kOINONìA

Posted on Febbraio 10th, 2009 di Angelo

La Koinonìa

Tutti coloro che hanno un po’ di familiarità col mondo reigioso hanno sicuramente sentito ripetere più volte questo termine che viene tradotto con “comunione”, anche se la parola italiana non riesce a rendere bene quel senso dell’”essere comuni” che è insito nella parola greca.

Per dare un’idea del suo significato possiamo citare ad esempio la preghiera dopo la comunione che ci è stata conservata da un apocrifo, gli Atti di Tommaso, un libro gnostico del XIII secolo. S tratta di una specie di antifona che dice: “Elthen kaì koinòneson emin”, “Vieni e fa’ comunità, fa’ comunione con noi”.

Partecipre all’eucaristia significa sedere tutti alla stessa mensa a cui è seduto anche il Cristo, e questo, per la comunità di Gerusalemme, significa essere tutti uguali nella maniera più autentica.

Da tale realtà scaturisce un impegno che gli Atti documentano con molta precisione. Nella prima comunità cristiana la comunione con Cristo e la comunione tra i ratelli appaiono inscindibilmente unite. Leggiamo alcune battute soltanto, che sono sufficienti a rendere l’idea”Tutti…(Atti 4, 32-35)

Abbiamo qui la rappresentazione di quello che è stato detto il “comunismo” della Chiesa delle origini, una specie di comunismo utopico che ha un valore relativo come modello (sappiamo infatti che non è stato adottato neppure agli inizi da tutte le Chiese, ma che nasconde nel suo interno un valore assoluto. Al di là dei modelli politici e sociali che potrà fare propri, la comunità cristiana dovrà sempre mantenersi fedele al grande principio dell’identità, dell’uguaglianza, della fraternità. E’ quanto sottolinea continuamente Luca, sviluppando con insistenza il tema del distacco, della lotta alla proprietà, al “mio”, al possesso che divide e innalza barriere tra gli uomini. In tutta l’opera di Luca risuona il canto dell’amore e l’invito continuo a riflettere sul rischio di abbandonare Dio cedendo alle lusinghe di mammona, lasciandosi attrarre dall’idolatria del denaro.

Su questa linea si colloca l’evocazione del libro del Deuteronomio (che pure è un testo molto utopico), a cui Luca allude chiaramente nel brano degli Atti che abbiamo appena letto. “Non vi sarà alcun bisogno in mezzo a voi”, dichiara Deuteronomio 15,4, introducendo la descrizione di un popolo in cui tutti vivono nella gioia a causa della pratica generosa della condivisione fraterna.

Anche se i modelli dovranno essere necessariamente mutevoli, tenendo conto dei contesti sociali, tenendo conto dei contesti sociali diversi in cui sono inserite le comunità, bisogna che i cristiani non perdano questa carica utopica e non si riducano a gretti amministratori, a biechi gestori di strutture. In un mondo che mira sempre di più al minimo, è necessario riportare la tensione verso il massimo. Pur non assolutizzando il modello “comunistico” che ci viene presentato dagli Atti degli apostoli, non dobbiamo dimenticare che in esso si esprime un’esigenza di fondo nascosta come un seme, come una scintilla vitale, all’interno del messaggio cristiano: l’esigenza di fraternità.

A proposito del termine “comunismo” che alcuni studiosi hanno adottato per motivi pratici, è interessante ricordare un’osservazione molto intelligente fatta da Engels, uno dei più grndi padri del marxismo. I primi comunisti francesi, probabilmente a causa della loro formazione cristiana, avevano creduto di riconoscere nella comunità descritta dagli Atti degli apostoli il grnde modello della nostra forma di convivenza politica e sociale che si presenta sotto il nome di “comunismo”. Nel Progresso della riforma sociale (1843) Enghels riprende l’argomento, facendo notare che al di là delle innegabili coincidenze esiste una diversità radicale che costituisce quello che oggi noi chiamiamo lo “specifico” cristiano. Le ragioni fondamentali di quel comunismo, dice Engels, sono profondamente diverse dalle nostre, perché sono ragioni religiose. Alla base della fraternità cristiana si collocano la paternità di Dio e la morte del Cristo per tutti (due motivazioni che dvrebbero rendere ancora più incandescente la nostra fraternità, cosa che invece spesso non avviene).

A quelle due ragioni fondamentali Luca aggiunge anche la comunione eucaristica. Ricordiamo ciò che scrive Paolo ai cristiani di Corinto: se nella comunità ci sono divisioni eccessive, , se ci sono grandi ricchi e poveri all’ultimo livello, voi non dovete celebrare l’eucaristia, perché non siete ancora una comunità degna di cibarsi del corpo del Cristo (cf.1Corinzi 11, 17-34). Abbiamo qui un atto di accusa severo nei confron ti delle Chiese di tutti i tempi, che devono trovare in queste parole una spinta a convertirsi a un’autentica fraternità.

Sempre nel contesto della teologia della fraternità si colloca l’ultima scena che dobbiamo commentare, una scena famosa, a cui abbiamo già accennato nel capitolo precedente: l’episodio di Anania e Saffira, ossia il peccato di egoismo.

Luca, rifacendosi ai modelli di sterminio dell’antico Israele, che, come è noto, tutta la preda di ogni guerra doveva essere consacrata a Dio attraverso la distruzione totale, e pertanto andava bruciata in olocausto.

Allo stesso modo, dice Luca, i beni che noi abbiamo non sono nostri, ma di Dio, e Dio li distribuisce a tutti. Per questo dobbiamo combattere il desiderio di accumulare che continuamente riaffiora in noi. Non si tratta di un obbligo, come sottolinea Pietro, ma di un invito insito nel messaggio cristiano a una generosità sempre più grande. In tale prospettiva, dietro ai contorni del racconto di una morte vediamo delinearsi chiaramente il racconto di una scomunica, applicata con la lapidazione.

Con l’invito a leggere il passo biblico (Atti 5,5-11) per poter cogliere il senso del fatto. Ciò che Luca fa risuonare in questo racconto terribile è ancora una volta il canto della povertà e del distacco e l’invito pressante a sottrarsi alla tentazione dell’egoismo, il peccato originale dell’uomo, il grave peccato contro lo Spirito, che conduce alla morte.

Sabato ricorrono i 60 anni dalla morte di Georges Bernanos: morì, infatti, a Parigi il 5 luglio 1948. Era nato a nel 1888. Esordì con il romanzo Sotto il sole di Satana e Nuova storia di Mouchette. La fama gli venne con il Diario di un parroco di campagna, da cui fu tratto un noto film di Robert Bresson. Dialoghi delle carmelitane, fu pubblicato postumo nel 1949. A ricordarmi l’anniversario il più bell’inserto culturale dei quotidiani italiani, quello di Avvenire, “Agorà” curato da Roberto Righetto, che domenica 12 giugno ha pubblicato un bellissimo testo da cui sono tratte le righe seguono che voglio condividere con voi.

Mentre l’umanità guarda volare le mosche, non vede restringersi il cerchio dell’orizzonte, discende nella miseria, è aspirata dalla miseria. Il potere della miseria non si giudica dal numero dei miserabili, cioè dal numero d’uomini che mancano assolutamente del necessario. E’ possibile che la società la finisca con la povertà, forse soltanto eliminando a ogni generazione i nati poveri, gli inadatti, gli inadattabili, con una regolamentazione delle nascite e una stretta selezione. Io non credo per niente che riducendo il numero dei poveri si riduca al tempo stesso quello dei miserabili. Io penso al contrario che il misericordioso sacerdozio della povertà fu praticamente stabilito in questo mondo per riscattarlo dalla miseria, dalla feroce e contagiosa disperazione dei miserabili. Se noi potessimo disporre di qualche mezzo per scoprire la speranza come il rabdomante scopre l’acqua sotterranea, è avvicinando dei poveri che noi vedremo torcersi tra le nostre dita la bacchetta di nocciolo.
La povertà non è un uomo che manca, per stato, del necessario, è un uomo che vive poveramente, secondo l’immemoriale tradizione della povertà, che vive giorno per giorno, del lavoro delle sue mani, che mangia nella mano di Dio, secondo la vecchia tradizione popolare. Egli vive non solo dell’opera delle sue mani, ma anche della fraternità degli altri poveri, delle mille piccole risorse della povertà, del previsto e dell’imprevisto. I poveri hanno il segreto della speranza…

Viviamo giorni in cui è importante capire bene la differenza sottolineata da Bernanos tra miserabili e poveri…

Tag:Georges Bernanos, povertà

Omelia nella Veglia Pasquale

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«La luce del Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito». Pronunciando questa parola di benedizione e di augurio, ho acceso il cero pasquale nella liturgia iniziale della luce. Nel buio e nel silenzio della notte ha brillato per prima una sola fiamma, poi molte fiammelle e infine i fari di luce. L’invito alla gioia si è levato nel canto. «Esulti il coro degli angeli, esulti l’assemblea celeste, un inno di gloria saluti il trionfo del Signore risorto. Gioisca la terra inondata da così grande splendore; la luce del Re eterno ha vinto le tenebre del mondo. Gioisca la madre Chiesa, splendente della gloria del suo Signore e questo tempio tutto risuoni per le acclamazioni del popolo in festa».

Alla liturgia iniziale della luce ha fatto seguito la liturgia della parola. Sette letture dell’Antico Testamento hanno richiamato alla nostra attenzione lo sviluppo della storia della salvezza dalla creazione, al sacrificio di Abramo, al passaggio del Mar Rosso, alle promesse fatte da Dio attraverso i profeti. Quindi due letture del Nuovo Testamento con l’annuncio della risurrezione di Cristo, fondamento della nostra risurrezione e salvezza, due letture accompagnate dall’esplosione gioiosa del Gloria e dell’Alleluja pasquale.

Due angeli in vesti sfolgoranti, accanto al sepolcro di Gesù, aperto e vuoto, diedero alle donne quella lieta notizia, che ora è stata ripetuta per noi: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato […] Bisognava che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno». “Bisognava” (che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno), secondo il disegno di Dio, già adombrato nelle Scritture dell’Antico Testamento. L’apostolo Paolo dirà nella prima lettera ai Corinzi: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture» (1Cor 15,3-4). In questo modo Dio ci ha procurato il Salvatore, santo, innocente, perfetto nell’amore, capace di capire e perdonare, vittorioso sull’errore, sul peccato, sulla morte, su ogni potere di Satana. La sua risurrezione è l’inizio della nostra risurrezione. Se ci uniamo a lui con la fede, noi diventiamo capaci di amare Dio e gli uomini di vero amore e di vedere nella morte, che ogni giorno si avvicina, la porta della vita eterna. «Festa di guarigione / dal gelo e dalla morte», definisce la Pasqua il nostro grande poeta Mario Luzi. Guarigione dal gelo della solitudine e dell’egoismo, dall’angoscia mortale della disperazione e del nulla. Già adesso la liturgia battesimale e la liturgia eucaristica, che stiamo per celebrare, ci fanno partecipare alla vita nuova del Risorto mediante la comunicazione dello Spirito Santo.

Il cristiano non può che essere gioioso. A Gerusalemme i primi credenti lodavano Dio, si amavano come fratelli, erano traboccanti di gaudio, anche in mezzo alle persecuzioni, «lieti di essere oltraggiati per amore del nome di Gesù» (At 5,41). Alla fine del IV secolo Sant’Agostino ci informa che la notte di Pasqua i cristiani non dormivano perché celebravano solennemente la Veglia con il battesimo dei neofiti; ma dormivano poco anche i pagani, inquieti al pensiero che il giorno dopo avrebbero incontrato i nuovi battezzati raggianti di felicità, quasi trasfigurati.

Come mai allora nella cultura moderna si sentono spesso voci che accusano il cristianesimo di amareggiare e intossicare la vita? «Cruciato martire,» – dice a Cristo Giosuè Carducci – «tu cruci gli animi / e di tristezza l’aer contamini». Ancora più duro è il poeta e drammaturgo norvegese Enrico Ibsen nei confronti di Gesù, additato come «Il Galileo che schiaccia la gioia umana, i cui templi escludono il sole», «Il nemico della gioia dalle mani esangui». Come mai queste accuse? Come mai oggi affiora qua e là perfino una certa nostalgia dell’antico politeismo pagano?

C’è da pensare che non siamo abbastanza cristiani, pur portando questo nome. «Il contrario di un popolo cristiano» – ammonisce lo scrittore cattolico francese George Bernanos – «è un popolo triste, un popolo di vecchi». Egli non fa altro che echeggiare l’antica tradizione della Chiesa, dove troviamo scritto che «la tristezza è la più malvagia di tutte le passioni, dannosissima ai servi di Dio, perché rovina l’uomo e scaccia da lui lo Spirito Santo» (Erma , Il Pastore). La tristezza, intesa come sfiducia, pigrizia spirituale, noia, indifferenza e vuoto interiore, a volte veniva identificata con il demonio del mezzogiorno, annidato nel tempo della vita che dovrebbe essere più consapevole e più creativo (cf. Evagrio Pontico). Viceversa la gioia, secondo San Tommaso d’Aquino, «è la forza che muove la vita, l’anima del dinamismo: dilata lo spirito, moltiplica le energie, sostiene l’entusiasmo, fa operare con diligenza e attenzione». Dobbiamo allora ritrovare le motivazioni della gioia cristiana. «Rallegratevi nel Signore, sempre;» – insisteva San Paolo – «ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). Il Signore è risorto! Il Signore è vicino! Ecco il motivo della nostra gioia.

Di una persona raggiante di felicità si suol dire: «E’ contento come una pasqua». E giustamente, perché la Pasqua è il massimo, è la festa più grande e ci mette dentro la voglia di cantare, ci fa sentire liberi, leggeri, in armonia con tutte le cose. Ma non dobbiamo dimenticare che ogni domenica è pasqua, la pasqua settimanale. Ogni domenica siamo chiamati all’incontro con il Signore risorto nella Santa Messa. Poveri noi se consideriamo questo appuntamento come un obbligo in più! Poveri noi, se andiamo in chiesa per forza e senza desiderio, e poi ne usciamo annoiati e spenti! La partecipazione dovrebbe essere così consapevole e intensa, da essere sperimentata ogni volta come un evento di grazia. Dovremmo uscire di chiesa col fuoco nel cuore e la gioia nel volto, pronti a dare testimonianza a tutti con la vita e con la parola. Il mondo di oggi, diceva Paolo VI, può ricevere il Vangelo solo da evangelizzatori, che non siano tristi e scoraggiati, ma che abbiano per primi ricevuto la gioia da Cristo e siano pieni di fervore (cf. EN 75).

Molti di noi sicuramente conoscono le simpatiche storie di Don Camillo e Peppone. Ben pochi però sanno che l’autore, Giovanni Guareschi, era un cristiano di grande fede. Deportato in Germania durante la seconda guerra mondiale e imprigionato per oltre due anni nei campi di concentramento, cercava in mille modi di tenere su il morale dei compagni di prigionia: racconti, poesie, scherzi, preghiere, una creatività inesauribile per prestare quello che egli chiamava “il servizio della speranza”. Tra l’altro, aveva composto una litania, che faceva ripetere ai compagni, con questo ritornello, spiritoso e nello stesso tempo denso di significato: «Non muoio neanche se mi ammazzano»! Possiamo vederci una traduzione originale e spassosa, ma in fondo estremamente seria, del grido di San Paolo: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21). Per il fatto che Cristo è risuscitato, la nostra vita si rinnova; la morte stessa non fa più paura. La morte non è più morte, anche se dovesse capitare di essere ammazzati.Chiediamo al Signore, per intercessione di Maria, sua e nostra Madre, di suscitare in noi la fede appassionata di San Paolo o quella tenace di certi cristiani semplici, ma sinceri, come Giovanni Guareschi. Il mondo ha più bisogno che mai della nostra fede e della nostra gioia; ha bisogno di persone che sappiano offrire in modo credibile “il servizio della speranza”.

 

 OMELIE RAVASI Ultima messa “milanese” celebrata da monsignor Gianfranco Ravasi “IL MIO COMMOSSO SALUTO ALLA CITTA’ DI MILANO”

 

Il saluto di mons. Gianfranco Ravasi alla città di Milano, alla “sua” città di Milano, per una felice combinazione di eventi, apparentemente indipendenti fra loro ma nei quali chi crede non fatica a riconoscere la “logica di Dio” di cui parla Bernanos, ha trovato una degna e appropriata cornice nel festival “MiToSettembreMusica”: che per tre settimane ha offerto a Milano appuntamenti musicali di ogni genere. Forse il momento più alto di essi è stato, appunto, la Messa per coro e strumenti a fiato di Igor Stravinsky, eseguita dal Coro Filarmonico e dell’Ensemble strumentale della Filarmonica della Scala il 23 settembre in Sant’Ambrogio durante la funzione liturgica domenicale celebrata dall’ex prefetto della Biblioteca Ambrosiana proprio alla vigilia dell’investitura ufficiale alla direzione del Pontificio Collegio della Cultura, fortemente voluta da Benedetto XVI; incarico lasciato dal cardinale Poupard per raggiunti limiti di età. Così la messa in Sant’Ambrogio è diventata proprio l’occasione per lo scambio di saluti fra questo importante uomo di fede e di cultura e la città da lui tanto amata. Amore ricambiato dalla folla che ha gremito la basilica fin nei confessionali e nei più remoti angoli delle cappelle; oltre che all’esterno, nel portico di Ansperto.

Folla di credenti e non credenti, categorie care entrambe al nuovo vescovo ed alle quali, come sempre, si è rivolto durante l’omelia. Folla di persone che, con la propria semplice presenza, si sono unite al saluto iniziale di mons. Marcandalli il quale, a nome del Capitolo della basilica e citando sant’Agostino, ha fatto riferimento alla grande musica unita alla celebrazione liturgica come di opportunità per tutti, credenti e non credenti, di sfiorare la “bellezza tanto antica e sempre nuova” di Dio. Persone che, suscitando anche un impercettibile moto di bonaria contrarietà nel sacerdote sul quale, per un momento, ha prevalso l’uomo di cultura, al Coro si sono addirittura sovrapposte nella recita di non pochi versi del Credo. Quasi a manifestare, anche con questa “intemperanza”, il desiderio di non essere semplici spettatori di un evento, per quanto significativo, ma di essere vera Chiesa. Persone sicuramente coinvolte emotivamente ma, vorremmo dire meglio, coinvolte spiritualmente, per l’opportunità, certo non usuale, di poter cantare l’Alleluja durante la messa assieme al Coro della Scala! Ma l’emozione si è fatta sentire anche per il grande ed esperto comunicatore. L’ha ammesso lui stesso nel corso della sua ultima predica da “milanese”: nella quale ha unito ad un commosso saluto un monito “sociale” e di critica all’idolatria della ricchezza. “LA SCOSSA” era presente e ritiene di fare un gradito servizio ai propri lettori offrendo loro l’opportunità di poterla leggere nell’ampia sintesi che di seguito ne proponiamo (non rivista dal celebrante).

 

Sant’Ambrogio 23 settembre 2007

Sintesi della predica di monsignor Gianfranco Ravasi

“IL MIO COMMOSSO SALUTO ALLA CITTA’ DI MILANO”

“Ho più volte celebrato il rito sacro della liturgia in questa basilica, ma oggi mi percorre un particolare fremito di cui renderò ragione alla fine di questa omelia. Molti fra i presenti non possono comprendere parole che per chi è credente salgono all’infinito di Dio. Ma per tutti è possibile accogliere il messaggio di elevarsi oltre la quotidianità. Il testo biblico suscita due riflessioni, due fili che si dipanano dai testi letti. Il primo attraversa tutte e tre le letture che hanno un comune carattere “sociale” (

prima lettura dal libro del profeta Amos: Am 8, 4-7; seconda lettura dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo: 1 Tm 2, 1-8; Vangelo dal Vangelo secondo Luca: Lc 16, 1-13 // le letture sono riportate in coda alla predica – NdR).

L’intreccio delle relazioni fra società e politica è un groviglio oscuro e quotidiano, a volte è un arruffìo di fili che esplode in scandali. E’ il mistero umano della polis. Città non solo di mura ma di persone con reazioni sensitive capaci di creare realtà mirabili come di precipitare nel baratro dell’odio. Amos era un profeta contadino chiamato a predicare in città. Alla sua epoca i poveri erano pedine calpestate di una scacchiera sulla quale altri decidevano le mosse.

Nella lettura dell’apostolo Paolo c’è, invece, la dimensione positiva dell’attestazione di fedeltà all’Impero Romano. Il Cristianesimo non vuole far esplodere le strutture politiche e sociali, se queste hanno una funzione utile per la società, ed invoca, anzi, sul capo dei politici, la mano di Dio che li illumini.

Gesù, infine, parla oggi attraverso una parabola tanto sorprendente quanto poco conosciuta.

E’ lo stesso Gesù del “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” espressione mediante la quale traccia una netta linea di demarcazione tra due sfere; comunque non completamente indipendenti ed estranee fra loro: l’uomo è fatto di spirito e di carne, di vita interiore e sociale. Gesù incide nell’esistenza umana, Gesù parte dalla terra sulla quale l’uomo poggia i piedi, non dall’aria sopra le persone. Parla di campi, fiori, problemi sociali… Di figli: alcuni osservanti, altri incomprensibili. Parla di Erode definendolo “volpe astuta”. Quello che ci propone in questa domenica è un parallelo con i politici oggi ancora valido: un amministratore corrotto che falsifica i bilanci di una società. Gesù parte dal dato di fatto negativo trasmettendo un primo messaggio: vedete l’astuzia dei figli delle tenebre? Arrivano subito a trovare il nucleo fondamentale delle cose; invece voi, figli della luce, siete distratti, acquiescenti, pigri…Porta a modello un cattivo esempio non per il suo contenuto, per l’azione, ma per l’atteggiamento che vi è sotteso. Invita a vegliare. E’ un invito anche per il nostro tempo, la cui malattia peggiore è la tiepidezza. Nel nostro tempo non ci sono più male o più ingiustizia di quanti ce ne siano stati in passato.

Quando sono nato io il mondo era in mano a due criminali: Hitler e Stalin. L’Europa era striata dal sangue… morte e distruzione erano in agguato ovunque. Oggi la situazione è più grave, ma non per il male e la cattiveria. Oggi il male è la superficialità, la banalità, la stupidità… un linguaggio che è come una chiacchiera. “Lo stupido dice quel che sa, il sapiente sa quel che dice” recita un detto rabbinico. “Sapere” deriva dal latino sàpere, che vuol dire aver sapore e gusto intenso, e perciò richiede riflessione e meditazione. Il “forte” silenzio che percepisco ora, mi dice che questa affermazione vale anche per i non credenti che sono presenti qui in chiesa: non si può vivere di banalità, l’uomo vero non è quello mostrato dalla TV. Pascal diceva che l’uomo supera infinitamente l’uomo, che, anche se non crede, ha in sé l’amore, la via per elevarsi.

La seconda riflessione, più breve, parte dall’ammonimento di Gesù: “non potete servire Dio e Mammona”. Mammona è una parola aramaica entrata nelle lingue successive. Ha la stessa radice di amen, il verbo della fede, della fiducia in Dio, nel trascendente. Siamo ininterrottamente sospesi fra due adorazioni: da una parte l’amen verso Dio e la sua legge morale e dall’altra l’idolatria delle cose. Lo scrittore Leonardo Sciascia ha detto, su mammona, che il mondo degli uomini è diviso in due settori individuabili da una stessa frase che può essere letta con accenti diversi. “La ricchezza è morta” e “la ricchezza è bella anche se è morta”, è lo splendore del vitello d’oro luccicante e brillante. Dobbiamo decidere dove stiamo se con l’amen morale o con l’idolatria verso le cose. Se abbiamo qualcosa in mano non possiamo adoperarla per accarezzare o sollevare chi può avere bisogno di noi. Se abbiamo le mani occupate per tenerci stretta la ricchezza non abbiamo spazio per altro. Anche per i credenti e per la Chiesa c’è il rischio di adorare la ricchezza morta.

Infine vengo ora ai saluti, ed è per me un’emozione forte. Da domani torno a Roma, città della mia giovinezza e dei miei studi di teologia. Il mio orizzonte non sarà il Vaticano ma i dicasteri per il mondo e le chiese nel mondo: non la Chiesa ma le Chiese. So che mi aspetta un programma molto intenso di viaggi e di incontri. Sono grato a monsignor Marcandalli per il suo saluto a nome del capitolo di Sant’Ambrogio, sono grato anche a chi è fuori della Chiesa, nel portico di Ansperto… e alla Scala, mio grande amore, che ringrazio perché mi permette di salutare con l’armonia e lo splendore della musica di Stravinski. Stravinski era un credente, cristiano ortodosso, e ha composto questa messa per la liturgia. Non è quindi una musica da ascoltare ma una musica nella quale entrare; per prepararsi a comporla aveva letto Agostino e Bossuet, un vescovo e predicatore del ‘600. Questa Messa è risuonata a Milano per la prima volta nell’ottobre del 1948, alla Scala, diretta da Ernest Ansermet. Per me è il rinnovarsi della centralità di una grande dolcezza. Per questo dico grazie a Dio per la musica, grazie per tutti coloro che fanno musica, come in questi giorni del festival MiTo, e, prima di tutti, dico grazie alla Scala. Nel VI secolo Cassiodoro primo vescovo cattolico della Calabria ammoniva: “Se continuiamo a commettere ingiustizie Dio ci lascerà senza musica: avremo solo rumore, fracasso o silenzio.” Assurdo deriva da sordo, senza la musica siamo nell’assurdità. Oggi, invece, la Messa di Stravinsky unisce l’armonia della voce umana e l’armonia strumentale.

Qui saluto i milanesi e i lombardi con le parole di Bernardino Telesio filosofo del ‘500 che, nominato vescovo dal Papa Pio IV, non voleva accettare l’incarico. Con le sue parole voglio ricordare la mia città in cui ho visto i tramonti e le albe, nella quale ho vissuto ed ho camminato…“La mia città può far benissimo a meno di me, sono io che non posso fare a meno di voi; essa che mi scorre nelle vene e che mi pulsa dentro, nel battito del mio cuore”.

Mons. Gianfranco Ravasi

LE LETTURE DELLA MESSA:

PRIMA LETTURA

Am 8, 4-7

Dal libro del profeta Amos.

Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: «Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo le misure e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano». Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: certo non dimenticherò mai le loro opere.

SECONDA LETTURA

1 Tm 2, 1-8

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo.

Carissimo, ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto banditore e apostolo dico la verità, non mentisco , maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese.

VANGELO

Lc 16, 1-13

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli:

«C’era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore. L’amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d’olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto. Se dunque non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona».

 

 

http://lapaginadisanpaolo.unblog.fr/tag/arcivescovi-e-vescovi/mons-gianfranco-ravasi/
Gianfranco Ravasi – l’ultima messa “milanese”: “IL MIO COMMOSSO SALUTO ALLA CITTA’ DI MILANO”
( Mons. Gianfranco Ravasi )
Metto questo articolo – un po’ in ritardo rispetto all’evento – il saluto di Mons. Ravasi alla città di Milano, il riferimento a Paolo e molto breve, tuttavia posto molto volentieri questo “saluto” perché, sono certa, che tutti amiamo Mons. Gianfranco Ravasi e vale, veramente, la pena di leggere le sue, ultime – perlomeno nel ministero che stava svolgendo – commosse parole, alla città di Milano, dal sito:
http://www.parrocchiamilanino.it/scossa_on_line/in_vetrina/mito2007_ravasi.pdf
Basilica di Sant’Ambrogio in Milano
23 settembre 2007
 

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