L’ESERCIZIO DEL RACCOGLIMENTO – Romano Guardini


L’ESERCIZIO DEL RACCOGLIMENTO
(Audio 14)

Riepiloghiamo di nuovo.

Abbiamo cercato di conoscere ciò che è il bene e ciò che è la coscienza. Abbiamo anzitutto concepito il bene nella sua pura essenza, come infinito nel suo contenuto e semplice nella sua struttura. La coscienza poi come quell’organo interiore, mediante il quale io conosco che il bene esiste; del quale questo bene si serve per spingermi ad attuarlo; il quale mi fa sentire la responsabilità che il bene venga attuato. Siccome però questo bene è infinito e semplice ad un tempo, io non posso comprenderlo immediatamente come dovere pratico. Bisogna che si specifichi; che si scomponga in singoli doveri di contenuto parziale, affinché io possa attuarlo. Ora questo avviene nella situazione, nell’intreccio della realtà e degli avvenimenti, quale si rinnova continuamente intorno a me, e a me guarda, e da me vuol ricevere interpretazione e forma.

Quello che di volta in volta mi viene indicato come giusto dalla situazione oggettiva – ecco il bene. Coscienza poi significa la facoltà di riconoscere quello che vien così presentato e di concretarlo per l’azione.

Già a questo stadio il concetto della coscienza aveva qualche cosa di profondo e di intimo. Lo abbiamo espresso nella proposizione: «Io son consapevole a me stesso del bene». Questa interiorità proveniva dal fatto che il bene coinvolge il senso supremo di tutto, compreso il senso supremo della mia esistenza. La salvezza dunque, l’eterno destino. E precisamente il mio destino, di cui nessuno può alleggerirmi e che nessuno può rapirmi.

Questo carattere d’interiorità si è approfondito maggiormente nella seconda conferenza. In essa abbiamo seguito la coscienza giù giù fino al suo fondo religioso. «Coscienza» non significa affatto soltanto un organo etico; a ciò l’ha ridotta appena l’età moderna e più che altrove, a quanto sembra, nei paesi di lingua tedesca. In sé e per sé «coscienza» significa l’organo che coglie il dover essere in genere, ciò che è degno di essere, con manifesta tendenza all’aspetto religioso. Si può dimostrare storicamente che parola e significato di «coscienza» sono in rapporto con gli ultimi strati della coscienza religiosa: col« fondo dell’anima» e con l’acies animae.

Vedemmo inoltre, che il bene, in fondo, è la vivente santità di Dio stesso; aver cognizione del bene quindi e della sua esigenza, è aver cognizione della santità di Dio e della sua legge. L’organo ne è la coscienza. E la situazione, dalla quale il bene viene specificato, è disposizione dello stesso Iddio, il quale con il suo comando sollecita il cuore, affinché voglia accogliere in sé ed attuare il bene-santità. Fin dall’eternità il mondo è nelle mani di Dio. Dall’eternità Egli coordina il tutto e il singolo. Il singolo, affinché con altri singoli costruisca il tutto; questo tutto poi, perché diventi fondamento, contenuto, compito per il singolo. Noi abbiamo rassomigliato il rapporto di ogni singolo con l’universo ad un’ellisse. Essa ha due fuochi: uno sta in me, l’altro nel tutto, davanti e intorno a me. Ogni qualvolta v’è un uomo che dice « io », si tende un nuovo rapporto fra i due fuochi. Che in tal modo l’universo e il singolo entrino in vicendevoli rapporti, che l’edificarsi dell’universo e il mio sviluppo siano posti in relazione strettissima, per disposizione della sapienza e dell’amore di Dio, – questo e non altro è la Provvidenza. E la Provvidenza di Dio entra in azione, continuamente, nella situazione. In essa si specifica l’infinita esigenza della sua santità.

La coscienza poi è la cognizione di questo rivelarsi e specificarsi del volere divino nella disposizione della Provvidenza.

Io non sono un « caso» fra tanti, ma qualche cosa di unico. Non sono soltanto individuo, ma anche persona. Non porto in me soltanto un’essenza generica, ma un’essenza che ha l’impronta dell’unicità: porto un nome. Questo nome l’ho da Dio. Sono nel mondo, ma non mi confondo con esso. Con ciò che ho di intimo vengo immediatamente da Dio e sto in rapporto diretto con Lui. Egli mi ha creato come questa determinata persona. Questo nome che mi ha imposto non è racchiuso nella natura generica «uomo ». Non si sperde nell’articolazione dell’universo, e Dio solo lo sa. Perciò io posso conoscere il mio nome, conoscere cioè quello che ho di più mio, solo ricavandolo di là, dove è custodito, cioè da Dio. I vari strati del mio essere possono essere portati alla condizione di realtà cosciente con maggiore o minore facilità. Quanto più nobili e più profondi, tanto più difficilmente. L’ultimo diventa reale soltanto nell’incontro con Dio. Questa cognizione intorno a Dio; questa cognizione di ciò che intercede tra Lui e me soltanto; questo rivelarmi a me stesso al suo cospetto, è la coscienza nella sua ultima profondità religiosa. Io debbo fare la mia parte nel mondo in corrispondenza al nome che da Lui ho ricevuto. E tale divento solo a patto di compiere la volontà di Dio a mio riguardo. Ma questa volontà mi vien presentata, di volta in volta, dalla situazione.

Ciò trova la sua piena espressione cristiana nella rivelazione della nostra dignità di figli di Dio. Come questa determinata persona, io vengo creato e ricevo un nome; come questo «tal dei tali» vengo rigenerato e ricevo un nuovo nome; vengo battezzato per divenir figlio del padre. L’Apocalisse esprime ciò che qui mi viene dato, che rimane ancora occulto, ma un giorno diverrà manifesto, nella proposizione: «Voglio dargli un sasso bianco con su scritto il nuovo nome, che nessuno conosce, se non colui che lo riceve ».

 

 

 

(Audio 15) Ora dobbiamo domandarci: Tutto questo è forse la cosa più naturale del mondo? È cosa ormai attuata e assicurata? che va avanti automaticamente? 
Evidentemente no; come risulta da tutta la nostra considerazione. Più di una volta abbiamo rilevato che la coscienza non è un apparato perfetto che funzioni senza bisogno d’altro, bensì qualche cosa di vitale, che diviene e cresce, come tutto quello che vive in noi. Noi stessi vi siamo dentro, con tutte le nostre manchevolezze. Perciò essa può divenir quello che deve essere solo a poco a poco.
Di qui la nostra odierna domanda: Questo divenire procede da sé? Ovvero possiamo contribuirvi in qualche modo? Poiché se lo possiamo, in tal caso anche lo dobbiamo.

Vorrei fissare un primo concetto: Ciò che ne è l’estremo fondo e la proprietà intrinseca non può venir fatto. Il perfezionamento intrinseco della coscienza, dal punto di vista naturale, è cosa degli anni e dell’esperienza; dal punto di vista della fede, è cosa della grazia. 
Anche per la coscienza si tratta in fondo di un processo di maturazione. Che la nostra sensibilità per il bene diventi più robusta e più chiara; che la coscienza della responsabilità in questo riguardo diventi più precisa; che la nostra sagacia nel cogliere la molteplicità di valori della situazione si affini; che lo sguardo sul suo significato definitivo e la capacità di ridurne il molteplice contenuto all’unità della sua esigenza e la forza di decidere e di mantenere la decisione presa diventino più sicuri – il progresso in tutto ciò dipende da maturazione interiore. E dall’esperienza. Poiché quanto importa l’aumento della sensibilità interiore, il raccoglimento e il consolidamento interiore, altrettanto importa che noi rinnoviamo continuamente il nostro contatto con la molteplicità delle cose e degli avvenimenti. Con ciò noi veniamo in possesso di una gran quantità di immagini, immagazziniamo dei fatti e allarghiamo le possibilità di confronto. I nostri criteri di misura, i nostri punti di vista, le nostre abitudini, attraverso la nostra esperienza, vengono passati continuamente al vaglio della critica, analizzati e corretti.

Maturazione interiore ed esperienza esteriore si aiutano a vicenda.

Lo stesso vale anche per la vita cristiana: l’avvicinarsi a Dio; la disposizione a lasciarci istruire da Dio; la serietà dell’intesa con Lui; il comprender sempre più profondamente se stessi nel dovere, che ci è imposto – tutto questo è frutto di maturazione e dell’esperienza ad un tempo. Frutto della crescita naturale della vita, ma soprattutto dono della grazia. E la grazia dobbiamo tenerci pronti a riceverla e ad impetrarla con incessante preghiera. Né dimentichiamo che vi è un sacramento della coscienza cristiana: la Cresima. Nella Cresima veniamo dichiarati maggiorenni nel regno di Dio – lo schiaffo è appunto l’antico simbolo giuridico, col quale il giovane veniva liberato dalla tutela. E i doni dello Spirito Santo ci vengono dati, affinché nel mondo impegniamo la nostra responsabilità per il regno di Dio.

Che cosa dobbiamo fare dunque, da questo punto di vista?

Dobbiamo purificare il nostro intimo. Dobbiamo diventare attenti e pronti. Dobbiamo fare il nostro dovere. Interpretare la situazione e corrispondervi nel modo migliore possibile. Dobbiamo tener l’anima aperta all’esperienza. Vivere con vigile solerzia la nostra vita. Non sfuggire l’evento che ci viene incontro; a meno che la nostra coscienza non ci dica che in questo caso la soluzione della situazione consiste appunto nella fuga. Dobbiamo accettare i casi lieti e tristi; anche i tristi e proprio quelli. In poche parole dobbiamo aprirci alla vita, quale Dio ce l’ha destinata. Dobbiamo trar profitto da questa vita – dalla nostra vita; dilatando, correggendo, illuminando noi stessi.

E non stancarci mai di impetrare la chiarezza della coscienza. Cosi pregava Newman: «Ho bisogno che Tu m’istruisca, giorno per giorno, su ciò che è l’esigenza e la necessità di ogni giorno. Concedimi, o Signore, la chiarezza della coscienza, la quale sola può sentire e comprendere la Tua ispirazione. I miei orecchi sono sordi; non so percepire la Tua voce. I miei occhi sono offuscati; non so vedere i Tuoi segni. Tu solo puoi affinare il mio orecchio, acuire il mio sguardo e purificare e rinnovare il mio cuore. Insegnami a star seduto ai Tuoi piedi e a prestar ascolto alla Tua parola. Amen ».

(Audio 16) E allora l’una cosa riceverà luce dall’altra.

Oltre a questo è però possibile un’altra cosa: l’esercizio.

Sull’argomento ci sarebbe molto da dire. Tutto il problema della formazione della coscienza, il problema della formazione della vita interiore, sta qui. Tutte le questioni: come render l’occhio capace di distinguere la varia molteplicità del reale e dei suoi valori? Come svegliare e irrobustire la forza di penetrare e d’imprimere una forma alla situazione? Come educarmi alla larghezza e nello stesso tempo alla precisione? Come allentare a poco a poco dai loro vincoli gli strati profondi del mio essere, affinché diventino liberi ed entrino in azione?… Qui si tratta dei compiti più importanti dell’educazione.

Da questo vasto campo scegliamo una cosa sola: l’esercizio del raccoglimento.

Tutti i maestri della vita interiore ne parlano. Si può dire che, sotto un certo aspetto, tutta la formazione morale e spirituale si riassume nell’esercizio del raccoglimento. Su che si basa questo esercizio?

Si basa sul fatto che il nostro essere vivente è costruito in due direzioni: dall’interno all’esterno e viceversa. Sulla cognizione, dunque, che vi è in esso superficie e profondità, moto di espansione verso la periferia e di concentramento verso il centro. Sulla conoscenza inoltre, che quello che è interiore, profondo, al centro, è più importante; che l’uomo però inclina all’esteriorità, alla superficialità, alla distrazione; che perciò il compito più urgente sta dalla parte, dove maggiore è il pericolo.

E si tratta di un compito veramente grande, che decide di interessi supremi. Di che si tratti qui possiamo forse esprimerlo nei termini seguenti: Si tratta anzitutto della cella interiore.

Questa cella interiore esiste; la sfera interiore, nella quale posso ritirarmi, nella quale mi posso occupare degli oggetti, e dove sono, da solo a solo, con me stesso; là dove vengon prese le decisioni vitali, dove mi trovo con Dio, alla Sua presenza, sotto il Suo sguardo… Questa cella esiste e può diventare più ampia, più profonda, più viva, più tranquilla, più sicura.

Tutto ciò non è così naturale, come potrebbe apparire. Se ci chiedessimo con sincerità: Ho io in me tale «cella interiore»? Ho io questa sfera opposta alla semplice esteriorità, nella quale posso esistere e vivere? – credo che dovremmo spesso rispondere negativamente. Dovremmo confessare di avere la sensazione che in noi tutto sia chiuso, compatto e impenetrabile. Comunque non riconosceremmo certo il caso nostro in ciò che i maestri dicono del mondo interiore: della sua segretezza e tranquillità, dei suoi vari piani in profondità, della pienezza della sua vita intima, della sua potenza; della grandezza delle sue decisioni… Ecco qui dunque un compito da assolvere.

Bisogna creare, ampliare, munire di volta la cella interiore. Il mondo interiore deve venir dischiuso.

Quello che abbiamo detto della cella interiore include già un secondo concetto: la profondità.

Che cosa significa il dire: un uomo è «profondo»? Non vuol dire che i suoi pensieri siano complicati e difficili da capire; nemmeno che i motivi del suo agire siano occulti e le sue mète nascoste, o alcunché di simile. La profondità è una proprietà singolare. Possiamo esprimerla soltanto metaforicamente, ma abbiamo la sensazione precisa di che si tratta. Profondità significa una dimensione speciale, diversa da «quantità», o «estensione», o «complicazione». È stratificazione “verso l’intimo”, e precisamente in maniera, che gli strati, quanto più sono interiori, tanto più diventano preziosi, nostri, delicati, viventi. Il pensiero più semplice può esser più profondo, e i sentimenti più complicati, superficiali; il sentimento più forte può esser superficiale e la più lieve impressione, profonda.

Anche questa profondità va conquistata, e chi l’ha ricevuta in dono deve coltivarla. Quando conosciamo un uomo da bambino e poi lo seguiamo nella sua gioventù e così avanti secondo che procede negli anni; se egli vive onestamente e fa il suo dovere, allora notiamo che la qualità, di cui si è parlato sopra, si afferma in tutto il suo carattere, nelle sue parole, nelle sue azioni.

(Audio 17) Facciamo un passo innanzi: la vigilanza interiore. La sensibilità e la perspicacia per ciò che è giusto; per la pienezza e la varietà dell’essere e della situazione; per le gradazioni e le sfumature della realtà e di valori. Di nuovo anche qui una cosa non è così naturale, come potrebbe sembrare. Quasi quasi può dirsi naturale il suo contrario: la cecità e l’angustia dello sguardo, l’ottusità della sensibilità interiore, l’indolenza del cuore. Quella vigilanza importa che si avverta la potenza e la pienezza dell’esistenza, che si nutra in sé la passione per il bene e per il dover-essere, che si soffra sotto il peso dell’imperfezione; significa che interiormente qualche cosa sia sempre pronto a uno slancio verso ciò che è giusto e buono… Anche questa piena chiarezza, sensibilità, tesa prontezza è un compito.

Ed eccoci al raccoglimento nel senso più stretto: Che tutta la molteplicità delle forze venga energicamente disciplinata da un punto interiore; che tutta l’attività abbia un solo punto di partenza e, per vie spesso nascoste, ad esso ritorni; che la vita abbia un centro e perciò un ritmo. Anche qui, se ci chiediamo: «Ho io ciò? Ha la mia vita qualche cosa che assomigli a un centro? Ed è ordinata verso questo centro?» – la risposta difficilmente sarà soddisfacente. La nostra vita è tutta esteriorità. Nella nostra vita domina il caso. Le cose esteriori, secondo che ci si avvicinano, ci attirano a sé. Noi siamo in balia di quello che ci tocca di bene e di male. Le nostre forze si disperdono in mille oggetti. Anzi molti uomini non hanno nemmeno la più lontana sensazione di un «centro». L’esperienza del proprio centro è ben determinata e non vive certo in molti, altrimenti la nostra civiltà avrebbe un altro aspetto. Dunque un altro compito anche qui.

E finalmente si potrebbe accennare anche alla spiritualizzazione: Che in noi si irrobustisca lo spirito; lo spirito, che è qualche cosa di diverso dalle cose materiali; di diverso da ciò che è solamente corporeo; di diverso dalla vita puramente sensitiva. Quello che sta in rapporti speciali col bene, con ciò che deve essere, con la verità, con l’amore, con la purità, con Dio. Che questo spirito cresca nell’uomo, ecco ciò che determina il nostro valore umano. Che lo spirito tutto compenetri; signoreggi la vita dell’istinto e la passione; che si esprima in tutto – se guardiamo attentamente, è proprio da ciò che dipende tutto quello, di cui abbiamo parlato or ora. Cella interiore, profondità, vigilanza, raccoglimento e centro – sono espressioni diverse per dire che in noi lo spirito è vigoroso. Anche questo però non è cosa che venga da sé. Pronunciamo una volta attentamente la parola «io»! Se da questo io, da quello che io ho e sono venissero eliminate le cose che posseggo, gli organi del mio corpo, le sensazioni dei miei sensi; se cancellassi i miei concetti, le mie cognizioni, le mie abilità – al di fuori di tutto questo resterebbe ancora qualche cosa? La domanda è fatta molto all’ingrosso, ma il senso è chiaro. Se cancello tutto questo, mi rimane ancora quel resto, per il quale tutto ciò che si è prima nominato è soltanto materia strumentale e mezzo di manifestazione? Quell’entità intima che in tutto ciò vive, che in ciò raggiunge il suo destino, decide della sua sorte, si afferma o fallisce? Ciò, da cui, in definitiva, dipende la mia dignità e la mia salvezza? Certo, lo so, questa entità esiste, è lo spirito, la mia anima spirituale… Ma forse non è vero appunto che per lo più ciò lo so soltanto, ma non lo vivo? Che l’anima spirituale dorme con quello che ha di più intrinseco? Deve pur esser così, altrimenti gli uomini sarebbero diversi da quelli che sono.

Molto di quello che possiamo fare, per tradurre in atto tutto questo, è espresso nella parola: esercizio del raccoglimento.

Vogliamo parlarne alquanto a lungo, prendendo le mosse dall’esterno, per addentrarci poi sempre più verso l’essenziale. Ma qui poco ci gioverebbe, se dovessimo limitarci a pensieri generali. Al principio del nostro incontro ci siamo accordati di voler parlare di « ciò che dobbiamo fare ». Perciò vorrei venire al pratico. Spetterà poi a voi di prender posizione in questo campo. Vorrei però ricordarvi che qui si tratta di cose dell’esperienza, delle quali, a sua volta, si può giudicare soltanto in base all’esperienza. Che dunque premessa per un retto giudizio è il fare.

(Audio 18) La forma più ovvia del raccoglimento sarebbe certo l’ordine. Ordine della vita e del lavoro quotidiani, degli oggetti in camera e in casa, delle occupazioni nel corso della giornata e dei giorni; della lettura, dei pensieri e così via.

L’ordine raccoglie.

Ma di ciò basti un cenno.

Più profonda è l’efficacia di quella che si potrebbe chiamare l’educazione dei sensi e dell’attenzione.

Socrate ad un padre, che veniva a chiedergli consiglio riguardo ad un suo figliuolo, disse una volta, sembrargli strano che gli uomini, mentre si guardan bene dal mangiare cibi guasti, sapendo che non è indifferente quello che introducono nello stomaco, non si facciano poi alcuno scrupolo di riempirsi l’anima di pensieri perversi. Questo è strano davvero. Noi abbiamo un’igiene del mangiare, ma non dubitiamo neppure che vi possa essere anche un’igiene del vedere, dell’ascoltare, del leggere. Dobbiamo lasciar entrare in noi proprio tutto? Facciamo una volta la prova: dopo aver attraversata la città, passando per vie frequentate, davanti a persone e a vetrine, esaminiamo il nostro interno per vedere che aspetto abbia. Che guazzabuglio di impressioni! Che disordine di pensieri! Che altalena di emozioni e di desideri! Che inquietudine e che malcontento! Ed anche quante brutture! È proprio necessario che sia così? Qui è al suo posto ciò che l’ascetica chiama la «custodia dei sensi», la disciplina dell’attenzione.

Esercitare il raccoglimento vorrebbe dunque dire che qui si intervenga. Che non si lasci entrare tutto quello, che batte alla porta dei sensi e dell’attenzione; che si sappia distinguere fra il bene e il male, fra ciò che è nobile e ciò che è ignobile, fra quello che ha valore e ciò che non val nulla, fra quello che porta consapevolezza e ordine e ciò che crea soltanto confu

Esercizio del raccoglimento sarebbe anche il non permettere che un giornale riversi nel mio interno tutto quel guazzabuglio di ciarpame politico, di quisquilie spirituali, di cronaca nera e sensazionale, di vero e di falso, di bello e di volgare, di pettegolezzo e di altro ancora! Dovrei dunque apprendere a sceglier dal giornale solo quello che mi riguarda, con rapidità e con sicurezza, e non appena esso mi ha reso questo servizio assolutamente non importante, buttarlo via e metter mano a qualche cosa che meriti maggiormente il nostro scarso tempo e le nostre scarse energie.

Si potrebbe così esemplificare a lungo. Esercizio del raccoglimento significherebbe dunque che di fronte al disordine del caso, alle pressioni da destra e da sinistra, alla folla delle impressioni e delle vicende, a tutto ciò che ci turba, ci eccita e ci inquina, sappiamo diventare indipendenti. Che di fronte a tutto impariamo a conservar la nostra calma. Che sappiamo passare al vaglio le nostre impressioni. Che troviamo un piacere, anzi direi uno sport molto nobile, nell’impegnar la lotta contro la prepotente barbarie che ci circonda; la lotta per non essere lo zimbello del caos culturale che ci attornia, e per diventare al contrario liberi padroni di noi stessi.

E non soltanto col vagliare le cose e coll’eliminare tutto ciò che non è né utile né buono. Ma anche e innanzi tutto col rivolgere la nostra attenzione interiore a qualche cosa di essenziale: ad un pensiero che va approfondito, ad una questione che va chiarita; ad un uomo, o ad una cosa che vogliamo capire… Ma di ciò diremo di più fra poco.

(Audio 1Ora facciamo un passo avanti e più addentro: eccoci alla solitudine e al silenzio.vata spiritosa, o una osservazione calzante, che corra alla mente. Tutto ciò può costare un buon sacrificio. Ma superando questo istinto sfrenato di correre da altri, di parlare o di ascoltare a parlare, si guadagna in profondità interiore.
Noi siamo schiavi non soltanto delle impressioni, ma anche degli uomini. Abbiamo istinti gregari. So che esiste anche la misantropia e, certo, non è il caso di coltivarla. C’è il destino della solitudine, che non trova nessuno con cui possa convivere. Nemmeno di questo intendiamo parlare. Parliamo di qualche cosa che non ha nulla di tragico, ma è invece estremamente da commiserare, dell’istinto gregario, troppo diffuso fra gli uomini; di quel bisogno di sentire intorno a sé sempre del chiasso; di voler sentir sempre chiacchierare; di non saper riservar nulla per noi soli e di non saper da noi stessi venir a capo di nulla.

Il raccoglimento sarebbe qui l’esercizio della solitudine e del silenzio.

Come sarebbe dunque a dire: non correre subito da altri, ma saper rimaner soli. E non per altro motivo che per cavarsela una buona volta da soli. Sbrigare una faccenda da soli, pur avendo alla mano qualcuno da poterne discorrere; e ciò all’unico scopo di acquistare una maggior indipendenza di giudizio e di deliberazione. Esercizio del raccoglimento sarebbe il tener per sé una storia o un avvenimento, o una tro

Poi la ricerca della quiete e della solitudine: scegliere la via più modesta, anziché quella ricca di vetrine e di lampioni, fare un passeggio da solo, anziché in compagnia; rimanersene una sera tranquilli a casa, invece che andare in visita; rimaner soli una giornata intera, a casa, oppure, ciò che è particolarmente bello, all’aperto. Forse addirittura alcuni giorni di ritiro. Tali periodi portano refrigerio e concentrazione. Se ne esce del tutto purificati.

E, a sua volta, che questa quiete sia riempita con qualche cosa di positivo: con un buon pensiero, con un buon libro, con un problema. Teniamo presente tutto questo. Torneremo sull’argomento, per spiegarne l’importanza.

Al di là di quello che si è detto conduce la tacita attenzione rivolta al proprio intimo.

Essa non è altro che un’inclinazione generale a sostare di tanto in tanto e a riflettere sulla portata delle cose, a sottrarsi talvolta all’incalzante tumulto delle cose che passano, e a tender l’orecchio a ciò che sta avvenendo. È un assuefarsi a gettare sguardi retrospettivi, per esaminare il proprio operato; a riguardare il passato non come definitivamente liquidato, per la sola circostanza esteriore ch’è trascorso, ma a farlo agire su di noi dai suoi strati più profondi…

Wilhelm Raabe dice una volta quali lettori egli desideri per sé: «Ecco, egli dice, che si sta fabbricando una casa, e la gente che osserva fa i suoi commenti. L’uno critica, l’altro loda, un terzo pensa come l’ammobilierebbe se fosse sua. Ognuno considera la fabbrica in pietra e in legno e la valuta dal gusto e dall’utile che potrebbe cavarne. Ma c’è anche uno, il quale pensa quale vita si svolgerà in quelle camere, quale destino, quali dolori, quali gioie vi passeranno. Costui – dice il grande novelliere – che vede le cose in tal modo, è il lettore che desidero per me ».

Qualche cosa di simile intendiamo esprimere anche qui. Una specie di gravitazione, vorremmo dire, verso l’intimo; la quale non deve però ostacolare e all’azione un valore e un legame con l’intimo.

In altri termini si potrebbe dire: una specie di attenzione rivolta all’al di là. Rainer Maria Rilke esce una volta in questa profonda invocazione: 
«Tu, o Dio vicino…
Sono in continuo ascolto, dammi un segno, 
Io sono assai vicino.
Solo una parete sottile ci separa…»

 

Anche questo serve a render chiaro quello che intendiamo dire. Si può viver senza dubbio anche altrimenti. Si può vivere assorbiti nell’attualità che si tocca con mano, affidati alle sue ben note forze, nella chiusa cerchia delle cose visibili e dei fatti dell’esperienza, e con ciò punto e basta. Si può però anche mantener vivo in noi il pensiero che non è tutto qui. Che attiguo a noi, separato da una sola parete, abita l’Altro. Che lungo tutti i confini del nostro essere Dio ci è d’accanto. Si può tener desta la consapevolezza che nel nostro proprio intimo, là dove confiniamo col nulla, sta il Dio vivente.
Qui non c’è nulla di particolare da «fare»; non riflessioni e non sforzi speciali. Basta lo star sempre e tranquillamente in ascolto, un esser presenti a se stessi e un mantenere lievemente i contatti.

Esso può consistere in quanto segue:
Nelle nostre azioni e aspirazioni di tutti i giorni noi siamo trasportati dalla corrente impetuosa degli avvenimenti. «Raccoglimento» significa qui l’uscire da questo vortice e mettersi in pace. Portar calma nel nostro essere, nelle nostre forze, nella nostra volontà. Far penetrare la pace sempre più profondamente in noi stessi. Noi facciamo sempre questo o quello, siamo sempre in attività, progettiamo, vogliamo, organizziamo, facciamo. Quando non facciamo niente, diventiamo nervosi e intorno a noi sentiamo il vuoto. La voce ha come un’eco cupa; ci si sente a disagio e ci si annoia. E al di là di tutto l’agire e il fare, noi non siamo, non esistiamo. Idolatriamo l’attività e perdiamo l’uomo.

Raccoglimento significa qui che sappiamo, una buona volta, non tanto fare, quanto vivere. Avere un’esistenza tranquilla. Un’esistenza piena, libera dall’ossessione del fare e del volere.

Noi tendiamo sempre ad una mèta, poi ad un’altra ulteriore, e così di seguito. Sempre verso qualche cosa che non esiste. Sbrighiamo una cosa e la gettiamo dietro le spalle. Viviamo gli avvenimenti, rapidamente e già essi non sono più. Cosi viviamo sempre scivolando fra quello che non è più e quello che non è ancora.

Raccoglimento significa qui creare il presente, sostare e divenir presenti. Presenti in noi stessi, realizzare l’«oggi» per quanto è concesso alla nostra instabilità; almeno averne l’intenzione e la disposizione.

Vivere tranquillamente l’attimo fuggente è appunto raccoglimento.
Le nostre forze sono disperse fra molti oggetti. La nostra attenzione viene attratta da mille cose. La nostra volontà e i nostri desideri sono incatenati in mille modi. Non siamo in possesso di noi stessi, ma in balia delle cose. La molteplicità delle cose è anzi penetrata in noi stessi, come ne fanno fede la varietà dei nostri pensieri, il contrasto dei nostri desideri, l’irrequietudine dei nostri sentimenti.

Raccoglimento vuol dire richiamare noi stessi a noi stessi; le nostre forze dalla dispersione all’unità. Superare la confusione e ristabilire una tranquilla semplicità. Sgombrare il guazzabuglio, per attenerci a pochi, forti e buoni pensieri. Semplificare i nostri desideri; imparare a riposare in noi stessi senza brame, a diventar tranquilli e sereni. Apprendere ad esser padroni di noi stessi.

Il nostro interno è spesso oppresso da preoccupazioni, agitato da passioni e accasciato dalle contrarietà e dalle sofferenze.

Qui il raccoglimento significa che interiormente torniamo a noi stessi. Che in noi si levi qualche cosa di profondo, che a tutte queste cose per noi ripugnanti dica: «Questo veramente non mi appartiene. Devo sopportarlo e lo farò lealmente, ma non sono tutt’uno con esso. C’è in me qualche cosa al di là di tutto questo. Questo qualche cosa è sereno, è forte, è l’essere vivente del mio spirito. Questo vive in sé, realmente, nella sua indistruttibile sostanzialità. Raccoglimento significa che io cerchi il contatto con questo centro spirituale vivente, il contatto da me stesso a me stesso. E che di lì attinga l’energia e la fiducia per rinnovarmi. Il Vangelo parla della luce interiore che è in noi e può « rischiarar tutto ». Questa non è immagine, è realtà. Lo spirito è luce sostanziale. E chi sa liberare lo spirito, ne rimane illuminato. «Tutto il corpo illuminato », dice il Signore. Di questo passo si potrebbe continuare un pezzo…

Ma non ci rincresca di venire al concreto. Come possiamo compiere quest’esercizio?

La sera, quando abbiamo finita la nostra opera quotidiana, potremmo ritirarci. Potremmo metterci a sedere. Meglio ancora se in ginocchio; perché lo stare in ginocchio esprime riposo e insieme contegno. Poi potremmo creare il silenzio; attorno a noi e in noi. Potremmo poi dirci: «Ora sono tranquillo; perfettamente tranquillo; fino nel più intimo della mia anima ». Potremmo cercar di sgombrare del tutto il nostro intimo e di metterci in una calma assoluta. Quando facciamo così, ci accorgiamo, e solo allora adeguatamente, quanto sia profonda l’irrequietudine dei nostri nervi. Mille cose si affacciano e vogliono essere fatte. Cose dimenticate urgono per essere riprese in considerazione, preoccupazioni si affacciano, progetti si incalzano… Via tutto questo! Bisogna acquistar la calma e non con uno sforzo di volontà, ma con una lenta liberazione interiore. E lasciar discendere il silenzio, sempre più in giù, nel profondo dell’io. I pensieri di tutte le specie – via! I desideri senza pace – via! Non con un atto imperioso della volontà, bensì mettendoli silenziosamente e insieme però anche risolutamente alla porta. Non pensare né all’ieri, né al domani. Essere del tutto presente, del tutto qui. E così sostare un po’; questo solo porta già risveglio interiore, padronanza di sé, freschezza e rinnovamento.

Ma poi, a misura che la nostra padronanza interiore diventa più sicura, dobbiamo portare in questo silenzio, in questa presenza a noi stessi, in questo raccoglimento, qualche cosa che venga dalla sfera del bene. Riflettiamo al significato di una nostra azione passata: che senso può veramente aver avuto? E vi abbiamo fatto buona prova? O avremmo dovuto agire altrimenti? L’azione cattiva può venir riparata, in certo modo rigenerata, nel pentimento e nella sincerità della conversione. Oppure in questo silenzio portiamo qualche cosa che è ancora da fare: un dovere, un problema. Apriamoci al bene: «Lo voglio, sono pronto, sinceramente, fino nelle profondità del mio essere! Che debbo fare? ». In certe perplessità, nelle quali non si sa a che santo votarsi – quando internamente ci si mette in calma, e si supera la ribellione contro il bene, non con la violenza, ma con una liberazione interiore e ci si mette con sincerità in buone disposizioni – allora, spesso tutto d’un tratto, si sa che cosa convenga fare. Poiché quello che cagionava l’incertezza, non erano in fondo solidi argomenti in contrario, ma una riluttanza della volontà. Oppure portiamo con noi nella nostra quiete una parola profonda, un pensiero sostanziale, una limpida lettura.

(Audio 21) Questa è la cella conveniente soprattutto alla Sacra Scrittura: la cella della meditazione.

Qui è la «dimora» per Iddio. Quando mi metto in pace e dico: Io sono qui, pienamente presente – - allora si affaccia quasi spontaneo il pensiero: È qui Dio, il Dio vivente. Pregare significa elevare il cuore a Dio, significa cercare il cospetto di Dio, con lo sguardo interiore, affinché il movimento del nostro cuore e la parola del nostro spirito trovino il loro posto. Questa cosa profonda, che consiste nell’orientamento verso Dio, nel muoversi verso di Lui, e nel giungere presso di Lui, nel parlarGli a tu per tu – tutto ciò è frutto di un tal raccoglimento. «Quando tu preghi, prepara il tuo cuore, e non essere come un uomo, che tenta Dio », dice la Scrittura. Chi si prepara in tal modo, sente sgorgare quasi spontanea la preghiera dal suo cuore.

Qui convien fare attenzione ad una cosa importante. Dell’esercizio del raccoglimento si può anche abusare. Qui si tratta di realtà, di forze reali, di profondità reali. Queste forze possono venire evocate e cagionare anche danni; le profondità possono venir spalancate ed esporre a pericoli. Ciò può avvenire perché tali forze non vengono dirette ad uno scopo e allora cagionano rovina, come avviene di una sorgente che si faccia scaturire, senza poi incanalarla. Ovvero perché tutto vien fatto per vanità; per dilettantismo, per capriccio, per avidità di sensazione, per qualche desiderio di potenza. Le correnti occultistiche e parapsicologiche sono spesso un criminoso gioco con tali forze… Quello che qui facciamo, dobbiamo farlo con moderazione e con calma. E – ciò che è di importanza decisiva – farlo con intenzioni rette e pure. Quello stesso raccoglimento, che rivolto, ad esempio, ad una parola della Scrittura, è sorgente di vita santa, cagiona gravi malanni, quando è ozioso e vano, oppure ha mire false e capricciose. La stessa concentrazione, che è fattore di ordine e di risveglio, quando, ad esempio, è unita al pentimento per un errore commesso e alla sincera disposizione di compiere un dovere futuro, crea invece della confusione, quando mira a qualche scopo di« potenza spirituale» o a conseguire effetti fantastici.

Questo raccoglimento è proprio il vero luogo per la parola di Dio, la quale deve appunto essere ascoltata in silenzio e in adorazione, accolta nella quiete profonda del cuore. Perché la parola di Dio non è una semplice comunicazione, ma anche una forza generatrice di vita santa.

Il raccoglimento è la dimora per Iddio stesso.

Così possiamo fare la sera. Così anche al mattino.

Qui dieci minuti possono far molto. Tutto quello che si fa e si sopporta durante il giorno riceve l’impronta di tutt’altra fiducia e purezza, quando promana da un tal raccoglimento.

Così al mattino è bene riflettere: «Eccomi qui! Proprio io; con le mie forze; con la vigilanza del mio spirito; col calore e con la prontezza del mio cuore. Dio pure è qui presente. Io vengo da Lui ed ho la Sua grazia in me. La Sua chiamata alla santità mi incalza nel mio interno, perché la traduca in atto… Io so che mi accadrà questo o quello… ed ora affronto la mia giornata armato di quella forza interiore. Voglio far bene la mia parte».

Poi, a sua volta, la sera, la resa dei conti innanzi al Bene vivente, al Dio Santo: «Come ho passato la giornata? Ho dato ascolto alla voce del bene? Vi ho corrisposto? »… Rendiconto, pentimento, rinnovamento del cuore… E poi abbandono totale nelle mani di Dio, che è il padrone di ogni riposo.

E sarà bene che anche durante la giornata si torni a prender contatto, di tanto in tanto, con l’ambito interiore, che si rinnova ogni mattina e ogni sera. Anteo, figlio della terra, era invincibile, perché, ogni qualvolta toccava la madre, acquistava nuove forze. Così è anche dello Spirito. Sia come un tocco leggero alle porte di quel mondo interiore; specialmente quando ci si imbatte in qualche cosa di difficile e di imbarazzante, che esige il massimo sforzo. Ciò porta ogni volta ad un rinnovamento del nostro slancio e delle nostre energie. 

“Altre cose di questo genere rimarrebbero ancor da dire. Tuttavia quanto si è detto potrà bastare. Tutto questo – e aggiungo a questo ancora ciò di cui abbiamo parlato al principio: l’interno e segreto processo di maturazione del nostro essere, l’incessante lavorìo dell’esperienza, l’accettazione coraggiosa della vita quotidiana e di ciò che essa ci porta – tutto questo fa sbocciare a poco a poco dentro di noi il centro vitale; fa sì che lo spirito si rinvigorisca e compenetri tutto il nostro essere; che la cella interiore si apra, che il fondo del nostro io si rischiari; e l’energia si concentri e diventi efficace.

E così la « coscienza» diviene a poco a poco quello che deve essere secondo la sua essenza: la voce vivente della santità di Dio in noi.

(Audio 20) Fin qui si trattava di premesse del raccoglimento. Veniamo ora al suo esercizio nel senso più rigoroso della parola. Esso può assumere varie forme, che però in fondo riescono tutte alla stessa cosa.9) sione e trascina in basso. Un simile esercizio potrebbe dunque essere, a mo’ d’esempio, questo: Quando vado per le vie voglio rimanere padrone di me stesso e non permetto che ogni manifesto attragga il mio sguardo. Conservo la mia indipendenza e non mi lascio attirare da ogni vetrina. Mi rendo interiormente indipendente da tutto quel tramestio di gente, di veicoli, di figure, di chiasso e di calca, e non permetto che il mio interno venga distratto da ogni cosa che in qualche modo colpisca. In ciò mi esercito, e torno ad esercitarmi continuamente. Con tale esercizio apprendo l’arte di compiere un giro in città senza danno e di arrivare alla mia mèta con coscienza incolume e tranquilla.

 

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