FATEBENEFRATELLI: I CAMPIONI DELL’OBSEQUIUM PAUPERUM – Antonio Scarcello

I campioni dell’obsequium pauperum:

i Fatebenefratelli


Nel periodo compreso tra la fine del Medioevo e gli albori dell’Evo Moderno, lungo le principali arterie di transito, una fitta e consolidata rete di strutture ricettive assicurava assistenza e protezione a pellegrini e  viandanti, oltre che ai diseredati e indigenti del circondario in cui sorgevano. Anche in Calabria, lungo la via Popilia, vi erano edifici – ospedali, magioni, ospizi – adibiti a tale funzione, soprattutto nei tratti più impegnativi: «le nuove realtà dei monasteri, urbani ed extraurbani, di tradizione greco-basiliana o latino-benedettina – scrive Marco Tangheroni – avevano nell’apertura all’ospitalità dei pellegrini una delle loro caratteristiche fondamentali e potevano perciò costituire – nei casi più importanti anche con appositi xenodochia – una buona alternativa per i viaggiatori»[1]. Più tardi la definizione di xenodochium fu affiancata da quelle di hospitale e hospitium, ed i termini divennero intercambiabili[2]. Nella maggior parte dei casi questi luoghi di assistenza erano retti dai grandi ordini Ospedalieri come quello di S. Giovanni di Dio, detto Fatebenefratelli (dall’intercalare dei questuanti), o come quello del Santo Sepolcro.

Accanto a queste strutture tradizionali adibite all’ospitalità, erano attive anche le diaconie monastiche, «edifici destinati ad accogliere poveri, pellegrini, infermi…»[3], la cui opera contribuiva ad alleviare le mortificazioni della miseria e i disagi di quanti s’incamminavano sull’impervia strada della redenzione, verso le mete di culto di breve percorrenza e in direzione delle cosiddette peregrinationes maiores (Roma, per ammirare la famosa Veronica; Gerusalemme, per visitare i luoghi della predicazione e della passione di Cristo; Santiago di Compostela, per prostrarsi sulla tomba dell’apostolo Giacomo).

Nella rigogliosa fioritura di Ordini religiosi che nel corso del XVI secolo fecero la loro comparsa nella città di Cosenza e nei casali viciniori, una menzione particolare spetta appunto ai Fatebenefratelli, preposti alla cura degli ammalati e a dare sollievo ai bisognosi di assistenza. Fondati nel 1537 dal portoghese S. Giovanni di Dio, divennero presto un punto di riferimento importantissimo per la società coeva, svolgendo una funzione sociale di primo piano, attraverso le opere di carità e la gestione di ospedali e ospizi attivi fuori e dentro la città.

Gli Ospedalieri di S. Giovanni di Dio vennero a Cosenza nel 1593. In un protocollo è riportata la notizia del consenso alla venuta de «li fili de Giovan de Dio per far hospitali et carità alli infermi»[4]. Ad essi fu assegnato il vecchio monastero di S. Chiara, a Portapiana, che divenne casa e ospedale e che prese il nome di S. Maria della Sanità[5]. Con questo titolo liturgico venivano indicate strutture – generalmente monasteri, chiese, diaconie monastiche, ecc. – adibite alla cura degli infermi e all’accoglienza dei forestieri.

Nel piccolo casale di Laurignano, nella seconda metà del XVI secolo, i malati, gli indigenti, i trovatelli, gli orfani, gli emarginati beneficiavano di oboli, elemosine e della munificenza di qualche ricco benefattore. In un atto del notaio Giordano, rogato a Cosenza il 28 settembre 1569, è riportata la notizia che la nobildonna Caterina Sersale lasciò 200 ducati ai poveri di Laurignano e 20 libbre di cera alla chiesa parrocchiale di S. Oliverio[6]. Ma la grave e diffusa situazione di pauperismo che colpiva ripetutamente la Calabria, causata dalle carestie, epidemie, terremoti e altre calamità, non poteva risolversi attraverso slanci di generosità isolati. Occorreva ben altro.

Ed è proprio in un contesto così difficile che s’innesta, a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, la presenza nel territorio di Laurignano dei Fatebenfratelli e dei Francescani, la cui attività era mirata a prestare assistenza a poveri, infermi e bisognevoli di cure. Scopo fondamentale della loro missione era l’impegno caritativo quotidiano, l’obsequium pauperum che esercitavano principalmente nei confronti di viandanti e pellegrini e di tutta quella vasta umanità di sofferenti – i pauperes Christi – che popolava la società del tempo.

Sul finire del XVI secolo, come notato in precedenza, un monasterium dedicato a S. Maria della Sanità venne fondato  nella località S. Basilio, l’attuale Turra ‘e Santi, nella zona di Granci, dai Conventuali Francescani. La struttura, con ogni probabilità, oltre che luogo di culto, fungeva anche da struttura di accoglienza per indigenti e bisognosi di cure. Ed è proprio in questo monasterium, verosimilmente, che i Fatebenefratelli svolsero la loro attività a sostegno dei poveri. Hans Conrad Peyer ha scritto che «il ricovero per pellegrini, mercanti e poveri veniva anche indicato con i termini di ecclesia, oratorium, e monasterio, ma spesso non si capisce se queste definizioni si riferissero alla non rara usanza di alloggiare gli ospiti nella chiesa stessa, o invece nei dormitori ad essa connessi»[7].

Il monastero della Stozza, fondato ex-novo o ampliato dai Francescani nel 1591, con il titolo dedicato a S. Maria Assunta, venne indicato successivamente con il termine «romitorio», mantenendo la stessa insegna liturgica. La struttura, trovandosi a ridosso della via Popilia, svolse la funzione di luogo di accoglienza per pellegrini, viandanti in genere e poveri del luogo. Nei Registri parrocchiali di S. Oliverio Martire relativi a tutto il Settecento la struttura è attestata come Romitorio della Stozza o di S. Maria Assunta.

Gli ospizi monastici e le case di accoglienza per malati e indigenti sorgevano spesso, come abbiamo visto, grazie alla generosità di benefattori occasionali, ed erano soggetti al diritto ecclesiastico e alla giurisdizione episcopale[8]. Normalmente erano collegati ad una chiesa o ad un monastero e affidati a religiosi di provata probità. I Conventuali vennero a Laurignano e chiesero la licenza di «pigliare casa» per prendersi cura degli infermi e per compiere «santa opera pia», secondo la rigida applicazione dei decreti tridentini inaugurata da Pio V e proseguita dai suoi successori[9]. Non bisogna dimenticare che gli uomini di chiesa avevano il dovere dell’hospitalitas, in ragione di «precisi codici di comportamento che facevano leva sull’imitatio Christi»[10]. A cavallo tra il XVI e il XVII secolo, quando l’arcivescovo di Cosenza Costanzo chiamò i Fatebenefratelli da Laurignano, per favorire gli ordini regolari nella città[11], le due strutture rimasero attive. Il monastero della Stozza continuò la sua attività sotto il controllo di una piccola comunità di Eremiti.

Al confine tra i territori di Cosenza e Laurignano, nelle vicinanze della via Popilia, sorgeva un ospedale che assicurava la cura agli infermi e assistenza ai viandanti. Nel Liber emortualium della parrocchia di S. Oliverio Martire ricorre frequentemente un «hospedale» e lo «molendino dell’ospedale»[12]. La stessa fonte ci dà la conferma che la struttura esisteva ancora nella prima metà del Settecento. Nicola Valentini, rector della parrocchia, nel 1719, registrò la morte di una certa Perpetua Mauro in «domo ubi dicitur lo molendino dell’Hospedale» e quella di Giulia de Orangis avvenuta nel 1726 nello stesso luogo[13]. L’ospedale era la casa dei poveri – la domus pauperum –luogo dove accogliere e nutrire gli indigenti.

Lungo le principali vie di transito sorgevano anche ospizi, che esplicavano normalmente le stesse mansioni degli ospedali. In prossimità del fiume Busento, a ridosso della via Popilia, nella zona denominata oggi Molino Irto, è probabile che vi fosse un ospizio – o comunque una pertinenza di una struttura ricettiva – adibito a luogo di accoglienza per viandanti e pellegrini, oltre che per i diseredati delle zone limitrofe. La conferma ci è data dal Libro dei morti della parrocchia di S. Oliverio, nel quale sono registrati due atti assai significativi. Nel 1721, il parroco Valentini annotò la morte del ventitreenne Costantino Aiello, avvenuta «in ospitio», mentre dieci anni più tardi, nel 1731, nel Liber è riportato il decesso di Ursula Cubello «in feudo cujus Venerabile Hospitius», gestito «in emphjteusim in loco ditto il Ponte di Basento»[14].

Fino a quasi tutto il Settecento, i Registri parrocchiali ci danno la conferma che anche la struttura posta sul versante del Busento era attiva, abitata e gestita dai monaci Riformati, al servizio di quanti transitavano lungo la via pubblica che costeggiava il fiume. Gli ospedali e gli ospizi del Medioevo e dell’Età Moderna erano bettole di infima qualità, senza i comfort e le comodità di oggi. Le osservazioni del Russo in proposito appaiono quanto mai significative: «quando si parla di ospizi o ospedali o infermerie [...], bisogna allontanare l’idea che se ne ha oggi. In quei tempi infatti si trattava di ben misera cosa: due o tre stanzucce, generalmente addossate alla chiesa , maltenute, con tre o quattro letti, custodite da un salariato, che non si potrebbe nemmeno chiamare “infermiere”. Vi venivano ricoverati i poveri, i nullatenenti, i miserabili, che vi andavano malvolentieri, preferendo morire a casa propria, quando l’avevano. L’attrezzatura poi era poverissima e raramente apprestava rimedi alle malattie. Si capisce perciò come fino ai tempi moderni la mentalità popolare calabrese fosse quanto mai contraria al ricovero nei così detti ospedali»[15].

Il termine hospedale indicava l’edificio ove venivano ospitati poveri e pellegrini in transito. «L’ospedale – ha scritto Bronislaw Geremek – svolgeva la funzione di alloggio temporaneo degli stessi mendicanti e di punto di distribuzione delle elemosine»[16]. Essi avevano il compito del ricovero: offrire un posto per dormire e per la distribuzione periodica o giornaliera dei viveri. Oltre ai poveri itineranti – in primo luogo i pellegrini – gli ospedali e i ricoveri ospitavano i poveri che vi abitavano in pianta stabile[17].

Le rendite dell’ospedale derivavano da fitti di piccole case, da vigneti, dalla vendita di foglie di gelso. Nella “guida” più famosa di tutta la letteratura odeporica del Medioevo, il cosiddetto Liber Sancti Jacobi o Codex Calixtinus, si fa riferimento anche a pellegrini calabresi che si recavano a Compostela, in Galizia, per pregare dinnanzi alle reliquie di S. Giacomo[18]. In tale documento gli ospedali sono attestati come «luoghi santi, case di Dio, riconforto dei santi pellegrini, riposo degli indigenti, consolazione dei malati, salvezza dei morti e soccorso dei vivi»[19].  Edificare questi luoghi santi significava assicurarsi il regno di Dio. Grazie ad essi, i viaggiatori morti di fatica lungo la strada o uccisi dai briganti potevano godere di una sepoltura in terra benedetta, desiderio ardente fino all’ossessione nelle generazioni medioevali[20]. Non bisogna dimenticare che, nei secoli passati, le vie di comunicazione erano insicure, irte di difficoltà e di pericoli, popolate da malfattori che depredavano e razziavano quanti vi transitavano.

Le strade percorse dai pellegrini per raggiungere i luoghi di culto, per tutto il Medioevo, in Calabria, rimasero sostanzialmente gli antichi tracciati romani, la Popilia e le litoranee tirrenica e jonica.  Nella Capua-Reggio si immettevano numerose strade secondarie ed anche semplici diverticoli: insomma, un reticolo viario di adduzione sia ai centri abitati sia ai luoghi di culto, quindi funzionale alle pratiche votive e devozionali assai in voga nella regione e nel territorio laurignanese.

Non a caso i monasteri francescani della Stozza e di Granci vennero fondati a ridosso della «via publica», indicata per lo più come linea confinaria tra varie proprietà e attestata nelle fonti documentarie del ‘500. La via Popilia, viceversa, non compare in nessuno degli itineraria conosciuti, pur essendo tra gli assi viari più transitati di tutto il Medioevo[21]. Il territorio di Laurignano, per il fatto di essere un passaggio obbligato lungo l’importante arteria romana, non fu certo estraneo a queste dinamiche cultuali e religiose. Ma anche su questo fronte, purtroppo, siamo costretti a registrare una carenza di fonti sconfortante, che rende assai arduo il compito di collocare al posto giusto i tasselli di un mosaico tanto suggestivo quanto difficile da comporre.


[1] M. Tangheroni, Forme di insediamento e comunicazioni terrestri, in Le vie del Mezzogiorno. Storia e scenari, Roma 1998, p. 45

[2] M. Salerno, Domus degli Ospedalieri di S. Giovanni di Gerusalemme e vie di pellegrinaggio nel Mezzogiorno d’Italia, in Viaggi di monaci e pellegrini, a cura di P. De Leo, Soveria Mannelli 2001, p. 80

[3] N. Ferrante, Santi italo-greci in Calabria, Roma 1992, p. 37, nota 10

[4] F. Russo, Storia dell’Arcidiocesi…cit., p. 220

[5] Ibidem, p. 220

[6] ASCS, notaio Giordano, anno 1569, sch. 862

[7] H. C. Peyer, Viaggiare nel Medioevo. Dall’ospitalità alla locanda, Bari 2000, p. 130

[8] P. Dalena, Dagli Itinera ai Percorsi. Viaggiare nel Mezzogiorno medievale, Bari 2003, p. 148

[9] F. Russo, I Francescani Minori…cit., p. 84

[10] M. Salerno, Domus degli Ospedalieri…cit., p. 129

[11] F. Russo, Storia dell’Arcidiocesi…cit., p. 489

[12] ASCS, Liber emortualium

[13] Ibidem

[14] ASCS, Liber emortualium

[15] F. Russo, Medici, chirurghi e assistenza sanitaria in Calabria nel medioevo, in Mestieri, lavoro e professioni nella Calabria medievale: tecniche, organizzazioni, linguaggi, Atti dell’VIII Congresso Storico Calabrese, Palmi (RC) 19-22 novembre 1987, Soveria Mannelli 1993, p. 410

[16] B. Geremek, La pietà e la forca…cit., p. 36

[17] Ibidem, p. 34

[18] Per il pellegrinaggio compostellano dei calabresi si rinvia all’ottimo saggio di P. De Leo, Per un’indagine sul pellegrinaggio dei Calabresi a Santiago de Compostela, in Viaggi di monaci e pellegrini…cit., pp. 69-76

[19] P. Caucci von Saucken, Guida del pellegrino di Santiago, Milano 1989, p. 73

[20] R. Oursel, Pellegrini del Medioevo: gli uomini, le strade, i santuari, Milano 1979, p. 66

[21] G. Roma, Le vie dei pellegrini verso la Terra Santa: la via Annia o Popilia, in La via Popillia. Una strada da ripercorrere, Atti del convegno di studi Scigliano-Morano Calabro28-29 settembre 1996, Castrovillari 1999, p. 35

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