04 – PADRE NOSTRO – IL REGNO DI DIO – Luca Beato oh

IV 

IL REGNO DI DIO

( Venga il tuo Regno )

Al centro della predicazione di Gesù sta l’annuncio dell’avvento del Regno di Dio ( Mc 1,14-15 ). Gesù non dà la definizione del Regno di Dio ( o dei Cieli, come dice Matteo ), ma dalle parabole narrate per illustrarne gli aspetti più salienti, si capisce che non si tratta di un regno territoriale o di un’area di potere, bensì della Signoria di Dio, della funzione di governo o di direzione che Egli intende assumere nel mondo. Si tratta del Regno di Dio che si attua nel tempo finale, non di quello naturale della creazione. Un Regno che si deve instaurare non con la violenza o la lotta armata, come volevano gli zeloti, ma da attendere da Dio pacificamente. Non un giudizio-vendetta di Dio favorevole ad una élite ( Esseni e Qumran ) e contro tutti gli altri; ma la lieta novella della bontà sconfinata di Dio e della sua misericordia verso i peccatori. Non un Regno da costruire con una esatta osservanza della Legge ( Farisei ). La sua realizzazione infatti dipende dalla libera iniziativa di Dio.

 

Il questo Regno viene santificato il nome di Dio, viene realizzata la sua volontà; gli uomini avranno abbondanza di tutto, ogni colpa verrà perdonata e il male sarà sconfitto ( Mt 6,9-13 ). Potranno levare il capo i poveri, gli affamati, i vilipesi e avranno fine il dolore, la sofferenza e la morte. Un Regno che realizza le promesse profetiche e messianiche. Un Regno che segna il tempo della salvezza, del compimento, del perfezionamento della presenza di Dio nel mondo.

 

Gesù e il movimento rivoluzionario

 

La Galilea era la patria del movimento rivoluzionario zelota. ( Zelota = zelatore, con sfondo di fanatismo). Gli zeloti erano i partigiani della resistenza. Formavano bande di predoni e facevano scorribande anche contro i propri connazionali. Facevano anche la guerriglia urbana, specialmente nelle Feste. Portavano un corto stiletto detto in latino “sica”, da cui il nome di “sicari”.

 

Tre uomini in particolare bisogna ricordare. Giuda di Gamala, detto “il Galileo”, fondò un movimento rivoluzionario al tempo della nascita di Gesù. Nella guerra del 70 d.C. un galileo, Giovanni di Giscala, capo zelota recitò una parte di primo piano nella difesa del Tempio. L’ultimo capo zelota, Bar Kochba ( = figlio delle stelle ), la cui rivolta fu repressa dai Romani nel 132 d.C. dopodichè Gerusalemme fu dichiarata per gli Ebrei città proibita.

 

Qualunque capo un po’ importante del movimento rivoltoso veniva dichiarato messia o re, ed era considerato un inviato escatologico e plenipotenziario di Dio.

 

E Gesù? Tra i suoi discepoli c’è un certo Simone lo zelota. Si fanno congetture, basandosi sul nome, anche per Giuda e per i “figli del tuono” Giacomo e Giovanni. Al momento dell’arresto di Gesù nell’orto, un discepolo, che secondo Giovanni è Pietro ( Gv 18,2-11), colpisce con la spada un servo del sommo sacerdote ( Mc 14,43-52 ). Infine non bisogna dimenticare che nel processo davanti a Ponzio Pilato Gesù viene qualificato come “re dei Giudei”. Un titolo del genere non nasce dal nulla. L’ingresso in Gerusalemme e la cacciata dei mercanti dal Tempio collocherebbero Gesù su questa linea.

 

Certo Gesù è stato, a modo suo, un rivoluzionario. “Critica aspramente le cerchie dominanti e i grandi proprietari terrieri. Si scaglia contro gli abusi legalizzati, la cupidigia, la durezza di cuore, parteggiando per i poveri, gli oppressi, i perseguitati, i miseri, i dimenticati…” ( H.Kueng, Essere cristiani, pag.201).

 

Ma Gesù non è un guerrigliero, un golpista, un agitatore del popolo. Non predica la violenza o il ricorso alle armi. Non fomenta gli umori antiromani. Vince le “tentazioni” di un regno umano, fugge quando vogliono farlo re. L’ingresso in Gerusalemme non è un fatto militare, ma un gesto pacifico, simbolico. Non istiga il popolo contro il pagamento delle tasse. Non proclama una guerra di liberazione nazionale. Non predica la lotta di classe. Nessuna rinuncia socio-rivoluzionaria al consumo ( spesso banchetta fastosamente). Nessuna abolizione della Legge in nome della Rivoluzione.

 

La rivoluzione di Gesù è la rivoluzione della non violenza. Egli fu il più rivoluzionario di tutti i rivoluzionari in questo senso: Anzichè annientamento dei nemici, amore dei nemici. Anzichè ritorsione, perdono incondizionato. Anzichè ricorso alla violenza, disponibilità a soffrire. Anzichè canti di odio e di vendetta, esaltazione dei pacifici. La lotta deve essere fatta non contro gli uomini, ma contro le forze del male: odio, ingiustizia, discordia, violenza, falsità, egoismi umani in genere; inoltre contro: dolore, malattia e morte. Per fare ciò occorre convertirsi ( metànoia = conversione).

 

Orizzonte apocalittico

 

Anche Gesù, come tutta la generazione apocalittica, attese l’avvento del Regno di Dio in un futuro imminente ( Mc 1,15 ). Certo, non possiamo arrivare a delle indicazioni precise: se doveva coincidere con la sua morte o realizzarsi dopo. Gesù, però, parla della sua generazione ( Mc 9,1 ) e mai di un tempo lontano.

 

Ormai gli esegeti convengono nel ritenere che tanto Gesù, quanto Paolo e la prima generazione cristiana attendevano la realizzazione imminente del Regno di Dio.

 

Poi avvenne un ridimensionamento circa i tempi di attesa. Per San Luca, il compimento del Regno si ha già con la comparsa dello stesso Gesù ( Lc 4,18-21 ). San Giovanni fa un anticipo dell’escatologia al “già ora”: all’ascolto della parola di Gesù avviene il giudizio dell’uomo, o per la salvezza o per la condanna ( Gv 3,15; cfr.nota della Bibbia di Gerusalemme ). San Pietro interpreta: presso il Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo ( Pt 3,8-10 ).

 

Con l’idea dell’imminenza dell’avvento del Regno di Dio, si spiega l’insegnamento di Gesù sulla noncuranza della propria vita, del vitto, del vestiario, ecc. E’ in questa luce che vanno interpretate le parabole del Regno: esso è la cosa più importante; per esso si deve sacrificare tutto. C’è grande contrasto tra i suoi umili inizi e il suo grandioso compimento finale. E’ la potenza di Dio che realizza tutto ciò, sconfiggendo le forze del male.

Nella predicazione del Regno di Dio Gesù sembra quasi un estraneo, soltanto un annunciatore, un grande profeta di Dio, più grande di Giovanni Battista.

 

Problema.

Riguardo al Regno di Dio e in particolare sul tempo della sua realizzazione, Gesù si è sbagliato? Ma era possibile che Gesù si sbagliasse?

Stando alla Lettera agli Ebrei, sembrerebbe possibile ammettere che Gesù si potesse sbagliare in qualche cosa. Si afferma infatti che Egli era in tutto simile a noi, fuorchè nel peccato ( Eb 4,15 ), quindi non si escluderebbe l’errore.

 

Ma si tratta proprio di un errore?

 

Le cose ultime ( escatologia ), come le cose prime (creazione) non formano oggetto di esperienza diretta da parte degli uomini. Quindi si possono soltanto descrivere con immagini o raccontare poeticamente.

 

Per capire queste realtà noi dobbiamo procedere ad un’opera di demitizzazione, non eliminante, ma interpretante. Dobbiamo distinguere cioè la realtà significata dal linguaggio, dal genere letterario, dalla struttura concettuale in cui è stata espressa.

 

Nel nostro caso, l’attesa del Regno di Dio a breve scadenza non rappresentò un errore da parte di Gesù, ma una visione del mondo condizionata dalla mentalità apocalittica, che Egli condivise con i suoi contemporanei.

 

 

Tra presente e futuro

 

Il mistero del Regno di Dio, descritto da Gesù con parabole, non è da Lui soltanto annunciato come imminente, ma è anche da Lui realizzato nel presente. E’ Lui il seminatore che semina la parola di Dio. E’ Lui che guarisce i malati e perdona i peccatori. E’ Lui che inaugura la realizzazione del Regno di Dio.

 

Gesù non si occupa solo del futuro, come l’apocalittica giudaica, quindi la sua non è un’escatologia conseguente, come sostiene A. Schweitzer. Gesù non si occupa solo del presente, senza agganci con l’apocalittica e il futuro assoluto di Dio. La sua non è un’escatologia realizzata, come vorrebbe C.H.Dodd. Gesù si occupa contemporaneamente del “già” e del “non ancora”. Tramite Gesù, il Regno di Dio del futuro è una forza già operante nel presente.

 

In questo senso vanno intese le Beatitudini “nuove” di Gesù rivolte ai poveri, ai sofferenti e agli oppressi. E’ Dio che interviene per liberarli, come ha fatto con gli Ebrei schiavi in Egitto e a Babilonia.

 

Il Regno di Dio non è una promessa consolatoria che riguarda il futuro escatologico, una proiezione di desideri inappagati, come ritenevano i filosofi “del sospetto” Feuerbach, Marx e Freud. Il futuro è appello di Dio al presente. Già ora bisogna strutturare la vita secondo la prospettiva del futuro assoluto. Il presente è il tempo della decisione alla luce del futuro assoluto di Dio.

 

Dio ci sta davanti

 

La fine del mondo non si verificò, ma il messaggio di Gesù non ha perso il suo significato. La vita umana e la storia dell’umanità hanno un termine. Gesù ci è venuto a dire che al termine della vita e della storia umana non ci sta il nulla, ma ci sta Dio. Non ha importanza se la fine arriva presto o arriva tardi. Il Regno di Dio, già iniziato con Gesù, è avviato al suo compimento escatologico.

 

Nella storia che stiamo vivendo, che si colloca tra il già e il non ancora, bisogna guardarsi dal compiere erronee identificazioni del Regno di Dio.

 

  • Non è una potenza terrena.
  • Non è la Chiesa istituzionalizzata. Purtroppo nel passato ( e fino al Card. Siri ) si è sostenuto questo. Essa, invece, secondo il Concilio Vat. II, è un segno e uno strumento per la realizzazione del Regno di Dio.
  • Non è l’utopia della rivoluzione francese ( libertà, uguaglianza, fraternità ).
  • Non è l’utopia del comunismo ( il paradiso in terra ).
  • Non è l’utopia del progresso tecnico e scientifico, ecc.

 

Il compimento del Regno di Dio non avviene tramite un’evoluzione culturale o tecnica o una rivoluzione di destra o di sinistra. Questo compimento avviene in forza dell’azione di Dio, la quale però non esclude, anzi include, l’azione dell’uomo, ma la trascende. Dio infatti non è al di sopra del mondo o al di fuori del mondo, come sosteneva la vecchia metafisica; o dentro di noi, come vuole l’intimismo. Dio sta davanti a noi. Dio è il futuro che fonda la nostra speranza che il suo Regno arriverà al suo compimento.

Senza titoli nè dignità

 

Che ruolo svolge Gesù in rapporto al suo messaggio? Chi è Gesù? Soltanto un Rabbi, Maestro di un gruppo di discepoli? Un profeta? O magari il profeta atteso per il tempo finale? I pareri dei contemporanei sono discordi ( Mc 8,27 s ) e nei vangeli a suo proposito non si parla di vocazione profetica come per Isaia, Geremia, ecc.

 

Gesù è davvero il Messia, il Figlio di Dio? Qui bisogna distinguere bene tra il Gesù della storia e il Cristo della fede. Al centro del suo messaggio Gesù ha collocato il Regno di Dio, non il proprio ruolo, la propria persona, la propria dignità.

 

Che la comunità post-pasquale, ferma ed energica assertrice della piena umanità di Gesù di Nazaret, abbia insignito quest’uomo dei titoli di Cristo, Messia, Figlio di Davide, Figlio di Dio, è innegabile ( Cfr. H.Kueng, Op.cit. pag. 318 ). I redattori dei Vangeli scrivono in questa visuale retrospettiva, ispirati dalla fede pasquale. Così va intesa tanto la confessione di Pietro: “Tu sei il Messia” ( Mc 8,29 ), quanto la domanda del sommo sacerdote ( Mc 14,61 ).

 

Secondo i Vangeli sinottici – a differenza di Giovanni – Gesù non si è mai autoproclamato Messia, nè si è attribuito qualche altro titolo equivalente. Forse perchè voleva evitare il rischio di venire interpretato in modo sbagliato. Questo argomento è stato molto dibattuto, ma ormai gli esegeti sono tutti d’accordo che Gesù non si attribuì alcun titolo messianico: nè Messia (= Cristo ), nè Figlio di Davide, nè Figlio, nè Figlio di Dio.

 

Dopo la Pasqua, invece, uno sguardo retrospettivo indusse a vedere l’intera tradizione di Gesù – non a torto, come si potrà constatare – in una luce messianica e a inserire la confessione del Messia nella narrazione della storia di Gesù, aggiungendo però la proibizione di parlarne apertamente. In Marco c’è addirittura il segreto messianico in tutto il vangelo.

 

Resta tuttora discussa la questione se Gesù abbia applicato a sè il titolo “Figlio dell’uomo”, che nei vangeli ricorre ben 82 volte, sempre ed esclusivamente in bocca a Gesù. Egli ne parla sempre in terza persona con riferimento: 1) al Figlio dell’uomo prossimo a venire come giudice ( Dn 7,13-14 ); 2) al Figlio dell’uomo che dovrà soffrire molto; 3) al Figlio dell’uomo terreno e presente.

 

Queste incertezze riguardo ai titoli non devono preoccuparci più di tanto: non diminuiscono minimamente la grandezza della figura di Gesù. La sua “pretesa” non coincide con i titoli, ma li travalica. Al di là dei titoli, che potevano portare fuori strada, date le aspettative messianiche dei contemporanei, sta il fatto che Gesù pretendeva dai suoi uditori una decisione ultima per la causa di Dio e dell’uomo. In questa causa Egli si immedesimava totalmente. Così il grande problema della sua persona era posto in modo indiretto e la rinuncia ad ogni titolo non faceva che infittire il mistero.

 

Quelli che parteggiavano per Gesù

 

Gesù è un uomo senza alcuna credenziale umana ( di famiglia, paese, soldi, cultura, partito, cariche, dignità, tradizione ) e nondimeno avanza delle pretese inaudite. Si mette sopra la Legge, il Tempio, Mosè, i Re, i Profeti. Le frasi “ma io vi dico” del discorso della montagna e quelle introdotte dall’ Amen ( = in verità ) rivendicano un’ Autorità superiore a quella dei Rabbi e dei Profeti. La sua Autorità e i suoi poteri non li giustifica mai ( Mc 11,28-33 ): li possiede, li esercita e basta. In forza di questa sua Autorità superiore, Gesù annuncia, con la parola e con l’azione, la volontà di Dio ( = il bene dell’uomo ) e fa interamente sua la causa di Dio ( = la causa dell’uomo ).

 

Tutta la sua esistenza poneva la gente di fronte ad una decisione: pro o contro il suo messaggio, la sua azione, la sua stessa persona: indignarsi o cambiare, credere o non credere, convertirsi o restare come prima. Ognuno, a seconda della scelta, sarebbe stato segnato positivamente o negativamente per il Regno imminente, per il giudizio definitivo di Dio.

 

Il popolo. Nella Galilea Gesù aveva dato vita a un movimento di notevoli proporzioni. Se gli evangelisti parlano di una “massa” che ascolta Gesù, si meraviglia delle sue parole e dei suoi miracoli, pronuncia a suo riguardo parole di elogio, è indubbio che essi riferiscono qualcosa di storico.

 

E’ proprio questo popolo semplice, sfruttato dai potenti, incompreso dai ribelli, disprezzato dagli asceti del deserto e dai Farisei delle città, perchè non idoneo al servizio del tempio, nè al servizio militare, incapace di eroismi ascetici e dell’esatta osservanza della Legge: è proprio questo popolo che attira l’attenzione, la premura, la “compassione” di Gesù. Sono queste le persone che Gesù dichiara beate e sono queste le persone che si schierano dalla parte di Gesù.

 

I seguaci più fedeli. C’è tra questa gente un gruppo di persone che seguono continuamente Gesù. Hanno lasciato casa, famiglia, professione e lo seguono nel suo peregrinare da un luogo all’altro. A questi seguaci – non ai suoi familiari e nemmeno a sua Madre( Mc 3,21.31-35 ) – Gesù si sente legato da vincoli di grande affetto ( a differenza di Budda, Confucio, Socrate e Maometto, che essendo sposati, erano più legati alla famiglia ). Sono questi gli allievi, i discepoli di Gesù.

 

Stupisce il fatto che Gesù sia riuscito a formare un gruppo di discepoli, avendo avuto così poco tempo per farlo ( a differenza di Budda e Maometto ). Per di più non era un Maestro titolato, come invece erano i Rabbini.

 

Nella sua scuola manca l’elemento scolastico, presente invece nelle scuole dei Rabbini. Manca inoltre l’elemento ascetico, caratteristico della scuola di Giovanni Battista, dalla quale provengono alcuni discepoli.

 

I racconti delle vocazioni

 

I racconti delle vocazioni sono molto schematici, fanno risaltare soltanto gli elementi esemplari. Non è l’allievo che sceglie il Maestro ( come presso i Rabbini ), ma è il Maestro che si sceglie gli allievi. Il discepolo non viene chiamato a un rapporto didattico, ma a una comunione di vita e di destino con Gesù. Non a studiare la Legge, ma a fare la volontà di Dio. Non ad una istruzione temporanea, ma a una formazione continua per tutta la vita. Da discepoli non si diventa mai maestri. Uno solo è il Maestro e noi siamo tutti fratelli ( Mt 23,8-10 ).

 

Il gruppo dei discepoli non viene mai messo in contrapposizione al popolo simpatizzante ( non una élite contrapposta al resto ). I discepoli sono coloro che, tra gli aderenti a Gesù, hanno fatto una scelta più radicale. I discorsi di Gesù, anche quello della montagna, sono rivolti a tutto il popolo.

 

Il Regno di Dio deve venire per tutti e da parte di tutti si richiede la conversione, cioè un cambiamento radicale di mentalità e di vita. Gesù però non pretende che tutti rinuncino alla famiglia, alla professione, al luogo di origine, per aggregarsi a lui e assumere un compito particolare. La rinuncia al matrimonio ( Mt 19,12: eunuchi per il Regno dei cieli ), non è richiesta a tutti, ma solo in via eccezionale.

 

L’essere discepoli della cerchia particolare di Gesù non è condizione indispensabile per la salvezza. Molte persone credono in Gesù ( miracolati, peccatori, pubblicani, gente comune ), ma restano dove sono ( casa, paese, professione ). Non per questo vengono esclusi dal Regno di Dio, nè vengono rimproverati di mancanza di impegno e di generosità. Si dà anzi un caso contrario: a un ex indemoniato Gesù impedisce di seguirlo, ma gli raccomanda di annunciare il Regno di Dio tra i suoi familiari ( Mc 5,18-20 ).

Due frasi sembrano in contraddizione tra loro.

 

  • Chi non è con me è contro di me” ( Mt 12,30; Lc 11,23 ).
  • Chi non è contro di noi è con noi” ( Mc 9,40; Lc 9,50 ).

La prima frase riguarda quelli che non si decidono alla conversione. La seconda difende un tale che compie azioni carismatiche nel nome di Gesù, ma non fa parte del gruppo dei discepoli.

 

I discepoli non è per l’ascesi che devono abbandonare tutto, ma è per un compito particolare che possono abbandonare tutto. Per la precisione, nei racconti della missione ( Mc 6,7-13; Mt 10,1-11; Lc 9,1-16; 10,1-16 ) si parla di compito particolare, di destino particolare e di promessa particolare. In questi racconti indubbiamente ci sono molti elementi che sono dovuti alla rielaborazione e all’adattamento post-pasquale. Almeno una cosa però si può affermare con certezza e cioè che Gesù rese partecipi i suoi discepoli del suo potere di predicare e di guarire i malati. In questa prima fase essi non annunciano ancora il Cristo, ma l’avvento del Regno di Dio, come faceva Gesù.

 

Compito particolare: essere pescatori di uomini ( Mc 1,17; Lc 5,10; Mt 10,40 ). San Luca in funzione di questo compito narra la pesca miracolosa (Lc 5,1-9). I discepoli sono attorno a Gesù non solo per accogliere un messaggio, ma anche per ritrasmetterlo. Essi vengono chiamati a contribuire all’annuncio del Regno di Dio e la sua pace e a farne diventare operanti già ora le forze risanatrici ( Mc 3,14 s ).

 

Destino particolare. Lasciare tutto per seguire Gesù significa sciogliere i vecchi legami per allacciarne uno nuovo con la sua persona. Significa pure condividere la sua vita, partecipare alla sorte di chi non ha dove posare il capo ( Mt 8,20 ), spartire con lui la povertà e le sofferenze ( Mt 10,22 ). Il discepolo infatti non deve pretendere di essere da più del suo Maestro, nè il servo da più del suo padrone (Mt 10,24). Un simile impegno richiede una approfondita riflessione, come chi deve costruire una torre o fare una guerra difficile ( Lc 14,28-33 ). La decisione di seguire Gesù non deve dar luogo a ripensamenti, non consente di voltarsi indietro per nessuna ragione ( Lc 9,59-62; Mt 8,21 s ).

 

Promessa particolare.

 

Non vengono promessi posti speciali a destra o a sinistra di Gesù, o distinzioni gerarchiche ( Mt 10,35-40 ). La promessa è questa: Gesù stesso riconoscerà come suoi nel giudizio finale quelli che l’hanno riconosciuto qui in terra. Al contrario, su chi non lo riconosce qui in terra incombe la minaccia del giudizio di condanna ( Lc 12, 8 s; Mc 8,38 ).

 

La posteriore comunità cristiana si è riconosciuta nei discepoli di Gesù. Il nome di discepolo si è generalizzato così da indicare tutti i credenti in Cristo.

 

Gesù ha davvero fondato la Chiesa?

 

E’ certo che Gesù ha avuto un gruppo di discepoli.

E’ certo che tra questi discepoli Gesù ha scelto un gruppo di dodici, chiamati Apostoli. (Questo termine, però, che significa “inviato”, viene dato anche ad altri: Barnaba, Paolo, ecc.).

 

A favore della storicità di questo fatto sta l’antica professione di fede registrata da San Paolo nel 55/56 d.C. nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 15,5), ma risalente, forse, al tempo della sua conversione ( 36 d.C. ). Inoltre il fatto scomodo della presenza di Giuda, sostituito da Mattia ( At 1,15-26 ). Le liste dei dodici divergono un po’ tra di loro ( Mc 3,16-19; Mt 10,2-4; Lc 6,14-16; At 1,13 ), specialmente riguardo a Taddeo o Simone. Dei dodici si sa poco o niente. Per lo più sono pescatori; un doganiere, Matteo, da identificare con Levi ( Mc 2,14 ) e uno zelota, Simone cananeo ( Mc 3,18 ) teoricamente nemici irriducibili. Di Giacomo e Giovanni si sa che erano soprannominati “boanerghes”, figli del tuono. Le figure che si distinguono maggiormente, ma per motivi opposti, sono Giuda e soprattutto Simone, soprannominato forse dallo stesso Gesù Cefa o Pietro ( Mc 3,16). La figura di Pietro si staglia nettamente sui dodici: ne è il portavoce, è il primo a riconoscerlo come Messia, è il primo testimone della risurrezione e il capo della comunità primitiva.

 

A questo punto si pone la questione: Pietro e i dodici erano stati previsti da Gesù come fondamento di una Chiesa, che Egli aveva in animo di istituire?

 

La Chiesa neotestamentaria si è richiamata a Gesù in quanto Cristo, coniando anche l’espressione: “La Chiesa di Gesù Cristo” e gli Apostoli sono per essa di fondamentale importanza. Ma sta di fatto che il Gesù storico confidava nel compimento escatologico del Regno di Dio durante la sua vita. Egli certamente non intendeva fondare una comunità particolare distinta da Israele, con propria professione di fede, proprio culto, propria regolamentazione e cariche proprie. Gesù nella sua predicazione non si rivolge solo ai giusti e ai pii, ma al popolo intero con l’inclusione dei negletti, dei malati e dei peccatori. E’ tutto il popolo, non un santo resto, che è chiamato a diventare il popolo di Dio del tempo finale. Anzitempo non si devono separare i buoni dai cattivi, il grano buono dalla zizzania ( Mt 13,47-50; 13,24-30 ). Nonostante gli insuccessi, Gesù ha continuato a predicare così.

 

I dodici sono proprio il segno di questo popolo di Dio del tempo finale. Simboleggiano le dodici tribù del popolo Ebreo, quando era nel massimo splendore al tempo di Davide e Salomone. Con la scomparsa del Regno del Nord ( 722 a.C.), il popolo Ebreo è ridotto a due tribù e mezza: Giuda, Beniamino e mezzo Levi. I tempi finali vedranno il popolo di Dio radunato nella sua totalità.

 

Tutto questo significa che Gesù non ha propriamente fondato una Chiesa durante la sua vita. Su questo punto gli esegeti sono ormai tutti d’accordo, anche i cattolici ( Cfr. H. Kȕng, Essere cristiani, pag. 316 nota 42 ).

Come intendere allora il loghion di Matteo 16,17-19: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”? Si tratta di uno dei passi più controversi di tutto il Nuovo Testamento. Esso è esclusivo di Matteo. Anche diversi esegeti cattolici, oltre a tutti gli altri, ammettono che non s’inquadra nell’insegnamento di Gesù sull’avvento del Regno di Dio e lo ritengono una elaborazione post-pasquale della comunità palestinese o dello stesso Matteo, quando la comunità cristiana si contrappone alla Sinagoga ed è già istituzionalmente organizzata sul piano dottrinale e giuridico ( Cfr. Op. cit. pag. 316 nota 44 ). La Chiesa cattolica invece ha sempre insegnato che queste parole le ha pronunciate proprio Gesù. In questo caso, bisogna tenere presente che il verbo edificare è messo al futuro ( edificherò ).

Dunque la “Chiesa”, intesa come comunità particolare, distinta da Israele, è sicuramente una realtà post-pasquale. Gesù, quindi, non fu quello che comunemente si dice il fondatore di una nuova Religione o di una Chiesa. Questa è una cosa che si è costituita gradualmente dopo la Pasqua. Gesù rivolse fin dall’inizio la sua predicazione e la sua azione carismatica ai soli figli di Israele ( Mc 7,27; Mt 15,24; 10,6 ). Non predicò ai pagani nè lui nè i suoi discepoli. Il comando missionario è post-pasquale ( Mc 16,15; Mt 28,18-21 ). Gesù pensò alla salvezza dei pagani alla maniera dei profeti ( Is.25,6-9 ), come un afflusso di popoli verso Gerusalemme per partecipare al banchetto nel Regno di Dio.

 

Discepolato e Gerarchia

 

Il termine “gerarchia” risale ad un anonimo che scrive tra il 500 e il 600 sotto lo pseudonimo di Dionigi l’Areopagita ( pseudo Dionigi ). Esso significa “potere sacro”. Egli applicò questo termine non solo ai detentori di qualche potere nella Chiesa, ma addirittura alla Chiesa stessa, vista in tutti i suoi ordini e gradi, come uno specchio della Gerarchia celeste. Le comunità cristiane neotestamentarie evitano riferimenti alle autorità civili e religiose esistenti nel tempo, perchè tra i discepoli, per volere di Gesù, non ci deve essere un rapporto di potere di alcuni su tutti gli altri, ma un rapporto di servizio reciproco.

 

Tra discepolato e gerarchia c’è opposizione estrema. La gerarchia come “potere sacro” è basata sul diritto e sulla forza; sul “sapere sacro” e sulla “sacra dignità”. Pochi consacrati dominano su tutti gli altri.

 

Il discepolato dice dipendenza spirituale verso l’unico Signore e Maestro, Gesù Cristo. Ma i discepoli, tra loro, hanno un rapporto di fraternità che chiama non al potere dell’uno sull’altro, ma al servizio reciproco. La parola più usata per indicare questo servizio è la diaconia, una parola profana che significa in senso stretto il servizio a tavola. E’ a tavola che risalta maggiormente la differenza tra il padrone, che siede a mangiare con gli amici, rivestito di vesti ampie e lunghe, e i servi che si affaccendano in vesti succinte nel servizio della mensa. “Chi tra voi vuol essere grande, sia il vostro servitore a tavola; e chi tra voi vuol essere il primo, sia lo schiavo di tutti ( Mc 10,43 s ). Questa sentenza ricorre ben sei volte nei Sinottici. Giovanni inoltre la rincara con la narrazione della lavanda dei piedi, fatta da Gesù ai suoi discepoli nell’ultima cena ( Gv 13,1-17 ). Gesù ha compiuto questo gesto per insegnarci che i nostri rapporti vicendevoli devono essere improntati al servizio reciproco, umile, profano, modesto, richiesto dalle situazioni anche banali della vita di ogni giorno. Non era nelle intenzioni di Gesù darci l’indicazione di una cerimonia da farsi in Chiesa una volta l’anno, ma indicarci lo spirito di servizio che deve animare i rapporti interpersonali. Chi poi viene posto in autorità, deve avere uno spirito di servizio maggiore, perché si allargano i confini della sua carità.

 

Quindi la Chiesa voluta da Gesù non è la Chiesa del “potere sacro”, del “sapere sacro”, della “sacra dignità”, ma la Chiesa del grembiule, la Chiesa del servizio.

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