IL CAMMINO DI OSPITALITA’ SECONDO LO STILE DI SAN GIOVANNI DI DIO

IL CAMMINO DI OSPITALITA’

SECONDO LO STILE DI SAN GIOVANNI DI DIO

Spiritualità dell’Ordine

Introduzione

1. L’opera che “tanto pietosamente iniziò quel benedetto uomo Giovanni di Dio”[1]attorno all’anno 1538, a Granada, in una povera casa presa in affitto[2] continua a vivere; il suo spirito ed il suo carisma palpitano nel nostro mondo da oltre 465 anni. La sua fecondità e la sua capacità trasformatrice sono tali che uomini e donne di diversi popoli, continenti, razze ed epoche lo riconoscono come “padre spirituale”. Mossi dal suo spirito, questi uomini e donne portano avanti progetti di accoglienza, aiuto, salute e riabilitazione a favore dei più bisognosi[3].

2. Viviamo in un’epoca non solo di cambiamenti, ma in un vero e proprio cambio d’epoca. Le forme di pensare, di agire e di vivere dell’immediato passato sono ormai obsolete ed anacronistiche; vecchi metodi ed istituzioni perdono la loro efficacia. Per questo, l’eredità ricevuta da Giovanni di Dio, oltre ad essere accolta con venerazione, deve essere tradotta in nuove espressioni, vissuta in forme culturali nuove e sentita con nuovo ardore.

1. Il cambio d’epoca

3. Il cambio d’epoca ci riguarda da diverse angolazioni: la globalizzazione e la regionalizzazione, la post-modernità e la sua influenza sulla Chiesa e sull’Ordine.

Ø Globalizzazione e regionalizzazione: Il nostro tempo si distingue per la globalizzazione (creazione di grandi reti mondiali); ma anche per la regionalizzazione (affermazione di valori autoctoni, locali, culturali, peculiari). Entrambi gli sviluppi contengono aspetti positivi, ma anche negativi. Una globalizzazione umanizzante, solidale e non al servizio di una sola parte dell’umanità, offre possibilità inedite per promuovere la comunione tra le nazioni, i diversi gruppi umani e le persone. Una regionalizzazione che non tende alla chiusura e al radicalismo, può apportare al nostro mondo ricchezze e prospettive inimmaginabili sino ad oggi. Anche il nostro carisma si globalizza e si regionalizza continuamente prendendo corpo in diversi luoghi e culture. In un mondo in cui la globalizzazione economica è causa di pesanti discriminazioni e produce innumerevoli vittime, noi sentiamo in modo particolare il dovere di mettere in pratica la chiamata della Chiesa a globalizzare la solidarietà, la compassione e la carità. Nello stesso modo ci sentiamo chiamati a difendere i valori locali e il valore della individualità di ogni persona, in special modo di quelle che sono emarginate dalla società globalizzatrice.

Ø La post-modernità: la cosiddetta ‘postmodernità’ è un’altra caratteristica del cambio d’epoca che stiamo vivendo. Di solito la si descrive come uno “stato mentale” comune, globalizzato, presente in una forma o nell’altra in tutti i popoli della terra. Il pensiero postmoderno ci indica chiaramente che sono finiti i tempi del totalitarismo, dell’assolutismo, delle visioni dogmatiche, del patriarcalismo e che è definitivamente tramontata la visione eurocentrica del mondo, che cercava di spiegare e di controllare tutto. La mentalità postmoderna si trova soprattutto nelle nuove generazioni, anche se ci riguarda tutti, e ci suggerisce di optare per spiegazioni umili e frammentarie della realtà, che è più utile realizzare piccoli passi di trasformazione, invece di pretendere dei cambiamenti totali; che dobbiamo accettare il pluralismo, la diversità ed essere più tolleranti ed ospitali verso i diversi, verso gli altri. In questo contesto, l’ospitalità e la misericordia acquisiscono un significato nuovo e ci pongono di fronte alla sfida di concretizzarle in azioni e strutture adeguate per quest’epoca. La post-modernità pone anche una grande sfida alla nostra spiritualità che, proprio in sintonia con lo spirito postmoderno, deve essere vista più come un cammino che come una legge morale o un’esigenza astratta. La postmodernità ci rende più sensibili alla pluralità delle forme di vita umana e cristiana e, per questo, ci apre alla interdipendenza ed alla comunione. Proprio per questo parliamo di missione condivisa, carisma condiviso, vita condivisa.

Ø Possibilità e minacce: ci attendono nuove e preziose possibilità, ma anche nuove e terribili minacce. Ci troviamo di fronte ad un tempo che non dominiamo, e nel quale dobbiamo trovare nuovi cammini. In ogni caso, le ripercussioni di questo cambio d’epoca riguardano tutto in noi: spirito e corpo, individuo e società, dimensione profana e trascendenza. Le relazioni umane non sono più le stesse di prima. Scopriamo nuovi aspetti nel rapporto tra sesso maschile e sesso femminile che hanno impresso un nuovo stile alle relazioni tra uomo e donna (tanto nella famiglia, quanto nella società). Di fronte all’accumulo di potere economico e politico emergono nuove forme di potere (terrorismo, mafie) che minacciano l’ordine esistente: ne sono coinvolti milioni di esseri umani, che patiscono le conseguenze di questa lotta. La nostra umanità è caratterizzata da una sorprendente mobilità – reale e virtuale – che impedisce ritmi sereni, tappe prevedibili e ci espone ad una forte incertezza. La crescita economica è reale, ma non riesce a impedire il contemporaneo aumento della povertà tra milioni di esseri umani. Sono molti i contrasti e le pressioni che si abbattono sulla psicologia umana, tanto che molte persone non reggono l’impatto, cadono in depressione e, non di rado, impazziscono. Tutti soffriamo oggi come mai prima di una notevole perdita del “senso della vita” e della storia.

2. La Chiesa e l’Ordine in questo nuovo contesto

4. Anche la Chiesa è toccata da questo cambio epocale. Non è più la stessa di prima.

Ø Il suo volto oggi è più globale e mondiale. E’ più multiculturale e multirazziale che mai.

Ø Avverte in se stessa tutte le possibilità del nuovo tempo, ma patisce contemporaneamente tutte le minacce e le disgrazie che il cambio d’epoca comporta.

Ø Spronata dalla misericordia, che la costituisce, la madre Chiesa desidera accogliere tutti ed aprirsi – in modo speciale – ai più bisognosi.

Ø Ascolta con nuova attenzione ed atteggiamento creativo le parole del Risorto che la invia come missionaria in tutto il mondo, a tutte le genti per annunziare il Vangelo e rendere presente la Misericordia.

5. In questo contesto, il carisma di Giovanni di Dio riacquista una formidabile attualità che è necessario far risaltare e delineare. L’Ordine ha fatto proprio con audacia e serietà il processo di rinnovamento avviato dal Concilio Vaticano II. Ha riflettuto profondamente sul carisma nel nostro tempo e si è posto nuove sfide e nuove mete. Così ha dato un nuovo volto al carisma di Giovanni di Dio adatto a questo tempo[4]. Non dobbiamo però fermarci; oggi è necessaria quel tipo di fantasia creativa, che ha nelle giovani generazioni i suoi depositari migliori. In queste circostanze storiche, in questo mondo pluricentrico e globale, in questa Chiesa di Chiese particolari e cattolica, l’Ordine deve essere capace di intuire nuove risposte e nuovi cammini nello Spirito. Oltre ai Confratelli, bussano alle porte dell’Ordine anche altre persone che si sentono arricchite dal carisma di Giovanni di Dio. Per questo motivo oggi esiste una nuova apertura verso la “missione condivisa”, la “spiritualità condivisa”, come nuova definizione dell’identità dell’Ordine. Oggi l’Ordine mostra un volto pluralista, interculturale ed interrazziale[5] e si sente chiamato a proporre il cammino spirituale di Giovanni di Dio anche a uomini e donne che non appartengono più solo alle culture occidentali, come succedeva finora.

6. La sfida di aprirci alla ricchezza spirituale di nazioni e culture diverse, senza per questo perdere l’eredità spirituale ricevuta, dà un nuovo respiro al nostro carisma storico, come Ordine. Le giovani generazioni avvertono nel loro intimo un forte bisogno culturale. C’è una frattura culturale tra le generazioni che non deve essere sottovalutato. Solo le persone che si sono mantenute aperte alla realtà, riescono a comprendere ed accompagnare adeguatamente le giovani generazioni nella loro ricerca e nelle loro aspirazioni. Oggi emergono sfide nuove ed inedite; non è più sufficiente accogliere il carisma come eredità ricevuta. Bisogna riconfigurarlo, dargli un nuovo volto, interpretarlo in modo più attuale. Occorre far “ardere il cuore”, non solo ai membri dell’Ordine, ma anche alla società, alla gente, alla Chiesa. Il compito di rifondare la spiritualità sarà un impegno impossibile se non siamo convinti che lo Spirito sta agendo tra noi offrendoci come grazia ciò che tanto appassionatamente stiamo cercando. In cambio lo Spirito esige da noi solo di essere vigili e di saper accogliere e seguire i nuovi cammini che ci si aprono dinanzi.

7. L’obiettivo del presente documento è offrire gli elementi fondamentali della spiritualità dell’Ordine nel nuovo contesto storico e pluralismo etnico-culturale in cui viviamo. Il documento si suddivide in tre parti:

I. La Memoria: le origini carismatiche.

II. Le chiavi evangeliche: Misericordia e Ospitalità.

III. L’itinerario spirituale: una spiritualità ospedaliera per il nostro tempo.

I. La memoria: le origini carismatiche

8. Contempliamo ora il cammino spirituale di San Giovanni di Dio. In lui scopriamo il disegno originale e l’icona del nostro “cammino spirituale”.

1. Il Cammino spirituale di San Giovanni di Dio

9. Giovanni di Dio fu un uomo in cammino, un viaggiatore: nella sua vita ci furono tante peregrinazioni e lunghi viaggi. In esse iniziò ad delinearsi l’itinerario del suo viaggio interiore, del suo cammino spirituale. Giovanni di Dio fece della propria vita un cammino che lo portò – a piedi nudi e attraverso un sentiero scosceso[6] – verso la vetta. Paradossalmente, trovò la vetta scendendo negli abissi più profondi della miseria umana. Nella sua vita possiamo distinguere quattro tappe che abbiamo denominato: vuoto, chiamata, trasformazione e identificazione.

a) Vuoto: fare spazio alla grazia – prima tappa -

10. Dopo una serie di insuccessi, Giovanni di Dio sperimentò il vuoto e scoprì la pienezza di Dio: “Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo!”[7]. Non ebbe fortuna nelle sue prime avventure come soldato: cadde da cavallo a terra – come San Paolo -, spaventato e senza nessun aiuto, se non quello che poteva venirgli dal cielo[8]. Non ebbe maggior fortuna come militare, quando un capitano lo condannò a morte per impiccagione, perché aveva perso un bottino che gli era stato dato in custodia; ed anche se l’esecuzione non ebbe luogo, fu espulso dall’accampamento e restò in miseria. Nel suo cammino da Fuenterrabía a Oropesa si lamentava della “cattiva ricompensa che il mondo dà a chi più lo segue”[9]. Dopo nove anni di silenzio, Giovanni si arruolò di nuovo nell’esercito dell’Imperatore per lottare contro i turchi. Al ritorno da Vienna sbarcò a La Coruña. La vicinanza della sua terra natale destò in lui la nostalgia per i suoi genitori, da quali era stato separato all’età di otto anni, ma la sua pena fu grande quando venne a sapere che erano morti entrambi[10]. Si sentì vuoto. Scoprì l’inconsistenza della vita[11]: “Anche nel caso fossimo i padroni di tutto il mondo, non ci accontenteremmo se avessimo molto di più [12]; per questo, si decise a “non confidare in se stesso”[13].

b) La chiamata: al servizio definitivo del Signore Dio – seconda tappa -

11. Lo zio gli offrì di rimanere in quella che era stata la casa dei suoi genitori, ma egli rifiutò con queste parole: “La mia volontà è di non rimanere in questa terra, ma di cercare un luogo dove io possa servire nostro Signore …confido nel mio Signore Gesù Cristo che mi darà la sua grazia perché io possa realmente mettere in pratica il mio desiderio”[14]. E continuò a cercare senza trovare. Tornò a fare il pastore a Siviglia. “Non vedendo ancora quale via nostro Signore gli avrebbe aperto per servirlo”, se ne andava triste[15]. Alla fine, ruppe definitivamente con la pastorizia. Si recò a Ceuta. Lì, per soccorrere una famiglia i cui componenti erano malati, si mise a lavorare nella “fortificazione di alcune muraglie”; ed ogni notte “consegnava la paga della giornata”[16]. Superò una profonda crisi spirituale con l’aiuto di un frate dotto, che gli disse espressamente di abbandonare quella terra e di tornarsene in Spagna. Giunto a Gibilterra, fece una confessione generale. Giovanni, alle volte tra le lacrime, chiedeva pace, tranquillità e di capire la forma di servizio destinatagli dal Signore: “Date pace e tranquillità a quest’anima”. E la preghiera si convertiva in un’offerta ogni volta più generosa fino a culminare nell’unico desiderio: Voglio “servirvi ed essere per sempre vostro schiavo”.

“Chiedeva sempre a nostro Signore, con tutto il cuore e molte lacrime, che gli aprisse la via in cui doveva servirlo”: “Vi supplico quanto posso, mio Signore, di degnarvi di indicarmi il cammino che devo intraprendere per servirvi”[17].

12. Si procurava il sostentamento realizzando diversi lavori, fino a quando trovò nella vendita di libri, dapprima come ambulante, un’occupazione continua. Desideroso di stabilizzare la propria vita con il nuovo lavoro, con il quale realizzava un apostolato, oltre a guadagnare denaro sufficiente per vivere e per fare opere di carità, decise di “recarsi a Granada ed ivi stabilire la sua dimora”[18]. A Granada sperimentò una certa serenità, dedicandosi alle faccende del suo lavoro, ma continuò a sentire sempre quella voce interiore che chiedeva insistentemente di essere ascoltata. Il giorno della festa di San Sebastiano si recò al Romitorio dei Martiri per udire, mischiato tra gli altri, il sermone del Maestro Giovanni d’Avila[19]. Lì lo attendeva il Signore.

13. Il maestro Avila divenne la sua guida spirituale. Lo colpì in modo particolare il suo commento a Lc 6,17-32 (Beatitudini e beatitudine dei poveri):

“Terminata la predica, uscì di là, come fuori di sé, chiedendo ad alta voce misericordia a Dio…e continuò fino alla sua dimora…prese i libri che aveva e …li dava volentieri gratuitamente al primo che glieli chiedesse per amor di Dio… e tutto il resto che aveva in casa… in poco tempo rimase senza capitale e privo di tutti i beni materiali, perché non si limitò soltanto a questo, ma diede anche gli indumenti che aveva addosso… E così, nudo, scalzo e col capo scoperto, tornò nuovamente a gridare per le strade principali di Granada, volendo, nudo, seguire Gesù Cristo nudo, e farsi totalmente povero per colui che, essendo la ricchezza di tutte le creature, si fece povero per mostrare ad esse il cammino dell’umiltà”[20].

c) Trasformazione: trasformato dalla Parola di Dio – terza tappa -

14. A partire da questo momento, la vocazione di Giovanni di Dio si definisce come un voler, nudo, seguire Gesù Cristo nudo e farsi del tutto povero per colui che si fece povero.

“Essendo stato visto da persone onorate… considerando che quella non era pazzia, come comunemente si giudicava…lo condussero nella dimora del padre Avila…Il padre maestro Avila rendeva molte grazie a nostro Signore, vedendo i grandi segni di contrizione del nuovo penitente…dicendo: “Fratello Giovanni, confortatevi molto in nostro Signore Gesù Cristo e confidate nella sua misericordia, poiché avendo egli incominciato quest’opera, la porterà a compimento…andate in pace con la benedizione del Signore e mia, perché io confido nel Signore che non vi sarà negata la sua misericordia. Giovanni di Dio rimase tanto consolato …che ricuperò di nuovo le forse…per desiderare di essere da tutti preso e stimato pazzo e cattivo e degno di ogni disprezzo e disonore, per meglio servire e piacere a Gesù Cristo, poiché viveva solo sotto il suo sguardo[21].

“Avendolo visto in tale stato due uomini dabbene della città, mossi a compassione…lo condussero all’Ospedale Reale, che è il luogo dove vengono rinchiusi e curati i pazzi della città…e dato che la principale cura che ivi si pratica a questi tali consiste in sferzate e nel contenerli in aspri vincoli, e cose simili, affinché, mediante il dolore e il castigo, perdano feroci…gli legarono i piedi e le mani, e, nudo, con un flagello a doppia corda, gli diedero una buona dose di frustate…”[22]

15. Nell’Ospedale Reale Giovanni trovò la risposta alla sua affannosa ricerca di servire il Signore dove e come Lui desiderava. L’esperienza di sentirsi tra coloro che avevano perso la parte più pregevole della persona, la ragione, e sentirsi con ciò sprofondato nel pozzo più profondo del disprezzo e della commiserazione, gli ricordò il cammino percorso da Cristo per poter riabilitare l’umanità: era necessario incarnarsi nel mondo della miseria umana, patire il disprezzo di coloro che si credono saggi e normali, per ottenere la riabilitazione di quanti percorrono il cammino della malattia, della povertà e della pazzia; era necessario diventare uno di loro per mostrare che anche loro erano persone, figli di Dio come lui… come tutti.

“E vedendo castigare gli infermi, che erano pazzi e stavano insieme con lui, diceva: Gesù Cristo mi dia la grazia di avere io un ospedale, dove possa raccogliere i poveri abbandonati e privi della ragione, e servirli come desidero io”.[23]

16. Giovanni fu “ferito dall’amore di Gesù Cristo”[24]. E qui ricevette “la grazia che doveva fargli”[25]. Scoprì il cammino che aveva tanto cercato e desiderato, quando si fece solidale con i poveri ed i malati vivendo e patendo la loro stessa condizione.

d) Identificazione: povero come Gesù e come i poveri – quarta tappa -

17. Iniziò a percorrere il suo nuovo e definitivo cammino: raccoglieva legna rivendendola; con ciò che ricavava, si nutriva poco e male per dare il resto ai poveri. La sua casa erano i portici delle piazze e delle strade di Granada, sulle quali condivideva con i diseredati il caldo ed il freddo, le amarezze e le speranze. Decise di farsi mendicante per alleviare la sofferenza e la miseria dei suoi fratelli, dicendo ad alta voce: “Chi fa del bene a se stesso? Fate bene per amor di Dio, fratelli miei in Gesù Cristo!”[26]

18. Vedendo i poveri “buttati giù per quei portici, intirizziti e nudi, piagati ed infermi…vedendone la moltitudine…decise di procurar loro con maggiore impegno il rimedio”[27]. Con l’aiuto di alcune persone pie prese in affitto una casa, la dotò dell’indispensabile ed iniziò a portarvi “i poveri caricandoseli sulle spalle che trovava per la città”[28]. Così Gesù Cristo iniziava a permettergli di mettere in pratica il suo proposito di avere un ospedale, in cui curare i malati come gli comandava il suo cuore.

19. Per Giovanni di Dio l’ospedale è un luogo sacro, la casa di Dio. E’ un ospedale-rifugio, aperto a tutti i poveri abbandonati senza distinzione, perché Dio fa sorgere il sole per tutti, nel quale l’ospite è il “signore” e Giovanni il suo schiavo:

Dato che “la città è grande e molto fredda, particolarmente in questo tempo d’inverno, sono molti i poveri che giungono a questa casa di Dio…vi si ricevono indistintamente (persone affette) da ogni malattia e gente d’ogni tipo, sicché vi sono degli storpi, dei monchi, dei lebbrosi, dei muti, dei matti, dei paralitici, dei tignosi e altri molto vecchi e molti bambini; senza poi contare molti altri pellegrini e viandanti che vengono qui”.[29]

20. La gente era sbigottita e non comprendeva che “il Signore lo aveva messo nella cantina del vino ed ivi aveva stabilito in lui la sua carità”[30]. Giovanni cresceva nella contemplazione della “grande misericordia di Dio” facendosi esso stesso misericordia e gratuità: “Soccorreva tutti secondo le loro necessità, e non mandava via nessuno sconsolato”[31]; “tutto quello che faceva e dava gli sembrava poco…e viveva con l’ansia di dare se stesso in mille modi[32]. La gente diceva di lui: “Viveva completamente in Dio per la sua grande carità”[33]; “cercava sempre la carità e di fare l’elemosina”[34]. Trascorreva notti intere chiedendo al Signore “aiuto per le necessità che vedeva, con profondi gemiti e sospiri”[35]. Giovanni di Dio riconosceva che “le buone opere che gli uomini fanno, non sono loro, ma di Dio: a Dio onore, gloria e lode, perché tutto è di Dio. Amen Gesù”[36]. Per questo, “tutto quello che faceva e dava gli sembrava poco”[37], perché viveva immerso nell’immensità della misericordia di Dio, che “era stato tanto magnanimo e munifico con lui”[38]. Per questo, il suo maggior dolore era di non poter porre rimedio a tutte le necessità: ciò gli spezzava il cuore[39], perché “si era in tal modo inebriato del suo amore (del Signore), che non negava nessuna cosa …essendo pietosissimo con tutti”[40]. Giovanni di Dio mangiava “una cipolla cotta o altri alimenti di poco prezzo”, e dormiva “sopra una semplice stuoia sul pavimento, coprendosi con un pezzo di vecchia coperta, in uno stanzino molto angusto sotto una scala”[41]. In uno scantinato, sotto la scala dell’ospedale, Giovanni di Dio vive la stessa povertà dei suoi poveri.

21. Un giorno scopre che può impegnare se stesso, dare se stesso come pegno per poter continuare a porre rimedio a tanto dolore. Non esita un momento, chiede prestiti, si indebita, i debiti si moltiplicano, continua ad indebitarsi, deve “più di duecento ducati”[42], ma la soluzione al problema rimane lontana. Le angustie “ogni giorno aumentano e…sempre più aumentano i debiti e i poveri”[43]. I debiti aumentano così tanto che i creditori gli chiudono le porte: “non vogliono più farmi credito, dovendo molto”[44]. La tenaglia si stringe e lo tormenta: i debiti e le necessità dei tanti poveri da accudire lo chiudono in un vicolo cieco. “Vedendomi tanto indebitato, molte volte non esco di casa a motivo dei debiti che ho”[45].

22. Nella preghiera scopre il senso di tutto: “mi trovo indebitato e prigioniero solo per Gesù Cristo”[46]. Prigione e indebitamento diventeranno per lui una catena perpetua, dalla quale non si libererà né potrà più liberarsi per tutta la vita. Poco prima di morire, lascerà nelle mani dell’Arcivescovo di Granada, Don Pedro Guerrero, il libro dei “debiti che debbo pagare e che ho fatto per amore di Gesù Cristo”[47]. E “poiché sentiva in sé che si avvicinava la sua dipartita, si alzò dal letto e si mise in ginocchio sul pavimento, abbracciando un crocifisso, stette un po’ in silenzio e poi disse: Gesù, Gesù, nelle tue mani mi affido. E, detto questo con voce forte e ben chiara, rese l’anima al suo Creatore”[48].

23. Giovanni di Dio fu provato dalle angustie e dalla sofferenza. Come Gesù, si fece stolto tra gli stolti e venne arricchito, grazie alla sua fedeltà, con il dono della vera saggezza: comprese che la dignità della persona si fonda sulla ricchezza del cuore; come Gesù, scoprì che la lotta contro il male e la sofferenza è un imperativo umano e, come lui, si dedicò a fare del bene a tutti, a incominciare dai gruppi più discriminati: malati di ogni tipo, peccatori, prostitute…a costo di essere disprezzato e calunniato. Come Gesù, contemplò il mondo degli uomini con occhi compassionevoli e misericordiosi e, grazie al suo amore senza limiti, trasmise amore, divenne fratello di tutti e diede inizio ad un cammino di solidarietà ospedaliera. Come Gesù, scese negli abissi più profondi della miseria umana, lasciandosi ricoverare nell’Ospedale Reale. E in questo luogo Dio continuò a parlare a Giovanni, questa volta attraverso i gridi, i lamenti e la disperazione dei suoi fratelli infermi; così Dio rispose all’intensa ricerca di Giovanni e alla sua decisione di voler “nudo, seguire Gesù Cristo nudo, e farsi totalmente povero per colui che, essendo la ricchezza di tutte le creature, si fece povero per mostrare ad esse il cammino dell’umiltà”[49].

Sintesi: Giovanni di Dio seguì un cammino spirituale che lo portò dalla durezza scarna della spogliazione alla pazzia nella quale Gesù Cristo lo contagiò con il suo infinito amore. Forte di questa esperienza scelse di inserirsi nella povertà e nell’emarginazione dei bassi fondi di Granada, sino a giungere, a imitazione del Maestro, ad una identificazione mistica con i più poveri assumendo le loro umiliazioni e sofferenze fino alla morte.

2. Tradizione: trasmissione dello spirito del Fondatore e Padre

a) Padre e fratello nello Spirito: i primi fratelli

24. Il dono di Giovanni di Dio era irradiante. Il suo spirito era contagioso. Il suo amore ai poveri e ai malati animò molti ad unirsi alla sua opera di carità. La maggior parte come benefattori che lo aiutavano con le loro elemosine; altri, desiderosi di lavorare con lui nel servizio ai bisognosi; qualcuno decise di vivere con lui un nuovo stile di seguire ed imitare Gesù. Con questi ultimi costituì una comunità di fratelli. Non reputò necessario dare loro delle norme di vita oltre al proprio modo di vivere.

26. Per esperienza personale sapeva che servire Gesù Cristo nei suoi poveri supponeva realizzare un cammino per niente facile. A chi voleva vivere con lui e come lui, rammentava questo fatto con parole semplici, ma decise. Era necessario essere disposti a svuotarsi di se stesso, a “lasciare la pelle e il resto”[50], a superare dubbi e incertezze ed un andamento di vita “come barca senza remo, come una pietra vagante[51]; invitava ad essere consapevole delle proprie debolezze e fragilità, per non lasciarsi trasportare da entusiasmi repentini, tenendo conto che nel futuro avrebbe dovuto essere “assuefatto a fatiche e all’alternarsi di giornate assai nere o molto buone”[52], per cui sarebbe stato opportuno prendersi del tempo per discernere la chiamata, raccomandandosi “molto a nostro Signore Gesù Cristo”[53] e percorrere il cammino dell’ascesi personale: “soffrire vita dura, fame e sete e ignominie e stanchezze, e angustie e affanni e contrarietà…tutto si deve patire per Dio, perché se venite qui, dovete soffrire tutto questo per amore di Dio”[54]. Esortava a vivere in relazione con Dio e ad accostarsi frequentemente ai sacramenti: “tutti i giorni della vostra vita guardate a Dio, assistete sempre all’intera Messa, confessatevi frequentemente, se sarà possibile”[55]. In definitiva, chiunque volesse unirsi al suo stile di vita, doveva intraprendere un processo di conoscenza e di intimità con Gesù Cristo, che lo avrebbe motivato all’imitazione della sua dedizione nell’amore a Dio ed al prossimo; Giovanni di Dio non si adegua alle mediocrità; propone di raggiungere il grado più alto dell’amore: “Ricordatevi di nostro Signore Gesù Cristo e della sua benedetta Passione, che restituì, per il male che gli facevano, il bene: così dovete fare voi …quando verrete alla casa di Dio, sappiate conoscere il male e il bene”[56]; non nasconde neanche le difficoltà e le esigenze: “se venite qui, dovete obbedire molto e lavorare molto più di quanto abbiate lavorato…e non poltrire, perché al figlio più amato si affidano le maggiori fatiche…e tutto nelle cose di Dio e perdere il sonno nella cura dei poveri; perché se venite qui, dovete soffrire tutto questo per amore di Dio; e di tutto dovete rendere molte grazie a Dio per il bene e per il male”[57]. Come criterio finale, che dà senso a tutto il resto, propone di aspirare a basare e a centrare la propria vita nell’esperienza di vita che animava tutto il suo amare ed il suo operare: “Amate nostro Signore Gesù Cristo sopra tutte le cose del mondo, ché per molto che lo amiate, molto più Lui ama voi; abbiate sempre carità, perché dove non c’è carità, non c’è Dio, anche se Dio è in ogni luogo”[58].

27. Desiderava dei fratelli che avessero sperimentato profondamente la misericordia di Dio[59]; in questo modo avrebbero vissuto impregnati d’amore sin nel profondo, disponibili al servizio in ogni dettaglio, fedeli, comprensivi, capaci al perdono e alla riconciliazione ed uniti tra di loro. Con il suo modo di essere e di porsi di fronte alla vita, trasmetteva loro una sicurezza incrollabile nella sua fede e nel carisma ricevuto. Molto presto, i cittadini di Granada vedono che “..i fratelli vanno per le strade cercando i poveri e li portano all’ospedale in braccio o sulle spalle, e li curano con grande carità…E’ cosa pubblica che i fratelli, incontrando i poveri per le strade, se li caricano sulle spalle e li portano all’ospedale[60]. Era nato nella Chiesa l’Ordine dei Fratelli di Giovanni di Dio.

b) Lo spirito ospedaliero ereditato

28. I primi compagni[61] di Giovanni di Dio condivisero il suo spirito ospedaliero e lo diffusero. Antón Martín fu come una prosecuzione di Giovanni di Dio; fondò e diresse l’Ospedale di Nostra Signora dell’Amore di Dio, a Madrid, al quale alla sua morte, fu dato il suo nome[62]; Pedro Velasco, trasformato dalla grazia come Antón Martín, che prima era suo nemico e del quale desiderava l’uccisione, si unì al Santo imitando la sua vita, e morì nell’Ospedale di San Giovanni di Dio di Granada. Entrambi furono toccati dalla misericordia di Dio grazie alla testimonianza misericordiosa di Giovanni e sono prove eloquenti di riconciliazione e fraternità ospedaliera. Gli altri compagni sono ricordati da testimoni come ospedalieri, molto vicini ai poveri e ai malati che assistevano; riconoscevano che Giovanni di Dio fu il loro iniziatore[63] e lo imitavano nella sua ospitalità senza frontiere[64]. Vent’anni dopo la sua morte, lo spirito ospedaliero continuava a vivere con grande forza.

29. Questo spirito è rimasto vivo lungo tutta la storia dell’Ordine. Annoveriamo, anzitutto, coloro che la Chiesa ha proclamato Santi, Beati e Venerabili: San Giovanni Grande, San Riccardo Pampuri, San Benedetto Menni; numerosi Beati Martiri; altri confratelli la cui causa di beatificazione è ancora in corso (Francisco Camacho, José Olallo Valdés, Eustachio Kugler, William Gagnon); e tanti altri che nella storia dell’Ordine hanno sopportato il martirio e la persecuzione per Cristo e per l’ospitalità in Brasile, Colombia, Cile, Polonia, Filippine, Francia, Spagna e, recentemente, in altri paesi.

30. La spiritualità si è trasmessa anche attraverso i fondatori ed i rifondatori di comunità ed opere dell’Ordine: sono i confratelli Pietro Soriano (Italia); Giovanni Bonelli (Francia); Gabriele Ferrara e Giovanni Battista Cassinetti (Austria/Germania/Europa Centrale), Francisco Hernández (America). In tempi più recenti si ricordano Paul de Magallon (Francia), Eberhard Hacke e Magnobon Markmiller (Germania), Giovanni Maria Alfieri (Italia) e San Benedetto Menni (Spagna, Portogallo e Messico). Lo spirito ospedaliero si è manifestato anche in diversi collaboratori che hanno partecipato alla missione ed allo spirito carismatico.

31. I valori spirituali che hanno animato questa lunga storia, a partire dall’esperienza originaria di Giovanni di Dio, sono i seguenti :

Ø Esperienza profonda della “grazia” e della “misericordia” di Dio, che porta a riconoscersi peccatori bisognosi di perdono e ad accogliere il dono dell’ospitalità concesso da Dio con tanta generosità a Giovanni di Dio e ai suoi[65]. Giovanni di Dio sperimentò l’infinito amore misericordioso del Padre e si sentì spinto a vivere misericordiosamente, soprattutto dalla contemplazione della Passione e morte di Gesù Cristo. Lo espresse in modo semplice e profondo in queste parole alla Duchessa di Sessa: Se considerassimo quanto è grande la misericordia di Dio, non cesseremmo mai di fare il bene mentre possiamo farlo;…diamo per suo amore ai poveri quello che Lui stesso ci dà […] E ci prega con le braccia aperte di convertirci, di piangere i nostri peccati e di avere la carità prima verso le nostre anime, poi verso il prossimo (1 D.S., 13). Quando invitava a contemplare la Passione del Signore, lo faceva per esortare alla preghiera di ringraziamento e di contemplazione, a ravvivare la speranza in Gesù Cristo, nel quale trovare consolazione e coraggio nelle difficoltà e nelle sofferenze, e a fare il bene ai poveri e ai bisognosi. (Cf. 3 DS. 8.9; 2 DS. 9.19). Da Giovanni di Dio, la Passione di Cristo continua ad avere un posto privilegiato nel nostro cammino spirituale.[66]

Ø Sequela di Gesù compassionevole e misericordioso[67]: scopriamo in Gesù l’incarnazione e l’espressione umana del Dio-Misericordia, origine della nostra ospitalità (Cost. 20); lo seguiamo ed imitiamo nei suoi gesti ed atteggiamenti (Cost. 2c; 3a); lo riconosciamo nella persona e nel volto del malato e del bisognoso, accogliendolo e prestandogli aiuto amorevole.

Ø Devozione alla Vergine Maria come esempio vivo e sublime dell’ospitalità: nel suo modo di accogliere, servire, di intercedere, di stare in modo compassionevole al fianco di chi soffre [68].

Ø Esperienza armonica ed integrale dell’amore a Dio ed al prossimo bisognoso[69].

Ø Solidità spirituale di fronte agli ostacoli: l’esperienza della grazia è tale che non esiste difficoltà né sofferenza che possano interrompere ciò che facciamo per i poveri, malati e bisognosi.

Ø Ospitalità irradiante: come Giovanni di Dio, anche i suoi seguaci hanno ricevuto la grazia di un’ospitalità irradiante e vigorosa che invitava gli altri a partecipare a nuovi progetti ospedalieri e ad entrare in comunione di carisma e spiritualità con essi. L’irradiazione carismatica era accompagnata da un’attenta formazione dei collaboratori nello spirito di Giovanni di Dio.

Ø L’attenzione alla persona del malato e del bisognoso come contributo dell’Ordine all’unica missione della Chiesa[70].

Ø Professionalità: la tradizione ospedaliera dell’Ordine testimonia l’impegno a unire la missione ospedaliera con la tecnica, la scienza e l’aggiornamento dei mezzi, secondo i problemi e le possibilità che ogni epoca presenta.

Ø Spirito di dedizione fino alla morte: è una costante in tanti seguaci di Giovanni di Dio la disponibilità a donarsi senza riserve, sino al sacrificio della propria vita a favore dei malati e dei bisognosi. Lo dimostrano i fatti eroici che costellano la storia dell’Ordine in luoghi e tempi diversi: durante le epidemie, le guerre, i pericoli…

Ø Inculturazione tra i poveri, o umiltà ospedaliera: è la continenza o la “kénosis” ospedaliera, che portava i Confratelli a rinunciare alla vita confortevole e a qualsiasi tipo di grandezza, adattandosi allo stile di vita umile dei poveri e dei malati.

3. L’ “oggi” del carisma di Giovanni di Dio: missione condivisa e inculturazione

32. Giovanni di Dio condivise il dono che aveva ricevuto, con tutte le persone che si sentirono contagiate dal suo modo di vivere il cristianesimo ed il suo amore ai bisognosi: gente semplice che si univa a lui nel servizio, benefattori anonimi e personaggi appartenenti alla nobiltà che lo sostenevano con i loro beni, presbiteri che collaboravano con lui nell’assistenza spirituale di coloro che vivevano nell’ospedale e molti altri: volontari, medici e gente di servizio che assieme a lui ed ai confratelli si occupavano dei malati.

33. Il dono dell’ospitalità, secondo lo stile di Giovanni di Dio, è andato irradiandosi costantemente, giungendo anche a persone non sempre animate dai valori della fede cristiana. Il carisma trasmesso si è manifestato in un’ammirevole creatività traducendosi in una serie di opere adattate a tempi e luoghi diversi. Siamo sempre più consapevoli che il carisma dell’ospitalità secondo lo stile di Giovanni di Dio trascende l’ambito dei Confratelli che hanno professato nell’Ordine. Si sta imponendo sempre più una nuova visione dell’Ordine come “famiglia”, forte della quale accogliamo – come dono dello Spirito nel nostro tempo – la possibilità di condividere il carisma, la spiritualità e la missione[71]. Questa realtà che si è andata affermando lentamente nell’Ordine, è una sfida che esige da noi di vivere “così compenetrati con la nostra missione, che i nostri collaboratori si sentono spinti ad agire nello stesso modo”[72], non solo perché le opere apostoliche dell’Ordine, soprattutto nei paesi industrializzati, sono diventate enormemente complesse, ma per ché ci sentiamo spinti dall’imperativo evangelico di condividere con gioia e gratuitamente ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto dal Signore, per il bene della comunità ecclesiale e l’annuncio del vangelo della misericordia.

34. I confratelli missionari – nel realizzare la missione “ad gentes”- hanno reso possibile che il carisma di Giovanni di Dio si estendesse in modo considerevole e si inculturasse; ora si sta verificando il passaggio dall’inculturazione alla incarnazione del carisma e della missione dell’Ordine attraverso i confratelli autoctoni. Ciò significa che è necessario superare le forme di vivere la consacrazione nell’ospitalità secondo lo stile delle nazioni di provenienza dei missionari, per promuovere lo stile e le forme di viverlo di ogni cultura, conservando l’elemento genuino e perenne del carisma. Le esigenze sono ancora più significative nell’apostolato nel quale si deve passare progressivamente da uno stile di organizzazione dell’assistenza di stampo da primo mondo a forme attuative dell’ospitalità che siano adatti alla rispettiva realtà e che si incarnino nell’ambito socio-ecclesiale, senza rinunciare al valore chiave della tradizione dell’Ordine di promuovere un’assistenza degna fondata sui progressi della scienza e della tecnica e realizzata da confratelli e collaboratori ben qualificati.

35. In questo modo il carisma di Giovanni di Dio si arriccherà da una parte con i valori di ogni cultura, mentre dall’altra l’Ordine continuerà ad essere coscienza critica nei luoghi in cui l’assistenza sanitaria e sociale è carente, e promuoverà un sano sviluppo delle strutture sanitarie e assistenziali alle quali possano accedere tutti, in special modo le persone più sfavorite.

II. Il Fondamento: Misericordia e Ospitalita’

come categorie basilari

36. L’Ordine ha articolato il carisma di Giovanni di Dio in due parole che sono strettamente legate tra loro: “misericordia” e “ospitalità” [73], che ritroviamo anche nella Parola di Dio; anche nel nostro tempo, sono due termini che ci parlano di valori umani molto ben accettati in tutte le culture. Presentiamo di seguito alcune brevi riflessioni su ognuna di esse, come perno attorno al quale ruota la spiritualità peculiare dell’Ordine. Perciò, parleremo:

Ø in primo luogo, della misericordia, come categoria biblica ed antropologica;

Ø in secondo luogo, rifletteremo sull’ospitalità in senso biblico ed antropologico;

Ø in entrambi i punti metteremo in luce la risonanza peculiare che questi temi hanno trovato nel carisma dell’Ordine, tenendo conto in modo particolare delle Costituzioni attuali.

1. Premessa: misericordia e ospitalità, colpa e violenza

37. La misericordia è, anzitutto, capacità di comprensione, di compassione, di perdono, di essere agenti di riconciliazione, capacità che si rivela soprattutto nel modo in cui si reagisce di fronte alla colpa, di fronte al peccato. Noi esseri umani possiamo agire fedeli al progetto di Dio o, viceversa, abbiamo la possibilità di violare la sua volontà, le norme umane, i patti che abbiamo stipulato. Vivere privilegiando l’essere, con atteggiamenti positivi, crea armonia, promuove lo sviluppo della propria persona e favorisce ambienti di serenità e di solidarietà. Viceversa, la trasgressione si ripercuote sulla nostra psicologia turbandola o squilibrandola; la conseguenza è che ci sentiamo colpevoli, sviluppiamo un senso di colpa che condiziona tutte le dimensioni della nostra vita. Quando

Ø uno si sa e si sente colpevole di fronte a Dio, parliamo di peccato,

Ø uno si sa e si sente colpevole di fronte a se e di fronte agli altri, parliamo di colpamorale” o “etica”,

Ø si attua una violazione di unna norma fondamentale nel nostro sistema di valori, affiora in noi la coscienza di colpa, emergono i sensi di colpa.

38. Per questo, non bisogna negare la colpa, ma neppure favorire complessi di colpa che ingrandiscono e deformano la realtà. Perdonare – saper perdonare e sapersi perdonato – rappresenta il superamento più radicale della colpa, del peccato.

39. L’ospitalità è, anzitutto, la capacità umana di aprirsi ed accogliere l’altro; in secondo luogo è la capacità di reagire in un determinato modo di fronte alla violenza. La violenza c’è laddove esiste l’antagonismo tra di noi e non siamo capaci di vivere in pace, di incontrarci come persone. La violenza interiore ci fa preferire il conflitto, la lotta, la distruzione. La violenza fa scattare in noi le molle peggiori (i peccati radicali) e stimola la nostra aggressività. La violenza originale non ha le sue radici nella guerra di tutti contro tutti, ma nell’ostilità di una comunità umana – famiglia, villaggio, nazione, religione, entità culturale – verso gli estranei e gli stranieri. Quando la violenza dello spirito si erige a legge universale, reclama per se il monopolio della civilizzazione e combatte la diversità umana. C’è violenza laddove viene negato il diverso.

40. La violenza religiosa afferma “Dio è con noi!” e nega la presenza di Dio in chi è diverso. Chi crede che Dio sia soltanto con lui, non deve niente a nessuno. Ciò dà luogo all’egoismo sacro: “Affinché possa esistere io, è necessario che l’altro non esista”. Per questo, la violenza sacra è fondamentalista ed omicida verso gli altri; ma è anche distruttiva per coloro che la praticano. Solo l’accoglienza dell’altro, del diverso, l’ospitalità – la filoxenia e non la xenofobia! – si oppone alla violenza.

2. La Misericordia

a) Il Dio della Misericordia

41. La caratteristica suprema di Dio, secondo l’Antico Testamento, è la misericordia e non la violenza[74]. La misericordia supera infinitamente l’ira: “in un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te” (Is 54,8). Il testo paradigmatico che esprime la misericordia, come identità di Dio, è Es 34,6-7:

“Il Signore passò davanti a lui proclamando: “il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa de padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”…

42. Qui Dio viene definito come “rahum”, colui che ha un amore sviscerato, materno, profondo, un amore di cuore. Questo amore misericordioso è totalmente gratuito, non è una risposta ai meriti, ma un’esigenza del cuore. Misericordia è, perciò, bontà, tenerezza, pazienza, comprensione, disponibilità a perdonare malgrado l’infedeltà.

43. La misericordia di Dio si manifesta sempre in contesti in cui è stata violata l’Alleanza. Il popolo, cosciente della propria infedeltà, allora ricorreva alla misericordia di Dio. Le trasgressioni all’Alleanza suscitavano l’ira e la collera di Dio; ma con i profeti (Ezechiele e Deutero-Isaia), le minacce si convertirono in annunci di consolazione e manifestazioni di misericordia, in vangelo (il lieto annunzio) per i poveri (Is 40; 61).

b) L’incarnazione della Misericordia

44. Il testo di Fil 2,6-11 ci dice che Dio “spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. Il Dio onnipotente rinunciò al potere: “sto in mezzo a voi come colui che serve”. (Lc 22, 27; cf. Mt 22, 25-28) Il Dio onnipotente non distrugge meccanicamente il male e la morte, ma li assume su di se. Per questo, di fronte alla sofferenza degli innocenti, o agli episodi assurdi della vita, il nostro Dio si mostra come debolezza invincibile. E proprio perché Dio si manifesta come debole, soffre con l’essere umano. La sofferenza è il pane che Dio condivide con noi. La misericordia divina è la penitenza di Dio, la debolezza di Dio. La debolezza di Dio corrisponde alla debolezza dell’essere umano. Il nostro Dio si presenta sempre come protagonista del perdono. Ed è proprio perdonando e praticando la misericordia, che il nostro Dio si rivela come tale all’uomo.

45. Il nuovo testamento presenta Gesù come uomo del perdono, come il grande terapeuta del perdono. In Lui si prende corpo tutta la misericordia di Dio. In un ambito tanto peculiare com’è quello del perdono (cfr. Mc 2, 7; Lc 15), Gesù fa le veci del Padre. Gesù si preoccupa delle persone nella loro totalità, entra nel loro intimo, nel loro cuore, senza però fermarsi all’anima, alla psiche, ma curando anche il corpo. “La terapia che Gesù somministrava, era lui stesso” (Hanna Wolff). Perdonando Gesù mette in moto nel perdonato un processo di recupero integrale. In Gesù si rivela la misericordia, non la violenza. L’incarnazione è l’abbassamento di Dio verso l’uomo (kénosis di Dio). E’ il segnale che Dio non è violento. Ama la debolezza e si fa debole. Gesù non appare con il carattere assoluto di una persona sacra, ma come uno “simile agli uomini” (Fil 2, 7), come uno di questo mondo. Gesù si fa prossimo di tutti, senza eccezione. Ama tutti, perché è l’icona di Dio, e Dio è Amore (1Gv 4, 7). Rifiuta senza riserve ogni tipo di violenza. Gesù presenta suo Padre (Abbá) non come padrone, ma come amico; non come dominatore, ma come servitore; afferma che le cose essenziali non sono rivelate ai sapienti, ma ai piccoli (Mt 11, 25; Lc 10, 21). Il filo conduttore della storia, iniziata da Gesù, è la riduzione delle strutture forti, la rinuncia alla violenza e all’efficientismo; per questo, raccomanda tanto il perdono ed invita a perdonare sempre di nuovo, fino a settanta volte sette! (Mt 18, 22). Gesù si manifesta così come il grande educatore che conduce a fonti tranquille ed insegna come superare la violenza – sacra o sociale che sia.

46. L’inno che apre la lettera agli Efesini enfatizza la magnificenza di Dio che, in Gesù ed attraverso di lui, ci concede il perdono dei peccati. Se la gratuità costituisce uno dei tratti sorprendenti di Dio, la misericordia in particolare ce lo rende più vicino ed accessibile. Il nostro Dio non solo dona gratuitamente, ma, nel perdonare, si dona come misericordia. Avere misericordia è un elemento peculiare di Dio. Dio sviluppa la sua presenza tra gli uomini perdonando. “chi può rimettere i peccati, se non Dio soltanto?” (Lc 5,21; Mc 2,7). Gesù assume il protagonismo riservato a Dio. L’incarnazione del Figlio di Dio è stata la manifestazione suprema della Misericordia. L’Abbá è il “padre misericordioso e Dio di ogni consolazione” (2 Cor 1,3), è il “Dio ricco di misericordia” (Ef ,2,4).

47. L’identificazione di Gesù, non solo con l’uomo, ma specialmente con l’uomo che ha fame e sete, con i forestieri, i carcerati e tutti i bisognosi (Mt 25,34-45), ci mostra fino a dove arriva la misericordia che egli incarna. Gesù stesso è – come quelli con i quali si identifica – vittima della violenza. Egli non trova misericordia, tanto che sulla croce si domanda: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 45). Ma il Figlio fu ascoltato e la sua preghiera sbocciò nella Risurrezione. Risuscitò dalle viscere di Abbá: Tu sei mio Figlio, e io oggi ti ho generato (Cfr. Sal 2, 7; Heb 1, 5). Nacque per la vita eterna dalle viscere misericordiose di Abbá.

c) La misericordia nel carisma dell’Ordine

48. La “misericordia” è l’asse del carisma e della spiritualità di Giovanni di Dio[75] e del suo Ordine[76]. E noi vogliamo essere nella Chiesa un’icona vivente e collettiva della Misericordia.

Ø Punto di partenza: riconosciamo che siamo misericordiosi nella misura in cui sia Giovanni di Dio sia ciascuno di noi è stato toccato dalla Misericordia di Dio e l’ha sperimentata nella propria vita: “se considerassimo quanto è grande la misericordia di Dio, non cesseremmo mai di fare il bene mentre possiamo farlo”[77]. Ci sentiamo destinati e consacrati ad essere misericordiosi. Desideriamo “ amare Gesù al di sopra di tutte le cose del mondo e per amore suo e bontà vogliamo fare il bene e la carità ai poveri e ai bisognosi”; vogliamo imitare nostra Signora la Vergine Maria “sempre intatta” nel suo amore materno (Cost. 4b.c).

Ø Il nostro obiettivo spirituale consiste nell’ “incarnare con sempre maggiore profondità i sentimenti di Cristo verso l’uomo ammalato e bisognoso e manifestarli con gesti di misericordia”; “farci deboli con il debole”; essere per lui segno ed annuncio dell’arrivo del Regno di Dio (Cost. 3). La nostra risposta vocazionale ci porta a coltivare in noi un amore ogni volta più intenso verso i poveri, i bisognosi ed i peccatori.

Ø Lo stile che ci caratterizza sin dalle origini, si esprime nelle seguenti virtù: “servizio umile, paziente e responsabile; rispetto e fedeltà alla persona; comprensione, benevolenza e abnegazione; partecipazione alle sue angosce e alle sue speranze” (Cost. 3b).

3. L’Ospitalità

49. L’Ordine ha espresso tradizionalmente il carisma ricevuto con la parola “ospitalità”. Questo termine, non solo non ha perso la sua forza espressiva nel nostro tempo, ma è stato proposto da alcuni come categoria fondamentale di una nuova etica per il nostro tempo[78]. E’ importante perciò riflettere su di essa, come perno intorno al quale gira la spiritualità peculiare dell’Ordine.

a) Cos’è l’ospitalità

50. L’ospitalità ci parla delle relazioni che si stabiliscono tra un ospite e la persona che lo accoglie (l’anfitrione). In queste relazioni ci sono degli obblighi e delle responsabilità. L’ospite e l’anfitrione si trovano in una relazione reciproca: non esiste l’uno senza l’altro. L’ospite è un assente che in qualsiasi momento può farsi presente e rivendicare il suo diritto di ospitalità. Laddove vige l’ospitalità, l’assente ha dei diritti nei confronti dell’anfitrione (essere accolto) e l’anfitrione, anche se non costituito in quanto tale, ha dei doveri nei confronti dell’ospite che bussa alla sua porta (accoglierlo),

51. Perché gli esseri umani sono ospitali? Non è facile sapere il motivo; ad ogni modo, la relazione dell’ospitalità non è meccanica, giacché l’ospite può andar via o l’anfitrione può ritirare la sua offerta di accoglienza; ma neanche arbitraria, dato che l’anfitrione si sente moralmente obbligato a ricevere un ospite, anche se inopportuno.

52. La caratteristica fondamentale dell’ospitalità è l’accoglienza ed il riconoscimento dell’ospite da parte dell’anfitrione; ma questo riconoscimento e questa accoglienza hanno delle caratteristiche speciali:

Ø L’ospitalità è virtualmente universale. L’ospite può essere qualsiasi persona; riconoscerla come ospite presuppone un passaggio molto importante verso il riconoscimento di tutti gli esseri umani come ospiti virtuali. Qualsiasi persona al mondo è un ospite virtuale, o un anfitrione virtuale. In molte culture è proibito chiedere all’ospite da dove proviene o il suo nome, come se fosse una rappresentazione simbolica dell’assente. La tutela dell’anonimato dell’ospite è il segnale che in lui vediamo qualsiasi persona del mondo. I nostri doveri verso i visitatori che ci vengono a trovare sono molto concreti. Mostrare un certo disinteresse a conoscerne il nome, la provenienza o l’origine, non significa disprezzo, ma propensione ad un’ospitalità aperta a tutto il mondo.

Ø L’ospitalità è indice di un alto senso della moralità e della politica. L’ospite non solo viene ricevuto in quanto determinato individuo, ma anche come ambasciatore sostituibile, come rappresentante di altri poiché gli esseri umani formano gruppi, comunità, società, nazioni; ogni individuo è inserito in un gruppo. L’ospitalità ci mette di fronte, perciò, a qualcosa che ha un notevole significato etico e politico: l’accoglienza del forestiero, dell’altro, di colui che non fa parte “dei miei”. L’ospitalità è il riconoscimento dei “diversi”: accettiamo che l’ospite sia diverso da noi e gli diamo la libertà di esserlo.

Ø L’ospitalità è virtualmente sacra. In non poche popolazioni si incontra la convinzione che questo “altro” che è l’ospite, è rivestito di mistero. Una certa sacralità lo avvolge. L’ospite potrebbe essere un dio. Che gli dei vengano come ospiti tra gli uomini è un tema frequente nella mitologia greca, nella Bibbia e nella tradizione di molte culture diverse. Si diceva che gli dei assumessero frequentemente forme irriconoscibili e chiedessero aiuto agli umani. La lettera agli Ebrei dice che alcuni avevano ospitato degli angeli senza saperlo (Eb 13,2). In questo modo si sanziona da un punto di vista religioso il diritto di ospitalità: con i forestieri bisogna comportarsi come se si trattasse della visita di un Dio. La figura dell’ospite è connotata da una certa ambiguità, che la presenta come un luogo incerto, in cui viene messo in gioco qualcosa d’importante per noi. E’ un luogo di paura e di desiderio allo stesso tempo. L’ospite si tramuta in simbolo di mediazione tra due sfere distinte. Nel ricevere l’ospite ha luogo un incontro tra esseri di ordini distinti: il divino, il lontano, l’illimitato ed inconcepibile, viene accolto in un ambito umano. Quest’incontro ha, in alcune occasioni, il carattere di un’irruzione violenta che distrugge l’ordine stabilito e spezza l’equilibrio dello spazio familiare; in ogni caso, risulta sempre come qualcosa di imponderabile e sconcertante.

Ø L’ospitalità è un avvenimento. E’ imprevedibile ed incontrollabile. Non sappiamo quando avverrà, né con chi. L’anfitrione è sempre preparato perché l’ospite può arrivare nel momento più inaspettato.

Ø Ogni incontro di ospitalità è unico e richiede sempre l’attenzione per una persona concreta; dev’essere realizzato ed interpretato secondo le caratteristiche delle persone che esercitano le funzioni di ospite o di anfitrione. I doveri dell’ospite e dell’anfitrione sono generali, ma vengono esercitati nell’ambito di un orizzonte determinato e finito. Uno può essere disposto ad adempiere agli obblighi che impone l’attenzione a qualsiasi essere umano, indipendentemente dalle sue peculiarità, in virtù della sua appartenenza al genere umano, ma queste esigenze si fanno presenti sempre in una persona umana particolare. Un anfitrione che sta aspettando l’ospite universale, l’unico che secondo lui che merita veramente attenzione – respingendo nel contempo tutti i viandanti che bussano alla sua porta perché nessuno di loro realizza appieno la condizione umana – nega l’evento dell’ospitalità.

b) L’ospitalità nella Rivelazione

53. La rivelazione giudaico-cristiana è particolarmente sensibile all’evento dell’ospitalità[79]. Inizia narrando come Dio accolse l’uomo nel suo giardino: si adoperò per il suo ospite (“fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare”), gli offrì cibo e vestiti (“Fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì” – Gen 2,8-9; 3,21). La rivelazione conclude narrando come Dio chiede ospitalità all’uomo: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).

54. L’ospitalità rese gli uomini ospiti di Dio, e Dio ospite degli esseri umani e questi ultimi ospiti tra di loro. Adamo ed Eva furono ospiti di Dio nel giardino dell’Eden. Abramo, e dopo il popolo che era in Egitto, furono condotti alla terra dove sgorgano latte e miele, e lì furono ospiti di Dio: “la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti” (Lev 25,23; cfr. Sal 23,5; 27,10). Dio fu ospite di Abramo ed abitò sotto la tenda alle Querce di Mamre; poi fu ospite del popolo che camminava nel deserto dimorando nella tenda del convegno. Alla fine accettò di rimanere nella casa del Tempio: “la gloria del Signore riempiva il tempio” (1 Re 8,10-11). L’ospitalità aprì gli occhi agli uomini, affinché si vedessero e si riconoscessero come ospiti tra di loro. Abramo e Mosé si sentivano forestieri in terra straniera. Così anche il popolo in Egitto. Compresero che l’ospitalità è una componente connaturata dell’uomo.

55. Ospitalità è l’accoglienza di ciascun essere umano nel seno materno. Ospitalità ricevuta e donata in tende, case, città o paesi. L’ospitalità non era intesa come una semplice accoglienza dell’ospite; implicava la sua “inclusione” nel proprio raggio di di interessi, difendendolo contro i nemici, proteggendolo, rispettandolo profondamente a livello esistenziale, prendendosi cura di lui in tutte le eventuali necessità.

56. Icone dell’ospitalità nell’Antico Testamento furono: Abramo che accoglie i tre uomini, la vedova di Sarepta ed Elia nell’ospitalità reciproca, la prostituta di Jerico, Rahab, che accoglie gli inviati di Giosuè, l’anziano che accoglie il levita e sua moglie (Gdc 19), Tobia, l’arcangelo Raffaele, Rut.

57. Il Nuovo Testamento è la grande esplosione dell’ospitalità portata al culmine. Gesù è il sacramento del Dio che ci accoglie, che ci serve e ci cura, che ristabilisce la nostra dignità e la nostra salute, che si identifica con noi, che ci lava i piedi e muore per noi. Varrebbe la pena – ad esempio – contemplare la figura di Gesù nel vangelo di Luca, come un autentico cammino di ospitalità. Anche Gesù riceve l’ospitalità uomo: l’ospitalità di Maria nel suo grembo, di alcuni farisei, di Marta e Maria, di Zaccheo, ecc. La spiritualità cristiana attribuisce un valore talmente alto all’ospitalità che riconosce la presenza di Gesù anche e soprattuto nei poveri, nei carcerati, nei malati, in tutti quegli esseri umani che hanno bisogno della nostra solidarietà, del nostro amore, del nostro servizio.

58. La grande parabola cristiana dell’ospitalità è la parabola del buon Samaritano. Alla domanda del dottore della legge: chi è il mio prossimo?, Gesù risponde narrando la parabola. Si potrebbe supporre che il prossimo fosse colui che era caduto nelle mani dei banditi, la persona bisognosa. Ma Gesù stravolge la domanda del dottore della legge e chiede: chi dei tre ti sembra sia stato il prossimo? (Lc 10,36). Ciò che è importante per Gesù non è che esista il prossimo, o che ci siano persone che vedano le necessità degli altri, ma che si può acquisire lo status di prossimo esercitando la misericordia verso i bisognosi. Per questo, il dottore della legge non deve preoccuparsi di cercare persone che si trovino nel bisogno, ma deve farsi prossimo e esercitare la misericordia come il Samaritano. Nella parabola si fondono ospitalità e misericordia.

c) L’ospitalità nel nostro Padre San Giovanni di Dio

59. Giovanni di Dio fece della sua vita un progetto, un cammino di ospitalità misericordiosa. Ma in questa grande proposta antropologica e biblica, si sentì chiamato a mettere in risalto nella sua esistenza l’ospitalità nei confronti dei più poveri, dei più derelitti tra gli esseri umani, i malati fisici e psichici, senza alcun tipo di esclusione o discriminazione. Per Giovanni di Dio l’ospitalità, così intesa, fu la ragione della sua vita. Fu questo il carisma che ricevette, con un’intensità sconvolgente e a volte incomprensibile. Accolse tutti, andò incontro all’altro. Gli diede tutto ciò che aveva. Si identificò con l’altro; gli donò il suo tempo. Scoprì il carattere sacro dell’estraneo.

60. Lo stile della sua ospitalità era di accogliere e servire il malato come fratello e prossimo. La sua preoccupazione principale era consolare con le parole e fornire il necessario ai pazienti: Si occupava tutto il giorno…e la sera, quando tornava a casa, per quanto stanco fosse, non si ritirava mai senza aver prima visitato tutti gli infermi, uno per uno, e chiesto loro com’era andata la giornata, come stavano e di che cosa avevano bisogno, e con parole molto amorevoli li confortava spiritualmente e corporalmente .[80] Amare il Signore nei poveri e nei malati gli dava una gioia incontenibile [81].

61. La carità di Giovanni fu molto creativa. Lo mostra chiaramente una delle descrizioni del suo ospedale: Essendo questa una casa per tutti, vi si ricevono indistintamente persone affette da ogni malattia e gente d’ogni tipo, sicché vi sono degli storpi, dei monchi, dei lebbrosi, dei muti, de matti, dei paralitici, dei tignosi e altri molto vecchi e molti bambini; senza poi contare molti altri pellegrini e viandanti che vengono qui.[82] Lo aveva dimostrato con il suo modo di chiedere la carità, che convertì in apostolato, ricordando a chi dava che il primo bene dell’elemosina ricadeva proprio sul donatore stesso. Giovanni di Dio non escludeva nessuno dal suo amore senza limiti. Un amore che, sia quando si centrava sui poveri, sia quando invece era rivolto ai ricchi, aveva la sua origine nell’amore di Gesù Cristo e a Gesù Cristo, che amò tutti come fratelli e sorelle.

62. L’identificazione con Cristo fece di Giovanni di Dio un buon maestro di misericordia: Dio gli concesse un cuore compassionevole e profondamente umano. Come Gesù, insegnò più con le opere che con le parole. Non si preoccupò di redigere statuti o norme di vita; si limitò a vivere il dono che lo animava, a fare il bene, a pregare per lunghe ore durante le notte, a visitare uno per uno i suo malati, e ad ascoltare tutti con grande pazienza, consolando e aiutando ciascuno secondo le necessità e le possibilità. Come Gesù, visse, amò e servì donando la vita per tutti; come Gesù, lasciò un solo precetto che illuminasse quanto doveva essere in seguito codificato per aiutare a mantenere vivo il suo spirito nelle persone e nelle opere dell’Ordine.[83] I Confratelli che seguirono il suo stile di vita, appresero da lui ad accogliere, servire ed amare i poveri malati con i gesti che gli videro praticare e che più tardi raccolsero nelle Costituzioni dell’Ordine per perpetuare il modello di ospitalità ereditato dal Fondatore:

“Nei nostri Ospedali si dovrà fare in modo che il servizio che si rende al Signore nei suoi poveri gli sia gradito, per cui (…) prima di mettere il malato a letto, gli si taglieranno i capelli e le unghie, non essendo dannoso alla salute, e gli si laveranno le mani ed i piedi e, ove necessario, tutto il corpo, con acqua calda preparata allo scopo; e fatto ciò si vestirà con una camicia pulita e gli si metterà una cuffia o un berretto da notte, e così pulito il malato sarà messo a letto, che avrà lenzuola e guanciale puliti; e se fosse inverno, lo si riscalderà, ed in questa maniera gli si applicheranno i rimedi corporali ”.[84]

d) L’Ospitalità nelle Costituzioni e nei documenti dell’Ordine

63. La ragion d’essere della vocazione del Fatebenefratello è mantenere “viva la presenza misericordiosa di Gesù di Nazareth”, incarnando “i suoi sentimenti verso l’uomo ammalato e bisognoso”, per manifestare che “rimane vivo tra gli uomini”[85]. Gesù di Nazareth è la “fonte e corona” della nostra spiritualità[86]. Il Fatebenefratello ha una missione ed un ministero del tutto particolare: rappresentare Gesù nel servizio ai malati, nell’accoglienza ai poveri ed abbandonati. Gesù trasmise la pace del Regno a coloro che erano stanchi e umiliati, la liberazione a quanti si sentivano oppressi dal male e dalle malattie, la serenità a quelli che si sentivano turbati.

64. Obiettivo del testo delle Costituzioni è offrire all’Ordine un nuovo orizzonte di spiritualità in tempi nuovi. L’Ordine è consapevole che senza conversione ed un serio impegno spirituale non può portare avanti il rinnovamento chiesto dal Concilio.[87] Nel suo processo di rinnovamento, l’Ordine ha individuato diverse opzioni:

Ø L’umanizzazione dell’assistenza: la prima finalità dell’Ordine consiste nel difendere la dignità della persona malata (Cost. 10d; 12c; 23a; 28b; 43d)[88]. L’apostolato ospedaliero si identifica in questo modo con l’umanizzazione. Si scopre, allo stesso tempo, la necessità di umanizzare la vita religiosa e di potenziare gli aspetti umanizzanti nei Confratelli: “umanizzarsi per umanizzare”. Senza attenzione all’elemento umano, si perde il senso stesso del carisma di servi dell’ospitalità.

Ø L’obiettivo della vocazione ospedaliera è entrare in Alleanza con l’essere umano che soffre, che è il modo di esprimere carismaticamente l’Alleanza con Dio.

Ø Consiste, inoltre, nel creare vincoli di fratellanza. Giovanni di Dio si sentì fratello di tutti: dal più povero al Principe Filippo[89]. Creare legami di fratellanza è la caratteristica che deve distinguere il Fatebenefratello a incominciare dal sentirsi fratello della persona che soffre e di quanti condividono con lui il ministero dell’ospitalità (45b; 46b.c; 23), operatori, volontari e benefattori, con i quali è chiamato a vivere un’Alleanza a favore del servizio e della promozione della vita.[90]

Ø L’ospitalità dev’essere intesa partendo dall’opzione preferenziale per i poveri e dall’umanizzazione (Cost. 5a)[91] del servizio ai malati e ai bisognosi in generale.

4. Ripensare la Misericordia e l’Ospitalità nel nostro tempo: il rapporto con “l’estraneo”

a) Il rapporto con “l’estraneo”

65. I fenomeni dell’ospitalità e della misericordia ci parlano del rapporto dell’uomo con il prossimo, il fratello, e con “l’estraneo”. Questa realtà estranea può essere l’amico (comunione!) o il nemico (ostilità!), lo straniero che ci fa paura, o il nostro stesso corpo come scenario di sofferenza, o le conseguenze esterne delle nostre azioni (cfr. Rom 7). L’incontro con “l’altro”, “l’amico”, “il nemico”, “ lo straniero”, “l’estraneo”, può provocare reazioni differenti: allegria, accoglienza, solidarietà, irritazione, paura, curiosità, interesse per l’esotico. La non conoscenza dell’altro produce paura; appare minaccioso ed affascinante allo stesso tempo: minaccioso perché entra in competizione con ciò che ci è proprio e familiare; affascinante perché l’estraneo fa sorgere possibilità sino ad ora inedite nella propria vita.

66. L’estraneo è sempre ciò che si trova fuori dal proprio ambito, dal proprio spazio, che appartiene ad altro. E’ ciò che si oppone, l’incomprensibile, l’insolito, l’eterogeneo, il non disponibile. La realtà appare come estranea quando si pone in relazione con “il mio”, “il proprio”; affinché qualcosa possa essere definito come estraneo o proprio, è necessario che si riconosca la relazione tra i due termini; per questo, l’estraneo è tale quando in un certo senso già ci appartiene: riconosciamo il proprio dall’estraneo e l’estraneo dal proprio. Per questo, l’ospite non è il viaggiatore che viene e se ne va, ma il viaggiatore che viene e rimane; anche se solo provvisoriamente. L’ospite occupa uno spazio di frontiera. Anche l’anfitrione che lo accoglie. Lo spazio che occupano non è né dell’uno né dell’altro.

67. L’estraneo è anche, e soprattutto, ciò che si trova fuori dal nostro tempo. Ogni persona vive il “suo” tempo. Possiamo parlare degli altri come di “altri tempi”, altri ritmi. Convivere, perciò, significa accordare tempi e ritmi, armonizzare il tempo degli altri con il mio tempo. L’ospitalità si delinea come una questione strettamente vincolata al rispetto del tempo degli altri e non tanto, o solo, un rispetto dei suoi spazi. Considerato con la propria temporalità, l’altro generalmente è una persona inopportuna, qualcuno che tende, in modo fastidioso, ad affrettare o a ritardare. Gli altri sono più lenti o più rapidi di noi, abitano una temporalità che, per una ragione o l’altra, ci risulta estranea o che ci sembra impropria. Coloro che sono veramente estranei non sono quelli che vivono lontani, ma quelli che vivono in un altro tempo. L’emarginato non si trova alla periferia dello spazio, ma vive letteralmente in un altro tempo. Per questo, l’ospitalità ha molto a che vedere con la capacità di “perdere tempo”, o di “dedicare il proprio tempo”.

68. L’estraneo – sia spaziale, sia temporale – è sempre ciò che ci interpella, che accade in modo imprevedibile, insondabile. Ed esige una nostra risposta. Non rispondere all’estraneo è anch’essa una forma di risposta: si neutralizzano così le domande future, ci si protegge contro un futuro imprevedibile. L’estraneo può mettere in crisi la nostra identità. In questo consiste la sua ricchezza ed il suo rischio. L’esperienza culturale dell’estraneo comporta sempre un confronto con le possibili alternative della propria vita, e provoca una messa alla prova di ciò che è proprio. L’estraneo è un capitale per arricchire e correggere la limitazione delle proprie posizioni. Durkheim diceva – in questo senso – che la qualità morale di una cultura si misura dal suo rapporto con l’estraneo. Ciò a cui rispondiamo oltrepassa sempre ciò che offriamo come risposta.

b) Apprendere l’ospitalità e la misericordia

69. L’ospitalità così intesa, e la misericordia come amore e non violenza, ci mostrano le verità fondamentali dell’essere umano. La persona scopre se stessa andando incontro ad altre persone. La scoperta di sé è un atto intersoggettivo. Conosciamo i nostri diritti e i nostri doveri nella misura in cui andiamo incontro all’altro. Scoprirsi come ospite o anfitrione, come colui che è accolto o colui che offre accoglienza, è scoprire un’identità che dà origine ad obblighi e a responsabilità. Gli individui si costituiscono come persone solamente attraverso la prospettiva di approvazione o disapprovazione da parte degli altri.

70. Com’è giusto l’aforisma di Merleau-Ponty: “Dobbiamo imparare a considerare il proprio come estraneo, e l’estraneo come proprio”. Ciò si raggiunge imparando ad esercitare un tipo di ospitalità e di misericordia che non sia opprimente, né indifferente, ma che sia capace di stare con l’eterogeneo e sappia sopportare la contingenza propria ed altrui. L’ospitalità e la misericordia si apprendono abituandosi ad interessarsi all’estraneo, rispettandolo e cercando di farsi carico delle sue peculiarità.

c) In missione di misericordia ed ospitalità “oggi”

71. Nelle attuali condizioni di vita, la mobilità è molto facile, e l’esperienza dell’estraneo si fa ogni volta più frequente nell’esistenza delle persone. Assistiamo ad enormi ondate di immigrazione ed emigrazione. Ci troviamo nella società del movimento, della globalizzazione. Viviamo in società multiculturali, che ci fanno scoprire e provare il pluralismo. Ci viene chiesto di essere tolleranti con il diverso, con ciò che ci è estraneo. Questa situazione ci fa vedere che non esistono blocchi compatti, omogenei, che non ci sono realtà definite e delimitate; ci sorprendiamo nel constatare come il proprio si fa estraneo, e ciò che inizialmente ci è estraneo passa a far parte dell’ambito del proprio. Le società complesse richiedono una maggiore sensibilità verso le realtà escluse causate solitamente da un’eccessiva affermazione della propria identità o da un determinato ordine sociale. Nella società contemporanea assistiamo ad una sorta di perdita di gravità dell’individuo: si sente meno vincolato di prima ad un territorio, è meno controllabile; vive in modo più disinvolto ed interdipendente. Ci troviamo in uno scenario in cui ha poco senso insistere sull’identità come se fosse qualcosa di definito e di definitivo. Oggi preferiamo parlare di “identità complessa” (Amin Maalouf). E’ partendo dall’estraneo che riusciamo a comprendere meglio il proprio.

72. Le situazioni ingiuste del nostro mondo sono arcinote. Il numero dei poveri e degli emarginati non diminuisce, ma al contrario aumenta, malgrado le nuove tecnologie ed i processi di globalizzazione. La concezione sacra dell’essere umano cede il passo agli idoli, davanti ai quali si prostrano le società moderne in riverente venerazione. L’educazione che la società (mezzi di comunicazione, ambiente socio-economico) offre alle nuove generazioni non esalta il valore dell’ospitalità, ma al contrario privilegia l’individualismo, la visione materialista ed edonista della vita. Questa mentalità non riesce però ad arginare – perché non ne è capace – fenomeni perversi come il consumo ed il traffico di droghe, la pornografia ed il disordine affettivo con la conseguente perdita della dignità della sessualità umana, la crescita della povertà e dell’ingiustizia, il manifestarsi di tante e nuove malattie che colpiscono milioni di essere umani. Di pari passo con il degrado dell’umanità, va il degrado ecologico (acqua: zone costiere, risorse marine inquinate dalle attività industriali e minerarie; inquinamento dell’aria: industrie tessili, alimentari, raffinerie petrolifere; manipolazione genetica), il degrado ambientale (saccheggio della natura, esaurimento delle risorse, la minaccia di uno squilibrio ecologico).

73. La nostra capacità di ospitalità si vede inoltre di fronte all’enorme sfida dell’esplosione demografica. Ogni giorno l’umanità aumenta di 220.000 persone. La rapida crescita della popolazione fa emergere nuove sfide: sradicamento delle famiglie, urbanizzazione, sfruttamento insostenibile delle risorse disponibili ed accessibili per far fronte alle grandi necessità della popolazione. Sembra che in non pochi luoghi e persone, l’umanità abbia perduto il senso della sacralità della vita: guerre fratricide, violenza contro donne indifese, sfruttamento di bambini innocenti, un capitalismo disumano che fa crescere sempre più il divario tra ricchi e poveri. C’è un grande dislivello tra il 30% degli uomini che vivono nell’opulenza materiale ed il rimanente 70% condannato a rimanere nella povertà e senza gli elementi basilari della vita; sono minacciate inoltre le culture dei poveri per mancanza di risorse e per la forte la seduzione che esercitano i modelli di sviluppo materiale importati da fuori.

74. Gli atteggiamenti di accoglienza e di riconoscimento, di servizio e di solidarietà (ospitalità!) dei nostri contemporanei, manifestano tutto il loro splendore in molteplici istituzioni ed iniziative: volontariato, ONG, istituzioni sociali di vario tipo, eserciti di pace, movimenti a favore della giustizia, dell’ecologia, della dignità umana, rifiuto di qualsiasi tipo di xenofobia, ecc. Ci sono inoltre molte popolazioni della terra che conservano le loro preziose tradizioni di ospitalità, come uno dei valori più preziosi. E’ vero però che in queste popolazioni il valore dell’ospitalità sta subendo un certo declino a causa del valore – parimenti fondamentale – della sicurezza; il senso di insicurezza causato da violenze, guerre, crimini, terrorismo, è talmente forte che i valori tradizionali di ospitalità ne hanno risentono molto. In questa rete di fratellanza umana è presente, con la sua tradizione, l’Ordine dei Fatebenefratelli, che desidera essere all’altezza dei tempi e rispondere con nuovo vigore alla sua vocazione specifica, offrendo spazi in cui l’organizzazione, la professionalità, la tecnica e l’umanizzazione si coniughino ed armonizzino con atteggiamenti e gesti di accoglienza, servizio, solidarietà e risanamento della sofferenza fisica e morale.

III. L’Itinerario spirituale

ripercorrere “oggi” il cammino di giovanni di dio

1. La spiritualità oggi

75. Nella Chiesa – ed anche nel nostro mondo! – c’è una grande sete di spiritualità. Di fronte alla mancanza di senso, all’accumulo di problemi che ci sembrano insolubili, alle vertigini dell’era del movimento, sentiamo tutti la necessità di avvicinarci al Mistero, allo Spirito che dà stabilità e ragion d’essere. Siamo assetati di spiritualità. La Chiesa stessa ha canalizzato questa sete in diverse proposte di spiritualità.

76. Oggi assistiamo ad una sorta di globalizzazione o mondializzazione della spiritualità. Il dialogo interreligioso ha prodotto stupendi risultati in questo campo. Allo stesso tempo, però, si sta rivendicando un aspetto più locale della spiritualità. Per questo, si sta delineando una nuova spiritualità con tratti africani, o asiatici, o americani, o europei…Alle soglie di un nuovo secolo, intendiamo la spiritualità in un modo più integrale. La spiritualità ha a che vedere con il corpo e con l’anima, con l’individuo e la comunità o la società, con l’aspetto locale e quello mondiale, con la religiosità particolare e quella ecumenica… Lo stesso avviene nel nostro Ordine. C’è in esso una spiritualità globalizzata, che risponde al dono ricevuto, ma allo stesso tempo la nostra spiritualità peculiare acquisisce tratti particolari e locali nelle diverse zone della terra.

77. Intendiamo la spiritualità come un processo, un cammino, in cui distinguiamo diverse tappe. Le nostre Costituzioni ci indicano la meta. E’ necessario trovare il cammino per giungere ad essa, il metodo di spiritualità più adeguato. Lo Spirito è il nostro “maestro interiore”; ci porta alla perfezione dell’Amore, dell’Alleanza, dell’unione con Dio, con gli altri e con il cosmo. In questa vita non arriviamo mai alla meta, e per questo, sono eloquenti le parole di Gregorio di Nissa nella sua “Vita di Mosé”:

“Interrompere il cammino verso la virtù è l’inizio del cammino verso il vizio…Tutto ciò che si misura quantitativamente è contenuto in certi suoi limiti. Per la virtù invece abbiamo appreso dall’apostolo che il solo limite della perfezione è non avere limite… Forse la perfezione della natura umana consiste nell’essere sempre disposti a conseguire un bene maggiore”.

78. La Chiesa presenta a noi religiosi questa stessa prospettiva nel documento “Ripartire da Cristo”, constatando che:

“Proprio nella semplice quotidianità, la vita consacrata cresce in progressiva maturazione per diventare annuncio di un modo di vivere alternativo a quello del mondo e della cultura dominante…Oltre all’attiva presenza di nuove generazioni di persone consacrate che rendono viva la presenza di Cristo nel mondo e lo splendore dei carismi ecclesiali, è pure particolarmente significativa la presenza nascosta e feconda di consacrati e consacrate che conoscono l’anzianità, la solitudine, la malattia e la sofferenza. Al servizio già reso e alla saggezza che possono condividere con altri, essi aggiungono il proprio prezioso contributo unendosi con la loro oblazione al Cristo paziente e glorificato in favore del suo Corpo che è la Chiesa (cfr. Col 1, 24)” (Ripartire da Cristo, n.6[92]).

2. Il paradigma o modello del nostro cammino spirituale

79. “La nostra ospitalità ha la sua origine nella vita di Gesù di Nazareth” (Cost. 20), che fu imitato fedelmente dal nostro Fondatore San Giovanni di Dio, che si dedicò interamente al servizio ed alla salvezza dei poveri e dei malati (Cost. 1a). Adesso Giovanni di Dio siamo noi: condividiamo il suo dono, la sua fede, la sua sensibilità di fronte alla sofferenza umana, la sua dedizione incondizionata al servizio, la sua umiltà e creatività caritativa[93]. Il suo itinerario spirituale è la proposta pedagogica che lo Spirito Santo ci offre per potenziare il carisma dell’ospitalità. Anche noi, come lui, siamo persone in cammino, viaggiatori e pellegrini in un mondo globalizzato ed enormemente complesso. Il pellegrinaggio interiore di Giovanni di Dio, il suo cammino spirituale verso la cima della discesa, verso la miseria umana, sono per noi la migliore proposta in fatto di spiritualità, missione e comunione (Cost. 5): Sono casa e scuola di spiritualità!

80. Le tappe percorse da Giovanni di Dio: “vuoto - chiamata – trasformazione – identificazione”, ci indicano quali sono le tappe del nostro cammino. Le dobbiamo però intendere non come tappe lineari e successive, ma come una spirale, poiché si riproducono in ciascun’età della nostra vita. Giovanni di Dio si trasforma per noi in simbolo di un cammino che ci porta di svuotamento (kénosis) in svuotamento e dallo svuotamento al servizio fino alla morte (cfr. Fil 2, 6-11).

a) Esperienza del vuoto: distaccarsi per “nascere di nuovo”

81. In ogni itinerario si parte da un luogo per giungere ad un altro. La partenza implica la disponibilit a distaccarsi: quello che era il nostro stato normale di vita, il nostro territorio vitale, inizia a perdere senso. Ci sentiamo come stranieri in casa nostra. Inizia così il processo che segna l’inizio di un cammino, che molte volte non sappiamo dove ci condurrà. Siamo Giovanni di Dio e, come lui, abbiamo sentito la vacuità delle cose di questo mondo; assieme a lui facciamo l’esperienza del distacco.

82. Questa esperienza è magistralmente riflessa nella figura biblica di Mosé ed il Popolo. In un primo momento, Mosé affrontava la vita con la saggezza degli egiziani. Poco alla volta, dopo un lungo viaggio attraverso il deserto, scoprì che chi guidava la sua vita e quella del Popolo era Yahweh. Rinunciò per questo alle certezze immediate ed ai falsi dei, ed accettò nella sua vita l’iniziativa dell’unico Dio che lo esortava a togliere le tende, a camminare superando ostacoli e barriere: barriere mentali e emotive (paura, tendenza a scoraggiarsi, rifiuto dello sforzo necessario per la conquista del futuro promesso), che sono più forti e violente del deserto e delle acque.

83. Il cammino spirituale si intraprende dopo aver sperimentato per la prima volta la limitazione delmondo, della vita. Si sente, per grazia di Dio, la accidentalità di tutto – nulla di ciò che vediamo è assolutamente necessario! -. Cerchiamo il senso della vita, della storia, e troviamo solo risposte parziali o contraddittorie. Ciò che sembra più promettente, si rivela deludente. Le carenze affettive, la frustrazione, le delusioni o i fallimenti (famiglia, amicizie, studio, progetti…), ci inducono a porci delle domande sulla consistenza dei valori che predominano nella società, e a ricercare quelli che possono dare un senso alla vita. Persino il maggior successo può risultare insufficiente per l’inquietudine del cuore umano: “Signore, ci hai creati per te e il nostro cuore rimane inquieto finché non riposa in te” (Sant’Agostino). E, soprattutto, Gesù ci dice: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Lc 9,25). L’esperienza della chiamata, della vocazione, è di solito il primo passo verso un cambiamento di vita. La voce di Dio è potente e fa tacere tutte le altre voci; invita ad “andare oltre” e suscita il desiderio per qualcosa di diverso.

84. Quest’esperienza può sorgere in diverse occasioni nell’arco della vita. Sono quelli i momenti in cui abbiamo bisogno di “nascere di nuovo”, perché abbiamo vissuto dei grandi fallimenti, interiori o esteriori. Sono momenti caotici, nella vita, esperienze di morte che sembrano “sbarrare” ogni strada verso il futuro. L’esperienza del vuoto può portare allo scoraggiamento, all’accettazione passiva della realtà, a lasciarsi condurre dalla vita invece di guidarla e viverla; può inoltre, essere un segnale di allarme per riprendere in mano la propria esistenza e lasciare che risuonino nell’animo le questioni e gli stimoli che, sebbene silenti, erano vivi[94]. L’esperienza del vuoto, accolta, accettata, non superficialmente attenuata, consentirà la grazia di una ricreazione ed un rinnovamento interiori.

85. Questa tappa corrisponde a quella che Teresa di Gesù chiamava le due prime mansioni dell’anima, o Giovanni della Croce l’inizio della salita al monte Carmelo. San Giovanni di Dio la descrive come un’esperienza di morte in un mondo di morte e senza via d’uscita. Corrisponde anche ai primi passi nella vita spirituale che Giovanni d’Avila – maestro spirituale del nostro Padre San Giovanni di Dio – descrive come la tappa del non-ascolto del linguaggio del mondo, demonio e carne (“Audi, filia”, I A).

b) La “chiamata” e le chiamate lungo l’arco della vita: “Ascolta, figlio!”

86. Quando la persona rinuncia a vivere per e in se stessa, scopre un misterioso disegno sulla propria esistenza. Allora è in grado di ascoltare la voce di Dio e di sperimentare l’energia dello Spirito che la conduce e la guida verso “lo sconosciuto”. L’esperienza vocazionale è stata paragonata ad una “seduzione” o ad una “attrazione irresistibile”. Gesù, il Figlio di Dio, ci viene incontro, ci attraversa la strada e ci invita a cambiare percorso e a seguirlo.

87. La chiamata sopraggiunge, in un primo momento, quasi in modo impercettibile. Gli avvenimenti felici o i momenti di avvilimento, successivi alle esperienze di frustrazioni o delusioni, sono il linguaggio di Dio. Ciò che è certo è che la voce di Dio, in un determinato momento, risuona nel profondo della persona e rimuove quei strati che sinora le hanno impedito di mettersi in sintonia con essa: “ascolta, figlio, porgi l’orecchio”. Ci si sente sedotto, in forma di contrasto o coincidenza con le aspirazioni più profonde, dal modo in cui Gesù di Nazareth ha vissuto e manifestato il suo amore al Padre e ai suoi fratelli, gli uomini. Si sperimenta l’urgenza di cambiare stile di vita, di rompere con un cristianesimo monotono e ripetitivo impostatto su pratiche senza complicazioni, con le quali si cercava, quasi sempre in modo inconsapevole, di ottenere la benevolenza di Dio.

88. La seduzione del Mistero non si realizza sempre in ambiti di pura trascendenza, di isolamento e preghiera intima con Dio. Questa seduzione accade con frequenza, come nella vita di Giovanni di Dio, grazie all’incontro con i crocifissi del mondo, con gli emarginati e disprezzati. In essi si scopre il volto di Dio e la chiamata di Dio si fa in essi ineludibile, profondamente interpellante. Nel volto degli sfigurati, si scopre la presenza del Trasfigurato.

89. La chiamata, la vocazione, è una tappa in cui si rende necessario il discernimento, l’accompagnamento spirituale, la risposta a non poche domande. I maestri spirituali ci parlano dell’ ”inizio del cammino”, o delle terze mansioni. Qui è ancor più necessario un grande sforzo ascetico, che consenta di aggiustare la propria vita a ciò che Dio ci propone.

90. Lungo la vita sorgono “nuove chiamate” che approfondiscono e danno solidità alla prima. Sono quelli i momenti in cui scopriamo un nuovo orientamento, in cui ci sentiamo chiamati a cambiare mentalità (metanoia), e avvertiamo la necessità interiore di essere inviati verso nuove frontiere di missione. Rispondere alla chiamata di Dio in tali circostanze è tanto vitale quanto lo era la prima risposta. Se non c’è risposta, il cammino spirituale si arresta.

91. La porta d’ingresso al cammino spirituale è certamente la vocazione, ma essa deve essere accompagnata dalla risposta. La risposta si esprime, anzitutto, nella preghiera e nell’umile obbedienza e servizio. San Giovanni d’Avila chiedeva di “ascoltare la prima Parola…solo Dio che è la somma Verità” (Audi, Filia, I, B) 1.), “con la fede” (Audi, Filia, I. B),2.).

c) Trasformazione e Consacrazione

92. Chi si sente chiamato da Dio a seguire lo stile di vita di Giovanni di Dio e gli risponde, sperimenta nella propria persona una misteriosa e progressiva trasformazione interiore. Si sente come trasformato e consacrato, abilitato dallo Spirito ad una forma di vita nella spogliazione, nella nudità e nello svuotamento di sé.

93. Come a Giovanni di Dio, Dio ci parla attraverso le grida dell’umanità che soffre per malattia, povertà ed ingiustizia. Si risvegliano e si rafforzano in noi l’amore compassionevole e misericordioso, l’accoglienza, la benevolenza, il senso di solidarietà e di fraternità. Si trasforma, così, la scala dei valori che fino a quel momento definiva la nostra vita. Consacrandoci nell’Ospitalità, lo Spirito Santo ci rende capaci di manifestare nella nostra vita l’amore speciale del Padre per coloro che soffrono e di mantenere vivo nel tempo lo stile di vita di Gesù di Nazareth, vivendo in castità, povertà, obbedienza e ospitalità, collaborando alla missione della Chiesa, servendo Dio nell’uomo che soffre (Cost.1d; 2b; 7b).

94. Questa azione trasformatrice dello Spirito viene celebrata ed accolta nella celebrazione liturgica della nostra Professione religiosa (Cfr. ET. 47; Cost. 9a). In essa riconosciamo che Dio ci consacra e continua a consacrarci attraverso i molteplici avvenimenti della vita.

95. Non basta partecipare all’atto di consacrazione; è necessario lasciarsi consacrare. Quando ciò accade, Dio pensa al resto. Si entra in una tappa mistica, in cui Dio, attraverso Gesù e lo Spirito, diventa il grande protagonista della vita del suo prescelto. I maestri spirituali definiscono questa tappa come le quarte mansioni, come il passaggio da una tappa ascetica ad un’altra più mistica. Giovanni di Dio non visse questa tappa in un isolamento contemplativo, ma con una contemplazione mistica inserita nell’azione caritatevole, misericordiosa ed ospedaliera. Si sentì unto dallo Spirito attraverso il contatto con la miseria umana. Questo è anche il nostro cammino di consacrazione continua. San Giovanni d’Avila insegnava come l’ascolto della voce di Dio introduceva il credente ad una nuova visione e ad una nuova disposizione verso la volontà di Dio, che lo portava a fuggire e a dimenticare questo mondo malvagio e pure la casa paterna (Audi, Filia, II-V).

d) Identificazione mistica con Gesù povero, emarginato e sofferente

96. In questa vita non si conclude mai il cammino nello Spirito, che ha come obiettivo l’identificazione totale con il Signore. Le ultime tappe ci collocano di fronte ad una trasformazione o trasfigurazione ogni volta maggiore, che può essere descritta come “sposalizio mistico”, autentica simbiosi: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal, 2,20). Lo Spirito si manifesta ed agisce in noi come Ospitalità; ci configura con il Cristo compassionevole e misericordioso del Vangelo, per mantenere viva nel tempo la sua presenza misericordiosa (Cost. 2).

97. Queste ultime tappe della vita spirituale sono quelle che ci permettono di scoprire le potenzialità segrete della nostra vita, che superano ogni immaginazione e desiderio. Chi rinuncia ad essere condotto fino a qui, si sentirà frustrato. Queste ultime tappe sono chiamate dai maestri spirituali “ultime mansioni” o “arrivo alla cima del Monte”, o l’occasione in cui Dio si sente catturato dall’anima del credente (Audi, Filia, VI).

3. Partecipi del cammino del popolo di Dio

98. Il nostro cammino spirituale carismatico, comunitario e personale, si situa all’interno del grande cammino spirituale del Popolo di Dio, della Chiesa. Se c’è un ambito in cui il cammino spirituale della Chiesa si manifesta in modo paradigmatico, esemplare e pedagogico, questo ambito è il ciclo sacramentale e liturgico. Ed è questo anche il nostro cammino. Il ciclo liturgico-sacramentale dell’Anno Liturgico è il grande contesto del nostro cammino spirituale. Lungo il suo arco entriamo in contatto con tutto il messaggio rivelato. La lettura continua che ci propone la Madre Chiesa giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, è il migliore nutrimento spirituale, la miglior guida nei cammini dello Spirito.

99. Il Concilio Vaticano II ci ha detto che “la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù [...], dalla Liturgia, dunque, e particolarmente dall’Eucarestia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene, con la massima efficacia, quella santificazione degli uomini e glorificazione di Dio in Cristo, verso la quale convergono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa”[95]. Per questo, la celebrazione quotidiana dell’Eucarestia, nel contesto del ciclo liturgico:

Ø ci incorpora al sacrificio di Gesù e al culto che Egli offre al Padre (Cost. 7c);

Ø esprime e realizza la nostra missione come famiglia ospedaliera[96]; l’amore di Gesù, presente nell’Eucarestia, rinnova il nostro spirito ospedaliero (Cost. 30);

Ø la riserva eucaristica e la presenza di Gesù nei nostri sacrari trasforma le nostre comunità in autentiche scuole di ospitalità[97]. La nostra ospitalità eucaristica è la fonte della nostra ospitalità carismatica. E la nostra ospitalità carismatica potenzia e vivifica l’ospitalità eucaristica che esprimiamo nella celebrazione quotidiana dell’Eucarestia e nell’accoglienza orante della presenza reale del Signore nei nostri luoghi di preghiera.

100. Nei tempi penitenziali della Chiesa, così come nelle celebrazioni comunitarie e personali della Riconciliazione, celebriamo la Misericordia di Dio, riconosciamo la nostra collaborazione e partecipazione al male, ci apriamo a Dio e alla Comunità ed accogliamo la grazia trasformatrice. Il Sacramento della Riconciliazione è fondamentale nella nostra spiritualità, che pratica la Misericordia e l’accoglienza incondizionata ed ospitale dell’altro.

101. Il sacramento dell’unzione degli infermi ha occupato sempre un luogo privilegiato nel servizio pastorale ai malati. Giovanni di Dio lo procurò con grande sollecitudine; la tradizione dell’Ordine lo ha mantenuto come manifestazione di vero amore ai malati. La Madre Chiesa ci offre la possibilità di celebrare la vicinanza misericordiosa e trasformatrice di Gesù attraverso il sacramento dell’unzione degli infermi. La celebrazione comunitaria di questo Sacramento ci fa sperimentare - sia come soggetti della celebrazione sia come comunità celebrante – la presenza reale e risanatrice di nostro Signore Gesù nel mondo del dolore e della malattia. Partecipare alla preghiera e all’unzione della Chiesa a favore dei malati è uno dei momenti più qualificanti per la nostra crescita spirituale come Religiosi Ospedalieri.

102. La Liturgia delle Ore, cui partecipiamo regolarmente, ci unisce strettamente al Cammino del Popolo di Dio. La recita dei salmi, l’ascolto della Parola, più potente di una spada, guida la nostra vita sul Cammino del Signore, in modo infallibile. Per questo, non non vogliamo fare a meno di questo ritmo vitale. Quando partecipiamo alla preghiera della Chiesa entriamo simultaneamente in comunione con l’umanità, in special modo con gli uomini e le donne che soffrono – la Chiesa del dolore – . E’ importante che rinnoviamo la coscienza di questa dimensione della nostra spiritualità: siamo voce che benedice, canta le lodi, rende grazie e supplica il Dio della vita e Padre di misericordia, a nome di quanti sono impossibilitati a farlo personalmente o non hanno sperimentato la gioia della sua filiazione divina.

4. Partecipi del Cammino di spiritualità dell’Ordine e delle sue comunità

a) Trasmissione carismatica

103. Il nostro cammino spirituale è il Cammino dell’Ordine e delle comunità nelle quali ci integriamo. La spiritualità vive attraverso processi di trasmissione, di contagio, di comunione. Per questo, è così importante la comunità, l’Ordine (del presente e del passato) come scuola di spiritualità dell’ospitalità. Il carisma dell’ospitalità lo riceviamo in una comunità di Fratelli, riuniti dal Signore Gesù per camminare insieme incontro al Padre e per rendere presente il Regno nel mondo della Salute e dell’Assistenza (Cost. 26 a). Entrare nella comunità dell’Ordine significa integrarsi in una grande tradizione spirituale e impegnarsi con fedeltà creativa per essa, affinché lo Spirito vivifichi, attraverso di noi, il dono dell’ospitalità in coloro che ne sono portatori.

104. I Confratelli e le componenti più antiche dell’Ordine assumono, in questo contesto, una nuova importanza. Essi sono i testimoni, i ministri della tradizione spirituale. Il contatto con loro è vivificante. La loro presenza ed influenza è particolarmente importante in quei luoghi in cui, a causa della giovane età dei Confratelli, esiste il pericolo di distaccarsi dalle origini. Compito dei Confratelli più anziani e di quelli formati nell’ambito della Grande Tradizione è di esercitare una funzione di paternità carismatica.

b) L’amore fraterno

105. Come Giovanni di Dio, siamo chiamati a stabilire legami di fraternità. Uno dei frutti più negativi della secolarizzazione dei nostri ambienti è la perdita d’identità sociale del religioso nella nostra società. Siamo emarginati sociali, nel senso che la società non riconosce il nostro ruolo di consacrati. La persona ha bisogno di sentirsi inserita, accettata socialmente. La risposta a questa mancanza è incontrare un gruppo di appartenenza, di forti relazioni primarie, dove trovare l’appoggio sociale necessario per rafforzare la propria identità. Il nostro luogo di riferimento per eccellenza, per trovare il senso della nostra identità, è la comunità in cui viviamo. Ma se a causa dell’individualismo spirituale, la comunità non offre appoggio a questa ragione profonda, vocazionale, della nostra esistenza di consacrati, non c’è da stupirsi che ci sia chi vada a cercarlo fuori, o privatizzi questa dimensione, e cerchi di darsi un’identità sociale con l’attività che porta avanti (infermiere, operatore sociale, ecc.), riducendo l’appartenenza comunitaria al compito che realizza, identificandosi non in ciò che è, ma in ciò che fa.

106. Il dono dell’ospitalità ci rende capaci di vivere e manifestare gli atteggiamenti di accoglienza, benevolenza e servizio, anzitutto nell’ambito della nostra stessa comunità (Cost. 36b). La misericordia sperimentata ci spinge ad apprezzare gli altri Confratelli come depositari dello stesso dono e ad approfondire i legami di comunione che lo Spirito ha stabilito tra di noi, e ad essere segno e testimoni che le differenze di età, cultura ed etnia si relativizzano quando i rapporti si basano su valori che favoriscono la convivenza umana, la valorizzazione e l’accettazione dell’altro per ciò che è.

107. Il senso del segno della fraternità vissuta in comunione conserva tutta l’attualità ed il vigore che Gesù desiderava: è un invito a credere in Lui come inviato dal Padre e segno che siamo suoi discepoli (cfr. Gv 13, 35; 17, 21; Cost. 26b). La possibilità di essere segno per la società dipende soprattutto dalla capacità di comunione tra i Confratelli, dall’amore fraterno. Questa capacità viene sempre percepita come valore evangelico: “la comunione fraterna, prima di essere strumento per una determinata missione, è spazio teologale in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore risorto” (cfr. Mt 18,20; VC 42).

c) Condividere l’esperienza di Dio e discernere la sua volontà a livello comunitario

108. La comunità dell’ospitalità misericordiosa è l’ambito ideale della nostra spiritualità. E’, ed è chiamata ad essere, biocenosi, biotopo, luogo di vita e di crescita vitale. La comunità diventerà “scuola di spiritualità” nella misura in cui noi Confratelli comprendiamo che la ragione più profonda per cui ci siamo conosciuti e viviamo insieme, è la nostra esperienza personale di Dio, e che il luogo privilegiato dove l’esperienza di Dio deve potersi raggiungere nella sua pienezza ed essere comunicata agli altri è la nostra comunità (Cost. 27; cfr. DCVR, 15). E’ urgente perciò superare la tendenza all’individualismo nella vita interiore, ed incoraggiare la comunione nello spirito, il dialogo e gli incontri per condividere la fede, le difficoltà ed i mezzi che ci aiutino a viverla. Dobbiamo impegnarci e sforzarci per realizzare un cammino congiunto, e praticare l’aiuto reciproco e la correzione fraterna, e per comunicare l’esperienza di Dio.

109. Le celebrazioni liturgiche, la preghiera comune e le riunioni comunitarie sono momenti in cui, guidati dallo Spirito ed accogliendo Cristo come centro delle nostre assemblee, possiamo e dobbiamo praticare la comunicazione ed il dialogo a livello di fede, rivedere e valutare la nostra vita e cercare ed accogliere la volontà di Dio nei confronti della comunità e di ciascun Confratello (cfr. Cost. 38, 3).

110. Una comunità ospedaliera è chiamata ad essere, in modo rilevante, una comunità esperta del discernimento spirituale. Forse è uno degli aspetti nei quali possiamo crescere di più nel futuro. Discernere il buon spirito è qualcosa che va oltre la mera acutezza intellettuale. In questa ricerca nessuno può sentirsi superiore all’altro. Nel discernimento una comunità si colloca umilmente di fronte a Dio con il desiderio di comprendere la sua volontà. Per questo, il discernimento esige: preghiera, ascolto di Dio e dei Confratelli, consapevolezza che a Dio piace rivelare i suoi misteri ai più semplici, poveri e giovani.

d) Una comunità in missione di ospitalità

111. La missione dell’ospitalità – centrale nella vita dell’Ordine – si fa presente e si incarna nella comunità locale. Comunione e missione necessitano l’una dell’altra e si completano tra di loro. (cfr. Cost. 41a; 43c)

112. Non agiamo a titolo individuale: la comunità ci invia, mentre al tempo stesso ci sostiene e ci accredita come Fratelli di San Giovanni di Dio (cfr. Cost. 43c). Nella comunità tutti i Confratelli sono impegnati nell’annuncio del Vangelo ai poveri e ai malati. Certamente non tutti possono dedicarsi al loro servizio, ma tutti partecipano a quanto viene realizzato dagli altri Confratelli che, a loro volta, si sentono animati da quelli che per età, malattia o ufficio, non realizzano un’attività professionale. E’ importante coltivare e vivere questo senso di comunione nella missione, soprattutto dove l’età dei Confratelli è alta, e le esigenze socio-lavorative non permettono di continuare ad esercitare le funzioni insite al servizio a favore dei malati e dei bisognosi come operatori professionali.

113. Siamo stati convocati nel segno dell’Ospitalità per formare una comunità di vita apostolica (Cost. 5b; cfr. Mc 3, 13-14). E’ nella missione che la nostra comunità raggiunge il suo pieno significato (Cost. 41a), ed in cui si manifestano i frutti dell’incontro con Dio e con i Fratelli. E’ nella missione che si rende visibile la trasfigurazione della nostra identità di credenti e si fa presente ed attuale il Cristo compassionevole e misericordioso del Vangelo che, in noi e attraverso noi, si fa accoglienza, servizio e dedizione ai malati ed ai bisognosi (Cost. 2c; 5a). Nessuno dei livelli della nostra vita, preso separatamente, configura per e da se stesso la nostra identità. La nostra trasformazione è frutto del dono dell’Ospitalità (Cost. 2b). Non si può separare, pertanto, l’attività apostolica dalla preghiera e dalla vita fraterna in comunità, né si può pensare che è grazie all’attività, al lavoro realizzato, che ci costituiamo come comunità in cui è presente Cristo. L’Ospitalità ci costituisce come apostoli, e apostoli dell’ospitalità siamo sia quando nella pienezza delle nostre facoltà agiamo professionalmente, sia quando a causa dell’età o di qualsiasi altra limitazione non ci è possibile stare accanto al malato e del povero per curarlo e servirlo, perché l’elemento costitutivo di un Fatebenefratello è essere ospitalità, e da questo essere scaturiscono ininterrottamente gesti ed azioni di ospitalità.

114. L’attività apostolica non implica una sospensione della vita comunitaria (Cost. 43c), anzi, quest’ultima trova una forte espressione nella dispersione che esige la nostra opera di misericordia a favore dei bisognosi e la nostra ospitalità; un elemento importante della nostra spiritualità è pertanto essere consapevoli dei legami che ci uniscono nella dispersione. Dobbiamo convivere nella distanza partecipando al programma spirituale della nostra comunità. Non dobbiamo mai sentirci soli. L’inserimento in mezzo alla gente è un modo peculiare di dispersione apostolica nell’ospitalità e di esperienza di vita comunitaria. Proprio con ciò dimostriamo che la nostra comunità è nata per gli altri e non per se stessa (Cost. 5b; 41a).

e) Una comunità con senso di Chiesa

115. Non dobbiamo mai dimenticare che formiamo delle comunità che fanno parte della grande comunità della Chiesa e delle Chiese particolari con i loro Pastori. Per questo, ci lasciamo guidare dai suoi impulsi spirituali, dal suo magistero, dall’azione imprevedibile dello Spirito in essa, e collaboriamo alla sua missione di far presente il Regno (Cost. 1d; 5a; 41a), consapevoli che la Chiesa di Gesù, senza la testimonianza del servizio caritatevole e la missione sanante, sarebbe incompleta. Le opere apostoliche dell’Ordine sono chiamate ad essere ambiti in cui pubblicamente si confessa, si proclama e si pratica l’amore cristiano, così come la parrocchia è il luogo in cui si confessa e si celebra pubblicamente la fede[98].

116. La comunione con la Chiesa ravviva nel Fatebenefratello la sua vocazione di “sacerdote compassionevole e misericordioso” secondo lo stile di Gesù (cfr. Cost. 7c; 30 b): inserito tra la gente che soffre, offre al Padre il culto dell’oblazione della propria esistenza e dell’esistenza dei poveri e dei malati; inoltre è profeta del Dio della misericordia che discende nel mondo dei poveri per mostrare loro il suo amore e denunciare le situazioni di ingiustizia sociale o strutturale; il Fatebenefratello, nella Chiesa, incarna il mandato di Gesù che ha manifestato la sua disponibilità a donarsi fino alla morte, prostrandosi davanti ai discepoli per lavare loro i piedi, e li ha inviati a perpetuare i suoi gesti di ospitalità e di servizio, affinché la sua presenza nell’eucarestia non sia un rito che si ripete, ma il memoriale della sua offerta per comunicare la vita e collocare al suo stesso livello di dignità la vita dei suoi fratelli, gli uomini (cfr. Gv 13, 1-17; Lc 22, 17-21).

5. Il nostro cammino “personale” di spiritualità

117. Non è sufficiente seguire e condividere il cammino del popolo di Dio. Ciascuno di noi è un essere unico, una persona irripetibile. Il cammino spirituale contiene anche una dimensione individuale nella quale nessuno ci può sostituire e che ricade sotto la nostra assoluta e intrasferibile responsabilità.

a) La preghiera personale come cammino di spiritualità

118. “La fonte prima della nostra missione caritativa è l’amore misericordioso del Padre – cfr. 1Gv 4, 10-11 –. Questo esige che noi favoriamo, personalmente e comunitariamente, nel dialogo della preghiera, l’integrazione tra la vita interiore e l’attività apostolica, per renderci capaci di vivere l’amore a Dio in sintonia col servizio ai fratelli.” (Cost. 28a). Nella preghiera, Gesù vuole realizzare con noi prodigi di misericordia (S. Benedetto Menni). Si china sulla nostra debolezza, ci guarda con tenerezza infinita, ci accoglie con tutto l’amore del suo cuore, così come si chinò sul letto dei malati, guardò i bambini ed i peccatori, accolse Maria Maddalena, Zaccheo e Pietro. Nella preghiera siamo chiamati a lasciarci guardare da Gesù e a permettere che la luce della sua vita illumini la nostra mente ed il nostro cuore, per vedere qual è la volontà di Dio in ogni momento, e seguirla con docilità di figli.

119. Nell’incontro della preghiera personale, il Fatebenefratello constata la verità ed il dinamismo del suo cammino nello Spirito. L’incontro amoroso e regolare con il nostro Dio-Trinità si fa ogni volta più intenso e più ampio, sino a portarci a pregare in ogni momento. La qualità del dialogo interpersonale con il nostro Dio mostra fino a dove arriva lo Spirito in noi. E’ vero che non sappiamo pregare come dovremmo. Ma lo Spirito Santo ci viene in aiuto (Rom 8, 26-27). Egli guida i nostri progressi nella preghiera e ci sorprende nell’orazione con le sue ispirazioni. Quando le preoccupazioni quotidiane, quando il lavoro non permette una forte vita di preghiera, rischiamo non solo di arrestarci sul nostro cammino spirituale, ma addirittura di regredire.

b) Un progetto personale di spiritualità

120. Ogni Confratello deve esprimere il suo cammino di spiritualità in un progetto personale, seriamente elaborato, individuato assieme al suo maestro o accompagnatore nel cammino del Signore e, nella misura del possibile, condiviso con i Confratelli della comunità.

121. Il progetto personale di vita si tramuta nella manifestazione della nostra risposta vocazionale continuata. E’ il miglior indizio del fatto che assumiamo con responsabilità la vocazione che abbiamo ricevuto e siamo disposti a tradurla in ogni momento in azioni adeguate: sappiamo che per essere famiglia di Gesù, fratelli, dobbiamo non solo ascoltare la parola, ma anche metterla in pratica.

122. Il nostro progetto di vita è la risposta all’Alleanza di Dio e si centra nel regno di Dio che sta per giungere. La castità, la povertà, l’obbedienza e l’ospitalità che caratterizzano il nostro impegno per l’Alleanza di Dio con il suo popolo, acquisiscono il loro pieno significato nel contesto del Regno di Dio e della sequela apostolica di Gesù. Con la pratica dei consigli evangelici, lo Spirito ci rende capaci di denunciare con senso profetico i sistemi di ingiustizia, di discriminazione dei deboli, di spreco, di violenza. I carismi evangelici che lo Spirito ci ha concesso per una vita di ospitalità, crescono in contesti di appassionata missione ed amore al popolo, amore che ci radica sempre più profondamente nel suo mezzo, nella sua storia e ci fa identificare sempre di più con i piccoli della terra.

123. Elemento essenziale del nostro progetto personale di vita è la disponibilità continua per l’uomo come Fatebenefratello. E’ la più chiara espressione della nostra spiritualità ospedaliera. E’ la spiritualità della dedizione, del servizio permanente, dell’accoglienza senza riserve; è il cammino reale che conduce al culmine dell’amore che, come successe per Gesù e per San Giovanni di Dio, si raggiunge scendendo negli abissi più profondi della miseria e debolezza umana dedicandosi all’assistenza di chi soffre, con gli atteggiamenti e i gesti caratteristici del Fatebenefratello: servizio umile, paziente e responsabile; rispetto e fedeltà alla persona; comprensione, benevolenza e abnegazione (Cost. 3b), facendosi solidale con le loro angosce e speranze.

c) Contemplativi nella missione

124. L’azione apostolica non è pura esteriorità. E’ la sacramentalizzazione della missione dello Spirito e del Signore Risorto. Ciò esige da noi di integrare interiorità ed attività (cfr. Cost. 28a; 103a). Nella missione non smettiamo di stare con Cristo, al contrario, in essa stiamo uniti a lui in modo singolare. Dobbiamo tenere presente che “un pericolo costante per gli operai evangelici consiste nel farsi coinvolgere talmente dalla propria attività per il Signore che, per tanta attività, ci si dimentica del Signore” (cfr. Giovanni Paolo II). Un momento importantissimo della nostra spiritualità è disporci al servizio caritatevole, rinnovando la consapevolezza che, servendo i deboli, stiamo servendo Gesù stesso. La “mistica” dell’ospitalità ci anima a vivere in atteggiamento contemplativo. Abbiamo il privilegio di poter contemplare Cristo ininterrottamente: i piccoli – ogni persona è “piccola” e debole – sono icone viventi di Gesù. L’avvicinamento ai corpi umani per curarli dal male, come faceva Gesù, per darli dignità e convertirli in ambiti di dignità e di esperienza religiosa e cristiana, è un elemento essenziale della nostra spiritualità.

125. La fecondità del nostro apostolato si rafforza quando ci sentiamo solidali con coloro che soffrono, consapevoli che il nostro amore misericordioso per loro non è mai un atto unilaterale (Cost. 42c): l’apostolato ospedaliero è fonte di spiritualità. Non solo perché il Fatebenefratello evangelizza, ma perché nella sua stessa azione evangelizzatrice egli si sente a sua volta evangelizzato. Dio ci parla attraverso gli altri, specialmente attraverso coloro che hanno bisogno del nostro aiuto: si fa lamento, supplica, gratitudine… e ci invita ad ascoltare e a discernere i suoi messaggi; l’immigrato, il malato, è l’ ”altro” che incarna ed materializza la diversità, l’inconsueto con cui lo Spirito vuole sorprenderci; scoprire i valori che ci sono nei gruppi umani e nelle persone, lasciarsi emozionare ed arricchire da loro, è fonte di spiritualità. Le sue conseguenze sono imprevedibili, così come imprevedibile è lo Spirito.

126. L’apostolato ospedaliero è un’autentica scuola e fucina di umanizzazione: ci stimola a crescere come seguaci di Gesù di Nazareth, che restituì all’umanità il volto che il Padre aveva deciso per essa sin dal principio, mentre la purifica contemporaneamente dall’egoismo e dalla mancanza di solidarietà, affinché l’accoglienza, la comprensione, il servizio e la dedizione totale si plasmino e si trasmettano in gesti di misericordia e di sollecitudine. Il malato, nella sua debolezza, non è solo il destinatario, ma anche agente di comprensione e di amore: è la nostra ”università” (P. Marchesi) che, senza bisogno di teorie, ci aiuta ad acquisire la vera scienza, l’autentica saggezza del vivere. Inoltre, condividiamo il nostro apostolato ospedaliero con coloro che operano nel campo della Salute e dell’Assistenza, con tutte le persone che collaborano nelle Opere apostoliche dell’Ordine. Ciò è fonte di costante revisione dei nostri atteggiamenti e delle nostre motivazioni, e ci urge a verificare se la persona che soffre è veramente al centro di tutta la nostra attività apostolica e di tutte le nostre preoccupazioni (Cost. 103b); se mettiamo tutte le nostre energie e capacità al servizio di Dio nei malati e nei bisognosi (Cost. 22b; 1d); se a livello personale e comunitario siamo guide morali, coscienza critica e anticipatori [99] – oggi diremmo rifondatori[100] – di uno stile di ospitalità in sintonia con l’Ospitalità di Giovanni di Dio; se individualmente e comunitariamente manteniamo vivo e promuoviamo il suo spirito (SG 127b); se viviamo così compenetrati nella nostra missione che i nostri collaboratori si sentono spinti ad agire nello stesso modo (Cost. 23a). Assieme ai nostri Collaboratori siamo impegnati a coltivare ed a promuovere i valori della persona, e a contribuire a sviluppare e ad approfondire quella che abbiamo chiamato “cultura dell’ospitalità”.

d) La dimensione corporea del nostro cammino di spiritualità

127. L’incarnazione del Verbo continua nel tempo e diventa realtà nella persona; nella persona del Fatebenefratello che serve e in quella del malato o bisognoso che è da lui servito. La corporeità è il mezzo attraverso il quale si mediano le relazioni umane e fa parte del processo spirituale. Il nostro corpo è il tempio dello Spirito e membro del corpo di Cristo; la sua missione è glorificare Dio. Nel corpo è impressa la nostra storia, i nostri ricordi più profondi. Il corpo è il luogo della nostra avventura esistenziale. Ha una vocazione eucaristica grazie alla quale tende a trasformarsi in un corpo offerto, come lo fu il corpo di nostro Padre, Giovanni di Dio. La virtù della castità, vissuta come Fatebenefratelli, è fonte di fecondità personale, poiché nell’apostolato adempiamo la missione di servire e promuovere la vita e affermiamo la dignità e il valore del corpo (Cost. 10d).

128. L’unità psicosomatica ci indica che non c’è spiritualità che non passi per il corpo, ma anche che un corretto rapporto col corpo porta giocoforza verso lo spirito. L’interrelazione tra l’equilibrio psicosomatico e la vita spirituale è indiscutibile. Da qui nasce l’importanza di coltivare l’equilibrio della nostra realtà corporea: la pace, la serenità interiore, l’affetto e la cordialità si trasmettono attraverso i sensi. Gesù imponeva le mani ai malati, quando li curava (Lc 4, 40)[101].

e) Vigilanza e apertura allo Spirito

129. Noi Fatebenefratelli desideriamo seguire con la massima vigilanza l’azione dello Spirito nel nostro tempo e nei diversi luoghi. Questa vigilanza ci porterà a vivere la nostra spiritualità anche in situazioni di martirio[102], in cui più che l’azione, sarà la passione a caratterizzare la nostra forma di missione; cio vale sia in ambienti di dialogo interreligioso, dove proponiamo Gesù come nostro Signore, servo di tutti, corpo offerto per gli altri, e dove noi siamo suoi testimoni con la spiritualità della kénosis e dell’umiltà; sia per i nostri atteggiamenti di comunione con il laicato, donne e uomini, scoprendo in essi energie per la perseveranza, per la dedizione “ad vitam”, per la relazione reciproca; sia in situazioni conflittuali e dure nelle quali siamo i messaggeri e testimoni di giustizia e di impegno per la pace.

6. La formazione come cammino di spiritualità

130. Il cammino della spiritualità trova una sua versione ridotta nell’“iniziazione carismatica”, che ha luogo nei primi anni di vita nell’Ordine, e nella “formazione permanente”, che dura tutta la vita .[103]

a) Prima tappa: iniziazione carismatica

131. Durante la formazione iniziale e la formazione professionale, il Fatebenefratello apprende a fare delle cose: a studiare, ad esprimersi, a realizzare il lavoro professionale, a meditare, a pregare, ad essere un buon religioso…E’ il tempo degli “ideali” – di santità, di comunità, di “incarnazione nel mondo” – . [104] Partendo da questa prospettiva apprezza e critica gli altri: non hanno saputo fare; egli farà le cose in modo diverso, perché metterà in pratica ciò che sa e che sente. In questa tappa la realtà è vista con “gli occhi dei metodi”, cioè attraverso un’ideologia che poco a poco facciamo nostra. Non ci adeguiamo alla realtà così com’è. Entriamo in contatto non con la realtà stessa, ma con l’immagine che ne abbiamo della realtà. Non deve meravigliarci che, addentrandoci nella vita reale, la quotidianità ci scuota e vada a cozzare con l’ideale sognato. Le frustrazioni e le delusioni possono servire da scuola di “incarnazione” nel mondo con l’esperienza-accettazione della propria fragilità, dell’inconsistenza delle idee pure e della limitazione-ricchezza degli altri e delle strutture .[105]

132. Un’esperienza analoga si fa nell’apostolato, quando giunge il momento di lasciare il lavoro, per età o per motivi di salute. In questi momenti, nei quali si sperimenta la crisi, siamo chiamati a fermarci nel cammino, ad accogliere la forza dell’Ospitalità e a riscoprire che siamo stati chiamati e consacrati per essere ospitalità e per annunziare il Regno secondo lo stile di Gesù (Cost. 21), che dovette sperimentare il fallimento, la sofferenza, l’angoscia, la fragilità e l’abbandono, e perfino la morte sulla croce, per comprendere, compatire e liberare coloro che soffrono e muoiono abbandonati (cfr. Eb 2, 14-18)[106]

b) Seconda tappa: responsabilità operativa

133. Dopo la formazione iniziale, il Fatebenefratello viene pienamente inserito nell’attività apostolica. Il passaggio da una vita guidata e tutelata ad una situazione di responsabilità operativa, dev’essere accompagnato in maniera speciale ed intensa, per apprendere a vivere con pienezza la gioventù dell’amore e dell’entusiasmo per Cristo .[107]

134. L’età adulta ci confronta con il rischio della routine e dell’amarezza per la mancanza o la scarsezza di risultati. Questo è il tempo per rivedere, alla luce del Vangelo e del nostro carisma, l’amore primordiale, la nostra vocazione originaria. Troviamo un nuovo impulso e nuovi motivi di perseveranza nella vocazione. In questo periodo uno si concentra sull’essenziale .[108]

135. L’età matura comporta il rischio di cadere nell’individualismo, in una chiusura di fronte alla vita, o nella comodità. Il cammino spirituale ci aiuta a potenziare il nostro tono vitale, a purificarci e a donarci nell’oblazione generosa. Questa età ci offre la possibilità di maturare il dono e l’esperienza della paternità spirituale .[109]

c) Terza tappa: i limiti crescenti

136. L’età avanzata si caratterizza per un progressivo ritiro dall’attività, per malattia o a causa di un’inattività forzata. Sebbene sia un tempo spesso doloroso, offre al Fatebenefratello anziano l’opportunità di lasciarsi plasmare dalla Pasqua del Signore. In queste circostanze, la missione dell’ospitalità misericordiosa acquisisce la tonalità della passione; passione che ci identifica con la Passione del Signore. Giunge così a compimento nel Confratello il misterioso processo di spiritualità iniziato tempo addietro. La morte allora viene attesa e preparata come atto d’amore supremo e offerta totale di sé.[110]

d) I momenti cruciali

137. Indipendentemente dalle tappe, nella nostra vita ci sono momenti cruciali e decisivi. Fattori esterni, come una fatalità, un insuccesso, un avvenimento storico, o interni, come una malattia, una depressione, una perdita, un’amicizia, una crisi di fede o d’identità, possono portare molta tensione nella nostra vita al punto che ci sembra che sia prossima a spezzarsi. In momenti del genere sono decisivi l’accompagnamento spirituale[111], la preghiera, la vicinanza fraterna, la presenza degli amici. Il Confratello potrà così riscoprire il senso della sua alleanza con Dio e del primato e fedeltà di Dio ad essa. La prova è uno strumento provvidenziale dello Spirito per promuovere la crescita, l’identificazione con Gesù e il progresso nella sequela di Cristo crocifisso.[112].

Conclusione

138. Se noi Fatebenefratelli faremo emergere la sete di spiritualità che ci abita, dovremo stare attenti alle sorprese dello Spirito. Perché nascerà qualcosa di nuovo. Cadranno barriere. L’impossibile diventerà possibile. Fioriranno i nostri deserti. La nostra sete si placherà. Saremo messaggeri gioiosi ed entusiasti della Buona Novella della Misericordia e dell’Ospitalità. Saremo parabola di un mondo nuovo nel mondo del dolore e dell’emarginazione.

139. Il popolo di Dio, l’umanità intera, ha bisogno della nostra testimonianza perché il nostro spirito possiede una grande forza umanizzante. Nel contempo dobbiamo essere consapevoli della grande forza e energia spirituale che ci viene dal popolo santo di Dio e da tutta l’umanità, della quale facciamo parte. Per questo, crediamo che quanto più ci sentiremo Chiesa, popolo di Dio e umanità, più la nostra spiritualità crescerà, diventando più profonda e significativa. Siamo chiamati a vivere la nostra spiritualità condividendo il nostro dono e lasciandoci arricchire dai doni degli altri .

140. Come Profeti della Misericordia, animati dallo spirito di San Giovanni di Dio, accogliamo l’invito che, all’inizio di questo terzo millennio, ci ha rivolto Giovanni Paolo II nella lettera Novo Millenio Ineunte: “Duc in altum! Andiamo avanti con speranza!”[113]. Cristo Gesù, nostra speranza (1 Tm 1,1), ci darà la forza per rimanere fedeli alla nostra missione profetica.

NOTE

  1. Regla y Constituciones, para el Hospital de Ioan de Dios de Granada (1585) Tit. 1º, 1ª Constitución, in Primitivas Constituciones, Madrid 1977, p. 12.

  2. Costituzioni del 1587,Introducción, n o.c.., pp. 81-82.

  3. “Giovanni di Dio non è nostro! E’ della società, è della Chiesa. Non siamo nemmeno gli unici responsabili perché permanga vivo lungo la storia. Però con l’aiuto di Dio dobbiamo fare di tutto perché l’Ordine e lui continuino nel tempo” . Fra Pascual Piles Ferrando, Lasciatevi guidare dallo Spirito (Gal, 5, 16). Lettera Circolare ai Confratelli dell’Ordine, Roma 24 ottobre 1996, (9.3), p. 62.

  4. Cfr Dichiarazioni del LXV Capitolo Generale (Documentazione). Granada 6-24 novembre 2000; Carta d’identità dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, Roma, 1999; Fatebenefratelli e Collaboratori insieme per servire e promuovere la vita, Cernusco sul Naviglio, 1992; Giovanni di Dio continua a vivere nel tempo, Cernusco sul Naviglio, 1992; La nuova evangelizzazione e l’ospitalità alle soglie del terzo millennio. Documentazione finale del LXIII Capitolo Generale dell’Ordine, Bogotà, ottobre 1994; Marchesi, P., Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000, Roma, 1987; Piles Ferrando, P., Lasciatevi guidare dallo Spirito (Lettera Circolare ai Confratelli dell’Ordine), Roma, 24 ottobre 1996; Piles Ferrando, P., Ospitalità all’inizio del terzo millennio. Realizzazione della profezia di San Giovanni di Dio (Lettera Circolare). Roma, 2 febbraio 2001.

  5. “ Siamo 1.500 Confratelli, 40.000 collaboratori, tra impiegati e volontari, e circa 300.000 benefattori-sostenitori. Siamo presenti nei cinque continenti in 46 nazioni, con 21 Provincie religiose, 1 Viceprovincia, 6 Delegazioni Generali e 5 Delegazioni Provinciali, e realizziamo il nostro apostolato a favore degli infermi, dei poveri e di coloro che soffrono in 293 opere. Pur essendo membri dello stesso corpo – l’Ordine – viviamo realtà molto diverse. C’è chi vive in centri e società altamente tecnicizzate e chi in centri e società in via di sviluppo; c’è chi vive in nazioni immerse in un clima di pace e chi invece in paesi lacerati dalla guerra e dalla violenza o che vengono da un passato caratterizzato dalla violenza; c’è chi si può esprimere in piena libertà nella società in cui vive, e chi vede invece la sua libertà e i suoi diritti fondamentali pesantemente limitati; c’è chi si dedica all’apostolato propriamente ospedaliero e chi invece si trova impegnato in temi sociali e settori dell’emarginazione; c’è chi ha come missione quella di aiutare a vivere la persona e chi invece quella di garantire alla persona di morire con dignità; a prescindere dal fatto che il lavoro di noi tutti si ispira al progetto di un’assistenza integrale, ci sono sfumature che ci orientano di volta in volta verso la salute fisica, la salute mentale, il miglioramento delle condizioni di vita ecc.; infine c’è chi di noi vive nel Nord e chi nel Sud, chi nell’Ovest e chi nell’Est.”: Ordine ospedaliero di san giovanni di dio, Carta d’identità dell’Ordine. L’assistenza ai malati e ai bisognosi secondo lo stile di san Giovanni di Dio, Roma, 1999, p. 9.

  6. Giovanni di Dio non ignora che per giungere alla pienezza ed evitare gli ostacoli, l’uomo dev’essere vigile e disponibile: “vegliate sempre e tenetevi sul piede di partenza”, perché può accadere “che potreste finire col perdervi”: cfr San Giovanni di Dio (SGD), Lettere, 1 Lettera alla Duchessa di Sessa (1DS), 7, p. 77; Lettera a Luigi Battista (LB), 6 p. 29; in J. Sánchez, Origen y camino de nuestra espiritualidad).

  7. SGD, Lettere, ibid.

  8. Durante l’accerchiamento di Fuenterrabía, Giovanni di Dio si offrì per andare a cercare l’approvvigionamento che mancava al distaccamento militare: “montò su una giumenta francese” che era stata presa al nemico e senza briglia e incamminandosi per le falde di un monte andò a cercare da mangiare presso i casali o le fattorie del posto, ma la giumenta riconoscendo i luoghi “nei quali di solito andava”, cominciò a correre furiosamente. Giovanni non riuscì a trattenerla; e fu scaraventato contro alcune rupi, buttando sangue, e rimanendo in terra come un morto. Dopo aver ripreso i sensi, provò impotenza, dolore, minaccia per la vicinanza del nemico, paura e …senza alcun soccorso in tanto pericolo …si sollevò da terra “si mise in ginocchio e, alzati gli occhi al cielo, invocò il nome di nostra Signora la Vergine Maria”. Aiutandosi poi con un palo, camminò lentamente fino a giungere all’accampamento dove “lo fecero mettere a letto” Francisco de Castro, Storia della vita e sante opere di Giovanni di Dio, Roma 1975, Edizioni Fatebenefratelli, (in seguito Castro) p 39-40.

  9. Castro, p. 43.

  10. Crebbe in casa dei genitori fino all’età di otto anni, quando a loro insaputa venne portato da un chierico nella città di Oropesa” (Castro pp. 37-38).

  11. Tutto perisce… finché vivremo in questo esilio e in questa valle di lacrime” (1DS 6; 2DS 10) …“la morte consuma e distrugge tutto ciò che questo miserabile mondo ci dà e non ci consente di portare con noi se non un pezzo di tela stracciata ”: 3DS 15.

  12. 1DS 10.

[1] Regla y Constituciones, para el Hospital de Ioan de Dios de
Granada
(1585) Tit. 1º, 1ª Constitución,
in Primitivas Constituciones, Madrid 1977, p. 12.
[2] Costituzioni del 1587,Introducción, n o.c.., pp.
81-82.
[3] “Giovanni di Dio non è nostro! E’ della società,
è della Chiesa. Non siamo nemmeno gli unici responsabili perché permanga vivo
lungo la storia. Però con l’aiuto di Dio dobbiamo fare di tutto perché l’Ordine
e lui continuino nel tempo” . Fra Pascual Piles Ferrando, Lasciatevi
guidare dallo Spirito (Gal, 5, 16).
Lettera Circolare ai Confratelli
dell’Ordine
, Roma 24 ottobre 1996, (9.3), p. 62.
[4] Cfr  Dichiarazioni del LXV Capitolo Generale
(Documentazione). Granada 6-24 novembre 2000; Carta d’identità dell’Ordine Ospedaliero di
San Giovanni di Dio,
Roma, 1999; Fatebenefratelli e Collaboratori insieme per
servire e promuovere la vita,
Cernusco sul Naviglio, 1992; Giovanni di Dio continua a vivere nel
tempo
, Cernusco sul Naviglio, 1992; La nuova evangelizzazione e l’ospitalità
alle soglie del terzo millennio. Documentazione finale del LXIII Capitolo
Generale dell’Ordine
, Bogotà, ottobre 1994; Marchesi, P., Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il
2000
, Roma, 1987; Piles
Ferrando, P., Lasciatevi guidare
dallo Spirito
(Lettera Circolare ai Confratelli dell’Ordine), Roma, 24
ottobre 1996; Piles Ferrando, P.,
Ospitalità all’inizio del terzo
millennio. Realizzazione della profezia di San Giovanni di Dio
(Lettera
Circolare). Roma, 2 febbraio 2001.
[5] Siamo 1.500
Confratelli, 40.000 collaboratori, tra impiegati e volontari, e circa 300.000
benefattori-sostenitori. Siamo presenti nei cinque continenti in 46 nazioni, con
21 Provincie religiose, 1 Viceprovincia, 6 Delegazioni Generali e 5 Delegazioni
Provinciali, e realizziamo il nostro apostolato a favore degli infermi, dei
poveri e di coloro che soffrono in 293 opere. Pur essendo membri dello stesso
corpo – l’Ordine – viviamo realtà molto diverse. C’è chi vive in centri e
società altamente tecnicizzate e chi in centri e società in via di sviluppo; c’è
chi vive in nazioni immerse in un clima di pace e chi invece in paesi lacerati
dalla guerra e dalla violenza o che vengono da un passato caratterizzato dalla
violenza; c’è chi si può esprimere in piena libertà nella società in cui vive, e
chi vede invece la sua libertà e i suoi diritti fondamentali pesantemente
limitati; c’è chi si dedica all’apostolato
propriamente ospedaliero e chi invece si trova impegnato in temi sociali e
settori dell’emarginazione; c’è chi ha come missione quella di aiutare a vivere
la persona e chi invece quella di garantire alla persona di morire con dignità;
a prescindere dal fatto che il lavoro di noi tutti si ispira al progetto di
un’assistenza integrale, ci sono sfumature che ci orientano di volta in volta
verso la salute fisica, la salute mentale, il miglioramento delle condizioni di
vita ecc.; infine c’è chi di noi vive nel Nord e chi nel Sud, chi nell’Ovest e
chi
nell’Est.: Ordine ospedaliero di san giovanni di
dio, Carta d’identità dell’Ordine. L’assistenza
ai malati e ai bisognosi secondo lo stile di san Giovanni di Dio,
Roma,
1999, p. 9.
[6] Giovanni di Dio non ignora che per giungere alla
pienezza ed evitare gli ostacoli, l’uomo dev’essere vigile e disponibile:
“vegliate sempre e tenetevi sul piede di partenza”, perché può accadere “che
potreste finire col perdervi”: cfr San Giovanni di Dio (SGD),
Lettere, 1 Lettera alla Duchessa di Sessa (1DS), 7, p. 77;
Lettera a Luigi Battista (LB), 6 p. 29; in J. Sánchez, Origen y camino de nuestra
espiritualidad
).
[7] SGD, Lettere, ibid.
[8] Durante l’accerchiamento di Fuenterrabía,
Giovanni di Dio si offrì per andare a cercare l’approvvigionamento che
mancava al distaccamento militare: “montò su una giumenta francese” che era
stata presa al nemico e senza briglia e incamminandosi per le falde di un monte
andò a cercare da mangiare presso i casali o le fattorie del posto, ma la
giumenta riconoscendo i luoghi “nei quali di solito andava”, cominciò a correre
furiosamente. Giovanni non riuscì a trattenerla; e fu scaraventato contro alcune
rupi, buttando sangue, e rimanendo in terra come un morto. Dopo aver ripreso i
sensi, provò impotenza, dolore, minaccia per la vicinanza del nemico, paura e
…senza alcun soccorso in tanto pericolo …si sollevò da terra “si mise in
ginocchio e, alzati gli occhi al cielo, invocò il nome di nostra Signora la
Vergine Maria”. Aiutandosi poi con un palo, camminò lentamente fino a giungere
all’accampamento dove “lo fecero mettere a letto” Francisco de Castro, Storia della vita e sante opere di Giovanni
di Dio,

Roma 1975, Edizioni Fatebenefratelli, (in seguito Castro) p 39-40.
[9] Castro, p. 43.
[10] Crebbe in casa dei genitori fino all’età di
otto anni, quando a loro insaputa venne portato da un chierico nella città di
Oropesa” (Castro
pp. 37-38).
[11] “Tutto perisce… finché vivremo in questo esilio
e in questa valle di lacrime” (1DS 6; 2DS
10) …“la morte consuma e distrugge tutto ciò che questo miserabile
mondo ci dà e non ci consente di portare con noi se non un pezzo di tela
stracciata ”: 3DS
15.
[12] 1DS 10.
[13] 2DS 15.
[14] Castro, p. 46.
[15] “ Non vedendo ancora quale via nostro Signore gli
avrebbe aperto per servirlo … se ne andava triste e non trovava tranquillità né
riposo, né gli piaceva più stare a guardare le pecore”. Castro, p. 52.
[16] Castro, p. 53.
[17] Ibid. , p. 59.
[18] Ibid. 16p. 61.
[19] Cf. Castro, p. 63 s.
[20] Castro, p. 65.
[21] Ibid., p. 66.69-70.
[22] Ibid., p. 71.72.
[23] Ibid., p. 76.
[24] Ibid., p. 72.
[25] Cf. Castro, p. 63.
[26] Castro, p. 92.
[27] Ibid., p. 87.
[28] J. Sánchez Martínez. “Kénosis-diaconía” en el itinerario
espiritual de San Juan de Dios,
Jerez, 1995, p. 331, 441.
[29] 2GL., 4-5.
[30] Castro. p. 107.
[31] Ibid, p. 94.
[32] Ibid., p. 107.
[33] Processo di Beatificazione di San Giovanni di Dio
L 52/1.23, f 81. Cfr. J. Sánchez Martínez. “Kénosis-diaconía” p.
190-191.
[34] Ibid,  L 52/1.20,
f 73v
[35] Castro, p.135.
[36] 1GL 11.
[37] Castro, p. 107.
[38] Ibid. , p. 107.
[39] 1DS 15s. Castro afferma anche che “il suo cuore
non sopportava di vedere il povero patire necessità, senza apportarvi
rimedio”.: p.125..
[40] Castro, p. 107.
[41] Castro, p. 129-130.
[42] 2GL., 7.
[43] 2DS 2.
[44] 2GL 17.
[45] Ibid., 8.
[46] Ibid., 7.
[47] Castro, p. 155.
[48] Ibid., p. 156.
[49] Ibid., p. 65.
[50] LB 13.
[51] Ibid. 8.9.
[52] Ibid. 6.
[53] Ibid. 7.
[54] Ibid. 9.
[55] Ibid. 15.
[56] Ibid. 10.
[57] Ibid. 11.13.9.
[58] Ibid. 15.
[59] Cf. 1DS. 13.
[60] J. Sánchez Martínez. “Kénosis-diaconía”, p. 292, 307, 393.
[61] Di loro non si parla. Nella biografia del Castro,
soltanto nel cap. XX si parla del compagno di Giovanni di Dio, Antón Martín.
Viceversa, nel “Processo”, antecedente alla biografia di Castro, si parla molte
volte di fratelli d’abito di Giovanni di Dio; se ne parla anche nelle biografie
scritte da Dionisio Celi e Antonio Govea. Giovanni d’Avila (che il Santo chiama
“Angulo” nelle sue lettere) fornisce il nome di quattro compagni di Giovanni di
Dio: Antón Martín, Pedro Pecador, Alonso Retingano e Domingo
Benedicto.
[62] L. Ortega Lázaro, El hermano Antón Martín y
su hospital en la calle Atocha de Madrid
(1500-1936), Madrid 1981,. p. 31.
cf. 17-19
[63] Cf. J. Sánchez Martínez. “Kénosis-diaconía”, TT 8/5; T 9/5; T
10/5, p. 346, 356, 364.
[64] Cf. J. Sánchez Martínez. “Kénosis-diaconía”, T 11/20, p. 383: accoglievano ogni tipo di
poveri, con ogni tipo di malattia, non importava che fossero mori o cristiani,
senza abbandonare nessuno.
[65] Già dalle prime Costituzioni si mette in risalto
quest’aspetto essenziale.
[66] Come per Giovanni di Dio, anche noi siamo
attratti in modo particolare dalla dedizione totale di Gesù nell’amore, fino
alla morte sulla croce per noi: la
contemplazione della Passione di Cristo, ”uomo dei dolori”
(Is 53, 3), occupa un posto di rilievo nella nostra spiritualità (Cost.
33). Su questo punto, la tradizione dell’Ordine si rifà al nostro Fondatore,
devotissimo della Passione di Cristo. Contemplando Cristo crocifisso, il nostro
Padre si centrava tanto nei patimenti di Gesù come nell’amore che lo motivava ad
accettarli; amore che
lo portò a perdonare, persino ai suoi nemici. Su questa qualità di amore
Giovanni di Dio insiste, quando dice a Luigi Battista: “Ricordatevi di nostro Signore Gesù Cristo e
della sua benedetta Passione, che restituì, per il male che gli facevano, il
bene: così dovete fare voi”
(nn. 10.11). Giovanni di Dio ci invita ad imitare
Cristo nei suoi patimenti, dedicandoci ad una vita di penitenza e di sacrificio
sino alla donazione d’amore nel servizio ai sofferenti. Nel volto afflitto dei
malati, nella vita annichilita dei poveri, Giovanni scopre e contempla Cristo.
Servirli, per Giovanni, non è una croce, non significa sacrificio: è
semplicemente la manifestazione concreta
che l’amore di Dio ha inondato la sua vita, e non può far altro che amare
tutti e sempre, in particolar modo i più deboli.
[67] La nostra spiritualità è, fondamentalmente,
cristocentrica. Giovanni di Dio amò Gesù in modo appassionato. Da lui abbiamo
appreso a centrare la nostra vita in Cristo e a contemplarlo nel suo modo di
servire, amare e guarire gli infermi. Gesù di Nazareth è il Maestro che, con il
suo modo di agire, ci insegna gli atteggiamenti ed i gesti che dobbiamo
incarnare per continuare la sua opera d’amore. Come Gesù, siamo chiamati a
sentire compassione nel  vedere
l’abbandono e la miseria della gente (Cf. Mt 9, 36) e a dedicarci a servirli e
consolarli come unica cosa che ci importa nella vita (Cf. Mc 6, 34-44); come
Gesù, sperimentiamo la capacità di essere consapevoli che, quando ci accostiamo
e serviamo i bisognosi, si manifesta una misteriosa forza interiore che ci
supera (Cf. Lc 8, 40-48); contemplando Gesù, che si identifica con i poveri e
gli infermi, prendendo su di sé i loro dolori e addossandosi le loro malattie
(Cf. Mt 8, 17), si rinnova la nostra decisione di dedicarci al servizio dei
sofferenti, assumendo, come Gesù, la condizione di servi che, con la dedizione
della propria vita, promuovono e difendono la vita dei poveri  (Cf. Mt
12, 15-21; 20, 28).
[68] La Vergine Maria,
figura della Chiesa e prima tra tutte le
persone consacrate (Cf. VC. 112), è per noi un modello di servizio a Cristo
nell’Ospitalità. Giovanni di Dio amò Maria di un amore intenso: la venerò e la
imitò nel suo modo di
vivere, fu un suo grande devoto, da lei si sentì accompagnato e protetto nei
momenti difficili della sua esistenza. Tutte le lettere di Giovanni di Dio
iniziano così: Nel nome di nostro Signore Gesù Cristo e della
Vergine Maria, sempre intatta
.
Come era d’abitudine in lui, invitava a fare tutto “…per il servizio di nostro Signore Gesù
Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria
” (1 GL., 12)..Invocava la Madonna con la recita del santo
rosario ed esortava gli altri a recitarlo:
Mi è andata molto bene con il
Rosario, e spero in Dio, di recitarlo tutte le volte che potrò
”( LB., 17). Seppe trasmettere ai suoi
compagni la fiducia nella Vergine ed il desiderio di imitarla nel servizio ai
poveri e ai malati. Serva come esempio la testimonianza di Antón Martín
che, nel suo testamento, dice: Nel Nome della Santissima Trinità …e della beata
Vergine Gloriosa, nostra Signora Santa Maria sua Madre, che considero come mia
Signora e Protettrice in tutte le mie azioni… [...]…a servizio di nostro Signore
Gesù Cristo e della sua gloriosa Madre.(L. Ortega Lázaro, El Hermano Antón Martín y su Hospital en la
C. Atocha de Madrid
. 1550-1936, Madrid, 1981, p. 8).
Seguendo la tradizione
dell’Ordine, le Costituzioni raccolgono il senso mariano della nostra spiritualità:
la Vergine Maria è modello della nostra consacrazione a
Dio (n. 25), profondamente ospedaliera nella sua vita dedicata al servizio della persona e dell’opera
di Gesù (Cfr. n. 42b). Il suo esempio ci esorta a realizzare, come lei, il
nostro pellegrinaggio nella fede (Cf. LG. 58) e ad imitarla, accompagnando con
integrità ed amore profondo coloro che soffrono, associandoci in questo modo al
sacrificio del suo Figlio, che si prolunga nel dolore
dell’umanità
(n. 34a; Cfr. 4d). Maria, Salute degli infermi e madre
misericordiosa, ha un posto singolare nella vita della nostra comunità
ospedaliera
(Cost. 34) e nel cuore di ogni Confratello. Ci sentiamo
animati ad onorarla e ad imitare la sua semplicità e disponibilità, la sua
dedizione e fedeltà al progetto di Dio sulla nostra vita (Cfr. Cost. 4c), mentre
la veneriamo con affetto di pietà filiale celebrando le sue feste, in
particolare quella del suo Patrocinio sull’Ordine, e con le devozioni
tradizionali, tra le quali ha un’importanza speciale la recita del Rosario.
(Cfr. Cost. 4d; 34).
La Vergine del Magnificat mette in risalto uno degli aspetti più chiari della
nostra spiritualità: il Dio della misericordia mantiene le sue promesse di
liberazione e si china con una particolare predilezione sui poveri e sugli
umili, e farà trionfare il potere della sua misericordia sull’arroganza dei
potenti di questo mondo, che opprimono i deboli. Come Maria, siamo chiamati a
sentirci in comunione con essi, a sentire come propria la loro realtà ingiusta e
ad impegnarci evangelicamente per la loro liberazione integrale  (Cfr. Lc. 2, 46-53).
Nella visita ad Elisabetta, Maria ci viene proposta come modello di ospitalità per la
sua disponibilità di aiutare la cugina e di dedicarsi con semplicità al suo
servizio, ma soprattutto, perché in lei Dio manifesta e fa presente la sua
salvezza. Dio, incarnatosi nel seno di Maria, scegliendola come mediazione per
comunicare il suo Spirito ad Elisabetta e al bambino che portava in grembo (Cfr.
Lc 1, 41-44), eleva i gesti di ospitalità a livello di sacramento che evoca e compie la sua azione di salvezza.
[69] Cost. 1984 103a.
[70] Ibid. 1984, 103 § c.
[71] VC, 54.
[72] Dopo il Vaticano II, dalla metà degli anni Ottanta, l’Ordine incoraggiò ed animò un movimento di Alleanza con i Collaboratori.
Recentemente, la Chiesa ha riconosciuto questo importante passaggio dei laici da
operatori che lavorano per la missione o collaborano nella missione
dei religiosi, a operatori che condividono il carisma e la
missione dei religiosi
, in modo tale che “è iniziato un nuovo capitolo,
ricco di speranze, nella storia delle relazioni tra le persone consacrate e il
laicato”. (VC 54; Cfr. Cost. 23a).
[73] Cfr V.A. Riesco, La Hospitalidad manifestación del Ser de
Dios en favor del hombre. Fundamento bíblico de nuestra
espiritualidad
.
[74] Non è facile spiegare perché il Dio
dell’Antico Testamento fu presentato talvolta con tratti violenti e perfino
demoniaci. Il motivo di fondo era probabilmente la necessità di spiegare il
mistero del male, e di stabilire, contro ogni tipo di idolatria, che Yahweh era
l’unico Dio.
[75] Così lo esprime ripetutamente il primo Capitolo
(Costituzione Fondamentale) delle Costituzioni attuali. In primo luogo,
presentano San Giovanni di Dio come un uomo che : “trasformato interiormente dall’amore
misericordioso del Padre, visse in perfetta unità l’amore a Dio e al prossimo”
(Cost. 1); “imitò fedelmente il Salvatore nei suoi atteggiamenti e gesti di
misericordia…e si donò interamente al servizio dei poveri e dei malati” (Cost.
1).
[76] In secondo luogo, le Costituzioni affermano che:
“L’Ordine Ospedaliero nasce dal vangelo della misericordia (Mt 8,17; 25,34-46),
quale lo visse in pienezza San Giovanni di Dio” (Cost. 1); attraverso la
consacrazione dello Spirito i Confratelli si configurano con Gesù
compassionevole e misericordioso; partecipano dell’amore misericordioso del
Padre e mantengono viva nel tempo la presenza misericordiosa di Gesù di Nazareth
(cfr. Cost. 2).
[77] 1 DS, 13.
[78] Cfr. Daniel Innerarity, Ética de la hospitalidad, ed. Península,
Barcelona 2001.
[79] Cf. N.B. Pagadut, Be hospitable, Claretian Publications,
Quezon City, Philippines 1992.
[80] Castro, p. 107,108.
[81] un testimone ricorda che
un giorno, entrando in cucina, lo trovò molto allegro: batteva il palmo di una
mano sul dorso dell’altra, dicendo un canto santo. E questo testimone gli disse:
“Va tutto bene, Padre?” Ed egli rispose: “Chi serve Dio, vive allegro”. (T. 30. In Gómez Moreno, o.c. p 214).Molte volte mi trovavo lì e lo vedevo passare tra i
malati curandoli, vestendoli, girandoli e rimettendoli a letto prendendoli tra
le braccia, sempre sorridente e con tanto amore e carità che era una cosa
stupefacente, da sembrare che volesse stringere tutti i malati dentro di se. (T. 59. In Gómez Moreno, o.c., p.
231-232)
[82] 2 GL., 5.
[83]
A
mate nostro Signore Gesù Cristo sopra tutte le cose del mondo, ché per
molto che lo amiate, molto più Lui ama voi. Abbiate sempre carità, perché dove
non c’è carità, non c’è Dio, anche se Dio è in ogni luogo. (LB. 15)

[84]Cost. 1587, cap. 17. o.c., p. 95.
[85] Cost. 2 c.; 3 a; 5 a.
[86] Cfr. GS. 22; Cost. 20.
[87] “Il Rinnovamento ha due aspetti fondamentali:
innanzitutto esso cerca di eliminare le debolezze della nostra vita e di
abbattere le barriere che ostacolano la nostra comunione fraterna; in secondo
luogo si sforza di scoprire anche quei nostri “punti forti” che possono
facilitare il raggiungimento di una unione simile a quella tra il Padre e il
Figlio.” (P. Marchesi, Rinnovamento, Roma, 1978, p.
16).
[88] “…il bisogno fondamentale dell’uomo è quello di
essere riconosciuto come persona degna per se stessa, degna cioè di ricevere
attenzione, premura e amore al di là delle differenze di cultura, di
istituzione, di classe sociale, di religione e di razza …” ( P. Marchesi, Umanizzazione, Roma 1981, p.
21)
[89] Giunto che
fu alla Corte, il conte di Tendilla ed altri signori che lo conoscevano, ne
diedero notizia al Re, informandolo delle cose di Giovanni di Dio, e lo
introdussero nel palazzo. Ivi Giovanni gli parlò, iniziando in questo modo:
Signore, io sono solito chiamare tutti fratelli in Gesù Cristo. (Castro, o.c., p. 122)
[90] Cfr. Ordine Ospedaliero di San Giovanni di
Dio, Confratelli e Collaboratori
insieme per servire e promuovere la vita
.
[91] Negli anni ’80, sulla spinta del movimento di
umanizzazione, l’Ordine stava
ricercando il modo adatto per
riorganizzare la propria missione in favore
dei vecchi e dei nuovi bisogni dell’umanità. E’ interessante notare come
concluse i lavori l’Assemblea dei Provinciali, celebratasi nel 1981: “La nostra Assemblea riafferma la propria
speranza ed il proprio impegno nel costante rinnovamento dell’Ordine. Siamo
convinti che esso può essere ottenuto esclusivamente se tutti noi, membri
dell’Istituto, viviamo in continuo atteggiamento di attenzione per quelle
esigenze che implica la nostra consacrazione e se ci sforziamo di tradurre
questo nostro atteggiamento in concrete risposte alle speranze riposte in noi
dalla Chiesa e dalla Società. Considerando che il mondo sta vivendo
un momento importante della sua storia, i
cui valori fondamentali della persona sono ad un tempo rivendicati ed infranti,
noi assumiamo l’impegno preciso, espressione concreta del carisma dell’Ordine,
di difendere e promuovere senza indugio
il rispetto della dignità umana. Ciò ha suscitato in noi la convinzione che
l’umanizzazione, intesa nel senso da essa acquisito nella persona di Gesù di
Nazareth, costituisce, nel momento storico che stiamo attraversando, il vincolo
unificante ed integrante che può aiutarci a
tradurre in fatti di vita il processo di
rinnovamento”
(P. Marchesi, o.c., p.
146-147).
[92] Cfr. anche il n.10: “E’ questo un tempo in cui lo
Spirito irrompe, aprendo nuove possibilità. La dimensione carismatica delle
diverse forme di vita consacrata, pur sempre in cammino e mai compiuta, prepara
nella Chiesa, in sinergia con il Paraclito, l’avvento di Colui che deve venire,
di Colui che è già l’avvenire dell’umanità in cammino”. Vedere inoltre i numeri
18, 21, ecc. Non dimentichiamo che questo documento si basa sull’immagine del
“cammino”..
[93] Cfr. Governo Generale, Giovanni di Dio continua a vivere nel
tempo,
Cernusco sul Naviglio, 1992, punto 1.
[94] E’ stato così per Giovanni di Dio: sentendosi
senza radici umane autentiche, si ravvivò in lui la chiamata che, già da
Oropesa, lo invitava a lasciare il lavoro di pastore del gregge e di accudire ai
cavalli del Conte per dedicarsi a servire il Signore “fuori del luogo nativo”
poiché “sentiva una gran pena, allorché…vedeva nella scuderia i cavalli grassi e
lucidi e ben coperti, ed i poveri invece deboli ed ignudi e trattati male. E
dentro di sé diceva: E come, Giovanni, non sarebbe meglio che tu attendessi a
curare e nutrire i poveri di Gesù Cristo, piuttosto che le bestie del campo?”
(Castro, p. 51-52).
[95] S.C. 10
[96] Nell’Eucarestia infatti, ,
il Signore Gesù ci associa a sé nella propria offerta pasquale al Padre: offriamo
e siamo offerti. La stessa consacrazione religiosa assume una struttura
eucaristica: è totale oblazione di sé, strettamente
associata al sacrificio eucaristico. Qui si concentrano tutte le forme di
preghiera, viene proclamata ed accolta la Parola di Dio, si è interpellati sul rapporto con Dio,
con i fratelli, con tutti gli uomini: è il sacramento della filiazione, della
fraternità e della missione. Sacramento dell’unità con Cristo, l’Eucarestia è
contemporaneamente sacramento dell’unità ecclesiale e dell’unità della comunità
dei consacrati. (Ripartire da Cristo, n. 26)
[97] La “permanente disponibilità (di Gesù) ad essere
fortezza, consolazione e viatico degli ammalati, ci stimola a perseverare
accanto all’uomo che soffre, accompagnandolo nel suo dolore e nella sua
solitudine” (Cost. 30c).
[98] “La Chiesa ha bisogno di noi come noi abbiamo
bisogno di Lei, e ciò sarà sempre più vero nei prossimi anni. E’ indispensabile
comunicare all’interno della Chiesa. La nostra vocazione e il carisma del nostro
Ordine nella loro identità e nei loro programmi, debbono essere ben presenti al
mondo dei credenti, per diventare per essi uno stimolo e anche un modello, una
strada per realizzare la comune vocazione battesimale alla santità” . (P. Marchesi, Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il
2000,
Roma, 1987, n. 89).
[99] Cfr. P.
Marchesi, L’Ospitalità dei Fatebenefratelli
verso il 2000
, Roma, 1987, nn. 66-86.
[100] La spiritualità nella missione si esprime nell’entusiasmo,
nell’immaginazione profetica, nella creatività apostolica. La mancanza di
Spirito porta alla routine, alla monotonia, alla mera ripetizione.
La presenza dello Spirito è il
fuoco che tutto anima e ricrea.
Per un religioso con spirito ospedaliero la
vocazione non diventa mai un’abitudine. Scopre sempre la novità del Regno di Dio in tutto ciò che
fa.
[101] Il nostro corpo è in strettissima relazione con la natura.
Il corpo è quella parte
della natura che più abbiamo addomesticato. La nostra spiritualità acquisisce
così toni
profondamente ecologici, che non dobbiamo trascurare: in
questo modo percepiremo meglio le possibilità
del corpo umano, ma anche le sue
debolezze e i suoi rischi. .
[102] Nell’orizzonte della vita di un Fatebenefratello c’è sempre
la possibilità del martirio, il “caso serio”
della generosità della carità, della confessione
della fede e della proclamazione della speranza.
Il martirio è un dono. Ed è sempre
stato riconosciuto come tale. E’ un dono per il martire ed anche per l’Ordine.
E
’ un dono paradossale,
ma reale. Possiamo evitarlo anticipatamente, se
eludiamo il pericolo, se cerchiamo
sicurezze, se evitiamo qualsiasi tipo di rischio. Una vita così, non merita
l’appellativo di “ospedaliera” e “misericordiosa
”. Il martirio come orizzonte dà
un colore speciale alla vita ospedaliera.
Fanno parte delle forme di martirio anche gli
impegni a favore poveri che comportano emarginazione, isolamento,
condanna. E
’ quando
l’ospedaliero può dire: “sono stato in carcere”, “sono stato espulso”.
”.
[103]Nella nostra vita passiamo per tappe significative; in
particolare dobbiamo curare: i primi anni della formazione iniziale di ogni
tappa, l
’età della
maturità; i momenti di crisi e di ritiro progressivo dall’azione. La vita degli
Istituti religiosi, e soprattutto il loro futuro, dipende in parte dalla
formazione permanente dei loro membri. E’ dovere di ogni
Istituto procurare i mezzi e i tempi adeguati perché le
persone si formino adeguatamente
. Ordine Ospedaliero di San Giovanni
di Dio,
Progetto Formativo dei Fatebenefratelli . (P.F.O.) Roma 2000, nº 132). Cfr.
Ordine Ospedaliero di San Giovanni
di Dio
. La Formazione Permanente nell’Ordine Roma 1991.
[104] P.F.O.., nn. 39 e 44.
[105] Ibid., nºn. 46-57. Caratteristiche del nostro
modello
formativo: integrale, in evoluzione, esperenziale, personalizzato, lgraduale e differenziato, liberatore e profetico, universale.
[106] Ibid., nº 24: “Alla luce dell’itinerario del
nostro Fondatore, il processo formativo deve offrire ai candidati ed ai formandi
un ampio spazio per interiorizzare e riflettere sul carisma e sulla spiritualità
dell’Ordine. E’
una
sfida per l’Ordine educare, formare e rendere in grado i Confratelli di
testimoniare il vangelo della misericordia
nella società attuale, con fedeltà creativa ”.
[107] Ibid., nn. 92 e 137c.
[108] Ibid., n. 26h. La formazione permanente nell’Ordine, n. 33
[109] Ibid, n. 136. La formazione  permanente nell’Ordine , n. 34.
[110] Ibid, nº 44. La formazione  permanente nell’Ordine , nn. 35 e 36.
[111] Nel cammino personale di spiritualità è essenziale l’accompagnamento spirituale, non solo durante la
gioventù
, ma in ogni età. L’esempio del rapporto
di San Giovanni di Dio con San Giovanni d’Avila è un eccellente punto di
riferimento per noi. Dobbiamo
instaurare un canale di comunicazione, al più profondo livello,
c
on un religioso o una religiosa che abbia una certa esperienza
nel cammino del Signore. Ci
servirà da riferimento, da contrasto, da stimolo. I
nostri superiori sono invece chiamati nella misura del possibiledi realizzare un servizio di animazione
spirituale nei
confronti di ciascun Confratello della comunità..
[112] Ogni Confratello ed ogni formando
devono saper integrare e vivere tutti gli avvenimenti, siano essi positivi o
negativi, come parte della propria storia di salvezza, partendo dalla quale Dio
ci parla e ci guida
”. (P.F.O., nn. 27 e 50)
[113] NMI 58.

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