FRATEL ETTORE BOSCHINI UN PADRE DEI POVERI – S. Gaeta – A. Borrelli

 

  FRATEL ETTORE BOSCHINI  M.I.

(1928-2004)     

 di SAVERIO GAETA   

 

 Un padre per i poveri

«Un gigante della carità odierna che fa onore al Vangelo»: così il cardinale Martini ha definito fratel Ettore Boschini. Fin dagli inizi il religioso camilliano elesse la Madonna come patrona della propria opera a favore degli emarginati. 

La prima volta che incontrò Giovanni Paolo II, nel gennaio del 1979 in piazza San Pietro, fratel Ettore Boschini gli offrì in dono una statua a grandezza naturale raffigurante la Madonna di Fatima. Era identica a quella che il camilliano portava ovunque con sé, testimonianza visibile di uno smisurato amore per la Vergine. E anche a papa Wojtyla venne da sorridere quando gli raccontarono che, per trasportare quella statua dalla stazione Termini sino al Vaticano, fratel Ettore aveva dovuto acquistare un ulteriore biglietto dell’autobus, perché il conducente lo aveva intenzionalmente provocato dicendogli che l’oggetto era troppo ingombrante e che sottraeva il posto a un altro passeggero. 

 Di simili aneddoti mariani è costellata l’intera avventura umana di quello che il cardinale Carlo Maria Martini definì «un gigante della carità odierna che fa onore al Vangelo» e che altri hanno più sinteticamente chiamato il «padre dei poveri».

Di fatto fratel Ettore elesse sin dagli inizi la Madonna come patrona della propria opera e volle esprimere concretamente la gratitudine per la costante protezione di Maria mediante tre repliche di luoghi cari alla devozione popolare: nella casa-alloggio di Bucchianico c’è la riproduzione a dimensioni reali della Santa Casa di Loreto, a Seveso c’è una cappella identica a quella di Fatima e a Grottaferrata si trova una grotta realizzata sul modello di quella di Lourdes.

Una vocazione alla sofferenza e al dolore

Nato il 25 marzo 1928 a Roverbella (Mantova) da un famiglia contadina, sin da ragazzino Ettore aveva lavorato in fattoria e si era occupato di mandrie da portare al pascolo e di stalle da ripulire. Nell’autunno del 1945, durante un pellegrinaggio al santuario della Madonna della Corona a Caprino Veronese, sentì nel cuore il desiderio di tornare a quell’esperienza di fede che le difficoltà del periodo bellico gli avevano fatto abbandonare: «Cara Mamma», disse alla Vergine, «tu conosci la mia vita disordinata… Voglio cambiare ma, se tu non mi aiuti, sono sicuro che domani ricomincerò da capo».

Fratel Ettore parla con Angela, una City Angel, alla Stazione centrale di Milano.

Fratel Ettore parla con Angela, una City Angel, alla Stazione centrale di Milano.

 

Il suo fisico era ormai minato dal pesante lavoro tanto che, nell’estate del 1948, gli fu diagnosticata un’ernia del disco e fu necessario il ricovero nell’ospedale di Mantova. Qui ebbe occasione di conoscere la figura di san Camillo de’ Lellis, che nel 1582 aveva fondato l’Ordine dei Ministri degli infermi. Tenendo fra le mani un’immaginetta del crocifisso che aveva staccato le braccia dalla croce per incoraggiare san Camillo in un momento di difficoltà, Ettore comprese la propria vocazione: «Una vocazione alla sofferenza e al dolore», disse in seguito.

Da quel momento cominciò un percorso interiore che, con l’aiuto del parroco Everardo Corvi, lo condusse nel noviziato dei Camilliani. A ventotto anni compiuti, nel 1956, pronunciò la professione solenne e per una ventina d’anni si dedicò, nell’ospedale degli Alberoni a Venezia, all’assistenza di giovani ammalati di tubercolosi ossea e di distrofia muscolare: una cinquantina, fra i dodici e i venticinque anni d’età, quasi totalmente impossibilitati a muoversi e bisognosi di costante assistenza e di amorevole conforto. Per questo suo amorevole ministero ricevette, nel 1973, il premio della bontà intitolato a Giovanni XXIII.

Fratel Ettore aveva ormai quarantacinque anni e pensava di essere giunto a un punto fermo nella propria missione. Ma un sogno profetico segnò quel tempo: «Ho visto Gesù Bambino, in braccio alla Mamma, che sobbalzava di gioia. Poi si fermò a poca distanza da me, facendo segno che mi avvicinassi. Da principio ero riluttante, quasi impaurito per un gesto così esplicito di familiarità e di confidenza, poi finalmente mi avvicinai e Gesù Bambino mi prese la testa avvicinandola al cuore della Madonna: “Confida sempre in lei e sarai al sicuro”, furono le parole del Bambino».

Un rifugio per i poveri nel cuore della metropoli

Nel 1976 Ettore venne trasferito a Milano, dove ebbe un traumatico incontro con la povertà della metropoli e con i tanti emarginati che ne frequentavano le strade. La prima iniziativa, avviata il Venerdì santo del 1978, la allestì in un piccolo locale all’interno della clinica San Camillo, dove ai senza fissa dimora venivano dati la colazione al mattino e medicinali e vestiti al pomeriggio. La folla che quotidianamente si presentava dinanzi ai cancelli lo spinse a cercare un luogo più ampio dove a queste persone in difficoltà potesse essere offerto anche un pasto caldo e un letto.

Su segnalazione di un ferroviere vennero individuati due ampi magazzini inutilizzati sotto le arcate della stazione centrale milanese, che il Ministero dei trasporti accettò di affittargli al simbolico canone di 70.000 lire l’anno. Sorgeva così quello che tutti conoscono come il “Rifugio di via Sammartini”, inaugurato dal vescovo ausiliare milanese Libero Tresoldi il 1° gennaio 1979. Nell’arco di una ventina d’anni si affiancheranno ulteriori strutture: la “Casa Betania delle Beatitudini” a Seveso (1980), il “Villaggio delle Misericordie” a Milano (1989), la “Comunità Alleluia” a Novate (1989), la “Casa Nostra Signora di Loreto” a Bucchianico (1996), il “Rifugio Sacra Famiglia” a Grottaferrata (1998) e il “Refugio Nazareth” a Bogotà in Colombia (2000).

San Camillo de' Lellis sotto la croce di Gesù Cristo (santuario di Bucchianico, Chieti).San Camillo de’ Lellis sotto la croce di Gesù Cristo (santuario di Bucchianico, Chieti).

 

Ciascuna ha una specifica storia di ideazione e di realizzazione, ma il loro tratto comune è stato l’obiettivo di dare risposta a bisogni che via via affioravano nella società dell’epoca. Si può realmente dire che fratel Ettore è stato fra i primi a rendersi conto della diffusione dell’Aids e dell’emergenza immigrati, come della tratta delle giovanissime prostitute dell’Est e della drammatica solitudine degli anziani abbandonati.

«Ho fatto soltanto la volontà di Dio»

Che cosa pensasse di sé e delle sue iniziative profetiche, lo spiegò lo stesso camilliano: «Vorrei convincervi che sono soltanto un pover’uomo. Un uomo che per tutta la vita ha fatto soltanto la volontà di Dio, spesso senza neppure rendersene conto. Dal Signore ho ricevuto grazie straordinarie, ma non posso vantarmi di aver sempre corrisposto perfettamente alle grandi grazie ricevute. Questo lo dico perché nessuno, ripeto nessuno, anche l’ultimo dei miei ospiti, si senta inferiore a me o pensi di non poter fare anche lui cose simili a quelle che io, per grazia di Dio e per lo straordinario amore della Madre, ho compiuto».

Attorno a fratel Ettore hanno ruotato numerosi amici e collaboratori, aggregati in un’associazione significativamente intitolata “Missionari del Cuore immacolato di Maria al servizio dei più poveri nello spirito di san Camillo”.

I suoi ultimi mesi di vita furono caratterizzati dall’aggravarsi della mielodisplasia, la malattia del sangue di cui da tempo soffriva e che si era trasformata in una leucemia conclamata. Nella serata del 20 agosto 2004 la sua esistenza terrena giunse al termine, ma l’opera da lui avviata prosegue tuttora, sotto la guida di suor Teresa Martino, una ex attrice di teatro che lo stesso fratel Ettore aveva designato come erede spirituale.

Saverio Gaeta

 

Le scarpe di fratel Ettore

 

Omelia in occasione del terzo anniversario della morte di fratel Ettore

 

1) Queste scarpe, che ripiegate al calcagno, sono state usate anche a ciabatte, sono il simbolo che le cose che abbiamo, sembrano nostre, ma ci sono state date solo in uso, come in prestito da Dio…e a Dio dobbiamo rispondere riguardo la bontà del loro utilizzo. Infatti queste ciabatte fatte a scarpe, sono di Fr. Ettore solo per caso. Qualcuno gliele ha regalate e lui non ha fatto a tempo a ridistribuirle a sua volta. Ciò che questo “mezzo” simboleggia per noi è il senso di povertà, intesa come capacità di stare sotto il livello di sobrietà, che aveva pervaso l’intera vita di Fratel Ettore. Non doveva neppure fare lo sforzo mentale per riflettere sulle cose non sue ma messe a sua disposizione da Dio. Ettore viveva in questo stile: nulla è stato da lui ritenuto esclusivamente suo…e tutto ciò che era per lui poteva essere benissimo per tutti, soprattutto per i più bisognosi. Per se stesso Ettore non sceglieva niente, non accumulava, si accontentava di ciò che gli arrivava dalla Provvidenza.

 

Credo non si sia mai permesso il lusso di entrare in un negozio e scegliersi un paio di scarpe. Ricco e pieno della misericordia di Dio e della missione affidatagli, le preoccupazioni per se stesso erano ritenute inutili perdite di tempo prezioso promesso a Dio e ai suoi prediletti. Infatti il Vangelo parla chiaro: “gli uccelli dell’aria trovano da mangiare dove vogliono, i fiori del campo si vestono di colori meravigliosi e a tutto ciò pensa solo Dio. A ciascuno di noi tocca la bellezza della responsabilità di cooperare con Dio affinché il suo Regno arrivi sino ai confini della terra. 

Le scarpe di Fr. Ettore in realtà sono state usate come ciabatte perché sono solo un mezzo per un fine nobile e inconfondibile. Il “mezzo” può anche essere trattato male, ma lo scopo del suo utilizzo non può mai essere dimenticato. Infatti ciò che noi dobbiamo guardare o ammirare non sono queste scarpe-ciabatte, realtà che vediamo, ma ciò che non vediamo e dobbiamo sforzarci di immaginare.

 

Ciò che è importante non sono le scarpe-ciabatte, ma i piedi che ci sono stati dentro. Piedi guidati da una luce, da una volontà che li collega alla testa; piedi puntati dritti verso un obiettivo e che camminano con uno stile dettato dal cuore. E i piedi possono essere stanchi, doloranti, sfatti e colpiti da malattie deformanti, ma ciò che è in testa e nel cuore restano forti e trascinanti, tanto che ci si può muovere anche con piedi e gambe che non reggono più. Provate a chiedere a queste scarpe-ciabatte se si sono sentite umiliate perché Fr. Ettore le maltrattava intanto che infilandovi i piedi, anche di notte, camminava con stile misericordioso verso i poveri che Dio gli faceva incontrare?

 

Ma Ettore così non prendeva in considerazione il valore delle scarpe e nemmeno quello del suo corpo, perché anch’esso ritenuto “semplice mezzo” a disposizione di Dio, a disposizione della sua Misericordia. Queste scarpe non si sono mai lamentate di far parte delle poche cose di un uomo senza riguardo per sé, perché tutti i suoi riguardi erano per Dio e i fratelli…soprattutto “i più bisognosi della sua misericordia”.

 

Queste scarpe maltrattate diventano, per merito di chi le utilizzava, il simbolo della povertà che trasporta la carità. Le scarpe sono finalizzate al camminare, al lavoro, alla missione che l’uomo chiamato da Dio deve compiere. Non sono fine a se stesse come per moda, per esposizione, per valorizzare il piede. Le scarpe esistono affinché l’uomo esprima il suo andare verso l’altro e si senta sostenuto in questo viaggio.

 

Dai passi di Fr. Ettore noi capiamo che non è necessario essere ricchi per dare con generosità e abbondanza: è chi vive di provvidenza che poi trasporta provvidenza. La personale povertà radicale attrae generosità che non è trattenuta per sè, ma bensì viene ridistribuita. Più si è testimoni di povertà, più si è attrattivi e suscitatori di generosità. La gente si fida di chi non tiene la roba per sè.

 

Solo verso la fine, quando il profeta è consumato dal servizio la gente, acciorgendosi di perdere il faro, la luce, il cartello segnaletico, la bestia da soma, il carro da trasporto…cerca di lenire i patimenti di chi finora l’aveva trainata o spinta. Le scarpe-ciabatte di Fr. Ettore, fiori d’altare, dimostrano che egli non valutava nulla di così importante da trattenere per se stesso…tranne immagini sacre e cassette registrate di meditazioni bibliche…

Cari amici ci siamo riuniti per ricordare il nostro Fr.Ettore e lui oggi ancora ci insegna ad essere poveri, essenziali, ad accontentarci di poco, a ritenere tutto ciò che abbiamo come un dono della Provvidenza che ci presta qualcosa per poter lavorare per lei e con lei.

 

Ci insegna a non perdere mai la fede, perché con il poco si può fare molto mettendosi nelle mani di Dio. Ci insegna a camminare sulla strada della carità, aiutandoci vicendevolmente, per ritornare nel Regno della carità di Dio da dove proveniamo: che tutti gli uomini possano fare l’esperienza dell’amore di Dio anche attraverso il nostro umile servizio, contente le nostre scarpe di aiutare i nostri passi.” 

Fratel Ettore, senza tregua, ha offerto tutto se stesso alla causa degli emarginati.

Difficile contare le sue notti insonni, trascorse alla guida di un pulmino traballante, lungo le vie meno frequentate di Milano. Andava alla ricerca dei suoi poveri, di chi non aveva né tetto né cibo. “Hai fame? Hai bisogno di un vestito? Vuoi venire con me?”.

 

Quando c’era da soccorrere, intervenire, dare sollievo alle sofferenze, non si fermava davanti a nulla. Senza clamori, in anni di rinunce e sofferenze, ha saputo provvedere tempestivamente ad alcune tra le urgenze più drammatiche di Milano. Per primo ha accolto i barboni che languivano sui binari della Stazione centrale. Per primo ha deciso, già alla fine degli anni settanta, di aprire le porte dei suoi Rifugi agli immigrati, offrendo conforto materiale e parole di speranza.

Ha istituito uno dei primi centri privati per accogliere gli ammalati di Aids, alla fine degli anni Ottanta, mentre l’assistenza pubblica sembrava disarmata di fronte all’incalzare della tragedia. Il suo centro in uno dei padiglioni del “Paolo Pini” ad Affori, è stato a lungo l’unica alternativa alle poche strutture pubbliche esistenti.

 

Con lo stesso slancio inesausto ha pensato ai tossicodipendenti, ai malati mentali, agli anziani lungo degenti e senza assistenza. Ecco perchè Milano è grata a questo uomo di Dio che ha fatto proprio, rinnovandolo e adeguandolo alle nuove emergenze, il carisma del fondatore dell’ordine a cui apparteneva, San Camillo De Lellis, l’apostolo dei malati. 

“Guardando questi semplici e logori “mezzi” in uso a Fratel Ettore, la riflessione che propongo si articola su tre prospettive:

Con la forza della sua misericordia Fratel Ettore ha sferzato la fraternità tascabile, gli animi tiepidi, la solidarietà minimalista. Ha mostrato che lo scandalo dell’amore evangelico, totale e senza condizioni, è il filo tenace che lega gli uomini al mistero. 

Il primo miracolo di Fratel Ettore è il Rifugio di via Sammartini: eccolo in un ricordo del sindaco Albertini: “I milanesi seppero che il frate camilliano voleva aprire un rifugio per gli emarginati sotto il cavalcavia ferroviario della Stazione Centrale in via Ferrante Aporti, e pensarono che posto più squallido non poteva trovarlo, ma proprio la campata sotterranea del ponte è diventata la cattedrale di Fratel Ettore. Proprio lì, nel 1987 partecipai in incognito alla Messa celebrata davanti a credenti e non credenti di tutte le razze accomunati dalla miseria e dalla disperazione. 

L’altare era il tavolo della mensa e le panche i cartoni sistemati per terra. Come pulpito Fratel Ettore salì su una sedia e rivolto a quella platea di fedeli disse loro di pregare tutti assieme per le intenzioni di una persona che in quel momento era in mezzo a loro, anonima come loro, ma che ricopriva alte responsabilità è per la città di Milano. Fu un momento di forte intensità spirituale il cui ricordo ancora oggi mi pervade lasciandomi intuire il misticismo di questo religioso”. 

Al Rifugio di via Sammartini offriva a tutti un pasto e un letto. Poi prima di spegnere la luce, prendeva la corona del Rosario, si inginocchiava e cominciava a pregare: “Ringraziamo Maria che anche oggi è stata generosa con noi. Chi vuole ripeta le mie parole”. Nessuno si rifiutava. Anche chi da tempo aveva smarrito la fede, anche chi non era cristiano. Fratel Ettore con il sorriso dolce e gli occhi luccicanti, non conosceva le sottigliezze teologiche del dialogo interreligioso. 

Ai musulmani, che sempre più numerosi affollavano i suoi centri in questi ultimi anni, diceva: “Pregate come siete capaci, Dio sa leggere nei cuori”. E lui intonava il Salve Regina, senza iattanze né obiettivi di proselitismo, ma perchè convinto che il manto materno della Vergine fosse per tutti un aiuto formidabile. 

Fratel Ettore era ciò che nel monachesimo viene indicato come guida, che è molto più di un maestro, come spiega bene André Louf, abate di Mont-des-Cats in un suo libro. L’intera vita di Fratel Ettore era ciò che sapeva o poteva dire, ma in forza di ciò che era. Solo dall’amore scaturisce la vita perchè l’amore è interamente immagine di Dio e del figlio suo, di cui la guida tende ad essere l’icona. 

Il messaggio di vita s’irradiava da lui in qualità del suo essere e quasi inconsapevolmente. Sul volto di questo uomo santo e attraverso il suo modo di agire abbiamo percepito l’amore di Dio nelle sue sfaccettature di tenerezza e di fermezza. Era molto forte in Ettore la paternità. Quando è morto sulla sua bara una mano sapiente e è perspicace ha voluto scrivere: “Padre dei poveri” e il cardinale Tettamanzi, nella sua omelia, riprenderà quell’appellativo spiegando che la Bibbia lo riferisce solo a Dio, il Pater Pauperum per eccellenza. Ma, continua il Cardinale, Fratel Ettore è stato, con tutta la sua carica di umanità e per un dono grande di Dio e del suo amore, una trasparenza particolarmente luminosa, credibile ed efficace di questa paternità. 

Padre Fausto Beretta, missionario comboniano in Brasile, racconta in una testimonianza: “Il primo ricordo con Fratel Ettore risale al 1947, quando nell’Auditorium del “Cenacolo di Milano”, era di autunno, ci comunicò la sua scelta di viver con gli ultimi alla Stazione Centrale. Era una sfida a seguirlo, ad andare con lui. 

L’abbiamo accettata, ma quante volte di sabato pomeriggio andando a Milano ci chiedevamo: ma perchè ci andiamo? Per vedere chi? Se poi, probabilmente, Fratel Ettore sarà tutto indaffarato e non ci darà attenzione o ci farà fare cose assurde? Sì, perchè davvero diceva e faceva cose che nessuno di noi aveva il coraggio di fare, ma la sua testimonianza ci ha sedotto e dato coraggio.

Ricordo i rosari al “Rifugio”, prima e dopo cena, i digiuni e le penitenze imposte ai poveri barboni che avevano abusato nel bere, o quelle minestre troppo saporite, annacquate all’ultima ora a mortificare la gola. Fratel Ettore si spingeva sempre avanti, oltre il buon senso, con la forza e la chiarezza dei profeti.  

Erano proposte sempre nuove e quasi assurde, ma che venivano dal suo cuore, dal suo amore per Maria e per chi viveva al margine della società: per il barbone, l’alcolizzato, la prostituta, la vecchia abbandonata, il terzomondiale, il fallito nella vita.

Il Rifugio di via Sammartini divenne per molti la scuola del Vangelo, il luogo di verifica della nostra preghiera, il luogo della scoperta del volto di Gesù di Nazareth nel povero e la fonte di molte vocazioni missionarie, e non solo. Là, in via Sammartini, molti giovani, ragazzi e ragazze, hanno deciso di lasciare tutto per seguire il Signore, scegliendo la vita religiosa contemplativa o attiva”.

Devotissimo a Maria, angosciato quando rubarono la statua davanti al dormitorio di via Sammartini, si mise a girare per Milano su una scassatissima automobile con la sacra immagine legata sul tettuccio, mentre da un megafono usciva la sua voce che recitava il rosario. Come quell’altra volta, ricorda il sindaco di Seveso, Tino Galbiati, che Fratel Ettore, arrabbiato perchè non gli venivano concessi i permessi per ampliare il centro, girò per due giorni le strade del paese con l’auto con sopra la Madonna, finchè i permessi non giunsero. Allo scoppio della guerra nei Balcani portò la sua Mamma Celeste in piazza Duomo, la pose sui gradini, si inginocchiò e cominciò a sgranare la corona, fra lo stupore della folla, per chiedere la fine della guerra. 

Al Gay Pride si mescolò alle lesbiche e agli omosessuali chiedendo a Maria di intercedere per loro e, dopo aver pregato brandendo la statua della Vergine e ponendosi di fronte al corteo, come il ragazzo di Tienan-Men davanti al carro armato, gridava “Convertitevi!”. 

Ai più queste scene apparivano patetiche. Perchè Fratel Ettore era sorretto dalla fede ma soprattutto da una ingenuità beata e testarda, tipica dei santi. Lo dimostrò anche nell’ottobre del 1989 quando il Coro della Scala partì per una tournee in Unione Sovietica. Ai coristi diede centinaia di Bibbie, perchè le nascondessero nelle valigie e le distribuissero a Mosca e Leningrado. 

A uno di loro, il Frate che credeva nella Provvidenza, consegnò un regalo per Gorbaciov, un’icona di San Michele, con la raccomandazione:”Portalo al fratello Michele per il suo onomastico e digli che prego per lui”. Il corista obbedì. Il vice ministro che prese in consegna il donò ringraziò…a solo due settimane dal crollo del Muro di Berlino e dal disfacimento dell’Unione Sovietica. 

Non c’era ricorrenza significativa che non lo vedesse raggiungere piazza Duomo con i suoi mezzi alternativi ed il suo seguito di umanità sofferente, megafono alla mano per il rosario e due volontari a distribuire immaginette della Vergine Maria. Era, la sua, un’autentica evangelizzazione di strada, tanto più dirompente e scandalosa perchè giungeva a sorprendere la fretta un poco indifferente della metropoli. 

Ben presto Fratel Ettore stesso, diventa meta di pellegrinaggi altrui, da madre Teresa All’Abbé Pierre. Lui non si ferma, va in visita al Papa, torna in stazione, va fra i terremotati; durante la guerra nell’ex-Iugoslavia, a metà anni Novanta, aiuterà con più di duecento viaggi di Tir carichi di aiuti umanitari e i Savoia si terranno obbligati a fargli visita per ringraziarlo. 

Controcorrente sempre, capace di sorprendere e di disorientare con quella forza segreta che gli veniva da lunghe ore trascorse immerso in preghiera. Quando un sacerdote camillliano in partenza per l’America Latina gli chiese una statuetta della Madonna da portare in missione, Fratel Ettore andò ad acquistarne una da un amico scultore, alta quasi due metri, pesantissima, in marmo bianco, magnificamente scolpita. Costo, cinque milioni di vecchie lire. E quasi altrettanto occorreva spendere per imballarla e spedirla oltre Oceano. 

Quando l’economo di Casa Betania a Seveso -il quartiere generale delle sue opere di misericordia- fu informato della spesa, assalì Fratel Ettore con parole di fuoco: “Ma come, dobbiamo pagare un conto di cento milioni, tra pochi giorni per i lavori qui alla casa e tu vai a spenderne altri dieci per una statua”. Ma lui non si fece intimorire:”E’ una missione che sta muovendo i primi passi. Hanno il diritto di avere una bella immagine di Maria”. 

Quella sera stessa una signora mai vista prima bussò alla porta e consegnò un assegno di alcune centinaia di milioni, sufficiente per la statua, per pagare i lavori e per altre spese ancora. La casa di Bogotà, la sua missione in Colombia, l’ha pagata Luis Gabriel. Naturalmente quella casa Fratel Ettore l’aveva fermata con il conto in banca sotto zero. Un giorno andando a messa con i suoi poveri, incontra per strada un uomo appoggiato al muro che tiene sul viso uno straccio, (quell’uomo si chiamava Luis-Gabriel, ha fatto una morte santa). 

Pensandolo ubriaco lo invita a bere un tinto, così si chiama il caffè a Bogotà. Quando il povero si stacca dal muro per seguirlo e toglie lo straccio dal viso, Fratel Ettore non trattiene un urlo…Luis ha solo mezza faccia, il resto gliel’ha mangiata il cancro. Lo convince a seguirlo in un ospedale da dove viene cacciato insieme al povero:”E’ uno di strada, non lo vogliamo. E poi che serve curarlo? Ha poco da vivere”. Come una mamma se lo porta a casa e sembra non sentire il fetore che emana quel povero viso devastato. Lo netta del pus, stacca brandelli di pelle marcia, lo fascia con amore e gli dà un bacio. Il giorno dopo dall’Italia gli comunicano che un benefattore ha donato 90 milioni. Il costo della casa. 

Non era uno che “chiedeva” Fratel Ettore. Soldi meno che mai. La Provvidenza (scrivi “Provvidenza” sempre con la maiuscola, diceva, perchè significa Dio!), ci pensava da sola: si chiama “Rotary” o con qualunque altro nome. No, era lui, Fratel Ettore, ad andare incontro alle altrui necessità. Era lui a fare offerte al Papa, accompagnandole con un bigliettino pieno di candore: “Dai poveri per i più poveri del Papa”; oppure offerte per le missioni del suo Ordine Camilliano; o aiuti di tutti i generi ad altre Comunità religiose.

Se vi erano richieste, le sue erano di tutt’altra natura. Come quando fece irruzione ad un convegno sulla solidarietà milanese, pieno di nomi importanti, portandosi dietro un centinaio di ucraine: “Se volete davvero fare qualcosa di utile – gridò – ciascuno di voi ne assuma una come colf. Adesso!”.

Era un grand’uomo che ha stupito Milano con la sua semplicità, umiltà e determinazione. Era uno che apriva strade impensabili ad altri e le ercorreva tutte, fino in fondo, con passione, Aveva una fiducia cieca nella Provvidenza. 

L’altro giorno” ha raccontato una volta “eravamo senza pane. Stavo uscendo per andarlo a cercare quando ne è arrivato un camion pieno”.
“E chi te lo ha mandato?”

Non lo so. Secondo me Maria Vergine”. 

 

FRATEL ETTORE BOSCHINI

Camilliano   

 Belvedere di Roverbella, Mantova,

25 marzo 1928 – Milano, 20 agosto 2004

Un samaritano dei nostri tempi, che nella scia di s. Camillo de’ Lellis, dedicò buona parte della sua vita a lenire le sofferenze dei bisognosi, soprattutto dei più diseredati e soli, andando perfino a cercarli per dare loro un punto di riferimento, in questa società indifferente.
Fratel Ettore Boschini nacque il 25 marzo 1928 nella frazione di Belvedere del Comune di Roverbella (Mantova), in una famiglia di benestanti agricoltori.


Ma già da quando aveva quattro anni, le condizioni economiche familiari cambiarono; a causa di una grave carestia, il padre fu obbligato a lasciare la tenuta agricola di Belvedere, per trasferire la famiglia nella contrada Malavicina, dove tentò di ricominciare tutto daccapo.


La fanciullezza di Ettore trascorse così in ristrettezze economiche familiari e giunto all’adolescenza dovette lasciare la scuola, per andare a lavorare nei campi e nelle stalle, alle dipendenze di piccoli proprietari terrieri.
Il lavoro era talmente duro per la sua giovane età, che gli procurò i violenti mal di schiena, che praticamente lo tormentarono per tutta la vita.


Giunto ai 24 anni, la vocazione allo stato religioso che avvertiva in sé, si fece più insistente, per cui scelse di entrare nell’Ordine dei Camilliani, venendo accolto il 6 gennaio 1952 e pronunciando i voti temporanei come Fratello, il 2 ottobre del 1953.


L’Ordine dei Ministri degli Infermi, conosciuti popolarmente come Camilliani o Camillini, fu fondato nel 1582 da s. Camillo de’ Lellis (Bucchianico, Chieti, 1550 – Roma, 1614); i membri, sia maschili che femminili (ramo fondato nel XIX secolo), sono dediti all’assistenza e cura degli ammalati, dei feriti in guerra, soprattutto negli ospedali, che grazie a loro, dal XVI secolo furono completamente rinnovati e quindi ogni ammalato poté ricevere le cure necessarie.


Fratel Ettore ebbe come destinazione la Casa camilliana degli Alberoni al Lido di Venezia, dove rimase come fratello operoso e benvoluto, per una ventina di anni.


Nei primi anni Settanta fu destinato a Milano, alla clinica camilliana “San Pio X”, dove mentre lavorava, riuscì a conseguire la licenza media e il diploma d’infermiere professionale.
Nel capoluogo lombardo, scoprì le miserie che si nascondono nella vita metropolitana delle grandi città e iniziò ad aiutare i più bisognosi, appoggiandosi dapprima alla clinica “San Camillo”, e poi dal 1979, con il permesso dei suoi Superiori, accogliendoli e dando loro un punto di riferimento in Via Sammartini.

Desideroso di stare vicino ai più diseredati, barboni, extracomunitari, senza tetto, persone sole senza affetti, prese ad istituire dei “Rifugi”, luoghi ospitali organizzati per soccorrerli al meglio, prima da solo, poi con l’aiuto di volontari, anime sensibili attratte dal suo carisma camilliano. 
 

 

Il primo “Rifugio” fu appunto quello di Via Sammartini a Milano, un androne sotto i ponti della Stazione Centrale, un luogo molto particolare, con il soffitto che tremava con il passare dei treni e con lo sferragliare dei vagoni che assordava gli ospiti; erano dei disperati che comunque poterono a migliaia trovare negli anni un calore umano, accolti con amore infinito da fratel Ettore Boschini, che li considerava come suoi fratelli con dignità pari a quella di qualsiasi uomo e donna.

L’incontro di tante persone, di estrazione sociale differenti, di poco studio, abbruttite dalle necessità, di età diverse, bisognose di tutto, dal cibo ai servizi igienici, dal letto alla pulizia personale, dal vestiario e biancheria pulita alla necessità di parlare con qualcuno; generava una condizione effervescente e promiscua, che spesso sfociava in discussioni e intolleranze reciproche; in ciò interveniva paziente e umile fratel Ettore a riportare la calma e serenità, giungendo a fare recitare “senza imposizioni”, le preghiere di ringraziamento.


Il “Rifugio” di Milano, fu da lui dedicato agli “Amici del Cuore Immacolato di Maria”; nel tempo seguirono il centro di accoglienza “Casa Betania” a Seveso (MI), il Villaggio delle Misericordie ad Affori – Milano, la Casa “Nostra Signora di Loreto” a Collespaccato di Bucchianico (Chieti), il Villaggio Grosio di Grottaferrata (Roma) e la Comunità di Nazareth a Bogotà in Colombia.


Tutti centri di accoglienza, realizzati con l’aiuto della Provvidenza e dei tanti benefattori e volontari, che affascinati dalla sua reale e singolare testimonianza del Vangelo, cercavano di sostenerlo ed aiutarlo, in questa sua missione così difficile di moderno samaritano; la sua opera comunque, oltre a creare ammirazione, suscitò anche purtroppo tante incomprensioni.


Con la sua sdrucita veste talare nera, con la grossa croce rossa sul petto, abito tipico del suo Ordine, percorreva in lungo e in largo Milano, alla ricerca dei bisognosi, specie quelli più vergognosi della loro misera condizione e con umiltà e tenerezza, porgeva la mano del suo aiuto concreto e spirituale, per sollevarli dall’isolamento; portava in tasca le corone del rosario di plastica bianca e ad ogni occasione le distribuiva, invitando ad elevare l’animo nella preghiera, recitando un Ave Maria alla Madonna, della quale era devotissimo.

Non era un religioso chiuso nel suo ambiente caritativo, anzi, con i suoi speciali amici, spesso lo si vedeva in manifestazioni di religiosità esterne, tanto da essere definite di tipo “folcloristico”, come girare per le strade cittadine su una vecchia ‘Uno’ bianca, con sul tetto ben fissata, una statua della Madonna di Fatima, alla ricerca di un fratello più sventurato; come le ore di preghiera trascorse in ginocchio in Piazza del Duomo a Milano, durante la prima Guerra del Golfo; la costruzione all’ingresso di Casa Betania a Seveso, di una cappella di cristallo, come quella costruita a Fatima per le apparizioni della Vergine, della quale diceva: “Senza il suo aiuto, non avrei saputo combinare niente”. 

 

Ai suoi giovani volontari, insegnava il difficile Vangelo della strada, quello che si vive fra i derelitti; i figli più amati da Dio, come fratel Ettore li chiamava; perché egli era convinto che ogni uomo, anche se povero, sporco e malvestito, aveva una sua dignità e doveva essere rispettato; anche il più povero era una creatura del suo Dio e questo stesso Dio vuole mostrare a loro il suo amore per mezzo di noi.

Superò infinite difficoltà, incomprensioni, maltrattamenti e, con il tempo, divenne il simbolo di una vera e difficile solidarietà dei nostri tormentati, consumistici, indifferenti tempi.

Fratel Ettore Boschini, morì il 20 agosto 2004 a 76 anni, nella clinica camilliana “San Pio X” a Milano; in quel fine estate la città rimase scossa per la perdita di quel testimone ‘scomodo’ dell’amore di Dio; in effetti tutti lo conoscevano e qualcuno lo definiva un matto, ma la notizia arrecò ai milanesi un vuoto terribile; fratel Ettore era infatti un uomo, un religioso, difficile da capire in questi tempi di diffuso egoismo, ma necessario ed efficace a far risvegliare le coscienze di quanti lo conoscevano.

Durante i funerali, il Superiore Generale dei Camilliani, padre Frank Monks, disse: “Lui, come diceva san Camillo, aveva capito bene che i poveri non hanno bisogno di una predica sull’amore di Dio, ma piuttosto sperimentare questo amore per mezzo della nostra assistenza, fatta con “più cuore nelle mani”.

La sua salma riposa nella Cappella della “Casa Betania” a Seveso; nella stessa Cappella riposa anche uno dei suoi giovani volontari e collaboratori dei primi anni, prematuramente scomparso a 34 anni, il Servo di Dio Sabatino Jefuniello (Sarno, (Salerno), 19-12-1947 – Milano, 30-8-1982), la cui Causa di Beatificazione, introdotta nel 1996 a Milano per iniziativa dei Padri Camilliani, ha ricevuto il nulla osta della Santa Sede il 14 dicembre 2002.

 

Antonio Borrelli 

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