02 – LA SOFFERENZA DEL GIUSTO – Luca Beato o.h.

  

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LA SOFFERENZA DEL GIUSTO

IN SANT’ AMBROGIO

 

Luca Beato o.h.

 

Fra Luca Beato o.h.-1La sofferenza, in qualunque forma colpisca l’essere umano, è già di per se uno scandalo. Sono molti i filosofi che si sono posti questo problema:

  • Perché Dio nella sua sapienza e potenza infinita ha creato un mondo in cui esiste il male e la sofferenza per l’uomo?

  • Non poteva creare un mondo migliore di questo?

  • E perché poi la vita umana è destinata alla morte?

  • Perché “nihil durare potest tempore perpetuo” come è scritto su una casa di Pompei dissepolta dalla cenere del Vesuvio?

 

Per i filosofi le risposte sono varie: c’è chi nega l’esistenza di Dio e attribuisce tutto al caso; chi concepisce Dio come un essere totalmente spirituale che non si mescola con le cose materiali, altrimenti sarebbe compromessa la sua felicità. Egli non ha creato il mondo e l’uomo direttamente, ma mediante un essere intermediario (il demiurgo secondo Platone). Ma poi ha abbandonato il mondo e l’uomo al loro destino e non si cura più di loro.

 

Nell’Antico Testamento, prime pagine della Genesi, c’è la narrazione della creazione del mondo e dell’uomo da parte di Dio, fatta così naturalmente e semplicemente, senza polemiche con altre religioni e correnti filosofiche che la pensano diversamente o che ricorrono a narrazioni mitologiche per spiegare l’origine del mondo e dell’uomo. Inoltre si fa una teodicea, cioè una difesa di Dio: Egli ha creato il mondo e l’uomo in condizioni ottimali. La sofferenza e la morte sono entrate nel mondo a causa dell’uomo perchè ha voluto emanciparsi da Dio. Solo in seguito al Concilio Vaticano II, gli esegeti, esperti della Bibbia, sono venuti a dirci che il mito di Adamo ed Eva è eziologico, ossia esplicativo della situazione esistenziale: vedendo la situazione di sofferenza in cui versa l’umanità, la Bibbia cerca di darne una spiegazione, assolvendo completamente Dio e gettando la colpa sul comportamento sbagliato dell’uomo.

 

Inoltre, aggiungono, il mito di Adamo ed Eva non riguarda solo loro due, intesi come persone singole, capostipiti di tutta l’umanità, ma riguarda ciascuno di noi, che siamo chiamati come loro, all’età della ragione, a fare la scelta del bene o del male. Nei libri dell’Esodo e del Deuteronomio si narra che Dio ha stretto un’Alleanza con il popolo ebreo, appena liberato dalla schiavitù dell’Egitto. Dio promette la sua protezione perché il popolo possieda una terra in cui vivere libero e felice. Però chiede al popolo l’impegno di osservare la Legge. Si stabilisce quindi la triade: Dio, il Popolo e la Terra. La protezione di Dio riguarda la vita presente. Solo tardivamente si apre la prospettiva chiara della vita futura (Libro dei Maccabei).

 

L’Alleanza-impegno sottende la convinzione che Dio premia i buoni e castiga i cattivi e per fare questo non aspetta il giorno del giudizio finale. Questa mentalità soggiace a qualsiasi religione, anche a quella cristiana: era viva al tempo di Sant’Ambrogio e resiste ancora adesso. Per questo motivo quando la gente vede un malvagio che viene punito o cade in disgrazia, o è vittima di un incidente, o è colpito da un brutto male, dice in cuor suo: “Ben gli sta”. Se invece qualche credente in Dio è colpito da disgrazie, malattie o è vittima di soprusi o di incidenti, eccetera gli viene spontaneo sbottare: “Che cosa ho fatto io di male perché Dio mi abbia a colpire così?” E le persone che lo conoscono e lo stimano per la vita impegnata che ha condotto, per le iniziative benefiche che ha realizzato, pensano che Dio sia ingiusto e ne restano scandalizzate.

 

La sofferenza del giusto

Se già la sofferenza esistente nel mondo fa scandalo, ancor più fa scandalo la sofferenza del giusto, sia essa dovuta a cause naturali, incontrollabili da parte dell’uomo, sia ancor più se è procurata dai malvagi nei confronti dei giusti. In questo caso poi grida vendetta al cospetto di Dio. Nel libro dell’Apocalisse i cristiani perseguitati invocano l’intervento di Dio che vendichi il sangue dei martiri versato per la fede in Cristo e giudichi l’umanità premiando i buoni e castigando i cattivi. E pregano Dio di fare in fretta perché non ne ce la fanno più a tollerare la situazione della prosperità dei persecutori

iniqui e la sofferenza dei giusti perseguitati.

 

Ma Dio dimostra di non avere alcuna fretta, la venuta di Cristo, quando già sembra imminente, viene rimandata un’infinità di volte… però alla fine Egli arriva con la sua potenza e la sua gloria a fare giustizia, sbaragliando i propri nemici e coinvolgendo i martiri nella sua gloria per sempre.

 

Al tempo di Sant’Ambrogio la medicina era quasi inesistente. Bisogna aspettare il 1800 per avere le prime scoperte scientifiche e quindi sapere che le malattie sono causate dai germi patogeni. A quei tempi si attribuiva la causa a Dio o, meglio ancora, agli spiriti malvagi. La cura delle malattie, per conseguenza, consisteva in una benedizione del Signore con invocazione di aiuto o, meglio e più di frequente, si praticava un esorcismo contro lo spirito maligno che si riteneva responsabile della malattia. Fino al Concilio Vaticano II tutte le benedizioni, contemplate nel Rituale in latino, per il pane, per la frutta, eccetera consistevano in un esorcismo volto a scacciare gli spiriti maligni capaci di procurare il mal di pancia o qualcosa di peggio.

 

Questa mentalità persiste nelle religioni animiste e feticiste esistenti, ancora adesso, in tante parti del mondo. I nostri missionari in Africa ne danno testimonianza: quando una persona si ammala si rivolge allo stregone guaritore. Quando però lo stregone si accorge che il malato sta per morire, solo allora permette che vada all’ospedale dei Fatebenefratelli, dicendo: “Prova i fetiches dei bianchi se magari hanno qualche potere superiore ai nostri fetiches”. Nelle malattie e nelle tribolazioni della vita si pensava subito a Dio, al diavolo, ai demoni, al peccato originale e

personale.

 

Sant’Ambrogio affronta direttamente il problema della sofferenza e malattia del giusto in diversi contesti: nella Expostio in Lucam; nel De officiis ministrorum; nella Interpellatio S.Iob II; nella Interpellatio David I. Per brevità ci limitiamo a considerare l’Interpellatio S.Iob II e l’Interpellatio David I. La sofferenza del giusto Giobbe Dio ha colpito Giobbe con molte disgrazie: la perdita degli averi, dei figlioli e della salute.

 

I tre amici che erano andati a consolarlo, interpretano questo fatto nel modo più ovvio e naturale: si tratta di un castigo di Dio. Giobbe non era un vero giusto; certamente doveva avere commesso qualche peccato nascosto; ma Dio, che vede tutto, l’aveva raggiunto con la sua vendetta e aveva fatto giustizia. (Notiamo che a quei tempi si dava molta importanza alle infrazioni dei tabù.

 

Per esempio, i sacerdoti che hanno toccato l’Arca, quando Davide ha tentato di portarla a Gerusalemme, volevano impedire che cadesse, ma siccome era loro proibito toccarla sono stati fulminati). Ma la realtà era diversa. Giobbe era davvero innocente, nei limiti, ben inteso, consentiti alla condizione umana, che è inferma e sotto il dominio del peccato.

 

  • Ma se Giobbe è innocente perché Dio gli ha mandato la malattia e la sofferenza?

  • Perché invece di mandare sofferenze e disgrazie ai peccatori, concede loro ogni sorta di beni?

 

È un dato di fatto che gli empi possiedono beni terreni. Ora – ci dice Ambrogio – il possesso di questi beni non è per se stesso un segno di benedizione da parte di Dio. Essi infatti sono beni soltanto apparenti, procurano affanni alla vita presente, terminano con la morte, non giovano a nulla per la vita futura. Non solo, ma si risolvono in male per chi li possiede. Le ricchezze infatti conducono alla superbia e alla dimenticanza di Dio. Ne abbiamo un classico esempio nella parabola del ricco epulone. Ciò si verifica perché gli empi, vedendosi impuniti, si convincono che Dio non veda le loro scelleratezze. Ma la prosperità degli empi durerà poco: ben presto arriverà il giudizio di Dio! E allora all’abbondanza farà seguito la miseria, alla gioia subentrerà il dolore. Dio infatti, cui nulla sfugge, non può ignorare i delitti commessi dagli empi.

 

Ai giusti invece il Signore riserva un altro trattamento: in questa vita li fa soffrire e poi nell’altra vita li premia. Così è stato per Giobbe. Una triplice lotta egli ha dovuto sostenere: la perdita del beni e dei figlioli, la dolorosa malattia e l’accusa ingiusta da parte degli amici. Ma il Signore l’ha aiutato nella lotta, l’ha dichiarato vincitore e l’ha premiato.

 

  • Ma perché il Signore riserva ai giusti la lotta?

  • Non farebbe meglio a premiarli anche quaggiù per la loro fedeltà?

 

La ragione sta nel fatto che Dio non premia se non colui che ha combattuto e vinto. La nostra vita terrena è il tempo della lotta: il giorno del giudizio il Signore dichiarerà i vincitori e li premierà. La soluzione dunque del problema della sofferenza del giusto sta nel fatto che il piano ordinato da Dio per la nostra salvezza è diverso dal nostro modo di pensare: noi guardiamo soltanto alla vita presente, mentre Dio guarda anche, anzi principalmente, alla vita futura. Alla luce dell’insegnamento divino

abbiamo:

 

La vita presente è un periodo di lotta: alla fine c’è il premio o il castigo.

I beni di questo mondo non sono veri beni, anzi finiscono col danneggiare chi li possiede.

Non si possono considerare felici gli empi, anche se godono grande prosperità, perché alla fine saranno puniti.

Non si deve considerare infelice il giusto che soffre, perché alla fine di questa vita sarà coronato.

 

Interpellatio David I

La vita di David, splendida nel suo insieme, ebbe diverse fasi di tribolazione: Saul cercava di ucciderlo per invidia e suo figlio Assalonne si era impadronito del regno e attentava alla sua vita. Davide si contristò – ci dice Ambrogio – al

vedere come i peccatori in questo mondo erano ricchi e fortunati, mentre egli, che aveva giustificato il suo cuore, si trovava immerso nell’afflizione e nel dolore.

 

In un primo tempo rimase scandalizzato per questo fatto e gli scappò detto: “Dunque invano io tenni puro il mio cuore e lavai tra gli innocenti le mie mani” (Sal 72,13). Ma poi, castigato e illuminato da Dio, capì come stavano la cose. Dio ha ordinato al bene di tutta l’umanità tutte le cose, anche quelle tristi e spiacevoli. Perciò egli esclama: “Quanto è buono il Dio d’Israele per i retti di cuore” (Sal72,2). Ma la bontà di Dio non va misurata in base ai successi che ci fa ottenere quaggiù, bensì in relazione ai beni futuri che tiene preparati per noi. Onde bisogna tenere presenti due principi:

 

  1. Chi riceve dei beni in questa vita, ha già la sua ricompensa”;

  2. Non può sperare il premio futuro se non chi ha lottato e fu provato da numerose ed aspre battaglie.

Le ricchezze che l’empio possiede quaggiù – afferma Ambrogio – sono dovute al caso. Ma questo modo di agire di Dio non è contro la divina Provvidenza. Dio elargisce la ricchezza, gli onori, i successi e le comodità del secolo agli empi perché non abbiano alcun motivo di scusa: non potranno dire di avere rubato per necessità o di essere stati meno devoti a causa di qualche acerbo dolore o lutto che li ha colpiti. Proprio mentre sono esaltati, vengono da Dio rigettati; viene tolta ogni scusa e preparata la pena. Nella prospertà essi dovrebbero riconoscere l’Autore e a Lui sottomettersi, invece lo abbandonano.

 

Ma la vendetta di Dio è severa e grande è la sua giustizia: raggiunge l’empio con una celerità incredibile. Con il sopraggiungere della morte gli empi si trovano spogli di tutto, perché nulla possono ottenere di nuovo e nulla possono portare con se delle cose di quaggiù. Con il giusto, invece, il Signore si dimostra sempre buono. Naturalmente Dio è buono con tutti. Gesù Cristo è il Salvatore di tutti, è venuto a salvare ciò che era perduto. Gesù infatti è venuto a guarire le nostre ferite, ma non tutti si lasciano curare. Perciò Gesù è buon medico soltanto per coloro che accettano le sue cure. Il giusto è colui che si lascia curare da Dio: se è colpito dalla sofferenza in questa vita, ne trae motivo di gioia interiore, sia che soffra giustamente, perché allora sconta la pena delle colpe commesse, sia che soffra ingiustamente, perché in tal caso sa di essere maggiormente gradito a Dio. La ricompensa futura, la gloria che Dio ci darà, è enormemente superiore in confronto alle sofferenze della vita presente. Ed è proprio attraverso la sofferenza che Dio ci rende degni di Lui, degni di essere annoverati tra i suoi figli. Così è stato anche per Giobbe e Davide.

 

In definitiva ciò che dà significato alla sofferenza del giusto è il fatto che Dio tiene preparato un premio di valore inestimabile; chi non considerasse il premio futuro, si sentirebbe affranto sotto il peso dei suoi dolori. Fu appunto considerando il premio della vita futura che David passò dal turbamento alla

gioia.

 

Osservazioni

 

Il modo di leggere la scrittura e di interpretarla, usato dai Padri della Chiesa è diversoda quello che usiamo noi. Essi trascuravano il senso letterale a vantaggio di quello spirituale. Per esempio, la soluzione del problema della sofferenza di Giobbe e di Davide si verifica nella vita presente, secondo la mentalità ebraica di quell’epoca. Ma per Ambrogio interessa che sia la soluzione finale, non importa se avviene quaggiù in terra o lassù nel cielo. Noi invece diamo importanza fondamentale al senso letterale, contestuale, vogliamo sapere come si sono svolti storicamente i fatti. Solo dopo, facciamo considerazioni spirituali. Non vogliamo castelli in aria.

 

Ci sorprende e ci disturba anche l’affermazione che “la distribuzione delle ricchezze è affidata al caso”. E la Provvidenza di Dio dove è andata a finire? Ambrogio dice che si concilia con essa. Noi pensiamo che le due cose sono irriducibili. Difatti, abbiamo detto all’inizio, che i filosofi che ammettono il caso affermano che Dio, geloso della sua felicità, si disinteressa della vita dell’uomo perché altrimenti soffrirebbe anche Lui.

Ambrogio afferma che è la grandezza del premio futuro, il motivo che sorregge i giusti nel sopportare la sofferenza e la malattia che li colpisce. Attualmente la Teologia rimprovera i cristiani che agiscono in questo modo, in

quanto sono ancora legati al calcolo giuridico del do ut des (ti do una cosa per ottenerne un’altra, magari guadagnandoci su qualcosa).

 

Qui viene ignorata completamente la dinamica dell’amore che agisce e da on gioia, senza aspettarsi un benchè minimo ritorno. Il cristiano è chiamato ad amare Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, anzi a ricambiare l’amore di Dio che ci precede, ci accompagna e ci attira verso di sé. Il vero cristiano, quindi, eviterebbe il male anche se l’Inferno non esistesse e fa il bene a prescindere dal premio, ma come una esigenza profonda della sua natura di figlio di Dio inserito nella grande famiglia degli uomini, chiamati ad essere figli nel Figlio.

 

 

Teologia della Malattia in S.Ambrogio - Luca Beato o.h.Fra Luca Beato o.h.

TEOLOGIA

DELLA MALATTIA

IN S.AMBROGIO, Torino, Marietti,

1968 (parte seconda).

 

 

Da “FATEBENEFRATELLI”  APRILE/GIUGNO 2009

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