08 LE CONFESSIONI DI PAOLO – Passio Pauli, Passio Christi – C.M. Martini

Passio Pauli, Passio Christi

La parola « passio Pauli », passione di Paolo, si usa comunemente per indicare i capitoli degli Atti degli Apostoli che vanno dal 21 al 28, cioè l’ultima parte del libro: dalla prigionia a Gerusalemme alla prigionia a Roma.
Vogliamo estendere la «passione di Paolo» anche alle sofferenze successive che conosciamo in parte dagli accenni delle lettere e in parte dalla tradizione. È singolare che gli Atti degli Apostoli non ci narrino tutta la vita di Paolo, ma si fermino ad un certo punto, introducendo poi i capitoli sulla sua « passione ». L’attività apostolica è descritta in tanti capitoli quanti sono quelli che descrivono l’imprigionamento, il processo, fino alla prigionia a Roma.
Anche nei Vangeli, la Passione di Cristo ha un trattamento amplissimo rispetto alla brevità della vita narrata in precedenza. L’evangelista corre per brevi note su due o tre anni della vita pubblica di Cristo, mentre descrive la Passione quasi ora per ora, minuto per minuto.
Comprendiamo da questo fatto l’importanza che l’evangelista, la Chiesa primitiva, danno alla Passione di Cristo e alla passione di Paolo.
Gli evangelisti hanno compreso che Cristo era Messia e rivelatore del Padre soprattutto nella Passione.
Lo stesso accade per Paolo, testimone di Cristo non soltanto nei discorsi travolgenti o dotti o pieni di tenerezza ma anche quando viene imprigionato, portato davanti ai tribunali, trasferito da un carcere all’altro, con sorte incerta, con limitazioni gravi della libertà, con il timore della morte.

Come grazia specifica di questa meditazione possiamo chiedere di comprendere la frase misteriosa della lettera ai Filippesi: «Perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze» (Fil 3,10). Paolo desidera conoscere Gesù entrando in misteriosa comunione anche fisica con le sue sofferenze.

Tu conosci, Padre di misericordia, quanto è importante per noi la misteriosa comunione con le sofferenze del Cristo. Tu sai come ci è difficile, lontana dalla nostra mentalità, smentita continuamente dal linguaggio quotidiano. Per questo ti chiediamo umilmente, insieme con Paolo, di aprirci gli occhi della mente e del cuore perché conosciamo Cristo, la potenza della sua Risurrezione, la comunicazione alle sue prove, per potere con lui offrire la nostra vita per il corpo di Cristo.
Illumina, o Signore, la nostra mente perché possiamo comprendere le parole della Scrittura, riscalda il nostro cuore perché avvertiamo che non sono lontane ma, in realtà, le stiamo vivendo e sono la chiave della nostra esperienza presente, della situazione di tante persone oggi nel mondo.

Te lo chiediamo, Padre, insieme con Maria, Madre addolorata, con Paolo, per la gloria di Gesù, morto e risorto per noi, che vive e regna nella Chiesa e nel mondo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Propongo di procedere rispondendo alle domande:
- quali sono le similitudini e le diversità fra la passione di Cristo e la passione di Paolo;

- qual è la passione del cristiano;
- come Paolo vive la passione;
- come noi dobbiamo viverla.

Similitudini e diversità
della «Passio Christi» e della «Passio Pauli»

Cerchiamo di vedere alcune tappe della Passione di Cristo paragonandola con quella di Paolo. Sottolineo tre momenti:

- l’arresto di Cristo e l’arresto di Paolo;
- Cristo e Paolo ai tribunali;
- le sofferenze fisiche e morali di Cristo e di Paolo.

L’arresto di Cristo e l’arresto di Paolo

« Mentre egli ancora parlava, ecco una turba di gente; li precedeva colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, e si accostò a Gesù per baciarlo. Gesù gli disse: “Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?”. Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: “Signore, dobbiamo colpire con la spada?” » (Lc 22, 47-49).
Paolo si trovava nel tempio, aspettando i giorni della Purificazione, «quando i Giudei della provincia di Asia, vistolo nel tempio, aizzarono tutta la folla e misero le mani su di lui gridando: Uomini di Israele, aiuto! Questo è l’uomo che va insegnando a tutti e dovunque contro il popolo, contro la legge e contro questo luogo; ora ha introdotto perfino dei Greci nel tempio e ha profanato il luogo santo! » (At 21, 2727). Tutta la città è in subbuglio. Paolo è trascinato fuori del tempio, chiudono le porte, cercano di ucciderlo. Quando giunge il tribuno con la coorte, lo arrestano e lo legano con due catene. Da questo momento, Paolo è in prigione per lunghissimo tempo. Che cosa hanno in comune le due scene pur nella loro diversità?
In entrambi i casi, l’arresto è proditorio, ingiusto; è un arresto fatto alle spalle, con un agguato. Agguato per Gesù ed agguato anche per Paolo, suscitato ad arte dai suoi nemici.
Per entrambi l’arresto avviene nel momento in cui si spendevano per il loro popolo. Per Gesù avviene nella ‘notte della preghiera, per Paolo nel momento dell’offerta quando, dopo aver portato doni per il suo popolo, ha spinto la sua condiscendenza fino a volersi purificare nel tempio. Sono toccati nell’istante della loro dedicazione apostolica, del loro servizio.

Cristo e Paolo davanti ai tribunali

Gesù passa vari tribunali: il Sinedrio, il tribunale di Pilato, l’interrogatorio con varie accuse alle quali prima risponde e, da un certo momento in avanti, tace. Il processo di Paolo è descritto più ampiamente ed è segnato da una lunga serie di discorsi: il discorso fatto sui gradini del tempio al cap. 22 degli Atti, quello davanti al Sinedrio nel cap. 23, davanti a Felice nel cap. 24, l’arringa davanti a Festo nel cap. 25 e davanti al re Agrippa nel cap. 26. Una serie di apologie di Paolo che si difende, a differenza di Gesù che dice solo brevi parole.
È interessante notare la diversità delle situazioni: Paolo non è un pedissequo imitatore di Gesù. Sente di avere in sé lo Spirito di Dio e, ispirandosi alla vita del Maestro, vive le situazioni con propria responsabilità e si comporta con dignità e con fermezza. Imita Gesù nella dignità, nel senso della giustizia, nella nobiltà d’animo; però agisce in altro modo, nell’ampiezza e nel calore con cui difende se stesso, nel tentativo di confondere gli avversari; e riesce a dividere il Sinedrio facendo litigare fra loro i suoi accusatori.
Gesù testimonia in brevissime parole la perseveranza nell’affermazione della propria missione e il coraggio della parola: «Tu lo dici, tu dici che io sono re; vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra della potenza di Dio ».
In tutti e due i processi, vediamo che dietro a una parvenza di giustizia prevalgono interessi personali, paure, scontri di ambizioni individuali o di gruppi. Sia Gesù che Paolo sono sottoposti alle incertezze del giudizio umano; se Paolo poteva avere qualche speranza – l’aveva sempre fomentata nelle sue lettere, là dove insiste sul rispetto dell’autorità -, si accorge che il tornaconto personale, avido e meschino, prevale anche in chi dovrebbe garantire il diritto.

Le sofferenze fisiche di Cristo e di Paolo

Le sofferenze di Gesù sembrano molto più grandi perché sono descritte ampiamente nel resoconto della Passione. Di Paolo si può solo intuire la situazione pesante dell’essere in prigione: di fatto ha già avuto in precedenza sofferenze notevoli nelle flagellazioni o nelle lapidazioni alle quali è stato sottoposto. Egli le riferisce quasi considerandole come un avvenimento che si aspettava.
Paolo dà più rilievo alle sofferenze morali, soprattutto alla solitudine. Questo aspetto è quello che maggiormente indica cosa accomuna la nostra passione con la passione di Cristo e di Paolo.

Certamente le sofferenze morali più gravi che Cristo sopporta sono dovute all’abbandono totale in cui viene lasciato da parte degli uomini. Tutti fuggono: solo Pietro lo segue da lontano e poi lo rinnega. Gesù che in fondo si era abituato ad avere sempre qualcuno che lo sosteneva – e questa è un’abitudine che ci si fa – si vede rapidamente ridotto alla solitudine più estrema. La solitudine è accresciuta dal misterioso abbandono di Dio che si esprime nel grido: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ». È stato scritto moltissimo per cercare di comprendere che cosa significa.
Le pagine più drammatiche e più belle sono forse quelle di Hans Urs von Balthasar nel suo «Mistero pasquale»: egli cerca di interpretare, partendo da queste parole, il venerdì santo di Gesù, l’oscurità che si abbatte nella sua anima e la discesa agli inferi.
Balthasar parte dal principio che possiamo interpretare la passione di Gesù a partire dalla passione dei santi: comprendendo le oscurità, le desolazioni, i momenti drammatici di esperienza di abbandono che i grandi santi hanno vissuto, possiamo cogliere qualcosa di ciò che Gesù ha sperimentato prima di tutti, per tutti, a conforto e sostegno di tutti.

Che cosa dire della sofferenza morale di Paolo?
Paolo sperimenta lungo la sua passio, intesa fino alla fine della sua vita, un abbandono progressivo dei discepoli. Lui, che è così pieno di carica vitale, esce in affermazioni che non riescono a nascondere che è stanco e ha l’impressione di aver sofferto al limite delle forze; dice: «Cerca di venire presto da me sono parole di chi veramente non ne può più – perché Dema mi ha abbandonato avendo preferito. il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia – come dire: eccomi qua solo -. Solo Luca è con me. Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero ». E continua: «Alessandro, il ramaio, mi ha procurato molti mali. Il Signore gli renderà secondo le sue opere; guardatene anche tu, perché è stato un accanito avversario della nostra predicazione. Nella mia difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro» (2 Tim 4, 9-11.14-16). Quest’ultima è la frase più dura.

È un Paolo diverso da quello che siamo abituati a conoscere; è stanco anche fisicamente, prostrato dalla prigionia, come appare anche nelle altre lettere « pastorali» a Timoteo e a Tito. A noi qui non interessa stabilire se questi scritti sono di sua mano, se riportano frasi sue; li prendiamo come la Chiesa ce li ha tramandati, come espressione della figura dell’Apostolo così come la Chiesa primitiva l’ha conosciuta e ce la trasmette.
Certamente ci danno l’immagine di un Paolo in parabola discendente. Non è più l’entusiasta della lettera ai Galati, della lettera ai Romani, con le grandi sintesi teologiche. È un uomo che lotta contro le difficoltà quotidiane, nella solitudine, e lascia trapelare anche un certo pessimismo. Denuncia ciò che sta avvenendo e prevede dei mali futuri; il tono oscuro e deplorativo ha preso il posto della speranza, della baldanza, dell’ardore.

Questa prova attraverso cui Paolo è passato, è una prova reale, nella quale riconosce che non ha più un possesso completo delle sue forze, dell’ottimismo, dell’entusiasmo, ma deve fare i conti con la fatica e l’accumularsi di pesi e delusioni. Dio ci vuole mostrare in lui il segno che l’uomo viene purificato in tanti modi e questa è una profonda forma di purificazione.
Ci possiamo chiedere se Paolo abbia provato anche abbandono da parte di Dio, le tenebre interiori, la desolazione, la notte dello spirito. Autobiograficamente non è possibile determinarlo. Tuttavia, parla più volte delle forze oscure del male che cercano di ottenebrare l’uomo, che lo insidiano e non lo risparmiano. Egli conosce, quindi, queste potenze delle tenebre che insidiano continuamente l’intimo di ciascuno di noi.
Se ci basiamo su quello che Balthasar dice di Gesù, dobbiamo pensare che probabilmente anche Paolo ha vissuto momenti in cui la fede è stata avvolta da tenebre e ha dovuto camminare col solo ricordo di tutta la ricchezza posseduta e della forza di Dio non più sensibilmente presente.

La passione del cristiano

Mi ha colpito, qualche tempo fa, un libro che descrive la prova della fede di Teresa di Lisieux. L’ultima parte della vita di questa santa è stata profondamente oscura e, dopo i doni meravigliosi che aveva avuto da Dio, è entrata in uno stato quasi incomprensibile. Ella stessa dice che è una prova dell’anima indicibile ed ha quasi paura di parlarne. Poi scrive: «Suppongo di essere nata in un paese circondato da una bruma spessa, mai ho contemplato l’aspetto ridente della natura inondata, trasfigurata dallo splendore del sole; …d’un tratto le tenebre che mi circondano, divengono più spesse, penetrano nell’anima mia e la avviluppano in tal modo che non riesco più a ritrovare in essa l’immagine così dolce della mia Patria: tutto è scomparso! Quando voglio riposare il cuore stanco delle tenebre che lo circondano; ricordando il paese luminoso al quale aspiro, il mio tormento raddoppia; mi pare che le tenebre, assumendo la voce dei peccatori mi dicano facendosi beffe di me: Tu sogni la luce, una patria dai profumi più soavi, tu sogni di possedere eternamente il Creatore di tutte queste meraviglie, credi di uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! Vai avanti! Rallegrati della morte che ti darà non già ciò che speri, ma una notte più profonda, la notte del niente ». E ancora: «Quando canto la! felicità del Cielo, il possesso eterno di Dio non provo gioia alcuna, perché canto semplicemente ciò che voglio credere. A volte, è vero, un minimo raggio scende a illuminare la mia notte, allora la prova si interrompe per un attimo, ma subito dopo, il ricordo di questo raggio, invece di rallegrarmi, rende ancora più fitte le mie tenebre ». «È l’agonia pura – dice il 30 settembre, giorno della morte – senza alcuna traccia di consolazione» .
Sono parole che ci colpiscono. Forse una delle più -dure è quella riferita al processo di beatificazione da una consorella che l’aveva sentita: «Se sapeste in quali tenebre sono immersa; non credo nella vita eterna, mi sembra che dopo questa vita mortale non vi sia più nulla. Tutto è scomparso per me, non mi rimane altro che l’amore ».
Ha l’impressione di non credere più, però sente che l’amore c’è: non è una contraddizione, è la purificazione terribile della carità. Sono esperienze che fanno parte del cammino cristiano.

Possiamo trovare anche in altri santi confessioni di questo tipo.
S. Paolo della Croce durante la sua ultima malattia esce in espressioni che fanno davvero pensare. Confida a un confratello: «Oggi mi sentivo impeti gagliardissimi di andarmene disperso e fuggiasco per queste selve, stimolato a gettarmi da una finestra – quindi tentazioni di suicidio -, e continue gagliardissime tentazioni di disperazione ». E ancora: «Un’anima che ha provato carezze celesti e poi si trova a dover stare del tempo spogliata di tutto, anzi, arrivare a segno di trovarsi, a suo parere, abbandonata da Dio, che Dio non la voglia più, non si curi più di lei e che sia molto sdegnato, onde le pare che tutto ciò che fa una tal anima sia tutto malfatto. Ah, non so spiegarmi come desidero! Le basti sapere che questa è una sorte quasi di pena di danno, pena che supera ogni pena».
E poi; «L’impressione di non avere più né fede né speranza né carità, di sentirsi come sperduto nel profondo di un mare in tempesta senza avere chi gli porga una tavola per sfuggire al naufragio, né dall’alto né dalla terra. Non ha nessun lume di Dio, incapace di un minimo buon pensiero, incapace di trattare alcun argomento di vita spirituale, desolato come i monti di Gelboe e sepolto nel ghiaccio. Nelle orazioni stesse vocali non so far altro che passare i grani della corona».
Racconta un suo confratello: «Entrando nella sua camera quando stava infermo, con voce da muovere a compassione anche le tigri disse per tre volte: “Sono abbandonato” ».
Certamente conta molto il carattere delle persone. Chi è molto sensibile in certi momenti di fatica, di depressione e di malattia giunge a parlare così di sé. Comunque è vero che Dio permette misteriosamente nei suoi santi la prova dell’abbandono. È una situazione reale e quando avviene deve farci pensare che è il cammino percorso da Cristo sulla croce, percorso da Paolo e percorso da tanti santi.
Paolo, scrivendo a Timoteo, subito dopo aver detto: «Tutti mi hanno abbandonato» aveva affermato: « Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza… Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli» (2 Tim 4, 17-18).
La potenza dello Spirito in lui gli aveva permesso di superare un momento in cui poteva essere tentato addirittura di disperazione. Non possiamo però sapere se l’ultimo quarto d’ora della sua vita sia stato un tempo di luminosità, di chiarezza, oppure di tenebra. Il mistero del cammino umano va verso l’esperienza della morte.
Proprio per questo dobbiamo riflettere su di noi, sulle sofferenze attraverso le quali altri possono passare e sulla necessità di saper prestare aiuto. Un malato, soprattutto grave, difficilmente apre il suo animo: forse solo a qualcuno di cui ha piena fiducia. La missione è di suscitare questa fiducia per poter essere collaboratori nelle prove contro la fede e contro la speranza che l’uomo prossimo alla morte può vivere.
Si racconta che Teresa di Gesù Bambino verso la fine della sua vita rimase in preda ad un’ agitazione e angoscia inesprimibili, che spaventarono le consorelle. La sentirono dire: «Quanto bisogna pregare per gli agonizzanti! Se si sapesse! ».
Ecco come la vita dei santi può aiutarci a penetrare meglio la passio Christi e la passio Pauli.

Come Paolo ha vissuto la comunione con la passione di Cristo

- Dalle lettere in cui Paolo parla delle sue sofferenze ricaviamo, prima di tutto, che ha da Dio il dono di viverle con grande spirito di fede, valutandone il significato alla luce del piano salvifico. «…il Salvatore nostro Gesù Cristo… del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro. È questa la causa dei mali che soffro» (2 Tim 1, 9-11).
Se soffro, soffro per Cristo e « non me ne vergogne: so infatti a chi ho creduto e sono convinto che egli è capace di conservare fino a quel giorno il deposito che mi è stato affidato» (2 Tim 1, 12).

- Lo spirito di fede è intriso di senso ecclesiale per ciò che soffre. « Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio Vangelo, a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù insieme alla gloria eterna» (2 Tim 2, 8-10). lo soffro ma per gli altri, per tutta la Chiesa, per l’opera di Cristo. «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio presso di voi: di realizzare la sua parola» (Col 1, 24-25).
Il profondissimo senso di missione che è la molla interiore di tutto ciò che fa per la Chiesa, non lo abbandona neanche in questi momenti, ma gli dà la grazia di considerarli come il completamento del servizio che vuol compiere fino in fondo.

Domande per noi

Potremmo concludere chiedendoci qual è il nostro atteggiamento.
Innanzitutto dobbiamo riconoscerci estremamente fragili, suscettibili di essere tentati, forse anche in cose da poco e di dover passare per questi momenti difficili. Il senso della fragilità è importante perché, altrimenti, rischiamo di parlare di queste cose con facilità, e quando ci troviamo a viverle reagiamo in modo del tutto contrario, cambiando, per così dire, mondo e linguaggio. La coscienza della nostra fragilità ci permette di collegare meglio ciò che leggiamo con ciò che in realtà viviamo.
Per questo è necessaria la vigilanza di cui abbiamo già parlato e che Paolo ricorda spesso: «E quando si dirà: pace e sicurezza, allora d’improvviso vi colpirà la rovina, come le doglie di una donna incinta; e nessuno scamperà. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro; V’pi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri» (1 Ts 5, .3-6).
«Rivestitevi con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza» (1 Ts 5, 8). «Rivestitevi dell’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove» (Ef 6, 11-13).

L’esistenza cristiana è una prova non da poco perché ci mette di fronte ad un avversario implacabile che continuamente torna ad attaccarci. Quando consideriamo la realtà quotidiana, le cose semplici di ogni giorno, questo linguaggio ci sembra eccessivo; ma se andiamo più a fondo nella nostra storia, nella storia degli altri uomini, nelle prove dolorosissime che la gente vive, nei problemi che portano all’angoscia e alla disperazione, allora vediamo molto più chiaramente che il nemico dell’uomo è all’opera. Esso cerca in tutte le maniere più semplici, più coperte, più subdole, di portare ciascuno di noi a mancare di fede e di speranza, suggerendoci una visione rassegnata della vita, senza la luce interpretativa del piano salvifico di Dio. Continuamente vuol distruggere la scintilla della fede che ci permette di vedere tutto come cammino di Dio in noi e cammino nostro verso di lui.
Il Nuovo Testamento esorta alla vigilanza e alla lotta, perché conosce benissimo la condizione umana e sa che le prove sono riservate a tutti; quando pensiamo che sono passate, sono invece più vicine che mai.

Chiediamo al Signore che nella riflessione sulla passione di Cristo e sulla passione di Paolo, sia dato anche a noi di camminare nella via di Dio e di stare in piedi, di resistere con coraggio nelle difficoltà, e di poter aiutare altri, molti altri, affinché non soccombano nella prova.

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