COME TRASFIGURARE L’AMORE SPONSALE – Don Franco MANENTI

 

transfiguration

La trasfigurazione di Gesù

(Lc 9,28-36)

SESSIONE ESTIVA 2006 – Don Franco MANENTI  

 

«La trasfigurazione dell’uomo avviene proprio quando si legge figlio nel Figlio» (C.M. Martini)

 

Due premesse

 

1. Il contesto della lectio è quello di un “pellegrinaggio alle sorgenti”, che un gruppo di credenti sposati intende compiere. Nello scritto che illustra il senso del pellegrinaggio si precisa che le “sorgenti” cui s’intende ritornare, in realtà non sono tante, ma una e unica, Gesù Cristo, indicato, appunto come la “Sorgente”. La precisazione giustifica la scelta di porsi in ascolto della parola di Gesù. Un ascolto che nell’itinerario del pellegrinaggio è inteso e vissuto come “sosta”, che consente «di confrontarsi sulla realtà del Matrimonio nel progetto di Dio, il “mistero grande” di cui parla S. Paolo, per un attento discernimento del sacramento celebrato».

 

Il “mistero grande”, di cui parla l’Apostolo nella sua esortazione agli sposi di Efeso (5,21-32), fa riferimento “a Cristo e alla Chiesa”, alla loro relazione, descritta con un linguaggio sponsale (vv 25-27) e indicata come “esempio” da imitare e “sorgente” cui alimentare la loro relazione sponsale.

 

Potrebbe suscitare qualche interrogativo la proposta del brano della trasfigurazione di Gesù, quale testo della lectio: questa pagina evangelica cosa ha da dire ai discepoli di Gesù che sono stati chiamati a vivere il “mistero grande” del matrimonio?

 

La risposta all’interrogativo ci viene data da un testo di S. Paolo: «Tutti noi, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati (o trasfigurati) in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,18).

 

Il testo paolino dice quanto accade nell’esistenza dei cristiani: la gloria del Signore – il Signore nel suo disporsi benevolo verso di noi – ci trasforma a immagine sua, attraverso l’opera dello Spirito Santo.

 

Questa trasformazione avviene contemplando il volto glorioso di Cristo. Questo testo letto dagli sposi: l’amore che Cristo ha verso la sua Chiesa (“la gloria del Signore”) trasforma gli sposi mediante il suo Spirito (la grazia del sacramento, inesauribile risorsa), così che il loro amore rappresenti sempre più da vicino il “mistero grande” dell’amore di Cristo per la Chiesa (“trasfigurati in quella medesima immagine”).

 

Gli sposi sono in grado di fare questo nella misura in cui contemplano (“riflettendo come in uno specchio”) “il mistero grande” dell’amore sponsale di Cristo che trasfigura la sua Chiesa.

 

2. Prima di iniziare la lectio voglio proporvi un pensiero di una monaca carmelitana, che suggerisce come deve essere il nostro ascolto: «Egli sempre ci precede. Per capirlo e accettarlo, solo la sobrietà dell’ascolto, povero e consapevole della propria creaturalità».

 

E l’ascolto consapevole della propria creaturalità è bene indicato dal salmista che implora Dio di rivolgergli la sua parola: «A te grido, Signore; non restare in silenzio, mio Dio, perché, se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa» (Sal 28,1)

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Leggiamo il testo

 

«28Circa otto giorni dopo questi discorsi, prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. 29E, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. 30Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia, 31 apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme. 32Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. 33Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: “Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Egli non sapeva quel che diceva. 34Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all’entrare in quella nube, ebbero paura. 35E dalla nube uscì una voce, che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo”. 36Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto».

 

 

La struttura del racconto

 

Il racconto presenta un’introduzione (v 28), una conclusione (v 36) e nel mezzo tre momenti (vv 29-35).

- L’introduzione situa l’episodio dal punto di vista cronologico (quando accade): «Circa otto giorni dopo questi discorsi» (i discorsi cui fa riferimento l’evangelista sono la confessione di Pietro [vv 18-21] e l’annuncio da parte di Gesù della sua morte e risurrezione [v 22], seguito dalla catechesi sulla sequela [vv 23-27]); lo localizza (dove accade): «sul monte» (luogo della rivelazione di Dio nella Bibbia: Es 19,16; 24,15); presenta i protagonisti (chi è all’opera): Gesù, Pietro, Giovanni e Giacomo, la voce proveniente dalla nube.

- Il 1° momento (vv 29-31). È il momento della trasfigurazione vera e propria. Solo Luca evidenzia che Gesù sta pregando («mentre pregava»). Anche prima di scegliere i Dodici Gesù si reca sulla montagna a pregare (6,12). Nel vangelo di Luca la preghiera segna i momenti cruciali della vita di Gesù: prima di ricevere il battesimo (3,21), prima della confessione di Pietro (9,20), del primo annuncio della passione e risurrezione (9,22), sul monte degli Ulivi (22,39-46) e sulla croce (23,34.46).

 

La trasfigurazione di Gesù è segnalata nel volto («il suo volto cambiò di aspetto») e nella veste («la sua veste divenne candida e sfolgorante»). La veste candida è segno della vittoria, della gioia, di una realizzazione piena e richiama la figura del Figlio dell’uomo del profeta Daniele, glorioso e vincitore

Io continuavo a guardare, quand’ecco furono collocati troni e un vegliardo si assise. La sua veste era candida come la neve e i capelli del suo capo erano candidi come la lana; il suo trono era come vampe di fuoco con le ruote come fuoco ardente», 7,9)

 

Gesù dialoga con Mosè ed Elia (v 30), due personaggi di rilievo nella tradizione biblica. Il primo è il capo che guida Israele fuori dall’Egitto, la terra della schiavitù e il mediatore della legge di Dio (cfr Lc 2,22; 5,14; 9,30.33; 16,29.31; 20,28.37; 24,27.44). Il secondo è un profeta che svolge un ruolo determinante nel ricondurre Israele al culto di Jahvè, ristabilendo l’alleanza (Lc 1,17; 4,25. 26; 9,8.19.30.33). Mosè rappresenta l’esperienza della legge, mentre Elia quella del profeta (Lc 16,16; 24,27.44).

 

Solo Luca segnala il contenuto della conversazione: «Parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme» (v 31). Il termine “dipartita” traduce il vocabolo greco exodos, presente solo in Luca e che interpreta il cammino di Gesù verso Gerusalemme (9,51-24,53), dove subirà la morte, nella prospettiva dell’omonimo libro veterotestamentario. L’ “esodo” di Gesù non si esaurisce nella sua morte, ma si compie in modo definitivo con l’ascensione al cielo. Gerusalemme è la città della realizzazione delle promesse messianiche. Il cammino di Gesù, quindi, verso Gerusalemme compie le attese salvifiche annunciate dalla tradizione biblica.

I

l 2° momento (vv 32-33) presenta la reazione dei discepoli. L’evangelista segnala anzitutto che i discepoli sono “oppressi dal sonno” (v 32). Il sonno indica la distanza e l’estraneità rispetto a quanto sta accadendo. Come nell’orto degli ulivi, quando Gesù avverte la drammaticità della decisione di compiere la volontà del Padre, mentre i discepoli si addormentano (Lc 22,45). Nonostante il sonno, che li opprime, i discepoli “vedono la gloria” di Gesù.

 

L’estraneità dei discepoli emerge anche dalle parole di Pietro («Maestro è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende una per te, una per Mosè e una per Elia»), biasimate dal narratore («Egli non sapeva quel che diceva»). Nonostante la trasfigurazione di Gesù e il fatto che i discepoli “vedono la sua gloria”, Pietro continua a considerare Gesù come “Maestro”. La sua richiesta poi vuole rendere permanente sulla terra la situazione celeste ed esprime la paura di scendere dal monte, per seguire Gesù verso Gerusalemme.

 

Il 3° momento (vv 34-35) offre una parola di rivelazione, che commenta e spiega quanto è accaduto.

 

La nube fa parte delle teofanie (cfr Es 19,9.16; 24,15-18; 40,34-35; 2Mac 2,8); è il segno della potente presenza di Dio durante il cammino del popolo nel deserto (Es 13,21; Sal 78,14; 105,39); suscita nei discepoli la paura tipica delle scene di rivelazione, dove l’uomo si sente inadeguato (cfr Es 4,10; Is

6,5; Ger 1, 6). La voce proveniente dalla nube è una comunicazione da parte di Dio, proclama Gesù come “Figlio eletto” e rivolge un’esortazione – un imperativo – ai discepoli («Ascoltatelo!»). La proclamazione di Gesù come “Figlio eletto” riprende quella del battesimo al Giordano («Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto», Lc 3,22). Prima d’intraprendere il cammino verso Gerusalemme, il Padre conferma nuovamente Gesù nella sua condizione filiale. La relazione singolare tra Gesù e il Padre, emersa, all’inizio del brano, nella presentazione di Gesù in preghiera, è ora esplicitata dalla rivelazione celeste.

 

L’imperativo finale – «Ascoltatelo!» -, che appartiene alla tradizione biblica, soprattutto alla tradizione deuteronomica, dove il popolo viene invitato a essere uditore della parola di Dio («Ascolta, Israele…», Dt 6,4), va compreso nel contesto dell’opera lucana (5,1.15; 6,18.47. 49; 7,22.29). Nella parabola del seminatore (8,4-15) il seme che cade nella terra buona rappresenta coloro che, «dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza», v 15).

 

L’ascolto della parola è quindi il primo passo della fede, che deve poi maturare con l’attuazione della parola nella perseveranza. L’invito all’ascolto è collegato con la constatazione che Gesù resta solo. L’unica voce che i discepoli sono chiamati ad ascoltare è quella di Gesù.

 

La conclusione (v 36) segnala il silenzio dei discepoli, che nel racconto lucano, non è imposta da Gesù, come in Matteo e Marco, ma scelta dai discepoli («Essi tacquero…»).

 

Meditiamo la Parola

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Riprendiamo la domanda iniziale: questa pagina evangelica cosa ha da dire ai discepoli di Gesù che sono stati chiamati a vivere il “mistero grande” del matrimonio?

 

Una prima risposta la troviamo osservando Gesù trasfigurato.

 

Gesù si trasfigura “mentre pregava”. Il contatto prolungato con Dio trasfigura Gesù, ognuno di noi, perché ci rende partecipi della sua gloria. E’ l’esperienza che fa Mosè (cfr Es 34,29) e che possiamo fare anche noi (cfr 2Cor 3,18). Nell’episodio della trasfigurazione il contatto prolungato con Dio è

realizzato nella preghiera. La preghiera consente l’incontro prolungato con Dio che ci trasfigura, perché ci apre a lui, ci permette di superare le nostre resistenze e paure; ci trasforma – ci conferisce – secondo la stessa “forma” di Gesù, il Figlio.

 

Il contatto prolungato con Dio nella preghiera, “trasfigura” due sposi, li rende capaci di amarsi con il suo stesso amore, conferisce al loro amore la “forma” dell’amore con cui Gesù ama la Chiesa.

 

La preghiera (normalmente) non cambia le situazioni, non le “trasfigura”, può però cambiare noi, “trasfigurare” noi. Nella preghiera oltre e più che chiedere al Signore di cambiare le situazioni che ci inquietano e ci deprimono, bisogna imparare a chiedere che cambi noi, il nostro cuore, perché impariamo a desiderare quello che Lui desidera e a volere quello che Lui vuole, anche in quelle situazioni per nulla gratificanti. Mi pare possa essere intesa così la richiesta del “Padre nostro”: “Sia fatta la tua volontà”.

 

Una seconda risposta la troviamo osservando i discepoli, la loro fatica a entrare nel “mistero” di Gesù, a seguirlo, a lasciarsi trasfigurare.

 

Scorrendo il cap 9 notiamo come i discepoli sono chiamati a entrare nel mistero di Gesù, a cogliere il senso della sua persona («Voi chi dite che io sia?») e il senso della loro sequela («Chi vuol venire dietro a me…»). Devono imparare questo anche se sono già andati nei villaggi “annunziando la buona

novella e operando guarigioni” (vv 1-6), anche se con Pietro hanno risposto alla domanda di Gesù sulla sua identità (“il Cristo di Dio”, vv 18-22), anche se si considerano “seguaci di Gesù” (vv 49-30).

 

Il card Martini parla di un passaggio “dal ministero al mistero di Gesù”, un passaggio non facile.

 

Tre le piste che attestano la fatica dei discepoli a entrare nel mistero di Gesù.

 

La prima è costituita dal sonno che opprime («erano oppressi dal sonno»). L’evangelista non dice solo che erano assonnati, ma che il sonno li opprimeva, li appesantiva, rappresentava un peso insostenibile.

 

La seconda pista riguarda le parole di Pietro («E’ bello per noi restare qui, facciamo tre tende…», giudicate dal narratore con severità («non sapeva quel che diceva»). La visione suscita l’entusiasmo, che sembra indicare il superamento della situazione difficile, insostenibile.

 

L’incomprensione di Pietro si manifesta anzitutto nel fatto che parla. Di fronte a Dio l’uomo è invitato a stare in silenzio e ad ascoltare («Mosè e i sacerdoti leviti dissero a Israele: “Fa silenzio e ascolta Israele. Oggi sei diventato il popolo del Signore tuo Dio. Obbedirai quindi alla voce del Signore tuo Dio

e metterai in pratica i suoi comandamenti e le sue leggi che oggi ti do», Dt 27,9-10). Il secondo motivo è dato da quanto Pietro dice («Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia»). La proposta di costruire capanne si pone in alternativa al colloquio tra Mosè, Elia, Gesù sul cammino da portare a compimento a Gerusalemme.

 

La terza pista fa riferimento alla paura dei discepoli a entrare nella nube, cioè a entrare nella relazione con Dio, a stare di fronte a lui. L’entusiasmo precedente lascia il posto alla paura che blocca ogni movimento. Più avanti l’evangelista parlerà nuovamente della paura dei discepoli: «Mentre tutti erano sbalorditi per tutte le cose che faceva, disse ai suoi discepoli: “Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato in mano degli uomini”. Ma essi non comprendevano questa frase; per loro restava così misteriosa che non ne comprendevano il senso e avevano paura a rivolgergli domande su tale argomento» (9,43-45).

 

Rileggiamo la nostra esperienza alla luce dell’atteggiamento di Pietro e dei suoi amici.

 

  • - «Erano oppressi dal sonno». Il sonno che opprime rimanda alle situazioni della vita, della nostra relazione sponsale, della famiglia, che ci schiacciano come pesi insostenibili, ci angosciano, a tal punto da suggerirci di lasciar perdere, di rinunciare a rimettere ordine nel nostro cuore, a dedicarci alle nostre relazioni, a trovare una soluzione ai disagi, a guarire una relazione ferita.

  • - «E’ bello per noi stare qui…». Quella di Pietro è una reazione immediata, emotiva, del discepolo che si trova bene con Gesù ed è esposto alla tentazione di risolvere la relazione con il Signore in questo momento gioioso, rassicurante, dimenticando la croce, il cammino verso Gerusalemme.

 

Anche noi siamo esposti alla stessa tentazione, quella cioè di fissare lo sguardo solo sul volto luminoso del Gesù della trasfigurazione, distogliendolo dall’altro volto, quello del Gesù della croce, che, come annota il profeta Isaia, «Non ha apparenza, né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per trovare in lui diletto, disprezzato, reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato», 53,2-4).

 

E’ la tentazione di voler restare sul monte delle esperienze belle, pacificanti, dove ci sembra di aver capito tutto del Signore, della Chiesa, di noi stessi, degli altri, del matrimonio, della nostra sposa, del nostro sposo, dei nostri figli e di non scendere nella pianura della vita quotidiana, fatta dei ritmi e dei gesti sempre uguali, delle solite persone, della fatica che facciamo con noi stessi e con gli altri, della fatica che facciamo a trovare il tempo per la preghiera, ad

alimentare il desiderio d’incontrare il Signore di ascoltare la sua parola con cuore attento e libero, a far ripartire la comunicazione sponsale.

 

Ci poniamo una domanda: in quali situazioni del nostro cammino di credenti ci ritroviamo nella reazione di Pietro («E’ bello per noi stare qui»), cerchiamo di abbandonare il quotidiano faticoso, piatto, monotono, per nulla “bello”, della nostra sequela di discepoli?

 

- La paura dei discepoli dice la loro distanza da Dio, da Gesù, dal suo modo d’intendere la vita, di salvarla, di essere Figlio. Non si tratta qui dell’estraneità, della distanza di quelli che stanno “fuori”, di chi non è credente, ma dei discepoli, di chi sta con Gesù, lo segue.

     

Luca parla di paura a “entrare nella nube”, ad accettare cioè una relazione con Dio, con Gesù, che agli occhi dei discepoli percorre strade diverse da quelle immaginate da loro, esprime desideri diversi dai loro. Al riguardo l’evangelista segnala che il giorno seguente la trasfigurazione (v 37), dopo che Gesù ha rivelato che sta per essere consegnato in mano agli uomini» (v 44), «sorse una discussione tra di loro [i discepoli], chi di essi fosse il più grande» (v 46). La stessa discussione si riapre durante l’ultima cena (Lc 22,24-27), dove i discepoli restano impermeabili al desiderio di Gesù di mangiare la sua Pasqua con loro («Ho ardentemente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione», 22,15) ed estranei alla sua offerta («Questo è il mio corpo che è dato per voi… questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che viene versato per voi», 22,19s).

 

L’estraneità dei discepoli diventa nostra quando alimentiamo desideri diversi, distanti da quelli di Gesù, che sono desideri di prossimità, di dono di sé, di servizio, di cura dell’altro; quando vogliamo salvare la vita a modo nostro, non nel modo indicato e realizzato da Gesù, che è il modo del Figlio, che riceve la vita dalle mani del Padre, la decide ogni giorno col Padre e la riconsegna a lui.

Una terza risposta ci è offerta dalla Dio Padre che parla nella nube.

 

Di fronte a questa situazione che sembra senza via d’uscita, è Dio stesso a indicare il percorso che consentirà ai discepoli di “entrare nel mistero” di Gesù: «Questi è il Figlio mio l’eletto; ascoltatelo». “Questi è il Figlio mio”. L’aggettivo “questi” indica che il Gesù che sta davanti a loro trasfigurato, conosciuto dai discepoli come colui che sta andando a Gerusalemme per morire e che alcuni giorni prima aveva esortato quanti desideravano seguirlo, a rinnegarsi, a prendere la propria croce ogni girono, a perdere la propria vita, è il Figlio nel quale Lui si riconosce.

 

Ascoltatelo”: seguitelo nel suo cammino verso la croce, accoglietelo, fidatevi di lui, fate quanto vi dice, fate come lui, lasciatevi modellare da lui. Questo è il culmine della “divinizzazione” che il Padre ha pensato per ogni uomo, della “trasfigurazione” di noi secondo l’immagine del Figlio.

 

Agli sposi, quando sono oppressi da situazioni pesanti e sono tentati di percorrere altre strade nel proprio cammino di discepoli, di sposi, strade più rassicuranti, che sembrano garantire il cuore, Dio Padre dice di ascoltare Gesù, di fare come lui, di accoglierlo con fiducia nel loro amore, di imparare da lui ad amarsi, ad amare l’altro/a, anche quando ai propri occhi appare non amabile, mette alla prova, conferendo all’amore la figura del gesto gratuito, del dono di sé, prima che del dono di qualcosa.

 

Il tempo della prova, che accompagna ogni vicenda sponsale, abitato ascoltando il Signore Gesù, non avvilisce più due sposi e il loro amore, ma li può “trasfigurare” secondo la stessa immagine di Gesù e del suo amore.

 

Accostare con frequenza il libro delle Scritture Sante, per ascoltare quella Parola che è Gesù, le parole di Gesù e le parole che riferiscono di Gesù: questa è la strada che “trasfigura” l’amore sponsale tra un uomo e una donna secondo l’immagine dell’amore sponsale di Gesù per la sua Chiesa.

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