo citato prosegue: «Il suo stato giuridico dovrà avere chiara definizione, riconoscimento, stabilità e utilizzazione universale». In conclusione, dunque, una comare patentata, con stabilità di carriera.
L’eccesso di tecnicismo. – Le citazioni sono tratte da un «Working paper» edito nel 1967 dall’agenzia federale americana O.E.O., che finanzia opere e servizi intesi al miglioramento del benessere della comunità.
Il manuale, intitolato L’agente sanitario del vicinato (Neighborhood Health Agent) è destinato al personale dei Comprehensive Neighborhood Health Centers, specie di consorzi sanitari per gli indigenti, basati sulla pratica medica di gruppo integrata dai descritti specialisti (non medici) in rapporti umani. In U.S.A. infatti la medicina soffre acutamente di spersonalizzazione non per cause mutualistiche ma per eccesso di tecnicismo e di superspecializzazione.
Forse per questa posizione di avanguardia mondiale, che fa loro provare i danni della civiltà con l’anticipo di qualche decennio sul resto del mondo, lo stesso manuale può esprimere, con crudele chiarezza, una critica ufficiosa che altrove avrebbe fatto gridare allo scandalo, nonostante la sua inoppugnabile verità: «I critici della medicina americana d’oggi ammettono il suo orientamento qualitativo e la sua eccellenza scientifica, ma segnalano simultaneamente la sua disumanizzazione. L’immagine del medico americano si è distorta da quella del saggio amico di famiglia in quella dell’imprenditore, interessato all’affare piuttosto che alla pratica della medicina – troppo occupato per poter comunicare soddisfacentemente con il suo malato. I servizi resi sono divenuti frammentari; mancano di unitarietà, di continuità e di coordinazione; sono in gran parte inaccessibili specialmente ai bisognosi, e frequentemente inaccettabili per chiunque».
L’invenzione della «comare patentata» nel tentativo di riumanizzare capillarmente la medicina segnala le difficoltà che persino l’O.E.O. incontra, per trasferire sul piano pratico quel teorico diritto alla salute codificato all’unanimità, negli ultimi decenni, in documenti giuridici di valore internazionale, dalla Carta Atlantica (1941) alla Carta dell’O.N.U. (1945), allo statuto dell’U.N.E.S.C.O. (1947), alla Costituzione italiana (1947), allo statuto dell’O.M.S. (1948). Le medesime e anche maggiori difficoltà inceppano dovunque il funzionamento delle strutture di difesa collettiva della salute, dalle «mutue» alla medicina di Stato, ai servizi nazionali di sanità. Siamo dunque di fronte a un fenomeno moderno di patologia medico-sociale, universale come una epidemia, che nessun correttivo fiscale o amministrativo sembra capace di estinguere. Non è dunque lecito chiedercene il perché?
In verità la medicina (e la professione ne è solo una espressione ambientale, come il medico pratico solo una sentinella avanzata) sta attraversando una delle crisi più gravi della sua esistenza; il travaglio di questa crisi, che può dar vita a un suo tipo superiore oppure a una mostruosità genetica (e fino ad ora le probabilità sono addirittura a vantaggio del mostro) interessa contemporaneamente l’interno della medicina, oltreché l’esterno.
Nell’intimo c’è crisi tra l’arte tradizionale e la tecnica ingigantita, crisi di equilibrio tra le funzioni, crisi di fiducia, di verità e di vocazione. All’esterno la crisi di rapporto rivela infiniti problemi piccoli e grossi, che tutti insieme possono essere riassunti in uno solo, fondamentale e di principio. Questo riguarda il modo di seguire, senza troppe sofferenze e disastri, e soprattutto conservando all’arte di guarire il suo significato, la fatale evoluzione della medicina da fenomeno di carattere individuale e di natura privata in un altro di carattere collettivo e di interesse pubblico. A renderne più tormentata l’evoluzione vi confluisce una serie di fattori interagenti, spesso dimenticati da quanti riversano esclusivamente sul medico la responsabilità della sua attuale distorsione.
Ricordiamo almeno i principali: l’ambiente comune al medico e a tutti gli altri uomini, il malato, la medicina, il medico, l’atto medico, il rapporto professionale. Negli ultimi cinquant’anni quasi tutte le categorie citate hanno assunto, per ragioni intime o d’ambiente, caratteri, forme, metodiche ed espressioni profondamente diverse da quelle tradizionali rimaste immutate per millenni. Ciononostante gran parte dell’evoluzione che la medicina ha subito nell’ultimo mezzo secolo, e che comprende il progresso tecnico in tutti i suoi settori, la conseguente impossibilità per un uomo singolo di dominarne le infinite peculiarità particolari, il suo costo in esponenziale aumento e infine l’esigenza sociale della difesa della salute a spese della comunità, è in realtà solo forma ambientale, e non sostanza. La sua sostanza è sempre l’uomo, l’uomo singolo, individuale e non ripetibile, nella sua duplice caratteristica di numero statistico sulla carta ma insieme di sofferta umanità privata quando si ammala, guarisce o muore.
Le qualità umane del medico. – Il disagio moderno della medicina, probabilmente il suo più serio peccato sociale, sta nel dimenticare troppo spesso questa realtà. Come dentro la capsula spaziale non c’è solo la tecnica perfezionata, ma l’uomo che la condiziona per il successo o per il fallimento, così anche nel fondo della medicina collettiva o della medicina strumentale esiste l’uomo, sintesi di corpo e d’anima che come tale va inteso, e avvicinato, e rispettato, sotto pena di insuccesso e di insoddisfazione privata e pubblica.
La medicina collettiva, sia essa di gruppo privato o statale, ha edificato nel corso di alcuni decenni un corpus ormai quasi perfetto di schemi e regole e tabelle attuariali. Alla raggiunta perfezione organizzativa non corrisponde però, al momento attuale, una soddisfacente erogazione del bene-medico ai previsti utenti. Non vi è sfuggito nemmeno l’esperimento inglese di assistenza totale «radle to grave» («dalla culla alla tomba») gratuita (cioè finanziata dalle tasse) che è stato il primo National Health Service in ordine di tempo (5 luglio 1948) e che sembrava avere tutti i motivi di successo, poggiando la sua struttura sui risultati di uno studio ventennale, presentato nel 1942 al governo di Sua Maestà dal liberale lord Beveridge.
Il fatto è che persino il grande economista Beveridge aveva trascurato di tabulare, nello studio sociologico preliminare, i due fattori fondamentali di ogni assistenza medica, esattamente quelli che, bene o male impostati, ne garantiscono o al contrario ne screditano la validità operativa. Il primo di essi è la crisi evolutiva attuale della medicina: alla chiarificazione di questo sfuggente elemento di base possono dare un efficiente contributo soltanto i medici, e soltanto dopo averla raggiunta per se stessi (il che, ancora oggi, è francamente eccezionale). Il secondo è, paradossalmente, lo sciamano cioè, per uscire dalla crittografia, l’analisi spregiudicata ma sostanziale della potenza guaritrice del medico, provvedendo a non snaturarla nel suo progettato consumo di massa. Questa purtroppo risiede ancor oggi, pur dopo secoli di coscienza scientifica, prevalentemente nelle qualità umane del medico, piuttosto che nel suo strumentario tecnico up to date; si tratta dunque di un sentimento qualitativo più che di una entità quantizzabile. Per questo non ha trovato posto nelle tabelle attuariali dei sistemi di assistenza collettiva; ma esattamente per questo la loro incompletezza umana li rende dovunque insoddisfacenti, perché infine coloro che li devono usare sono uomini veri, e non i loro assai più comodi artifici numerici, economici o statistici.
È stato persino scritto che «una buona medicina (collettiva) è fatta per un terzo da buone medicine e per due terzi da buone leggi»; dove è dunque l’uomo, in essa? L’uomo medico e l’uomo malato, intendiamo, dove vengono confinati? Appunto per questo spirito di soddisfatto formalismo esteriore, che rifiuta di scendere alla scomoda radice dei fenomeni, la medicina è malata. Visto che chi paga, in proprio e immediatamente, lo scotto pesante della insoddisfazione moderna a suo riguardo sono prevalentemente i medici pratici e di famiglia, non fa alcuna meraviglia che il loro numero diminuisca. Ancora nel 1953 in U.S.A., credendo erroneamente che l’insufficienza dei medici risiedesse nel loro numero (allora di 220.000), mentre era una crisi di presenza spirituale, il National Manpower Council aveva chiesto la «produzione» supplementare di almeno 40.000 medici nel successivo decennio. Oggi in U.S.A. i medici sono saliti a oltre 330.000, ma nei vent’anni trascorsi si è osservato un declino del 42% nei medici di famiglia il cui rapporto numerico è attualmente di uno su tremiladuecento abitanti (pari a quello cioè delle zone europee depresse, superiore persino alla quota individuale del N.H.S. inglese), mentre sono molto aumentati gli specialisti.
In grazia della sempre più larga disponibilità di mercato, è oggi facile che il paziente ricorra direttamente ad essi scavalcando l’introvabile medico di famiglia. Cosicché accade sempre più spesso che gli aerofagici vadano dal cardiologo, e gli epatopazienti dall’otorino, per ronzii e vertigini! Naturalmente – se lo specialista non è anche un ottimo medico generale – restano come prima e peggio. Ma se gli capita di guarire incorrono in un danno ancora peggiore. Infatti soggiacciono a una concatenazione mentale perfettamente logica ma sostanzialmente errata del tipo seguente: sintomo = ricetta = medicamento che guarisce! Da essa paradossalmente è scomparso il «taumaturgo» cioè l’uomo investito del potere divino della guarigione. Ma quando il paziente recupera la sua figura globale, allora, avvertendo acutamente la carenza dei fattori umani nella medicina (che lui stesso ha contribuito a creare) si butta alle critiche più feroci e talora gratuite. Ne dà uno sconfortante elenco il Medical World News (gennaio 1968), riferendo un’inchiesta finanziata dalla American Academy of General Practice. La maggioranza dei pazienti ha fiducia nei propri medici, ma li ritiene in genere assai poveri di calore umano. Nel 75% si considerano ben curati, ma solo il 24% giudica il medico medio appassionato del suo lavoro. Un accenno particolare meritano gli aspetti finanziari della medicina, perché doppiamente illuminanti, sotto il profilo sia individuale sia sociale (esigenza di una fornitura a spese della comunità): i pazienti lamentano in massa che i costi sanitari siano saliti alle stelle.
La fame di medici veri. – La Los Angeles County Society ha pubblicato una ricerca secondo la quale «solo una su quattro volte le lamentele finanziarie dei pazienti sono giustificate». Nelle altre tre, invece, le lagnanze monetarie mascherano motivazioni connesse con scarsità di comunicativa umana e incomprensione. Sarebbero quindi solo il sintomo di una frattura o di una insoddisfazione nel rapporto medico-paziente e ancor più, secondo il Dr. A. Beckmann della Columbia University, «di una enorme ostilità intrinseca verso il medico».
Considerato che da sempre la comparsa del medico è connessa alla fase sgradevole e squilibrante della malattia, è chiaro che l’ostilità non riguarda il medico ma invece la sua insufficienza ad essere ciò che il paziente vorrebbe che fosse per lui. Tant’è che, a fianco delle critiche, la stessa inchiesta ha fatto emergere modelli particolari di medici reali, accettabili e desiderati; non a caso essi si distinguono per le superiori caratteristiche umane assai simili a quelle della figura tradizionale del medico, che risulta un elemento preminente – anche in una società superficialmente avida di tecnicismo – per l’efficienza terapeutica globale. Esistono d’altronde, proprio in U.S.A., conferme di massa di questa fame insoddisfatta di medici veri. Basta ricordare che i programmi televisivi più seguiti (nel 1962) furono quelli impostati sul chirurgo Ben Casey e sul dottor Richard Kildare (rilanciato quest’ultimo con uguale fortuna in Europa). Come ognuno di noi ricorda, era una serie apparentemente monotona di casi clinici, alla cui risoluzione contribuiva però, in modo determinante, la partecipazione umana del medico alla crisi umana del paziente. I motivi del successo? «Viviamo nell’era dell’ansia», ha spiegato il professor S. Jaffe, uno dei supervisori della serie, «e il pubblico ha un bisogno continuo di aiuto e di sicurezza: i medici, quelli veri, anche se personaggi della TV, costituiscono una delle risposte più efficaci a questo bisogno».
Ma come sono i medici oggi? La verità nuda e cruda (per ridirla come il manuale dell’O.E.O. citato all’inizio) è che il medico non è più quello di una volta; ma – a differenza di quel che pensa l’O.E.O. – non perché è più occupato per mantenersi efficiente, ma proprio perché è più efficiente, quindi più certo di stravincere tecnicamente, più superbo dei suoi mezzi, meno umile sul piano umano. Questo complesso di superiorità tecnica (temperato solo in personalità eccezionali da un altrettanto ipertrofico sviluppo delle qualità umane e umanistiche) comporta il rischio di minare alla base il rapporto di solidarietà tra chi richiede e chi dà l’assistenza, che i corsi di studio dimenticano.
Si può ricordare, come esempio di una critica costruttiva all’attuale sistema didattico, l’esperimento di cura domiciliare (Medicaid) messo in atto presso la Tufts University di Boston dal professor Hyman Shrand (pediatria e medicina preventiva). Oltre al lavoro nell’ospedale, Shrand invia presso le famiglie gli studenti degli ultimi anni, abbinati a un medico, ponendoli così a contatto con il sottofondo umano della malattia nelle sue meno mascherabili espressioni. I risultati? Per Shrand il più evidente beneficio dell’intero programma consiste nella sua «umanità». «Oggi non è più necessario discutere i vantaggi del curare i bambini nelle loro case, circondati da quelli che li amano. È invece nuovo ed eccitante registrare i dividendi emotivi accumulati dagli studenti nel contatto con i pazienti a domicilio. I nostri studenti di clinica arrivano a noi come indiscusse autorità in medicina molecolare. Registriamo invece la loro piacevole sorpresa, quando si rendono finalmente conto che il nucleo essenziale della medicina non è la membrana cellulare, ma piuttosto l’essere umano nella sua integrità».
Il concetto qui espresso clinicamente da Shrand costituisce il nucleo intimo di quella Medicina-Uomo che la presente ricerca propone, a vantaggio comune di se stessa e dell’uomo. Ma deve trattarsi sostanzialmente di un assenso sentimentale e quasi fideistico (un ribattezzarsi dunque, come è già stato detto), piuttosto che un giochetto burocratico-amministrativo, come quello inventato dall’O.E.O. È chiaro infatti che, se il medico moderno ha perduto l’umanità, è a lui stesso che occorre ridarla, non a un subalterno «specialista in rapporti umani» al quale il paziente rifiuterebbe l’assenso sentimentale profondo.
Corvisart, il medico di Napoleone, all’imperatore che si rotolava sul tappeto giurando di essere stato avvelenato, gridava con veemenza: «Vergognatevi, Sire; la vostra è vigliaccheria. Non avete che crampi allo stomaco. Alzatevi!». E Bonaparte «guariva». «Non credo alla medicina» diceva, «ma credo in Corvisart». C’è forse qualcuno così ingenuo, da credere che lo stesso effetto sull’imperatore, colto da una crisi acuta di ansietà, l’avrebbe avuta la spiegazione in linguaggio comune dei referti biochimici del succo gastrico, fattagli da una comare patentata sia pure abbigliata da merveilleuse neoclassica?
L’angoscia del medico. – Come l’imperatore dei francesi, anche il più disincantato cittadino dell’era dei jet crede ancora nel medico, quando ha la fortuna di incontrarlo (ha imparato però a riconoscere, sempre più acutamente, la differenza tra questo raro esemplare e il semplice «laureato in medicina» che una volta coincidevano, nella sua stima ed opinione). Ma, a documentare la enorme crisi professionale della medicina attuale, diventa oggi addirittura lecita questa domanda paradossale: «Siamo sicuri che almeno i Corvisart credano ai Corvisart?».
Infatti da alcune evidenti situazioni di malessere individuale e collettivo sembra purtroppo di no. Anche (e si può dire soprattutto) i medici più degni di tale qualifica avvertono una dolorosa incertezza sul loro significato e sulla loro utilità per l’uomo, in questo tempo di metamorfosi della medicina.
Uno di questi e J. Hamburger, direttore del Centro nefrologico all’ospedale Necker di Parigi. In un saggio del 1972 (La puissance et la fragilité) analizza con esattezza scientifica, sotto la quale tuttavia traspare l’angoscia ad ogni pagina, la situazione straordinariamente sofferta del medico appunto perché per la prima volta veramente padrone - con le sue scelte - del destino e della vita di chi gli si affida.
Il contrasto tra la «potenza» e la «fragilità» si ripropone oggi quasi ad ogni suo intervento, e diventa lo stress di tutta la vita, alla drammatica ricerca di una certezza che continuamente gli sfugge. Un tempo essere medico era molto più semplice (eppure un’inchiesta U.S.A. del 1950 accertava già per i medici una incidenza di infarti cardiaci del 330% rispetto alla media generale): si poteva fare relativamente poco contro le malattie, ma quel poco non costringeva a pesare le alternative tra due rischi, sempre più spinti quanto più l’intervento può risultare efficace. Chi ha la responsabilità (globale) del paziente è sempre più costretto a delegare la sua scelta ai superspecialisti depositari di un sapere settoriale maggiore del suo; e ciò non contribuisce a lasciarlo tranquillo.
Hamburger riconosce la continua e progressiva distanza tra le conquiste ultime della scienza e la loro nozione nel campo medico generale. E propone una rete di terminali ai quali qualsiasi medico in professione possa attingere, momento per momento, la più aggiornata «conoscenza obiettiva».
Sennonché a questo punto si scontra con l’esigenza giornaliera della scelta singola per l’uomo singolo. Si accorge allora che essa si trasforma, da puro fatto tecnico, in un preciso caso morale da risolvere volta per volta; e ancora che la mitizzata conoscenza obiettiva, le cui certezze nascono dalla misura della realtà in termini probabilistico-statistici, non gli può essere di alcun aiuto esattamente perché – in ordine alle stesse leggi della probabilità – le certezze statistiche risultano completamente inapplicabili alla problematica del caso singolo, riproposto dunque ogni volta alla sua personale scelta, contesta di dubbi e d’angoscia. Hamburger giunge perciò a proporre un accordo tecnico «da parte di ricercatori professionisti» sui criteri da adottare nelle scelte «etiche»; e non si accorge così di cadere in uno schema deterministico, alla lunga più stressante e più antiumano di quella stessa angoscia che vorrebbe annullare o ridurre.
Egli, inoltre, trascura la probabilità zero che quell’accordo fra tecnici da lui auspicato possa mai verificarsi. Difatti il profeta moderno più noto della «conoscenza vera od obiettiva» espressa in termini apparentemente rigorosi di caso, necessità e selezione, è il suo compatriota J. Monod, premio Nobel 1965 per la medicina e fisiologia, attribuitogli per le ricerche sull’informazione genetica e sulla biologia molecolare. Ma il suo vangelo (Il caso e la necessità) riesce ad estrarre dalla esperienza di ricerca, riproposta con drammatico stile e affascinante linguaggio, non altro che una risposta già nota e screditata al quesito fondamentale del «perché viviamo». Per dichiarazione medesima di Monod ad Hamburger (v. Cambiare il destino: colloquio tra J. Hamburger e J. Monod in «Panorama», n. 366, 1973) la sua tesi conclusiva si riallaccia al positivismo scientifico di Comte e alla teoria sintetica di Haldane, Huxley (J.), e Simpson, entrambe già largamente superate.
Lungi da noi l’idea di entrare qui nel merito della tesi di Monod; ci importa tuttavia ricordare che un biologo almeno altrettanto grande, quel F. Jacob che, guarda il caso, ha ottenuto anch’egli il premio Nobel per la medicina e fisiologia, per lo stesso anno 1965, e per ricerche nel medesimo campo della biologia molecolare e genetica come Monod (e perciò a lui abbinato) afferma e dimostra, nel suo volume La logica del vivente esattamente il contrario di quest’ultimo. Di fronte ai medesimi fatti sperimentali, avvicinati forse con un maggiore rispetto che gli rivela le lacune sempre più intime della loro «conoscenza scientifica», F. Jacob si trova costretto, con pieno rigore epistemologico, ad avanzare una lunga serie di interrogativi «tecnici» esattamente là dove J. Monod precede con certezza dogmatica nel «panbiologismo molecolare» e nelle sue conseguenze meccanicistiche, persino per l’uomo. Mentre Monod si rivela dunque «riduzionista» (cioè intende l’organismo come un tutto che può essere spiegato in base alle sole proprietà delle sue parti componenti), Jacob si dichiara apertamente «integrista» (cioè si rifiuta di pensare che tutte le proprietà di un essere vivente, il suo comportamento, le sue attività, possano essere spiegate sulla base delle sole strutture molecolari. Il tutto, insomma, non è semplicemente la somma delle parti).
Questo atteggiamento più aperto gli ha fatto dire in una intervista del 1972: «Non è un caso che tutte le grandi scoperte contrastassero con la verità del momento in cui nacquero: qualcosa che non collimava con la “spiegazione del mondo” in quel momento accettata… La verità ha una durata effimera, e già in questo sta la punizione del conoscere. Il sapere non è fatto per consolare: disinganna, inquieta, ferisce».
È la risposta più certa – e più deludente – alla ricerca appassionata ma ingenua di Hamburger. Dunque il medico di oggi, nell’esercizio cosciente della sua professione, resta solo, non essendogli possibile sperare in alcuna comoda delega di responsabilità, neppure verso l’«onnipotente» scienza dell’ultimo minuto. Questo è appunto il sigillo infrangibile della sua terribile crisi nel mondo moderno, «esplosione atomica» di un esame di coscienza iniziato 80 anni fa e tuttora ben lungi dall’essere concluso.
Capitolo VI – La rivoluzione tecnologica: l’uomo scompare
Nel capitolo precedente è apparsa per un attimo alla ribalta (per invito di J. Hamburger) la gigantesca protagonista extraumana della medicina moderna, cioè la tecnologia.
Ogni mestiere, professione o arte, per non parlare delle scienze (e la medicina è stata ed è tutte queste cose insieme…) si è valso nei secoli di uno strumentario tecnico via via più perfezionato, come espansione artificiale dei suoi strumenti naturali (occhio, orecchio, mani…). A un certo momento storico, circa un secolo fa, la tecnica delle macchine ha sviluppato prodotti così raffinati da riuscire a sostituire quasi tutto l’uomo (come animale da fatica o da traino, come schiavo e come artigiano) dimostrandosi più efficienti e meno costosi di lui. Che questa rivoluzione delle macchine sia all’origine insieme dello smodato progresso e della decadenza umanistica e morale delle società occidentali è cosa ormai ovvia. Meno ovvia è la considerazione che essa ha falsato con la troppa facilità i valori meno deperibili dell’intelletto umano. Così i pittori e gli scultori, finché avevano nei loro corredo tecnico, dalla preistoria in poi solo i pennelli e gli stili, il mazzuolo e lo scalpello hanno prodotto faticosamente opere da museo capaci di parlare al cuore di tutti; oggi che si valgono di martelli pneumatici e di presse, e di materie plastiche che consentono ogni ardimento e avventura, quasi tutta la loro produzione – anche se lucrativa come non mai – appare incapace di sollecitare qualsiasi colloquio sentimentale.
La tecnica in medicina. – Quale partecipante alla realizzazione dell’uomo, neppure la medicina poteva sfuggire al medesimo destino. Ma diversamente dal mezzo di trasporto e dall’arte informale – dei quali si può anche fare a meno, restando ugualmente vivi – la sua degenerazione tecnologica rivela in sé i germi già rigogliosi di una tragedia globale, destinata a coinvolgere non solo la sua espressione formale (la professione), non solo quella sostanziale (l’amore verso gli uomini), ma addirittura la sua efficienza e utilità, e alla fine persino il suo oggetto (cioè l’uomo stesso, tanto come medico, quanto come paziente).
Dall’inizio dei tempi fino ad un molto prossimo ieri, il medico di fronte al malato doveva raccogliere gli elementi del giudizio solo attraverso i mezzi sensoriali naturali: il suo «occhio clinico», il tatto delle mani sulla pelle e contro i visceri, l’odorato (nelle gangrene e nel colera, nella peste), l’orecchio nudo sul torace, persino il gusto (se assaggiava, come usava nel ’700, l’urina del suo paziente, alla ricerca del diabete mellito, cioè dolce!) ma null’altro di più. II tecnicismo medico era quasi inesistente: per la diagnosi (extraradiologica) della pleurite essudativa si usava la succussio hippocratica (lo scuotimento del paziente, inventato da Ippocrate); ma non la percussione digitale, che oggi didatticamente la precede, perché essa fu introdotta in clinica solo nel 1786 da Jean N. Corvisart des Marets, il già ricordato medico di Napoleone, che l’aveva vista usare dai bottai delle sue tenute, per riconoscere il livello del vino attraverso la parete opaca dei tini.
Esisteva già naturalmente (come di tutte le scoperte occidentali, dalla polvere da sparo agli spaghetti ai razzi) un precedente tecnico in Cina; a parte la acupuntura vecchia di cinquemila anni, Ch’in Yuch-jen aveva descritto, nei V sec. a.C., le «74 varietà diagnostiche del polso», rielaborate in forma perfetta verso il 280 d.C. da Wang Shu-ho nei dieci volumi del Mo-ching (Canone del polso). Ma si trattava, secondo la comune opinione, di una fra le tante panzane antiscientifiche affastellate dal veneziano Marco Polo nel suo Milione (ca. 1300 d.C.), quindi indegne di essere ricordate.
Persino il più semplice rilievo quantitativo, tanto naturale oggi che il paziente motiva su di esso la richiesta di visita («Dottore, il mio bambino ha 39° di febbre…») e addirittura neonato, rispetto alla età incommensurabile della cura dei malati: infatti la misura clinica della febbre, per mezzo del termoscopio di Galileo, fu introdotta da Santorio Santorio, professore a Padova, nel 1615. E lo stetoscopio da auscultazione da R. Th. Laennec nei 1815; le prime somministrazioni non orali dei medicamenti da Ch. G. Pravaz nel 1830, con l’invenzione dell’ago cavo e della siringa; la misurazione della pressione arteriosa dal varesino S. Riva-Rocci, 1895; e nello stesso anno, con la scoperta dei raggi X da parte di W. Roentgen, il medico acquisiva la magica potenza di vedere dentro nell’uomo, senza ferirlo.
Dai primi del ’900, seguendo il solito schema del sinusoide smorzato, le scoperte si fanno sempre più frequenti ma insieme sempre più specialistiche: nel 1903 l’elettrocardiogramma (E.C.G.) con C. Matteucci e W. Einthoven; nel 1929 l’elettroencefalogramma (E.E.G.) con H. Berger; negli anni ‘30 la radio stratigrafia, negli anni ‘50 la roentgencinematografia e via, orma all’infinito. Molti degli apparati strumentali relativi a questa ondata di tecnicismo, scintillanti di cromature e affollati di quadranti dei cruscotti di un Jumbo, ingombrano gli studi dei neolaureati, arredati a spese e cura della famiglia, a partire dall’ormai onnipresente apparecchio radiologico. Ma purtroppo il più delle volte la loro funzione è prevalentemente di Status symbol» piuttosto che di utile sussidio diagnostico.
A parte l’enorme spesa d’impianto e di esercizio che la medicina strumentale comporta, interessa qui rilevare due gravissimi pericoli ad essa strettamente correlati. Il primo riguarda il mito della infallibilità dei mezzi tecnici e dei loro referti, tanto più radicato quanto meno ciascun medico ne ha diretta conoscenza(e con ciò l’esatta nozione delle possibilità statiche di errore) da esso consegue l’abdicazione frequente del medico ai suoi mezzi umani, considerati a torto insufficienti e tecnicamente obsoleti di fronte a quelli extraumani.
Il secondo pericolo si identifica con l’essenza stessa dell’esplosione tecnologica. Dopo la produzione di apparecchi meccanici sempre più perfezionati, l’elettricità li ha resi ancora più efficienti, e infine l’ingegneria elettronica li ha mitizzati. Non tanto per averli miniaturizzati comprimendo in volumi minimi delle capacità favolose, ma piuttosto per l’atmosfera messianica che ha circondato l’utilizzazione sociale e scientifica degli ordinatori o computer. (Per esempio all’inizio, e in gran parte anche oggi, non è possibile acquistarli ma solo affittarli il che li parifica, giuridicamente, ad uomini liberi invece che a schiavi meccanici!).
Il riconoscimento tecnico delle capacità straordinarie dei computer, tanto superiori per volume mnemonico e per supposta velocità elaborativa a quelle del cervello umano, si è trascinato appresso, disgraziatamente, anche l’equivoco di una loro inesistente superiorità a livello di scelta critica, che invece è a loro totalmente negata. Per questo è stata definita ingenua la proposta di J. Hamburger, circa il ricorso ai mezzi tecnologici come a un «deus ex machina» in grado di risolvere i terribili problemi informativi, ma soprattutto etici, che assillano l’esercizio moderno della medicina. è assolutamente irrazionale credere che il libero accesso ai terminali possa riprodurre, per lo stregone moderno quel legame esclusivo con la divinità nel quale risiedeva la radice della dignità e della potenza del suo arcaico collega tribale.
L’ente superiore di quest’ultimo (almeno nell’opinione sua e dei malati, quindi come «fede guaritrice») era onnipotente; il computer supremo del mondo, anche se avesse nei suoi tamburi di memoria tutta la scienza in continua espansione, non sarebbe neppure onnisciente. Per questo l’attuale esplosione tecnologica, a chi la esamini senza pregiudizi, riecheggia, magari per un impulso del subconscio, un sottofondo musicale denso di aspettazione fremente, avviato a un crescendo sabbatico e a una tempesta orgiastica incontrollata. Lo stesso cioè dell’apprenti sorcier del poema sinfonico di Dukas, che scatena le potenze infernali ma non riesce più, in assenza del suo «primario mago», a tenerle sotto controllo, finendone a sua volta – controllato e travolto.
L’esplosione della tecnologia.- Tuttavia, per quanta forse irriverente, è difficile sottrarsi al medesimo accostamento anche analizzando razionalmente il fenomeno. In questi tempi di medicina per tutti la tecnologia sanitaria e la bioingegneria sembrano promettere la soluzione di ogni problema di programmazione e di gestione; per questo raccolgono adesioni sempre più vaste, come documenta la nascita, quasi a ritmo di fissione nucleare, di sodalizi ad esse dedicate: in U.S.A. per esempio il Committee on Interplay of Engineering with Biology and Medicine (della N. Acad. Eng.) nei 1967, la Biomedical Engineering Society nei 1968, la Medical Electronics Section (della E. Industries Assoc.) nel 1969, la Society for Advanced Medical Systems nel 1969 e così via in tutto il mondo, da allora.
Tuttavia di fronte a una valanga così improvvisa di studi, progettazioni, applicazioni pratiche della tecnica elettrica ed elettronica in tema di salute, di perfetti studi teoretici e applicativi di sistemistica volti a ogni fine sanitario, desta una certa perplessità la grave carenza di ricerche relative al significato e alle interazioni del fenomeno, massiccio e deflagrante, con la nostra attuale realtà psicosociale. Dopo il grandissimo Wiener, ben pochi se ne interessano. Ed è colpa pesante perché quando i mutamenti sociali, da ordinati e progressivi, si fanno – come ora – improvvisi, urgenti e rivoluzionari, nasce su di essi (J. Whittico jr.) «l’eta del discontinuo e dell’incongruo».
Che la tecnologia aiuti gli uomini, nessuno l’ha messo mai in dubbio. A differenziarci radicalmente dagli animali bastano la ruota e il fuoco, con le loro infinite conseguenze. Tra le quali, a tempo debito, è giunta la mongolfiera cantata dal Monti, e il traforo del Fréjus immortalato nel «Ballo Excelsior» quando ancora la scienza e la vita camminavano sottobraccio, mutualmente spianandosi le difficoltà dell’esistenza. Ma nessun poeta ha cantato la nascita ben più importante dell’UNIVAC né dei calcolatori della seconda generazione. Non per disinteresse, forse, ma come riflesso dell’indigestione tecnica. In virtù d’essa le promesse della tecnologia ci hanno quasi reso impossibile il vivere, appunto perché mantenute. In una sua relazione (Los Angeles 1965) l’allora presidente della American Medical Association, J.Z. Appel, ricordava che «oltre il 90% degli scienziati di tutta la storia umana sul pianeta Terra sono vivi e lavorano oggi. E le conoscenze mediche sono cresciute più negli ultimi 30 anni che in tutto il resto della storia umana». Ma il futuro ci riserva di peggio: «l’ampiezza di queste conoscenze, in crescendo esponenziale, ha già superato in volume tutta la materia medica insegnata e studiata dieci anni fa». Ciò equivale a dire che nessuna istruzione medica può mai aspirare ad essere completa. Ne consegue che la stessa istruzione, ormai indominabile non soltanto dal proverbiale uomo solo ma neppure da una singola specializzazione (che infatti si scindono a ritmo accelerato), riesce a conferire al neolaureato un intossicante miscuglio di orgoglio e spesso di superbia pubblica, ma insieme di insicurezza privata laddove la piccola scienza antica, conscia dei suoi invalicabili limiti, conferiva ai medici la giusta miscela di umiltà e di sicurezza (entro quei limiti) che li rendeva preziosi e benefici.
Tecnologia «bianca». – Naturalmente, come per la magia la Kabbala insegna che esiste la bianca (benefica per l’uomo) oltre alla nera (malefica), anche la tecnologia rivela una estrema potenza di bene, innegabile e affascinante. Per riferirci solo alle sue implicazioni sanitarie, la tecnologia bianca ha reso possibile il godimento di massa di un prezioso e dimenticato aforisma di Ippocrate: «La salute dipende dal tempo, ma spesso anche dalla opportunità». L’opportunità originaria, per esempio, è quella dell’incontro spazio-temporale tra il malato e il medico, una volta reso estremamente difficile dalla mancanza di mezzi di comunicazione. L’automazione, preziosa per i costi nell’industria, può essere applicata con vantaggio anche in medicina allo svolgimento di lavori ripetitivi di grande massa, dove la pazienza umana si esaurisce a scapito dell’attendibilità (analisi biochimiche e di laboratorio; registrazione e aggiornamento di cartelle cliniche; e tutto il fardello burocratico che ruba al pensiero medico larghissime somme dello scarso tempo disponibile).
A livello della precipua specializzazione dei calcolatori (cioè non tanto la semplice raccolta mnemonica ma la elaborazione significativa di dati biomedici di massa), la loro introduzione ha prodotto un risultato prezioso mai raggiunto in millenni di arte medica: ha cioè richiesto ai medici di quantizzare e definire i fenomeni normali e patologici, per renderli idonei al confronto statistico; un esame di coscienza scientifico, euristicamente benvenuto. Ancora più essenziale e l’apporto della teoria dei sistemi all’inquadramento matematico della logica medica, con la pressante compulsione (sia in diagnostica sia in terapia) a tenere conto solo dei concetti e dati fondamentali, eliminando spietatamente quelli superflui.
Importantissima la possibilità, data dalla combinazione automazione-calcolatori, della creazione e applicazione di sistemi di «pattern-recognition» (riconoscimento formale), in ordine ai quali è possibile eseguire l’analisi istantanea di significatività delle onde ECG ed EEG, e dei cromosomi cellulari, con precisione maggiore di quella del controllo umano. Infinitamente prezioso – per l’enorme risparmio di tempo, ricordando che il calcolatore opera in tempo reale cioè dà la risposta nel tempo stesso in cui gli si pone la domanda – il lavoro dei computer nella archiviazione dei dati relativi alla letteratura medica, ormai impossibile per chiunque, per la solita crescita esponenziale (sistema MEDLARS [= Medical Literature Analysis Retrieval System] e altri). è sufficiente imparare il linguaggio dei calcolatori, uno qualsiasi dei molti già disponibili (FIDACSYS, BUGSYS), per chiedere al computer centralizzato, da un qualsiasi terminale o per telefono, come a un enciclopedico direttore di cattedra sempre disponibile, la soluzione di qualsiasi dubbio tecnico. Oltretutto il calcolatore, se collegato telefonicamente a una biblioteca medica (come è già stato attuato alla Harvard Medical School) si aggiorna continuamente da solo. Ma, la risposta, esatta, verrebbe in termini di probabilità statistica, perciò tanta più vera quanta più la statistica è ampia, perciò tanto meno applicabile all’angosciante caso singolo, e del tutto inutile per l’etica della scelta, come abbiamo già visto.
Altri tre grandi benefici della tecnologia elettronica sono: a) il monitoraggio continuo o periodico, ospedaliero o ambulatorio (nel senso proprio, cioè col paziente che cammina, portandosi sotto l’ascella una scatoletta miniaturizzata che registra tutto di lui, e lo trasmette a un centro di controllo); b) l’uso dei calcolatori come macchine insegnanti a disposizione dell’enorme numero e dell’insufficienza didattica degli studenti in medicina. Non è fantascienza. L’uso dei calcolatori per il «gioco dei dirigenti» è già una realtà, adottata da alcune grandi società americane. Infine, c) la possibilità, considerata la raccolta automatizzata dei reperti e la loro elaborazione in tempo reale della realizzazione degli AMHT (Centri multifasici di controllo della salute), sull’esempio del primo, il celebre Kaiser Permanente of North California.
Tecnologia «nera». – C’è però l’altra faccia della medaglia, quella nera, che paradossalmente dipende dall’ipertrofia, insostenibile biologicamente, delle promesse tecniche mantenute.
Cominciamo dalla famosa «opportunità» di Ippocrate. L’auto ha finalmente avvicinato, nel momento del bisogno, il paziente e il medico. Ma ora per il traffico caotico delle città torna ad allontanarli, questa volta senza alcuna speranza di soluzione. è così che (J. Truxal, 1969) per far giungere un traumatizzata in ospedale occorrevano solo 22′ nel Vietnam (zona di guerra) e 45′ a New York. E per la stessa ragione E. H. Bishop, ginecologo americano, ha dedicato serie ricerche alla previsione del travaglio di parto (misurazioni pelviche), avendo riscontrato che, in determinate ore del giorno, il trasporto in ambulanza dal domicilio al più vicino ospedale ha elevate probabilità di finire con un parto in ambulanza, nel mezzo di una coda ad un semaforo. Più traumatizzante e pericoloso dunque di quello tradizionale e sottosviluppato di una donna Bantu appesa ad un albero, e aiutata dalle comari più esperte del villaggio. L’automazione è teoricamente la panacea di ogni problema nell’industria lo dimostra ogni giorno, adeguandosi perfettamente alla natura dei servizi ivi richiesti (ripetitivi, con interventi decisionali semplici) e ai problemi di sviluppo. Sennonché «nella cura della salute (C. D. Flagle, 1969) non esistono alternative più semplici delle procedure tradizionali»; ciò conduce, fatalmente, all’esigenza teorica e pratica (R. Rushmer, bioingegnere dell’Università di Washington, 1969) di una continua iperspecializzazione orizzontale e verticale, circoscritta a categorie sempre più ristrette perché possano risultare omogenee e quindi automatizzabili. è chiaro che l’estrapolazione terminale del concetto condurrebbe al reparto iper-specialistico per il paziente singolo.
Collegata a questa impostazione è la richiesta sovrabbondante di medici, sempre più numerosi ma sempre più insufficienti. Sono già superate le cifre previste da Appel a Los Angeles, quando giudicava che, col tasso di richiesta presente «i medici in USA avrebbero dovuto essere, nel 2000, circa 550.000».
In realtà nel 1969 erano già diventati (E. Egeberg sottosegretario del HEW) 324.000, ma sempre più scarsi cosicché non ha più nemmeno sapore di paradosso l’affermazione di R. Fein (The Doctor Shortage: an economic analysis, Wash. 1967) secondo il quale, continuando così l’incremento di popolazione e la espansione della domanda, «fra 50 anni sarebbe necessaria metà della popolazione, per curare l’altra meta». Quanta alla codificazione esatta dei dati, purtroppo in medicina non tutto è quantizzabile (per esempio gli stati d’animo) e il confine tra dati fondamentali e superflui è quanto mai aleatorio. è esattamente qui – infatti – che si applica l’affermazione di A. Chapomis (1965) relativa alla «documentata superiorità dell’uomo sul calcolatore, a livello della percezione e della sintesi complessa».
Ma esiste un pericolo ancor più serio, e soprattutto progressivo: la delega continuamente dilatata di responsabilità alla tecnologia disabitua i medici all’esercizio non assistito della loro arte. E non si parla della iperspecializzazione e della responsabilità suddivisa, ma del fatto che già oggi ben pochi medici si fidano a fare diagnosi senza radiografie, e perciò molti tisiologi non sanno più auscultare il torace, molti urologi e ortopedici trascurano di palpare il paziente; e domani sarà così per tutti, senza eccezione.
D’accordo che la medicina è così affascinante da attrarre persino i computer: il calcolatore dell’università del Missouri, programmato per scegliersi un lavoro, si è proposto per l’insegnamento medico, la ricerca, la diagnosi e la terapia (Appel, 1965)! Ma la delega totale della pratica e dell’aggiornamento condurrebbe senz’altro all’atrofia e alla rigida dipendenza fattuale e psicologica dal dio-calcolatore.
Se venisse la guerra atomica, come ci troveremmo, con i calcolatori distrutti? Anche questa non è fantascienza: quando alle 17,15 del 9 novembre 1965 la rete di energia (controllata dai calcolatori) saltò, e mise al buio 30.000.000 di americani in nove stati e tre province canadesi per dieci ore, anche i calcolatori si spensero. L’equilibrio mentale della comunità restò affidato a un fattore imprevedibile, cioè alle universali radioline a transistor che mantennero i contatti interpersonali e impedirono il panico e la catastrofe. Ma se già allora gli interventi medici li avessero eseguiti i computer, invece che medici, uomini al lume di candela, come sarebbe finita? Si potrà obiettare l’eccezionalità dell’evento; e allora restiamo pure sul concreto terreno di ogni giorno.
In quest’ultimo quarto di secolo le realizzazioni della medicina tecnologica hanno espanso esponenzialmente la domanda, senza prima espandere la capacità del sistema. E le spese sanitarie crescono ovunque al mondo fino ad essere insostenibili. Ma di questi due argomenti, e dei loro pesanti riflessi psicosociali e socioeconomici, discuteremo in un prossimo capitolo. Qui vogliamo per ora accantonarli, limitandoci ad illuminare il paradosso sempre più grave e contestabile del «discontinuo e incongruo» che la tecnologia offre all’umanità, per la sua stessa benefica natura.
Quella meraviglia tecnica che è un AMHT (il centro multifasico di salute), smista in un anno un massimo di 30.000 pazienti, al ritmo vertiginoso di uno ogni quattro minuti di tempo operativo. Ne esistono negli USA circa 140, ma per coprire uniformemente tutta la popolazione attuale ne occorrerebbero (J. Truxal) circa 4.000. Ora anche ammesso di spremere dalle tasche dei contribuenti gli altri 12 miliardi di dollari necessari non si tratta solo di una questione di finanziamento.
Le nuove macchine tecnologiche possono essere anche fornite, ma esiste chi «le faccia andare»? II prof. P. Stefanini, al Convegno ANIPLA di Milano (gennaio 1971) su «L’automazione nella assistenza sanitaria» ha lamentato la gravissima scarsità di personale tecnico in grado di operare con i microscopi elettronici, la macchina cuore-polmoni, i nefro-dializzatori. Anche ammettendo che questo paralizzante problema di uomini possa essere risolto (forse con i supercomputer?) i più recenti sviluppi dimostrano che il progresso tecnologico sta divorando se stesso. Infatti anche i plus ultra AMHT, nei quali i programmatori politici ripongono le più rosee speranze di una difesa sanitaria di massa, risultano già concettualmente e praticamente superati! Essi forniscono in tempo reale, analizzando automaticamente il sangue prelevato dal paziente, una impressionante lista di misure quantitative delle costanti biologiche: dal numero degli eritrociti per millimetro cubico al tasso di emoglobina; dalle concentrazioni dei sali (di magnesio, calcio, fosforo, ferro, potassio, sodio) a quelle del colesterolo, dei lipidi, della bilirubina, persino il tenore dei principali enzimi normali e patologici (dalle transaminasi [GOT e GPT] alle LDH, HBDH, GLDH, CPK, G – 6 – PDH ecc., ecc.).
Sennonché, a parte i dubbi sempre più documentati sulla attendibilità singola dei reperti, sta crescendo nei loro confronti (e nei confronti addirittura di tutta l’enorme massa di esami di laboratorio finora immessi nei calcolatori centralizzati) una demolitiva critica di fondo sulla utilità diagnostica dei dati istantanei. Il più recente Simposio sulla Strutturazione del laboratorio moderno (Mannheim, Germania, 16 gennaio 1974) ha concluso unanimemente «che gli esami effettuati su campioni isolati (che costituiscono oltre il 99% delle analisi chimico-cliniche attuali) non riescono a mettere in evidenza la “regolazione biologica”. Quest’ultima, cioè la variazione nel tempo dei valori (che esprime in numeri non altro che l’incessante pulsare della vita), può essere rilevata solo attraverso il monitoraggio continuo (come si fa già, oggi, nelle cosiddette unita coronariche, per i seguenti parametri biologici: ECG, battito cardiaco e aritmie, pressioni arteriosa e venosa, ventilazione polmonare, gittata cardiaca, temperatura, EEG). è certo tecnicamente possibile ricorrere all’impiego di autoanalizzatori da 6 a 12 canali per ottenere misurazioni continue in vivo; i costi divengono però proibitivi e le difficoltà assai maggiori. Ciò nondimeno, nel prossimo futuro, l’analisi dei singoli valori biologici verrà relegata a un ruolo piuttosto secondario e cederà il passo a taluni monitoraggi importanti».
Quello che il Simposio non ha detto, ed è il risvolto tragico del nuovo fatale «progresso», è che l’impiego dei 6-12 canali per un giorno soltanto per ogni caso ridurrebbe la capacità di un AMHT a un centoventesimo di quella attuale. Perciò, per soddisfare le esigenze dell’intera popolazione U.S.A., ne occorrerebbero non più 4.000 ma centoventi volte di più, cioè 480.000, instaurando con questa sola ipotesi un clima di paranoia organizzativa o, più semplicemente, l’annullamento di ogni ambizioso programma di massa. A meno che gli AMHT selezionino fra tutti i cittadini i rari eletti ai taluni monitoraggi importanti. Ma come e chi sceglierà? Tra i negri o tra i WASP1 tra i nordisti o tra i sudisti, tra i grassi o tra i magri, o magari con una lotteria nazionale? E gli esclusi, tuttavia paganti come chiunque altro il servizio, come reagiranno?
Qui basta solo segnalare che, per sua stessa ammissione, dalla medicina tecnologica è finalmente scomparso (oltre al medico) anche l’uomo che essa cerca di analizzare. Non è infatti possibile dare altra interpretazione al rifiuto della validità dei reperti isolati; la stessa sorte, in breve tempo, subiranno anche i previsti fasci temporali delle costanti biologiche per quanto estesi. Ciò significa la cruda ammissione, per la medicina tecnologica, della incapacità a circoscrivere l’uomo (o a riprodurlo nella sua integrità) in formule analitiche per quanto complicate e costose.
Riemerge qui, ancora, il dilemma non risolto tra l’orgoglioso e falso riduzionismo di Monod e l’integrismo di Jacob, matrice dell’angoscia globale di Hamburger. E tuttavia la stessa ammissione di sconfitta, che in chiave negativa appare ai superficiali come un difetto scientifico, può essere invece, in chiave positiva, l’inizio tecnico della riscossa dell’uomo, visto che egli si rivela sorprendentemente superiore, nella sua sintesi reale, ai mitizzati robot elettronici che l’illusione tecnocratica ci propone da adorare come dei.
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