DIO E’ UN BACIO – Eucaristia per il mio professore Giuseppe Barbaglio

Posted on Maggio 21st, 2009 di Angelo

 

Eucarestia

 

per

 

Giuseppe Barbaglio

 

Biblista

Arsiero 5 Maggio 2007

 

Uomo d’amore e di libertà

 

Parole del celebrante che introduce questo pensiero di Giuseppe sulla morte

Anzitutto si deve notare che per l’AT, ignorando a lungo qualsiasi apertura ultraterrena, questa vita terrena vale come massimo bene… e anche nel NT si afferma che Dio non ha nulla a che vedere con la morte; il suo habitat è la vita e i viventi…

 

Possiamo distinguere una fase storica antica, in cui la morte fisica, destino ineluttabile per tutti, è accettata senza problema e con rassegnazione. Ma Dio, fedele, non permetterà che i fedeli siano preda per sempre della morte…

 

I vangeli narrano l’evento della morte tragica e violenta di Gesù… ma è vista con gli occhi della fede come gesto decisivo di salvezza per l’umanità…

 

Canto d’inizio (in ricordo di Assisi)

 

Rti: Mio Signor che mattino (3v) Quando il mondo ti vedrà.

Ho vissuto nel dolor

Ho pianto tanto e lui lo sa

Ma viene il giorno del Signor

So che tutto cambierà. Rit.

La mia vita ha un perché

tutta la storia è così

umanità che cerca e va

al Giordano giungerà. Rit.

Camminiamo verso il cielo

Una speranza dentro al cuor

Risorgeremo tutti un dì

E vivremo in te Signor. Rit.

 

Didascalia di Raniero La Valle

 

La prima lettura è tratta dal Cantico dei cantici. Ci sono molte ragioni per fare questa lettura. La prima è che la Cantica era molto amata da padre Benedetto, che ha avuto tanta parte nella vita di Giuseppe e di Carla; Padre Benedetto vedeva in questa pagina un inno all’amore umano e all’amore divino, strettamente intrecciati, e molte sue omelie pasquali cominciavano con i primi versetti della Cantica: “Mi baci con i baci della tua bocca…”.

 

(“Padre Benedetto diceva”, ha ricordato Raniero la Valle, “che Dio è un bacio”)

 

La seconda ragione è che Giuseppe Barbaglio ha tradotto e scritto un piccolo prezioso libro sul Cantico, e ha fatto molte conferenze e lezioni su di esso, valorizzando sempre questo duplice amore.

 

Una volta, dopo una sua conferenza, gli si avvicinò una donna un po’ anziana, e anche un po’ rammaricata, e gli disse: “Ma perché non ce lo avete detto prima…”.

 

La terza ragione è che Giuseppe citò dei versetti del Cantico nel momento di una lontananza da Carla, mentre si trovava per un viaggio in Bangladesh, e così le scriveva in una lettera del 13 gennaio 1977:

 

Carla, sto per partire dal Bangladesh per il viaggio di ritorno da te…. Ho riletto il Cantico dei cantici e ho trovato più vero di altre volte il grido rivolto alle guardie della città:’Avete visto colei che il mio cuore ama?’ (Cant. 3, 3).

 

Qui l’inverno è passato e le colombe tubano nella campagna (Cant. 2, 11-12); ma non potevo pronunciare l’invito ’Vieni amica mia ,vieni:andremo nelle vigne e tra i fiori; l’inverno è passato… Cant: 2, 10-13).”

 

Perciò ora leggiamo del Cantico dei Cantici i primi versetti dell’introduzione e quelli dell’epilogo.

 

Traduzione dei testi fatta da Giuseppe

 

Lettura del Cantico dei Cantici

 

Di baci baciami della tua bocca

L’amor tuo è più sapido del vino.

Deliziosi in profumo

I tuoi unguenti. Il tuo

Nome unguento fragrante.

Sì, le ragazze ti amano.

Afferrami, corriamo. Il re

M’ha tratta alle sue stanze.

 

Grazie a te allegrezza

E felicità noi godremo; ricorderemo l’amor tuo

Più che il vino. Ogni bontà ti ama (Cant., 1, 2-4)

Stringimi a sigillo sul cuore,

a sigillo sul braccio tuo: l’amore,

sì, è forte come la morte,

l’ardore è come gl’inferi spietato.

Le vampe sue vampe di fuoco,

incendio incontenibile.

Diluvi e diluvi mai possono

Estinguere l’amore,

né spazzarlo fiumane.

 

Chi tutto l’aver suo offrisse,

a baratto dell’amore,

infamia ne avrebbe soltanto (Cant. 8, 6-7).

Salmo responsoriale

O terra tutta,acclama Iahvè

Servite Iahvè con letizia,

a lui venite con canti di gioia.

 

O terra tutta,acclama Iahvè

Riconoscete che Iavhè è dio,

lui ci ha creati e suoi noi siamo,

popolo suo e gregge del suo pascolo.

 

O terra tutta,acclama Iahvè

Varcate le sue porte

con inni di grazie

gli atri suoi con canti di lode,

cantate a lui,

benedite il suo nome.

O terra tutta,acclama Iahvè

Si, buono è Iavhè,

senza fine è la sua misericordia

e la sua fedeltà per tutti i secoli.

 

O terra tutta,acclama Iahvè

 

La Bibbia parla spesso dell’amore come esperienza di unione tra gli uomini, e lo fa in termini positivi…

 

È l’amore che costruisce rapporti umani maturi all’interno della comunità…

 

Dalla prima lettera di Paolo ai Corinzi

 

Vi voglio mostrare il cammino di perfezione:

Se parlo le lingue degli uomini e anche degli angeli ma non ho amore,

sono bronzo echeggiante o cembalo risonante.

Se sono profeta e conosco tutti i misteri

e tutta la conoscenza

e se ho tale fede da trasportare le montagne

ma non ho amore,

sono un nulla.

Se impegno tutti i miei averi per nutrire i bisognosi,

e se consegno il mio corpo al rogo,

ma non ho amore,

a nulla mi giova.

 

L’amore ha un cuore grande,

clemente è l’amore,

non si nutre d’invidia,

l’amore non è borioso,

non si gonfia d’orgoglio,

non agisce a vergogna,

non ricerca il proprio interesse,

non si lascia trasportare all’ira,

non tiene conto del male,

non gode dell’ingiustizia,

ma si compiace della rettitudine.

 

Tutto sostiene,

di tutto ha fiducia,

tutto spera,

tutto sopporta.

Nella Bibbia non si parla tanto di amicizia, quanto di amici…

Non manca nella Bibbia l’attribuzione a Dio di questo valore tipicamente umano…

 

Ma la vera sorpresa è l’amicizia di Gesù per i disprezzati della società del suo tempo-…

 

Dai vangeli secondo Matteo e secondo Luca

 

Gesù salì sul monte e prese a parlare:

  • Mi congratulo con voi poveri:

per voi sarà il potere liberante di Dio.

  • Mi congratulo con voi afflitti:

Dio vi consolerà.

  • Mi congratulo con voi non violenti:

Dio vi darà la terra promessa.

  • Mi congratulo con voi misericordiosi:

Dio avrà misericordia di voi.

  • Mi congratulo con voi dal cuore puro:

vedrete il volto di Dio.

  • Mi congratulo con voi facitori di pace:

Dio vi dichiarerà suoi figli.

 

 

Canto finale

 

Grazie alla vita, che m’ha dato tanto:

m’ha dato due stelle che, quando le apro,

io vedo e distinguo il nero dal bianco

e nell’alto cielo il fondo stellato

e in mezzo alla folla l’uomo che io amo.

 

Grazie alla vita, che m’ha dato tanto:

m’ha dato il suono e l’abecedario,

come le parole che penso e proclamo:

figlio, madre, amico e cammino chiaro,

e la dolce voce di colui che amo.

 

Grazie alla vita, che m’ha dato tanto:

m’ha dato la marcia dei miei piedi stanchi;

con esse ho varcato pozzanghere e spiagge,

città e deserti, montagne e pianure

e la strada tua, la casa, il cortile.

 

Grazie alla vita, che m’ha dato tanto:

m’ha dato il cuore che vuole fuggire

quando guardo il frutto della mente umana

quando guardo il bene lontano dal male,

quando vedo dentro il tuo sguardo chiaro.

 

Grazie alla vita, che m’ha dato tanto:

m’ha dato il riso e m’ha dato il pianto;

così io distinguo la pena e la gioia,

i due elementi che fanno il mio canto,

e il canto di tutti, il mio stesso canto.

 

Eucarestia con Giuseppe Barbaglio

Roma 21 marzo 2009

 

La Parola del Signore cresce con chi la legge, la medita, la rumina.

Lo hanno sperimentato e vissuto Gesù, Paolo, i Padri della Chiesa, tutti i cristiani, quanti lo hanno

fatto nei secoli passati, i biblisti di ieri e di oggi.

Voglio ricordarne almeno due:

  • il cardinale Martini che ha saputo farlo con grande competenza,interpretando, commentando, attualizzando

  • e Barbaglio per la carica umana con cui ha portatoavanti in maniera rigorosa la sua ricerca e i suoi studi, sostenuto dalla moglie Carla, dai familiari, datanti amici, in particolare gli amici dehoniani.

La I lettera è l’inno all’amore/agape di Paolo che scrive ai Corinzi.

L’amore è l’essenza della vita trinitaria di Dio; è la dimensione fondamentale della vita degli uomini e delle donne e delle relazioni umane.

Giuseppe Barbaglio parla di assolutezza del tema dell’amore e sottolinea che,essendo personificato, non ammette restrizioni: s’incarna in tutti i soggetti capaci d’amare.

Il salmo 85 con il ritornello “Fedeltà/Misericordia e Verità si abbracceranno Giustizia e Pace ai baceranno”:

  • è un auspicio/costatazione per gli ebrei deportati-esiliati a Babilonia – in vista di rientrarecon l’editto di Ciro del 538 in patria;

  • è un auspicio/constatazione anche per noi oggi che viviamo un esilio – la vita in una Societàa lienata – una crisi epocale di cambiamento e trasformazione, ma siamo chiamati ad incamminarciverso una patria di amore e libertà come Giuseppe.

Soprattutto nei momenti di crisi epocale la giustizia non riesce a risolvere da sola, necessita la misericordia.

Il versetto prima del Vangelo, spesso citato e commentato da Giuseppe è un invito acomportarci come il Padre celeste che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere su quanti fanno e non fanno la sua volontà.

Ricordiamo che Gesù è sole di giustizia e di misericordia, sua esperienza vissuta.

La parabola del seme che spunta da solo ci sollecita a prendere coscienza ed è un richiamoforte – siamo in tempo di quaresima – al cambiamento, a prepararci alla Pasqua, al passaggio da unavita di alienazione, di legge di mercato / profitto, ad una vita libera di gratuità e di grazia.

Il convegno dedicato all’attualità del pensare dell’apostolo Paolo con quanto è emerso, è un invito a seguire il modo di porsi di Gesù, il modo di accogliere, interpretare, commentare einculturare il messaggio di Paolo e di quanti hanno fatto e fanno altrettanto.

Ricordiamo i relatori e quanti hanno contribuito all’ottima riuscita del Convegno

Grazie a Giuseppe, uomo d’amore e di libertà, presente in mezzo a noi.

Che il Signore ci accompagni

Oggi ovunque e sempre.

Buona Primavera!

Buona Pasqua!

Felice passaggio a Tutti! Auguriamocelo reciprocamente.

Roma 21 marzo 2009

Pasquale Bazzoli, Trento

 

In ricordo di Giuseppe

dai suoi studenti del Pime

Franco Lacchini

Comincio subito dicendo che non ho alcuna competenza specifica su Paolo, però ho una qualità che è quella di essere stato studente di Giuseppe,negli anni in cui lui ha insegnato al Pime di Milano, alla fine degli anni sessanta inizio anni settanta.

Quello di Giuseppe verso le missioni è stato un amore grande e corrisposto, iniziato con l’insegnamento a Milano, continuato poi con i viaggi nelle missioni in Africa in Guinea Bissau, in Bangladesh e a Hong Kong – viaggi organizzati dagli ex alunni – un amore mantenuto e maturato negli anni con varie forme di collegamento tra di noi, e che è durato fino agli ultimi giorni.

Anzi devo dire che le cose che dirò sono frutto di idee che ci siamo scambiati pur essendo ognuno di noi dislocato in parti diverse del mondo.

Io pensavo di non tentare neppure una ricostruzione del contesto nel quale Giuseppe insegnò a noi, però mi pareva interessante dire almeno quali erano le aree di conflitto esistenti nel contesto nel quale lui insegnava, a Concilio appena concluso e autunno caldo in corso….

Quali erano le aree di conflitto che vivevamo all’interno della Facoltà?

Il primo riguardava il modo stesso di interpretare la figura del missionario, tra quelli che interpretavano la figura del missionario come un ruolo positivo a prescindere dalla sua collocazione storica , mentre da noi gli studenti leggevano gli autori del terzo mondo,Freire, Fanon, Amilcar Cabral, e non si

sentivano addosso questa missione civilizzatrice o anche quella di agenti dello sviluppo. Ecco già qui c’era un’area di conflitto.

La seconda cosa è che a noi veniva chiesta una radicalità nel vivere il vangelo, ma questa radicalità doveva essere vissuta al singolare, mentre a noi l’aria che tirava – il sessantotto – comunicava un’istintiva capacità di metterci insieme, di fare gruppo…E non un gruppo romantico, ma un gruppo stabile, piccolo, formato da un numero limitato di persone, concreto, che andava dai turni di pulizia dei cessi alla piccola manutenzione dello stabile, allo studio, alla correzione fraterna, e – almeno nella progettualità – era anche una comunità di destino, per noi.

E’ per questo che ancora adesso siamo ancora molto legati. La terza area conflittuale che vivevamo all’interno del seminario delle missioni estere era il modo di concepire la Missione. Da una parte quelli che pensavano – e molti pensano tuttora – che extra Ecclesia nulla salus e buona notte, di lì non si scappa.

Dall’altra parte invece il Concilio che dice “Dio ha infinite vie per incontrare gli uomini”. E questa è una bella botta, che tocca paradossalmente proprio e soprattutto il missionario che è quello che per definizione ha qualcosa da dire e da “esportare”.

È una botta sull’idea di missionario che ci portiamo dentro, più o meno inconsciamente, e di cui non è facile liberarsi in concreto.

Non è facile staccarsi dall’idea di essere mandati ad annunciare una verità che salva, magari anche una verità progressista o addirittura rivoluzionaria, ma pur sempre da maestri, da uomini forti che hanno qualcosa da dire…

Invece è proprio su questo nervo scoperto che veniamo toccati: dal Concilio arriva l’invito a ripensare alla figura del missionario, che da maestro deve diventare discepolo, che fa del silenzio di Dio e della umile condivisione della vita con la gente la sua normale condizione di esistenza.

Sentirsi inefficaci – inutili – vivere l’enorme distanza che divide il proprio modo di sentire, le proprie categorie mentali da quelle del gruppo con cui si vive sono già di per sé situazioni che ti fanno venir voglia di star zitto, che ti fanno

morire le parole in bocca e che ti costringono ad approfondire continuamente la ragioni della tua scelta e l’esperienza e la ricerca religiosa.

Vorrei qui farvi ascoltare le parole che il Card. Martini ha detto – molto recentemente – a 13 missionari del Pime che sono andati a trovarlo a Gallarate. Ascoltate cosa dice:

Direi che la missione oggi deve tener presente talmente il Cristo risorto da osare (sto dicendo cose un po’ eretiche) da osare anche di non evangelizzare pur di portare a una comprensione più profonda dell’uomo. Talora con l’evangelizzazione si è rimasti un po’ stretti e un po’ rigidi e non si è dato invece corpo a quel dialogo, a quella mutua conoscenza che è la base di tutto. Per questo abbiamo sullo sfondo tutto questo scontro di culture…

Questo ci ammonisce che l’evangelizzazione non basta, non basta in senso stretto! deve essere parte di un quadro più ampio”.

E finisce dicendo: “Bene: vi lascio riflettere…”

Universalità e diversità. Questo era il tema. Noi sin dall’inizio avevamo pensato che il modo migliore di rappresentare questo tema starebbe stato quello di realizzare una teleconferenza e di restituire a Barbaglio la sua visita: lui è venuto nelle missioni, noi oggi avremmo voluto essere qui presenti, uno da Hong Kong, uno dal Bangladesh, uno dalla Guinea, ecc…

Questa idea non è stato possibile realizzarla tecnicamente… e allora abbiamo portato qui il Sandro, che è il frutto maturo dell’insegnamento di Giuseppe.

  • Frutto maturo nel senso che intanto lui è uno studioso.

  • Secondo, lui è uno studioso che vive all’interno delle Comunità dell’Amazzonia, che vivono alla foce del Rio delle Amazzoni, e quindi porta qua in mezzo a noi le domande vere che nascono dalla vita dei poveri della terra, e anche la memoria del sangue gratuitamente versato da molte persone di queste Comunità che per la terra e per la solidarietà tra di loro hanno versato il loro sangue: non è indifferente questa cosa.

Delle Comunità del Brasile dunque parla Sandro.Delle altre comunità dico eventualmente qualcosa io, anche se in assenza degli altri compagni che ci vivono concretamente.

Barbaglio ha visitato e ha lasciato il segno del suo passaggio in varie comunità:

  • Per esempio è stato in Guinea più volte. Negli anni 70 c’era la guerra di liberazione contro i portoghesi.Cosa trova in Guinea. Dopo quattro secoli di civilisação portughesa (che gli abitanti della Guinea chiamano sifilisasão portughesa) cioè di identificazione tra chiesa e governo coloniale – Giulio, Pedro, Maurizio, Carlo, tentano in extremis di liberare il Vangelo dall’abbraccio mortale del colonialismo: lasciano la Praça (luogo simbolico del potere coloniale dove c’è la chiesa, la residenza del missionario e il palazzo del governatore o del comandante) e vanno a vivere nel villaggio, in una Palhota cioè una capanna appena appena riabilitata, spezzando il legame tra chiesa e palazzo. Da questa convivenza nel villaggio nascono tutta una serie di relazioni gratuite, si formano piccole cooperative di sussistenza, c’è tutto un modo diverso di sentire e di vivere la chiesa.

Il segno del passaggio di Giuseppe io lo vedo in alcune cose che sono state “inventate” in questa missione. Per esempio il modo di concepire l’autorità: il “Tandem”, un termine ciclistico per definire un’ unica bicicletta dove pedalano

insieme due persone, ma anche un concetto “paolino” per esprimere l’autorità partecipata e vissuta da due persone insieme:

  • uno che garantiva la sussistenza, cioè girava in tutte le missioni per assicurarsi che nessun missionario morisse di stenti – era tempo di guerra –

  • l’altro, il Giulio, che passava a rassicurare e a tener compagnia ai missionari isolati.

  • Uno garantiva la sussistenza,

  • l’altro garantiva la resistenza.

Questo è un modo paolino di interpretare con intelligenza e originalità l’autorità.

Al momento della fine della guerra di liberazione, Giulio, che era il superiore, capisce che la presenza della Chiesa così come era andata costituendosi durante il colonialismo era un ostacolo al Vangelo. E che era impossibile continuare in quel modo lì, come se nulla fosse successo. Occorreva una

discontinuità.

Lui, da superiore della Guinea fa una scelta dolorosissima: decide di lasciare la missione e si “seppellisce” in un fabbrica dell’hinterland di Milano.

Questo gesto che a chi intende la Chiesa come potere poteva sembrare un gesto di diserzione, in realtà nella linea di Martini che abbiamo sentito prima era un gesto di fede, di conversione, era un modo di dire ai suoi compagni: bisogna ricominciare, a partire dal silenzio e dall’ascolto delle situazioni umane.

Ecco: questo per dire una comunità dove è passato Barbaglio. So che era molto amico di Giulio, fino agli ultimi giorni, e non posso non pensare che anche questa scelta del silenzio fosse uno dei temi condivisi della loro amicizia.

Anche in Bangladesh Giuseppe è andato varie volte. Una situazione totalmente diversa da quella della Guinea. La presenza missionaria qui è nel segno della condivisione e della resistenza.

I missionari da secoli sono al fianco di minoranze etniche che vivono una situazione di pesante discriminazione, oppresse dalla maggioranza bengalese/ e musulmana che impedisce loro di esistere nella loro differenza culturale.

Per queste popolazioni i missionari sono re e profeti. La Chiesa è una presenza debole dal punto di vista numerico e insignificante dal punto di vista del potere politico, ma una presenza forte e chiara del segno della predilezione di Dio per i poveri. I Missionari sono i difensori dei poveri.

In questa situazione so che Barbaglio parlava anche del dovere della politica come dovere della liberazione dell’uomo, di tutto l’uomo, e non solo come liberazione dal peccato.

La terza situazione di cui volevo parlarvi, è quella di Hong Kong, la situazione più “paolina” di tutte: una chiesa giovane, solo 150 anni, immersa in un mondo che guarda solo al futuro.

L’affacciarsi dei popoli asiatici alla modernità, al mercato e al consumo individuale è come uno tzunami, un’ondata ritardata – ma inarrestabile. L’est guarda a ovest: Guarda al suo modo di consumare, alla sua concezione della vita come a un modello da imitare: il sole non sorge più a oriente ma a occidente, una specie di Ecce Bombo planetario.

I ns missionari dopo avere atteso con timore e tremore l’arrivo del 1997 (che sarebbe la data in cui Hong Kong doveva tornare alla Cina), si trovano ora travolti non dal maoismo, non dal confucianesimo, ma dall’ondata tossica della occidentalizzazione del mondo.

Una nuova koinè si va formando a HK – riferisco le parole di Renzo Tino Carlo Franco – la Comunità nella quale vivono è una comunita’ polarizzata attorno a due lingue, Cantonese e Inglese, (numericamente le due componenti hanno la stessa consistenza) con le gioie e i mal di testa che comporta, dice Renzo – ma ci sono segni di un mondo nuovo: A Natale nella mia parrocchia abbiamo contanto almeno 17 nazionalita’; una parrocchia visitata giorni fa ne accoglie 40.

A Hong Kong, i matrimoni di “mista religione” sono piu’ dell’80%, sono in aumento i matrimoni tra gente di nazionalita’ diverse.

La nuova koinè è l’inglese (certamente a HK, in Asia, e un po’ in tutto il mondo), come lo spagnolo lo è soprattutto in America).

La koinè è lo spazio nel quale ci muoviamo, in cui respiriamo, in cui è possibile l’incontro tra diversi: si salvano solo le comunità che si modificano e che sanno produrre incroci e incontri. E’ nella koinè che nasce e prende forma l’annuncio.

Pian piano ci arriveremo. Il crogiuolo di gente, lingue e culture diverse e’ in atto. Fra cinquanta o cento anni si vedranno i frutti.

Un risultato dell’anno dedicato a S. Paolo dovrebbe essere: “Parrocchie di tutto il mondo, apritevi a diventare comunita’ multiculturali, multirazziali e multilinguistiche.” I casini aumenterebbero di molto, ma si troverebbe anche una nuova vitalita’ e nuove possibilità di innesto.

Termino con le parole stesse di Giuseppe, studioso riconosciuto da tutti, ma per noi è solo l’uomo di cui parla il Vangelo:quello che trovata la perla preziosa, la compra e la mette al sicuro nella sua bisaccia: ecco, per noi suoi studenti Giuseppe è quell’uomo lì, l’uomo che, chiusi i libri e terminato

l’insegnamento, testimonia una fede schietta e limpida nella resurrezione, la stessa dei cristiani delle prime comunità che lui studiava nelle fonti e imitava nella fede, e come loro attendeva la venuta del Signore.


 

L’ATTUALITA’ DEL PENSARE DELL’APOSTOLO PAOLO

 

ROMA, 21-22 MARZO 2009

Paolo, apostolo delle genti, per una comunità in cammino

La nostra esperienza di comunità continua da più di quarant’anni con momenti attivi e altri più stanchi legati alle vicende personali di ognuno ed alle tensioni positive e negative che provengono dall’ambiente nel quale viviamo, sia a livello locale che a carattere più ampio.

Inizialmente ci siamo ritrovati come gruppo di giovani con l’intenzione di vivere un’esperienza di fede diversa da quelle fino ad allora proposte e con l’impegno di approfondire la comprensione delle Scritture, cercando una dimensione di vita coerente con la realtà dei grandi cambiamenti di fine anni sessanta.

Le speranze suscitate dal Concilio ci hanno sostenuto nel continuare l’esperienza dentro la Chiesa senza arrivare a fratture decisive, nonostante le significative differenze.

L’esigenza di essere guidati nella ricerca teologica ci ha portato a conoscere Giuseppe all’inizio degli anni settanta: abbiamo apprezzato subito la chiarezza e la profondità delle sue spiegazioni che, aiutandoci a selezionare l’essenziale dal sovrapposto, ci hanno motivato soprattutto alla ricerca di un metodo di studio e di lavoro.

Abbiamo lasciato la pretesa di trovare certezze e abbiamo raccolto la sfida della ricerca continua della fede che cresce attraverso tentativi, speranze e illusioni e che ancora oggi ci sentiamo di sostenere.

La celebrazione dell’Eucaristia è stato ed è tuttora il momento centrale della nostra esperienza. La caratterizziamo con la preparazione comunitaria delle esegesi domenicali (da qualche anno in alternanza con alcune realtà parrocchiali locali), di preghiere e riflessioni comuni inserite in vari momenti della liturgia, espressione della nostra sensibilità e maturità.

Altro momento costante è la riflessione teologica. Negli ultimi anni abbiamo riletto insieme “Gesù ebreo di Galilea” e “Gesù di Nazareth e Paolo di Tarso”. Le figure di Gesù e Paolo, alla luce della ricerca storica, aprono nuovi orizzonti alla fede e la rafforzano liberandola da sovrastrutture a cui si

affida spesso la Chiesa-istituzione.

Da sempre abbiamo ritenuto importante aprirci e confrontarci con altre esperienze, non solo ecclesiali, di persone diverse ma animate dalla stessa tensione interiore.

Abbiamo condiviso la testimonianza delle Comunità di Base di cui ancora apprezziamo l’esperienza. Ci ritroviamo anche nelle istanze portate avanti dal movimento Noi Siamo Chiesa.

Sul piano dell’impegno attualmente partecipiamo a gruppi di volontariato quali l’Associazione Insieme, che si pone come momento di scambio, confronto e aiuto alla realtà dell’immigrazione, e l’Opera Nomadi che svolge ruolo di collegamento, presenza e stimolo con la locale realtà dei sinti.

Fede e religione

Per riallacciarci al tema dell’incontro, abbiamo pensato di soffermarci su alcuni temi attorno ai quali abbiamo ragionato con Giuseppe pochi mesi prima che ci lasciasse. Gli avevamo proposto di parlare della presenza della comunità cristiana nella nostra società sempre in mutamento e della

tendenza della Chiesa ad “andare all’indietro”.

Abbiamo osservato come in effetti i vertici ecclesiastici non tengano conto dei cambiamenti e continuino a credere di poter far valere le loro convinzioni e i loro principi su tutta la società. Nel tentativo di riprodurre la situazione di controllo, come avevano un tempo, mescolano gli orizzonti della fede con quelli della società civile, confondendo la fede con la religione.

La difesa della religione cattolica intesa secondo i riti, le credenze e i codici di comportamento tradizionali, spinge la Chiesa a incrementare una religione che esclude coloro che non seguono tale logica.

Realtà ben lontana dalla testimonianza di Paolo ai Gàlati: “Il Vangelo che io porto è un Vangelo di libertà: libertà di essere quello che voi siete culturalmente, con le vostre tradizioni, i vostri usi, i vostri costumi, con il fatto che siete degli incirconcisi”.

Avere fede significa “accettare e accogliere l’annuncio del Vangelo con un atteggiamento fiducioso in Cristo e nel Dio di Gesù Cristo per poi testimoniarlo nella vita “.

La fede è una realtà profondamente interiore, nascosta nel cuore della persona, mentre la religione è ciò che appare all’esterno e si manifesta attraverso tre elementi: i riti (preghiere, pellegrinaggi, e anche i sacramenti) le credenze (nel paradiso, nell’inferno, nei dogmi…) e determinati codici di

comportamento.

La fede è affidarsi a un Dio che accoglie tutti ed è esperienza di ognuno in quanto “persona” al di là delle differenze.

Se per un verso la fede diventa anche religione, per un altro deve essere critica nei confronti dei riti, delle credenze, dei comportamenti, che escludono o opprimono le persone.

Per Paolo, la fede cristiana diventa, e sembra un paradosso, negatrice della religione e di ogni religione, quando essa tende a limitare la validità di un gruppo di persone, pretendendo che cambino per essere accolti.

Paolo assegna pertanto alla fede il compito di mettere in crisi la religione nel momento in cui questa sia escludente. E oggi abbiamo proprio questo problema: una religione che ha sequestrato la fede, anziché la fede che diventa istanza critica nei confronti della religione e la contesta nei suoi limiti.

Benché le religioni, attraverso riti, credenze e norme del loro tempo, corrano tutte il rischio di costituirsi attorno all’immagine di un Dio escludente, la fede è invece l’affidarsi ad un Dio includente.

La nostra responsabilità di credenti è aprirsi al Dio che accoglie e liberarsi della schiavitù di una religione che divide e separa. Tutto ciò interpella le comunità riguardo i modi di rivestire di forme vissute la propria fede.

Nella lettera ai Galati, come dicevamo, Paolo si trova di fronte ai gentili incirconcisi che non seguivano la religione mosaica. A loro ha detto: “Voi siete liberi, non avete bisogno di sottomettervi alle prescrizioni che tale religione prevede”.

Certo non pensava all’azzeramento di tutte le differenze: esse sono caratteristiche individuali che distinguono ma non discriminano. Le persone valgono per quello che sono. “Solo la fede” (Rm. 3,30) accomuna incirconcisi e circoncisi perché aperta a tutti.

L’immagine di Dio

La distinzione tra fede e religione è collegata anche all’immagine di Dio che Paolo esprime. Questa immagine, pur prendendo nomi diversi, converge con quella di Gesù: il Dio di Paolo, che ha risorto il crocefisso è lo stesso Dio re e padre di Gesù che dal futuro viene incontro al nostro oggi, un Dio veniente, Deus adveniens, a liberarci dal dominio di Satana, e nello stesso tempo sempre presente al mondo e all’umanità, un Deus praesens che si presenta con il nome di padre e che trova un’espressione originale nel comandamento dell’amore per i nemici: ”Affinché diventiate figli dell’Altissimo: egli fa sorgere il sole su cattivi e buoni e fa piovere su giusti e ingiusti” (Q: Mt 5,45;

Lc 6,35).

Per Paolo e Gesù, le due immagini di Dio hanno in comune l’inclusione degli esclusi, l’amore indiscriminato per buoni e cattivi, il perdono accordato senza condizioni ai peccatori, l’amorosa cura degli indifesi e dei minacciati. Un Dio di parte, che agisce al di fuori di ogni logica meritocratica, che si muove sotto il segno della gratuità, superando l’immagine di Dio della tradizione biblico giudaica. Un Dio controcorrente che preferisce i non-preferiti di questo mondo.

E’ un Dio solidale con gli esclusi a parole e a fatti. Ovviamente Paolo ha dovuto scontrarsi, anche fortemente, con altri cristiani che erano di parere

opposto e pretendevano che i nuovi convertiti si dovessero sottomettere alla legge mosaica.

Ricordiamo, ad esempio, i contrasti anche aspri con la comunità aramaica gerosolimitano dei parenti del Nazareno. Possiamo anche chiederci chi siano “i gentili” oggi per noi. Domanda complessa e non scontata che ci invita a non sentirci “puri e perfetti” mentre chiudiamo porte verso gli altri.

L’universalità di Paolo

Paolo unisce l’apertura al mondo dei gentili e la novità cristiana alla storia della salvezza narrata nelle scritture: il Vangelo di Cristo, preannunciato da Dio ad Abramo “In te saranno benedette da Dio tutte le tribù della terra”. (Gen 12,3) e già promesso dai profeti (Rm 1,2), viene esteso da Paolo anche ai gentili (Gal 2,7), integrando la fede ebraica con un respiro universale inclusivo degli esclusi e strettamente collegato alla fede e alla grazia (Gal 3,17-18). I discendenti di Abramo sono i credenti in Cristo, siano essi ebrei o gentili. Paolo, autodefinitosi “Apostolo dei gentili” (Rm 11.13), indica il focus della sua azione missionaria: “A me è stato affidato dall’alto il vangelo degli

incirconcisi” (Gal 2,7) e, forte di questa convinzione, si è fatto strenuo difensore del loro buon diritto di entrare sola fide nello spazio di quanti si sono incamminati verso la salvezza.

Nessun uomo è giustificato da Dio per le opere della Legge, ma solo mediante la fede in Gesù Cristo” (Gal.2,16). Avendo un padre comune nella fede, anche i rapporti tra le tre religioni monoteiste dovrebbero essere improntati al desiderio di capirsi e dialogare tra loro pur nelle tante e profonde diversità.

Aprirsi al dialogo significa trovare “il meglio dell’altro”. Non dobbiamo dunque avere paura di confrontarci. “Non c’è giudeo né greco, non esiste schiavo né

libero, non c’è maschio né femmina, tutti voi siete un solo essere il Cristo” (Gal. 3,28). Non scompaiono le differenze ma devono svanire le differenze erette ad identità. Se sono le diversità a definire le persone nessuno accetterà più l’altro in quanto diverso.

Oggi la sfida della società globale ci richiama a chiederci come possiamo dimostrare di essere “tutti figli di Abramo”, come possiamo aprirci al Dio accogliente e liberarci dalla schiavitù di una religione che al contrario divide e separa.

L’etica della condivisione

La comunità dei credenti costituisce una famiglia il cui Padre è solo Dio e i credenti sono i suoi figli, a immagine del figlio Gesù (Rm. 8,29). Paolo ha accentuato la fratellanza umana e il reciproco aiuto,”Tutti voi siete figli di Dio in Gesù Cristo mediante la fede”(Gal. 3,26). Conseguenza della fratellanza è la solidarietà, intesa in senso bilaterale (Koinonia), costituita dal dare e ricevere, dallo scambio di beni tra donatore e ricevente.

E’ il codice della gratuità che regge il cammino degli uomini nella verità, non quello del dovuto. Non la persona autocratica che vive in una realtà priva di porte e finestre è nel giusto, ma l’uomo che si apre al dono altrui, allo scambio gratuito, che riconosce la sua dipendenza da Dio e dagli altri,

che sa dire grazie.

Riprendendo la metafora del corpo, Paolo mette in risalto la comune partecipazione dei credenti alla morte e risurrezione di Cristo che si manifesta con il dono dei carismi (1 Cor, 12). Lo Spirito li ripartisce tra tutti i credenti in modo che nessuno ne sia privo e nessuno li possieda tutti. Essi, però, devono essere considerati come un dono di grazia funzionale al buon andamento della comunità e lo stesso vale per il servizio prestato dai diaconi, perché è il duro lavoro che legittima e la responsabilità è di tutti.

Essere credenti, e maturare nella fede, è un impegno che dobbiamo coniugare nella realtà concreta, in questo mondo. Non è un fatto pacifico ma un bene continuamente minacciato (Gal. 5,16). Quello che conta è il mettersi fiduciosi nelle mani di Dio.

Per realizzare questa prospettiva, Paolo si appella ai credenti perché si lascino condurre dal dinamismo della libertà (Gal. 5,13-14), come dono della grazia contrapposta alla libertà individualistica ed egocentrica del mondo greco. Una libertà quindi nel segno della reciprocità, sotto l’impulso dell’amore (Agape) che si traduce nella predisposizione a dare e a darsi,

prendendosi cura degli altri “Fatevi carico gli uni dei pesi degli altri” (Gal. 6,2).

Siamo qui per chiederci come possiamo seguire Paolo sulle strade dell’impero, proclamando il Dio della vita.

Ci siamo appassionati a Paolo perché abbiamo vissuto l’amicizia e la testimonianza di Giuseppe.

Concludendo, nel ringraziarlo per quello che ci ha dato, lo pensiamo con affetto mentre, usando le parole di Paolo, ci dice: “siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi avremmo desiderato non solo darvi il Vangelo di Dio ma la

nostra stessa vita perché ci siete diventati cari” (1 Tess. 2, 7.8).

La Comunità del Carmine di Voghera

21 marzo 2009

 DIO E’ UN BACIO – Eucaristia per il mio professore Giuseppe Barbaglio 

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