CARLO MARIA MARTINI: FELICE DI ESSERE ANCORA PASTORE – Intervista di Giuseppe Rampa

Martini  Carlo Maria guarda lontano

FELICE DI ESSERE ANCORA PASTORE

Intervista esclusiva al card. Martini

di Giuseppe Grampa

A 25 anni dalla consacrazione episcopale, l’arcivescovo emerito ricorda gli anni del suo magistero milanese: il terrorismo e Tangentopoli, ma anche la “fame” della Parola da parte dei giovani e l’attenzione ai non credenti.

«Sento di avere il mio gregge come prima, perché ogni giorno prego a lungo per i preti, i laici, le parrocchie, le iniziative diocesane. Mi sento ancora pastore solo che è cambiato il modo di esserlo: adesso il mio compito, importante, è quello dell’intercessione».

Quando non è a Gerusalemme, per quattro mesi l’anno il cardinal Martini vive a Galloro, cittadina sui Colli a sud di Roma, nella casa dei Padri Gesuiti. Qui lo incontro nel suo studio tappezzato di libri, sotto lo sguardo di una statua della Madonnina del Duomo di Milano. Dalle finestre, nei giorni limpidi si vede il mare.

La nostra conversazione inizia con il ricordo del giorno dell’Epifania, giorno della sua consacrazione episcopale, 25 anni fa…

“Di quel giorno ho un ricordo un po’ vago perché tante erano le emozioni. Ricordo di esser stato invaso da una grande esperienza dello Spirito, fonte di gioia e fiducia. Ricordo la preghiera prostrato a terra e l’invocazione dello Spirito e l’omelia del Papa Giovanni Paolo II: l’episcopato come sacramento della strada. Allora non capivo bene, poi l’ho compreso come impegno a percorrere le strade degli uomini, ascoltando e portando la fede e la speranza che è in noi”.

Nei primi tempi a Milano lei ha davvero percorso le strade della città…

Sì, avrei voluto una maggiore libertà di manovra nell’andare liberamente per le strade, nei negozi, a fare gli acquisti, visitare i miei preti in casa.  Poi vidi che non era possibile, perché ogni mio movimento doveva esser previsto… Il ricordo che mi è rimasto fin dall’inizio è quello di un grande desiderio della gente di vedere, incontrare il vescovo. E quindi da parte mio lo sforzo di rendermi il più possibile presente. Per questo ho dedicato molto tempo alla visita pastorale, percorrendo una volta l’intera diocesi e una seconda volta una buona metà. Ma in certi luoghi sono tornato spesso. Il prevosto di Sesto San Giovanni ha contato circa 50 mie visite in quella città.

Fin dai suoi primi giorni a Milano si è confrontato con il terrorismo…


Il giorno dopo il mio ingresso, era l’11 febbraio 1980, mi recai nella chiesa della Madonna di Lourdes e incontrai centinaia di malati. Alcuni giorni dopo, mentre ero in riunione, ricevetti la notizia dell’assassinio in Università Statale del giudice Galli. Decisi di recarmi subito e mi inginocchiai in quel corridoio dove giaceva a terra il corpo coperto da un lenzuolo. Fu il primo impatto diretto. Poi, purtroppo, l’esperienza si è ripetuta. Ricordo l’assassinio di Walter Tobagi.

Ricordo il clima di paura e di incertezza perché chiunque poteva esser colpito. Quello che apprezzai di Milano in quei giorni fu il coraggio, la resistenza civile, la voglia di non cedere. Di quegli anni ricordo un episodio che allora fece molto scalpore: la consegna al vescovo delle armi da parte dei terroristi. Quell’anno, per Natale avevo visitato i carcerati a San Vittore, anche alcuni dei cosiddetti irriducibili. Uno di loro mi chiese di battezzare il suo bambino che era nato in carcere in circostanze eccezionali. Dissi subito di sì, contro il parere di chi mi stava vicino e credo che quel gesto fu per loro molto significativo. Poco dopo numerose armi vennero consegnate in arcivescovado. Da allora l’attività dei terroristi si affievolì fino a ridursi a nulla.


Nei suoi anni Milano ha cambiato nome: è diventata Tangentopoli…


Furono anni molto difficili soprattutto per i casi di suicidio in carcere. Ricordo che quando fu arrestato Mario Chiesa ero in Terra Santa e dissi: “Si è aperto un tombino, ora si troverà una fogna”. Non avevo nessuna prova diretta di questa rete di corruzione, ma c’erano nell’aria segnali inquietanti. Fu un momento duro sia per la corruzione sia per certe forme di reazione alla corruzione. Parlando ai magistrati ricordo d’essermi chiesto se la reazione fosse stata sempre nei limiti della legge.

Quegli anni hanno conosciuto anche una singolare fame della Parola di Dio da parte dei giovani…Ricordo che un gruppo di giovani di Azione cattolica mi chiese di spiegare loro come pregare partendo dalla Scrittura. Proposi loro di ritrovarci in Duomo e io avrei risposto alla loro domanda. La prima sera scesi in Duomo con molto timore perché pensavo di trovare cento persone. Erano molte di più. La seconda sera, pensavo, saranno la metà. E invece erano il doppio e così crebbe il numero. Ogni volta che scendevo in Duomo non osavo guardare perché pensavo fosse vuoto, poi mi accorgevo che era pieno e prendevo coraggio. Imparai a capire quanto i giovani sono capaci di pregare e fare silenzio.


Nel suo magistero episcopale lei ha privilegiato l’ascolto della Parola rispetto alle prescrizioni. Il vescovo deve essere prescrittivo?

Certamente, ma il suo primo compito è quello indicato da san Tommaso là dove parla dell’obbedienza del Figlio al Padre nella Passione. Non comandò al Figlio di andare alla Passione, ma gliene infuse la grazia. Così il vescovo, prima di comandare deve ricolmare di Spirito Santo e dare le motivazioni profonde così che l’obbedienza diventi spontanea e gioiosa.

Il suo episcopato è stato caratterizzato anche da una singolare attenzione ai non credenti. Pensiamo alla Cattedra dei non credenti…

Mi sono sempre chiesto dove sono quelli che non vedo, quelli che non vengono in chiesa e ho cercato di arrivare a loro sia attraverso la Cattedra, ma anche con tanti scritti sulla stampa laica così da far sentire la voce del vescovo anche a coloro che non credono o non praticano. E mi ha stupito il fatto che tra le molte lettere che ho ricevuto lasciando la diocesi molte erano di non credenti o non praticanti che riconoscevano un qualche legame spirituale con il mio ministero. Questo mi ha molto confortato.

Lei non è stato certo un vescovo “notaio” che si limita a prendere atto delle più diverse esperienze che si ritengono suscitate dalla libertà dello Spirito. Lei ha proposto cammini precisi per la Chiesa diocesana non sempre recepiti dai diversi movimenti presenti in diocesi…

Non ho per nulla una concezione “notarile” del servizio episcopale. Mi pare che il vescovo deve anzitutto guardare Gesù e in Lui la Chiesa e da qui trarre il discernimento per la sua Chiesa. I cammini particolari dei diversi movimenti sono anch’essi sottoposti allo sguardo complessivo e unificatore del vescovo. Per me, vescovo, è sempre stato importante questo sguardo di sintesi secondo lo spirito del Vangelo giudicando ogni cosa alla luce del Discorso della Montagna.

Si ripete spesso, come uno stereotipo, che lei è persona schiva e riservata. Eppure ha saputo comunicare con efficacia…


E’ vero che sono persona schiva e riservata e vivo volentieri anche nella solitudine. Però quando c’è da incontrare la gente mi piace farlo. Forse il dono di comunicazione che mi viene attribuito è dovuto al fatto che non mi reputo molto intelligente, sono un po’ lento nel comprendere e faccio fatica. E quando parlo ad altri comunico loro il mio cammino di intuizione. Chi è troppo intelligente lancia le sue idee sulla gente come se le avessero già capite. Chi fa personalmente fatica sa comunicare agli altri questa fatica e quindi forse si spiega meglio.

Anche per lei, come per il beato cardinal Ferrari, fare il vescovo è stato «abisso di sofferenze»?


Ci sono certamente sofferenze soprattutto quando non si sa camminare secondo il Vangelo, ma sono stato molto aiutato, dai miei collaboratori e dalla gente. Mi sono sempre sentito un vescovo educato dal suo popolo. E’ stato un cammino arduo, in salita, ma come una bella salita in montagna dove si godono, con la fatica, grandi orizzonti.

Come vive adesso il suo essere vescovo “senza gregge”?

Sento di avere il mio gregge come prima, perché ogni giorno prego a lungo per i preti, i laici, le parrocchie, le iniziative diocesane. Mi sento ancora pastore solo che è cambiato il modo di esserlo: adesso il mio compito, importante, è quello dell’intercessione.

Martini abbraccia il successore Tettamanzi


«RICORDATEVI DEI VOSTRI CAPI…»

Lettera alla Diocesi

Nel 25° dell’Ordinazione episcopale e dell’Ingresso in Diocesi del cardinale Carlo Maria Martini e nel 50° dell’ingresso in Diocesi del cardinale Giovanni Battista Montini – Paolo VI

Card. Dionigi Tettamanzi

Carissimi presbiteri, diaconi, consacrati e fedeli laici della nostra Chiesa ambrosiana,

venticinque anni fa, il 29 dicembre 1979, l’indimenticato cardinale Giovanni Colombo così annunciava la nomina del suo successore: «Sedici anni or sono, Paolo VI, il nostro papa, volle affidarmi la cura di questa Chiesa, che fu sua, da lui appassionatamente amata… Un altro pastore adesso subentra nella stessa fatica. Gli uomini si succedono, ma “Gesù Cristo è lo stesso, ieri e oggi e nei secoli” (Ebr. 13, 8).

Chi è il vescovo che da questo momento attendiamo? Voglio essere il primo ad annunciarne il nome. Ce lo manda il papa Giovanni Paolo II e noi dal suo cuore lo riceviamo. È il Padre Carlo M. Martini, s.j., nato a Torino, il 15 febbraio 1927, rettore della Università Gregoriana. Riceverà l’ordinazione episcopale dalle mani del Santo Padre il 6 gennaio 1980, solennità dell’Epifania del Signore. Viene a noi col prestigio di una profonda cultura, specialmente biblica, e di una riconosciuta saggezza di governo».

Il venticinquesimo di episcopato del cardinale Carlo Maria Martini

Da quel momento, il nome dell’arcivescovo e poi cardinale Carlo Maria Martini – noto agli studiosi, ma sconosciuto ai più del popolo di Dio anche ambrosiano – divenne un nome familiare e il suo volto e la sua voce divennero “di casa” tra noi.

Ordinato vescovo nella Basilica di San Pietro il 6 gennaio 1980, dopo poco più di un mese, il 10 febbraio dello stesso anno, monsignor Martini fece il suo Ingresso nella nostra Diocesi. Da allora – come egli stesso ha scritto nel Messaggio per il giorno dell’Ingresso –, ricevendo l’Ordine episcopale, «la grazia del sacramento ha legato indissolubilmente la [sua] esistenza alla predicazione del Vangelo e al servizio della Chiesa, specialmente di questa Chiesa particolare» che è in Milano.

Così è stato davvero: dei suoi venticinque anni di episcopato, più di ventidue sono trascorsi interamente tra noi, come nostro pastore e mio amatissimo predecessore, e anche ora, nel volontario e orante ritiro di Gerusalemme, egli continua ad essere, a pieno titolo, figlio e padre della nostra Chiesa Ambrosiana, di cui è “Arcivescovo emerito”.

Con vero affetto di figli, in questo giubileo del suo episcopato, al carissimo cardinale Martini vogliamo esprimere tutta la nostra commossa e sincera gratitudine.

Lo ringraziamo per il servizio intelligente, appassionato e generoso vissuto tra noi; per averci aiutato a crescere come Chiesa degli Apostoli, come comunità cristiana tutta centrata sull’Eucaristia, chiamata a “ritornare a Dio”, a riconoscerne e a viverne il primato, a lasciarsi animare da una profonda dimensione contemplativa, totalmente dipendente dalla Parola del Signore, sollecitata e interiormente spronata dall’urgenza della missione, aperta alle esigenti e universali dimensioni della carità, in dialogo con il mondo e con tutti gli uomini di buona volontà.

Lo ringraziamo anche – e non meno! – per il legame che tuttora vive con la nostra Chiesa: un legame invisibile, ma reale e quanto mai forte e fedele, come è il vincolo di quella preghiera di intercessione, che anche in questi giorni sta vivendo nella città santa di Gerusalemme. Su questa sua preghiera, che ce lo fa sentire quanto mai vicino, noi tutti – e io per primo – contiamo molto, certi che, accompagnati da questa amorevole intercessione, potremo più speditamente camminare sulle strade del mondo, come pellegrini nella storia e testimoni di Gesù e del suo Regno, partecipi dell’unica missione della Chiesa.

Su questa stessa strada, il cardinale Martini è stato nostra guida e nostro pastore, fedele al mandato del Papa che, nell’omelia dell’Ordinazione episcopale, aveva presentato l’Episcopato come «il sacramento della strada… il sacramento delle numerose strade, che percorre la Chiesa, seguendo la stella di Betlemme, insieme con ogni uomo». È lo stesso Giovanni Paolo II che così lo ha mandato a Milano, tra noi, venticinque anni fa, quale «nuovo testimone della stella, di quella stella che conduce infallibilmente a Betlemme», per intraprendere insieme con tanti uomini la strada della vita, «per far loro vedere la stella, che in qualche parte ha cessato di splendere, in qualche parte si è smarrita… per mostrarla ad essi di nuovo!».

Il cinquantesimo dell’ingresso a Milano dell’arcivescovo Giovanni Battista Montini

Era ed è questa la strada percorsa con intrepido ardore apostolico anche dall’arcivescovo Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, che proprio cinquant’anni fa, il 6 gennaio 1955, faceva il suo solenne Ingresso in Diocesi, mandato a noi dalla benevolenza del papa Pio XII.

Giungendo da Roma ed entrando nel territorio della Diocesi a Melegnano, il 4 gennaio di quell’anno, monsignor Montini volle iniziare pubblicamente il suo personale incontro con la comunità che il Signore gli affidava con il gesto umile e grande del bacio della terra.

In questa terra – erede di un immenso patrimonio spirituale, irrorata dal sangue dei martiri e arricchita nel corso dei secoli dalla testimonianza dei suoi santi e pastori e di tanti uomini e donne dalla fede limpida e operosa – egli venne e visse animato da una profonda e instancabile passione: quella di essere annunciatore e testimone del Vangelo, perché ogni uomo e donna riconoscesse in Dio il volto del Padre e facesse della fede in Cristo il fortunato e indiscusso criterio orientatore di tutta la propria esistenza.

Così, infatti, – dopo aver attraversato la Città in macchina scoperta «in piedi, sotto alla pioggia, per vedere bene in viso tutti, per essere visto bene da tutti, per indicare, con gesto semplice, la sua spirituale dedizione a tutti», come si legge sulla cronaca del “Corriere della Sera” del giorno seguente – si era presentato ai milanesi il nuovo Arcivescovo in un Duomo gremito all’inverosimile: «Io non ho altro titolo al vostro interesse e alla vostra confidenza che il mandato della Chiesa che fra voi mi conduce, e di questo solo, su cui la mia fragilità e la mia debolezza trovano sostegno e riparo, io mi varrò. Apostolo e Vescovo io sono; Pastore e padre, maestro e ministro del Vangelo; non altra è la mia funzione fra voi; non diverso sia il giudizio che la vostra pietà mi riservi».

Così – per più di otto anni come nostro Arcivescovo a Milano e poi, per poco più di sedici anni a Roma come Pastore universale – ha vissuto Giovanni Battista Montini – Paolo VI. Unico – sono sempre sue espressioni, prese dal Discorso di Ingresso in Diocesi – è stato «l’oggetto delle sue fatiche pastorali, amministrative, culturali e sociali; quello di difendere e di diffondere la religione cattolica; quello cioè di fare salire da questa terra avventurata la lode e l’ossequio a Dio, e da Dio far discendere i doni che salvano le anime e la società che li riceve».

Da autentico innamorato di Cristo, appassionato “costruttore” di Chiesa, indomito amante dell’uomo e del mondo, il cardinale Montini si è fatto compagno di strada per ciascuno di noi.

A tutti ha indicato Cristo, come colui che è tutto per noi e che ci è necessario. Con la sua parola, la sua vita, la sua testimonianza, ci ha insegnato ad amare la Chiesa. Con la sua presenza e la sua disponibilità all’ascolto e all’accoglienza, con il dono di sé senza riserve, si è fatto prossimo ad ogni uomo: ai piccoli, ai deboli, ai sofferenti, agli ultimi, alle vittime dell’odio e dell’ingiustizia, come pure ai responsabili del progresso umano e della convivenza sociale, agli uomini della cultura e a quelli del lavoro, ai credenti come anche a coloro che sono in ricerca e a quanti sono indifferenti o lontani. A questi ultimi, fin dal giorno del suo ingresso, così egli si rivolse, con «un solo sentimento, un solo proposito… di paterno amore»: «Venite; ancora le braccia di Cristo sono a voi aperte; non temete».

Queste stesse parole sono anche per ciascuno di noi e ci indicano di nuovo la strada. È la strada di Cristo che si è fatto nostro fratello, che prendendo carne umana dal grembo della vergine Maria si è per sempre imparentato con noi, si è fatto nostro cibo di vita eterna, si è lasciato inchiodare sulla Croce per garantirci che il suo amore per noi non finirà mai.

Momenti per “fare memoria” e crescere in una fede missionaria

Lungo questa strada, risuona benefica per noi l’esortazione della Lettera agli Ebrei: «Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando attentamente l’esito del loro tenore di vita, imitatene la fede. Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!» (13, 7-8).

Tra questi “capi” ci sono i miei due amatissimi predecessori: il cardinale Montini, che è stato mio padre nel sacerdozio, e il cardinale Martini, mio padre nell’episcopato.

Noi tutti vogliamo ricordarli, con vero affetto filiale, nelle celebrazioni eucaristiche della prossima solennità dell’Epifania, cinquantesimo anniversario dell’Ingresso in Diocesi dell’arcivescovo Montini e venticinquesimo anniversario dell’Ordinazione episcopale del cardinale Martini. Per questo, chiedo che, nella preghiera dei fedeli di tutte le Messe di giovedì 6 gennaio 2005, vengano inserite le due invocazioni riportate in calce a questa mia lettera.

Del cinquantesimo dell’Ingresso di monsignor Montini in Diocesi io stesso farò memoria durante l’omelia del Pontificale che celebrerò in Duomo alle ore 11 della prossima solennità dell’Epifania.

Per il venticinquesimo di episcopato del cardinale Martini e del suo Ingresso in Diocesi, avremmo tanto voluto riunirci intorno a lui in Duomo nello stesso giorno dell’Epifania. Ma il cardinale Martini, che in questi giorni è a Gerusalemme, da me invitato, ha manifestato il desiderio che la celebrazione del suo giubileo episcopale venisse rimandata di qualche tempo. Essa avverrà nel prossimo mese di maggio in due momenti distinti, ai quali fin d’ora invito tutti a partecipare numerosi, come sono certo farete.

Il primo momento è domenica 8 maggio 2005, solennità dell’Ascensione del Signore, alle ore 19, nel Duomo di Milano: sarà lo stesso cardinale Carlo Maria Martini a presiedere una solenne Concelebrazione eucaristica per tutta la comunità diocesana, alla quale – secondo le indicazioni che verranno date a tempo opportuno – parteciperanno rappresentanze di tutte le parrocchie e delle diverse realtà ecclesiali della Diocesi.

Il secondo momento, particolarmente riservato ai Presbiteri e ai Diaconi, si svolgerà con una celebrazione, sempre presieduta dal cardinale Martini, alle ore 10.30 di martedì 10 maggio 2005, presso il Seminario di Venegono Inferiore, in occasione della tradizionale “Festa dei Fiori”.

Ciascuno di questi momenti è per “fare memoria”, con riconoscente gratitudine, del servizio svolto tra noi da questi nostri amati Vescovi e per imitarne la fede.

È questo che il Signore attende da noi. Il nostro, infatti, è un tempo, nel quale l’evangelizzazione e la fede sono il “caso serio” della Chiesa: lo sono per la nostra comunità ecclesiale nel suo insieme; lo sono per ciascuno di noi personalmente. È, dunque, un tempo nel quale – facendo tesoro anche degli insegnamenti e della testimonianza degli Arcivescovi che mi hanno preceduto su questa Cattedra di sant’Ambrogio e di san Carlo – siamo chiamati a rendere più matura la nostra fede e a rinnovare il nostro slancio missionario.

+ Dionigi card. Tettamanzi

Arcivescovo di Milano

Milano, 29 dicembre 2004.

Invocazioni per la Preghiera dei fedeli nella Solennità dell’Epifania 2005

Per il cardinale Carlo Maria Martini, che oggi ricorda il venticinquesimo anniversario di Ordinazione episcopale: il Signore continui ad accompagnarlo e a sostenerlo nel suo cammino e a noi, grati per il suo ministero nella nostra Chiesa, doni di accogliere il suo ripetuto invito a “ripartire dalla Parola”, così da «servire con amore e con gioia il nostro tempo “prendendo il largo” verso i mari aperti della storia» e da progredire, tutti insieme, nella via della santità, preghiamo.

Perché gli insegnamenti, gli scritti e la testimonianza del cardinale Giovanni Battista Montini – Paolo VI continuino a nutrire e ad accompagnare la nostra Chiesa e a farla crescere nell’amore a Cristo e all’uomo e ci inducano tutti a costruire la “civiltà dell’amore” e perché alla nostra Chiesa Ambrosiana e alla Chiesa intera sia presto concessa la gioia di poterlo venerare come beato, preghiamo.

GIOVANNI PAOLO II

CONSACRA VESCOVO

PADRE CARLO MARIA MARTINI S.J.


gennaio 1980 Messa per l’ordinazione episcopale
di mons. Martini

1. « Offrirono i doni…».

Con questo gesto i tre re magi dall’oriente portano a compimento lo scopo del loro viaggio. Esso li ha condotti per le vie di quelle terre verso le quali anche gli avvenimenti contemporanei spesso richiamano la nostra attenzione. La guida su queste vie per i tre re magi fu quella misteriosa stella «che avevano visto nel suo sorgere» (Mt 2,9), e che «li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino» (Mt 2,9). Proprio a questo bambino andarono quegli uomini insoliti, chiamati fuori dalla cerchia del popolo eletto verso le vie della storia di questo popolo.

La storia d’Israele aveva dato loro l’ordine di fermarsi a Gerusalemme e di porre – dinanzi a Erode – la domanda: «Dov’è il re dei Giudei che è nato»? (Mt 2,2). Infatti le vie della storia d’Israele erano state tracciate da Dio,e perciò era necessario cercarle nei libri dei profeti: di coloro cioè che a nome di Dio avevano parlato al popolo della sua particolare vocazione. E la vocazione del popolo dell’alleanza fu proprio colui al quale conduceva la via dei re magi dall’oriente.

Appena essi ebbero posto quella domanda dinanzi a Erode, egli non ebbe nessun dubbio di chi – e di quale re – si trattasse, perché, come leggiamo «riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia» (Mt 2,4).

Così dunque la via dei re magi conduce al messia, a colui che il Padre «ha consacrato e mandato nel mondo» (Gv 10,36). La loro via è anche la via dello Spirito. È soprattutto la via nello Spirito Santo. Percorrendo questa via – non tanto sulle strade delle regioni del medio oriente, quanto piuttosto attraverso i misteriosi cammini dell’anima – l’uomo è condotto dalla luce spirituale proveniente da Dio, raffigurata da quella stella, che seguivano i tre re magi.

I cammini dell’anima umana, che conducono verso Dio, fanno sì che l’uomo ritrovi in sé un tesoro interiore. Così leggiamo anche dei tre re magi, che giunti a Betlemme «aprirono i loro scrigni» (Mt 2,11). L’uomo prende coscienza di quali enormi doni di natura e di grazia Dio lo abbia colmato, ed allora nasce in lui il bisogno di offrirsi, di restituire a Dio ciò che ha ricevuto, di farne offerta come segno della elargizione divina. Questo dono assume una triplice forma – così come nelle mani dei tre re magi: «Aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra» (Mt 2,11).

2. L’episcopato, che oggi, venerati e amatissimi fratelli, riceverete dalle mie mani, è un sacramento in cui si deve manifestare in modo particolare il dono.

L’episcopato infatti è la pienezza del sacramento dell’ordine, mediante il quale la Chiesa apre sempre davanti a Dio il suo più grande tesoro – e da questo tesoro offre a lui i doni di tutto il Popolo di Dio.

Il più grande tesoro della Chiesa è il suo sposo: Cristo. Sia il Cristo deposto sul fieno in una mangiatoia, come pure il Cristo che muore sulla croce. Egli è un tesoro inesauribile. La Chiesa continuamente stende la mano a questo tesoro per attingere ad esso. E attingendo non lo diminuisce, ma lo aumenta.

Tali sono i principi della economia divina. Stende la mano, dunque, la Chiesa al tesoro della natività e della crocifissione, al tesoro della incarnazione e della redenzione. Ed attingendo ad esso, non impoverisce quel tesoro ma lo moltiplica.

Il Vescovo è l’amministratore, nello stesso tempo, di quell’attingere e di quel moltiplicare.

«E’ amministratore dei misteri di Dio» (1Cor 4,1). Non è soltanto un mago che cammina per le strade impraticabili del mondo verso la soglia del mistero. E’ collocato nel suo stesso cuore. Il suo compito è di aprire questo mistero ed attingere ad esso. Più generosamente attinge, più grandemente moltiplica.

Ricordate, carissimi, che lo Spirito Santo vi costituisce oggi in mezzo alla Chiesa affinché, attingendo abbondantemente al tesoro della natività e della redenzione, lo moltiplichiate con la vostra vita e il vostro ministero.

3. Da questo tesoro si trae sempre oro, incenso e mirra. Di tale triplice dono deve rivestirsi la vostra vita, dato che siete chiamati per offrire a Dio in Cristo e nella Chiesa il vostro amore, la vostra preghiera e la vostra sofferenza.

Tuttavia, essendo voi costituiti in mezzo al Popolo di Dio come Pastori ed insieme come servi, il vostro dono personale deve crescere in questo popolo. Fecit eum Dominus crescere in plebem suam. La vostra vocazione è il dono di tutto il popolo.

Ognuno di voi deve rimanere il pastore ed il servo di quest’amore, della preghiera e della sofferenza, che si elevano da tutti i cuori a Dio in Cristo. Tali doni non debbono essere sprecati né andare perduti. Essi debbono invece trovare la strada per Betlemme come i doni nelle mani dei magi, che seguirono la stella dall’oriente.

Ogni Vescovo è l’amministratore del mistero e il servo del dono che si prepara incessantemente nei cuori umani. Questo dono proviene dalle esperienze della generazione alla quale il Vescovo stesso appartiene. Proviene dalla vita di centinaia, migliaia e milioni di uomini, suoi fratelli e sorelle. Egli stesso, il Vescovo, è il servo del dono. Colui che custodisce e che moltiplica.

Dovete penetrare profondamente in tutta la complessità della vita degli uomini contemporanei, affinché ciò che la costituisce non si scomponga nelle loro opere, nei cuori, nelle relazioni sociali, nelle correnti di civilizzazione, ma ritrovi costantemente il suo senso come dono. E’ Cristo stesso Pastore e Vescovo delle nostre anime, di tutto ciò che è umano. che vuole fare di noi un sacrificio perenne gradito a Dio (cf. Prex Eucharistica III ), un dono al Padre.

Il Vescovo è colui che custodisce il dono, è colui che risveglia il dono nei cuori, nelle coscienze, nelle esperienze difficili della sua epoca, nelle sue aspirazioni e nei suoi smarrimenti, nella sua civilizzazione. nell’economia e nella cultura.

4. Oggi vengono a Betlemme i tre magi dall’oriente. Giungono per la strada della fede. Dell’episcopato non si può forse dire che esso è un sacramento della strada? Voi ricevete questo sacramento per trovarvi sulla strada di tanti uomini, ai quali vi manda il Signore; per intraprendere insieme con loro questa strada, camminando, come i magi, dietro la stella; e quanto spesso per fare loro vedere la stella, che in qualche parte ha cessato di splendere, in qualche parte si è smarrita… per mostrarla ad essi di nuovo!

Entrate anche voi, cari fratelli, su questa grande strada della Chiesa, che è tracciata dalla successione apostolica alle singole sedi vescovili.

E che cosa dire qui della meravigliosa, ricca successione alla sede di sant’Ambrogio, e poi di san Carlo a Milano? Essa risale, press’a poco, ai primi decenni del cristianesimo e abbonda in vescovi martiri… e, solo nel nostro secolo, ha dato alla Chiesa due papi: Pio XI e Paolo VI.

E’ qui presente il cardinale Giovanni Colombo, che ha ricevuto questa sede di Milano proprio dopo Paolo VI, l’allora cardinale Giovanni Battista Montini, per trasmetterla oggi, quando si affievoliscono le sue forze, al suo successore. Con gioia la Chiesa di Milano saluta questo successore, degno figlio di sant’Ignazio, stimato rettore del Biblicum e poi dell’Università Gregoriana a Roma.

Con gioia e fiducia la Chiesa di Milano saluta colui che deve essere il suo nuovo Vescovo e Pastore, il nuovo amministratore del dono, di cui ho parlato, e il nuovo testimone della stella, di quella stella che conduce infallibilmente a Betlemme. [...]

5. L’episcopato è il sacramento della strada. È il sacramento delle numerose strade, che percorre la Chiesa, seguendo la stella di Betlemme, insieme con ogni uomo.

Entrate su queste strade, venerati e cari fratelli, portate su di esse oro, incenso e mirra. Portateli con umiltà e con fiducia. Portateli con prodezza e con costanza. Mediante il vostro servizio si apra il tesoro inesauribile a nuovi uomini, a nuovi ambienti, a nuovi tempi, con l’ineffabile ricchezza del mistero che si è rivelato agli occhi dei tre magi, venuti dall’oriente, alla soglia della stalla di Betlemme.

ALZATI E VA’ A MILANO, LA GRANDE CITTÀ

Il primo giorno nei ricordi di mons. De Scalzi

di Erminio De Scalzi
Vescovo ausiliare e vicario episcopale Milano città

Ricordo come fosse ieri quel 10 febbraio del 1980. Era una giornata invernale, fredda, ma ricca di tanto calore e di sincera accoglienza. Fu un ingresso singolare: a piedi, dal Castello al Duomo, tra la gente, col Vangelo in mano.

A 25 anni di distanza l’icona di un vescovo che percorre la sua città con il Vangelo in mano resta fissa nella mente e nel cuore di ciascuno di noi e definisce, sopra ogni altra cosa, l’azione pastorale del cardinal Martini.

Don Giuseppe Dossetti, in quel giorno, scriveva all’amico padre Martini, divenuto arcivescovo di Milano, questo biglietto d’auguri: «Milano, ascolti da Lei il Vangelo, nient’altro che il Vangelo». Fu profeta. Il primo incontro con la città avvenne in Sant’Eustorgio. L’Arcivescovo vi arrivò in auto dopo alcuni giorni di ritiro spirituale a Rho nella Casa dei Padri Oblati. Fu una accoglienza semplice, ma molto affettuosa quella della gente del Quartiere Ticinese.


Il nuovo Arcivescovo, in un breve ed emozionato saluto, rispose rifacendosi al Libro degli Atti al cap. 28: «I cristiani appena avvertiti del nostro arrivo ci vennero incontro. Paolo, appena li vide, ringraziò il Signore e si sentì incoraggiato».


Pochi minuti dopo, in Duomo, nella sua prima omelia, aggiungerà: «Ora la mia vita è legata in maniera indissolubile a quella del generoso popolo ambrosiano, gente che lavora sodo e che dentro di sé ha una grande potenzialità di amore».


L’arrivo in piazza Castello fu salutato da tantissime persone, fra queste moltissimi giovani che hanno camminato con lui fino al Duomo. Tantissimi gli sguardi incuriositi, fissi sul nuovo Arcivescovo, sulla sua figura di uomo imponente e fine, raccolta in un mantello nero che lo avvolgeva tutto facendolo sembrare ancora più grande. Le cronache di allora parlano di decine di migliaia di milanesi accorsi a salutare il nuovo Arcivescovo.


Il cammino fu di meditazione e di preghiera. Nel sussidio preparato per l’occasione si leggeva: «La Chiesa di Milano, che accoglie il suo nuovo Arcivescovo monsignor Carlo Maria Martini, chiede a Dio di essere benedetta nella sua laboriosità, nella sua apertura alla sofferenza, nella sua volontà di costruire la pace».


Le tre soste di riflessione lungo il cammino anticipavano già alcune linee di fondo del suo ministero: l’attenzione alla città. A Milano che dà lavoro a tanta gente, anche di Paesi lontani, perché rispettosa dei diritti di tutti, non perda il suo volto umano e si sviluppi nella giustizia e nella fraternità; la vicinanza ad ogni sofferenza. L’invito era a uscire dal proprio egoismo per farsi prossimo a chi è povero, malato, disoccupato, carcerato, emarginato; la passione per la pace.

«Dobbiamo – diceva l’Arcivescovo – diventare tutti operatori di pace, ripercorrere la strada dell’amore e della fratellanza e contribuire alla ricostruzione di questa città». Queste ultime parole sembravano presagire l’esplosione dell’emergenza-terrorismo che, a pochi giorni dal suo ingresso, avrebbe portato l’Arcivescovo accanto a numerose vittime della violenza.


L’arrivo in piazza Duomo fu salutato da un fragoroso applauso. Poi tutto si fece più raccolto, più intimo, in quella prima Eucaristia celebrata dall’Arcivescovo. I milanesi si accorsero subito della serietà che il loro Arcivescovo avrebbe sempre annesso a ogni momento di preghiera.

Da quel giorno, infatti, l’Arcivescovo ci ha sempre educato a pregare, anche con il suo atteggiamento. Quella stessa sera ci fu un incontro, fuori programma, con i giovani. Chiamando a gran voce l’Arcivescovo, riuscirono a farlo apparire ad una finestra di piazza Fontana. Uno di loro gli regalò un paio di pantofole per riposarsi della camminata dell’ingresso.

La notte scese presto sulla città: il Duomo si illuminò come succede per le occasioni più solenni. I milanesi erano felici di avere un nuovo Arcivescovo così affabile, così umano. Anche l’Arcivescovo, quella sera, avrà avuto tante cose da confidare al Signore nel raccoglimento della sua preghiera.

Chi vi racconta queste cose era alla sua prima giornata di segretario personale dell’Arcivescovo. Anche lui aveva vissuto tante emozioni. Due mi avevano colpito: entrando in Milano, l’Arcivescovo mi aveva chiesto che gli mostrassi il carcere di San Vittore. Da lì volle partisse la sua prima visita pastorale: questa sua attenzione agli ultimi sarà una delle preoccupazioni pastorali che avrebbe accompagnato il suo ministero fra noi.


La seconda richiesta fu di chiamare al telefono, quella stessa sera, il cardinale Giovanni Colombo, lontano da Milano per un periodo di riposo. Non so cosa si siano detti, posso solo immaginarlo. In quel momento ebbi però chiara la percezione della finezza d’animo del nuovo Arcivescovo.

Quanto avvenne nei 22 anni successivi fu la conferma di quanto i milanesi avevano intuito già da quel primo incontro.

Grazie, Eminenza, non scorderemo mai!

UN VESCOVO MAI STANCO DI ASCOLTARE

La Parola di Dio e quella degli uomini in modo benevolo, paziente e misericordioso

Paolo Cortesi
già segretario del cardinal Martini

Stendere alcune impressioni “a caldo” dopo la visita del Cardinale nel decanato di Legnano, appena conclusa e che è stata anche l’ultima, non è facile. Questo aspetto del ministero del vescovo è il più importante: egli è coinvolto in vario modo, ma sempre totalmente nel contatto con la vita delle parrocchie, sta in mezzo alla sua gente: laici, sacerdoti; incontra varie realtà ecclesiali: consigli pastorali e degli affari economici, catechisti, educatori fino al momento culminante della visita che è la celebrazione dell’Eucaristia.

Nel desiderio di far fronte ai numerosi impegni, di non trascurare nessuno e essere sempre più il Pastore che cammina con il suo popolo, l’Arcivescovo ha cambiato in questi anni il modo di condurre la visita pastorale.

Come segretario dal 1983 al 1990 ho avuto il dono e l’incombenza di programmare e preparare la visita in centinaia di parrocchie completando 22 decanati. In quegli anni l’Arcivescovo presiedeva personalmente tutti gli incontri in ogni parrocchia.

Nell’esperienza vissuta però da me dall’altra parte delle “barricata”, non come, in certo qual modo, visitatore, ma da visitato, mi sono accorto del cambiamento quanto al tempo della sua presenza, ma non all’intensità e alla profondità del suo personale coinvolgimento.

Infatti fin dalla prima sera (9 novembre 2001), all’apertura della visita pastorale nell’incontro con tutti i consigli pastorali del decanato, ho subito percepito di essere davanti a un uomo che, mentre spiegava il senso e la modalità di preparazione della visita, fondandola con abbondanza di testi della Scrittura e proponendola, perciò, come un evento innanzitutto spirituale, manifestava una freschezza, una vivacità interiore, direi quasi un entusiasmo, come se fosse alla sua prima visita.

Mi sono accorto che egli ha saputo mantenere viva la fiamma interiore della gioiosa consapevolezza di compiere un servizio come risposta a una chiamata, di amare il Signore dedicandosi, senza risparmio, alla crescita del suo popolo.

Alcuni mesi dopo quel primo incontro ho visto in televisione l’intervista di Enzo Biagi all’Arcivescovo. Alla domanda del giornalista: «Cos’è la virtù più grande di un prete?», l’Arcivescovo rispondeva: «Per me, direi: è l’ascolto; l’ascolto della Parola di Dio, l’ascolto degli uomini, l’ascolto benevolo, paziente e misericordioso».

Credo di trovare proprio in queste parole, che rivelano un costante atteggiamento interiore, la sorgente di quella freschezza e vivacità. L’Arcivescovo è l’uomo che non si è mai stancato di ascoltare. L’ascolto è oggi la forma forse più richiesta di prossimità e quella più difficile da trovare. Ascoltare è accogliere in sé l’altro, la sua storia fatta di gioie e di croci. Ascoltare è calarsi senza preconcetti nelle situazioni per sapervi scorgere la mano e il disegno di Dio. Ascoltare è accostarsi con il cuore e con gli occhi di Dio, che sa vedere le ferite nascoste dei singoli e delle comunità, ma che nello stesso tempo le sa guarire e sa invitare a guardare avanti facendo crescere, senza scoraggiamenti, il bene, il positivo presente ovunque.

E’ questo l’ottimismo che nasce dall’ascolto della Parola di Dio a lungo studiata, meditata, pregata e che conduce e forma all’ascolto dell’uomo. Ottimismo che si è percepito presente nell’incontro, in modo particolare per quel che riguarda la mia comunità, con il consiglio pastorale, durante il quale l’Arcivescovo ha dato prova di saper cogliere il bene e stimolarlo, e tuttavia indicare anche mete ancora da raggiungere e ritardi da eliminare non nascondendo le difficoltà, rivelandosi così capace di cogliere prontamente e animare il vissuto di una comunità.

Sono certo che sia proprio da questo costante esercizio di sintesi tra ascolto di Dio e ascolto dell’uomo e delle urgenze di una comunità, che nascono quelle proposte e intuizioni spirituali e pastorali caratterizzanti il magistero dell’ Arcivescovo, come un continuo richiamo a camminare fiduciosi e a guidare la vita di una comunità su sentieri di santità.

L’Arcivescovo come maestro di vita interiore, che esorta alla santità, alla «misura alta della vita cristiana ordinaria» (ha usato le parole di Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte), la gente l’ha percepito non solo durante l’omelia, ma direi soprattutto attraverso il suo modo di pregare, di celebrare, un modo che educa all’incontro con Dio e che introduce nella profondità del mistero. È ciò che deve fare ordinariamente un parroco in mezzo alla sua comunità. È ciò che l’Arcivescovo, come semplice parroco che passa di parrocchia in parrocchia, ha fatto nei molti, fecondi e non sempre facili anni del suo ministero a Milano.

Così tutti lo abbiamo sentito, accolto e amato. E proprio maestro di vita spirituale l’Arcivescovo si è rivelato ancora una volta nell’incontro con i sacerdoti concludendo la visita pastorale a Busto Garolfo. Commentando Giovanni 21, in modo particolare i versetti dal 13 al 23, siamo stati nuovamente invitati a camminare verso la santità, vista come meta da raggiungere non a forza di braccia, ma attraverso la purificazione che Dio opera anche mediante le difficoltà e talora le aridità del ministero.

In quel periodo ho lasciato la parrocchia per un altro incarico, e l’Arcivescovo mi ha detto: «Lasciamo insieme». Sì, lasciamo insieme. Ma ciò che egli mi ha posto nel cuore, e non solo nel mio, in questi lunghi anni di consuetudine di vita, è un seme che ha messo radici profonde e perciò continuerà a portare frutto.

Ratzinger: così conobbi Martini…

«UN INSTANCABILE MAESTRO DELLA “LECTIO DIVINA”»

Il testo del cardinal Ratzinger è ripreso da “Carlo Maria Martini da 15 anni sulla cattedra di Ambrogio”, Edizioni S. Paolo, Milano 1995, pp. 101-103

Pubblichiamo un testo scritto nel 1995 dall’allora Card. Joseph Ratzinger sul cardinale Carlo Maria Martini, allora Arcivescovo di Milano, in occasione del suo 15° anniversario di ordinazione episcopale.

di Joseph card. Ratzinger

Conobbi per la prima volta Carlo Maria Martini come specialista di critica testuale neotestamentaria. Accanto a Kurt Aland e altri, l’attuale arcivescovo di Milano figura, infatti, tra i curatori della ventiseiesima edizione del testo Nestle del Nuovo Testamento apparsa nel 1979. Ricordo ancora che Heinrich Greeven, professore di Nuovo Testamento presso la facoltà evangelica di Bochum ed egli stesso autore di una sinossi greca del Nuovo Testamento, mi manifestò il suo grande stupore per il fatto che un uomo tanto colto come Martini avesse accettato il ministero di vescovo. Era per lui incomprensibile che uno specialista di quel livello, esperto conoscitore di lingue e manoscritti biblici, potesse dedicarsi al compito di pastore, con le esigenze tanto nuove che questo incarico comportava, andando così perso per il mondo scientifico, che pure non poteva contare su molti altri specialisti tanto qualificati in questo difficile settore. Non riusciva a capire come una simile specializzazione potesse aprire una strada per l’annuncio e, dunque, per l’attività pastorale.

D’altra parte, se penso a diversi nostri esegeti della prima metà di questo secolo, posso comprendere pienamente il senso di queste riflessioni. Non raramente, infatti, si è avuta una riduzione dell’esegesi alla critica testuale e alla filologia, che a malapena lasciava qualche spazio all’autentico messaggio della Bibbia. La problematica del linguaggio, sicuramente importante, faceva passare in secondo piano la questione del senso. La parola della Bibbia, proveniente dal passato, restava così prigioniera del passato. La sua attualità non era messa a tema: porre delle domande al riguardo era considerato non scientifico.

Due anni più tardi, in occasione della Pasqua del 1981, quando mi capitò tra le mani la traduzione tedesca del libro di Martini “Vita di Mosè-Vita di Gesù. Esistenza pasquale”, ebbi modo di capire come, al contrario di posizioni di quel genere, nel caso di Martini l’esegesi e la pastorale fossero tra loro congiunte. In quel piccolo libro trovai quella capacità di rendere attuale la parola biblica, che sempre avevo auspicato. Gli aspetti più propriamente specialistici dell’esegesi erano stati messi da parte, tuttavia non si poteva non riconoscere che essi erano ben familiari all’autore.

La competenza dello specialista veniva però sottratta a quel suo isolamento che, non di rado, fa sì che la Scrittura non riesca a risalire la china dei secoli. In tempi recenti, quando ci si è resi conto di questa carenza, si sono spesso tentate attualizzazioni arbitrarie e prive di adeguato fondamento. Si percepisce così solamente la voce dello studioso; la Bibbia finisce con l’illustrare solo le sue opinioni, invece di offrire qualcosa di proprio e di nuovo, che non proviene da noi stessi. Nelle sue letture della storia di Mosè, Martini recepisce le interpretazioni dei Padri e dei rabbini. In questa storia della recezione si rispecchiano interpretazioni applicative del testo che, indubbiamente, non sempre reggono dal punto di vista storico-critico; esse, tuttavia, sono in grado di rivelare qualcosa di quel dinamismo spirituale che si cela nella storia.

Così si apre il messaggio interiore della figura di Mosè: la guida di Israele durante l’esodo parla con noi; nel suo itinerario e nei suoi destini si rispecchiano le grandi domande dell’esistenza credente. La tipologia Mosè-Cristo perde ogni carattere artefatto; corrispondenze e analogie interiori si rendono manifeste. Il contesto vitale cristiano e giudaico, a partire dal quale Martini coglie quella figura, viene contemporaneamente a porsi come un contesto mediato in modo fortemente personale: le tentazioni e le sofferenze, il cammino e gli smarrimenti di questo grande testimone di Dio si rivelano come esperienze originarie dell’uomo, che hanno a che fare con la nostra personale lotta per la fede e che ci mostrano la via che dalla “vita inautentica” conduce alla gioia: Mosè diviene così, in modo molto personale, la guida per questo esodo dall’inautentico all’autentico.

Ecco perché mi sono rallegrato di poter finalmente conoscere di persona l’autore di queste meditazioni sulla Sacra Scrittura, che erano divenute per me una compagnia del mio personale cammino spirituale. Non ricordo bene quando ci siamo incontrati per la prima volta. In ogni caso, dopo essere divenuto prefetto della Congregazione per la Fede, ho ritenuto indispensabile che Martini diventasse membro di questo dicastero. Così, per partecipare alle riunioni dei cardinali di questa congregazione, che si svolgono il mercoledì, egli viene da Milano, ogni volta che vi si discute un tema importante.

Nessuno si meraviglierà se dico che noi non siamo sempre stati dello stesso parere. Per temperamento e per formazione siamo senza dubbio molto diversi l’uno dall’altro. Le mie prime esperienze religiose risalgono al periodo in cui Romano Guardini riteneva a buon diritto una priorità assoluta il “distintivo cristiano”, l’ Unterscheidung des Christlichen (così si intitolava una sua opera del 1935). Negli anni della ricostruzione, subito dopo la guerra, questo compito poteva sembrare meno necessario. Si richiedeva allora la collaborazione di tutti; la fede cristiana doveva anzitutto dimostrare di saper offrire delle solide fondamenta a un nuovo sistema di vita in un mondo che era cambiato; doveva, inoltre, dimostrare la propria capacità di offrire un contributo per il cammino verso il futuro a una società in cui il pluralismo era divenuto un fatto irreversibile.

Tuttavia, dopo che a partire dal 1968 era sorto il pericolo di fondere l’escatologia con l’utopia, riducendo così la fede a una prassi di trasformazione del mondo, si rendeva nuovamente necessaria la ricerca del tratto distintivo del cristianesimo (Unterscheidung des Christlichen), non per rinchiuderlo tra le mura del ghetto ma per salvaguardare il suo dinamismo, che supera il tempo per giungere all’eterno. Fu questa l’esperienza da me vissuta negli anni Settanta all’interno delle università tedesche, in cui mi incontravo con colleghi di tutte le facoltà, anche con quelli che non erano cattolici o forse nemmeno cristiani credenti.

Mi pare che le esperienze di Martini nella formazione di giovani sacerdoti provenienti da tutti i continenti fossero di altra natura: qui si rendevano maggiormente possibili forme diverse di mediazione, sintesi d’ampio respiro; si trattava di scandagliare le possibilità ancora inesplorate della realtà cattolica.

In ogni caso, queste due posizioni non si escludono affatto; al contrario, esse si integrano e completano a vicenda. Ecco perché ho sempre considerato un arricchimento e un aiuto i voti del Cardinale Martini, anche laddove io non potevo condividerli senza riserve: posizioni e accenti differenti sono necessari per permetterci, a partire da aspetti diversi, di avvicinarci al compito complesso della Chiesa in questo tempo e di tentare, più o meno, di svolgerlo.

Del fatto che, pur da differenti punti di partenza, vogliamo la stessa cosa, siamo divenuti ambedue pienamente consapevoli quando, circa tre anni fa, io parlai a un corso per vescovi da poco ordinati, su invito del cardinale Martini, allora presidente della conferenza dei vescovi europei. Dovevo dire qualcosa su come un vescovo possa tenersi aggiornato dal punto di vista teologico e mantenere la propria capacità di giudizio, anche di fronte al sovraccarico di impegni pratici che grava su di lui e malgrado il fatto che l’ambiente teologico sia oggi caratterizzato da trasformazioni rapide e da un pluralismo che possono generare confusione. Cercavo anche di mostrare che il vescovo non può certo essere un “tecnico” della teologia, un esperto di tutte le sue complesse problematiche, dato che, in ogni caso, non è nemmeno questo ciò che davvero importa ma, piuttosto, qualcosa di totalmente diverso: che egli sappia distinguere tra fede e mancanza di fede. Il suo compito non è quello di giudicare le teorie teologiche. Deve però possedere il “senso della fede” e saper riconoscere dove la teologia parla a partire dalla fede e dove essa si distacca dalla fede. Ciò implica che, in primo luogo, sia lui stesso un uomo di fede e “impari” sempre più profondamente la fede.

D’altra parte, l’aiuto essenziale per tutto ciò è la “lectio divina”: una confidenza sempre nuova e sempre da approfondire con tutta la Sacra Scrittura, letta nel contesto della fede e della preghiera, che si nutre della liturgia della Chiesa. Con questo accento posto sulla “lectio divina” come cuore della formazione sacerdotale (ed episcopale) mi incontrai appieno con l’Arcivescovo di Milano, che è per i suoi sacerdoti e per la sua diocesi un instancabile maestro della “lectio divina” e che, con i suoi libri, riesce a introdurre noi tutti in essa in modo sempre nuovo.

Per questa guida spirituale vorrei oggi esprimere il mio ringraziamento, e insieme il desiderio che egli continui a indicarci la strada di un accostamento credente alla parola di Dio nella Bibbia.

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