CHIAVE CONCETTUALE a cura di C.L. Rossetti

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CHIAVE CONCETTUALE


Carità:

É l’amore in senso cristiano (agape-caritas) che costituisce l’essenza stessa del Dio rivelato da Gesù Cristo (cf. 1 Gv 4, 8). Essa  consiste nel donare la propria vita (Gv 15,13). La forma perfetta della carità è il dono di sé di Cristo sulla Croce (Gal 2, 20). La Croce è la “cifra” e il simbolo dell’amore: in essa Gesù compie il duplice comandamento dell’amore di Dio e del → prossimo, ripreso dalla Legge antica (Torah) (cf. Mc 12, 28ss; Dt 6, 5; Lv 19,17). Sulla Croce infatti Gesù ama totalmente Dio Padre, affidandosi nelle sue mani (Lc 23,44) e il prossimo, → perdonando i suoi nemici (Lc 23, 36). L’amore vero o carità consiste nell’amare con → gratuità, anche chi non lo merita, il peccatore, il malvagio, il traditore, il nemico (cf. Lc 6, 32; Rm 5,11). Questo amore divino, unico e trascendente non è “utopico” per gli esseri umani. Esso diventa realtà quando è riversato nel cuore degli uomini mediante la potenza dello Spirito Santo, il Dono del Signore risorto (cf. At 2; Rm 5, 5), che rende capaci di conformarsi all’amore di Cristo. Tale è l’esperienza dei santi e dei martiri (cf. At 7, 59-60). La carità è pertanto una virtù teologale, cioè soprannaturale e pneumatologica. San Paolo la considera il più grande dei doni dello Spirito Santo e la descrive così: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine” (cf. 1 Cor 13, 4-8). Essa può essere ritenuta opera della → fede  (cf. Gal 5, 6). Avere l’amore è segno di una vita nuova che vince la morte: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” (1 Gv 3, 14).

Tutta la tradizione cristiana l’ha venerata come “regina delle virtù”. Essa consiste per S. Agostino nell’amore delle cose che devono essere amate (dilectio rerum amandarum) e dona di anteporre le cose comuni a quelle proprie (caritas communia propriis non propria communibus anteponit). La carità è “ordinata”: essa fa amare Dio per se stesso; ispira un retto amore di sé (ricordando la propria dignità filiale); stimola ad amare il prossimo in Dio e il nemico a causa di Dio (caritas est amicum diligere in Deo et inimicum diligere propter Deum, S. Gregorio Magno). La carità ama secondo la misura smisurata di Dio (modo sine modo, S. Bernardo). Per san Tommaso soltanto la carità merita veramente il nome di grazia perché è l’unica che renda “graditi a Dio” (nomen gratiae meretur ex hoc quod gratum Deo facit). Essa ha la facoltà di trasformare l’amante nell’amato perché suscita una sorta di “estasi”, un uscire da sé per aderire all’amato (caritatis proprium est transformare amantem in amatum, quia ipsa est quae extasim facit).

La carità è il vincolo di comunione della → Chiesa, e trova nell’Eucaristia il suo sacramento. Mediante la carità lo Spirito riunisce i fedeli in un solo corpo: lo Spirito unifica il corpo con la sua presenza, con la sua forza e con la connessione interna delle membra; produce la carità tra i fedeli e li sprona a viverla. Cosicché se un membro soffre, tutti soffrono insieme con lui; e se un membro viene onorato, ne gioiscono insieme anche gli altri (cf. 1 Cor 12, 26; LG 7, 3). La carità non può essere né confusa né tanto meno sostituita con la nozione non peculiarmente cristiana di → solidarietà. Questa consta dell’ordine umano e sociale della fraternità universale. La carità invece è la relazione di comunione propria della → fraternità cristiana. Essa ha una propulsione universale (fino ad abbracciare i nemici), ma è specialmente arricchita dalla reciprocità nella comunità ecclesiale: “questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri” (1 Gv 3, 11-12); “Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede”, (Gal 6,10). Insieme alla → evangelizzazione e all’intercessione (Liturgia), la testimonianza della carità rappresenta la precipua forma cristiana di svolgere la missione che Cristo le ha affidato.

Chiesa:

É la comunità, la comunione (koinonia) nel contempo spirituale e visibile di coloro che accolgono con fede l’evangelizzazione; condividono la medesima speranza nel Regno e partecipano della stessa carità. Si entra a far parte della Chiesa mediante il Battesimo che suggella la conversione. Principio della comunione intima con Dio - conosciuto e amato come Padre – è lo Spirito Santo: Spirito filiale di Gesù Cristo. Principio visibile di unità dei fedeli di una singola Chiesa particolare è il Vescovo; sul piano universale della comunione di tutti i fedeli, il fondamento di unità è invece il romano Pontefice. Questi è successore di Pietro e capo della comunità cristiana di Roma, che “presiede nella carità” (S. Ignazio di Antiochia). Il principio sacramentale di unità della Chiesa è l’Eucaristia: celebrazione memoriale del mistero pasquale, in cui i battezzati, uniti ai loro legittimi Pastori si uniscono con Cristo e tra di loro mediante i segni del pane e del vino consacrati. Il Credo professa la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Lo Spirito di Amore, donato da Cristo alla sua Chiesa, la rende immancabilmente una (cf. UR 4, 3) e santa (cf. LG 39, 1). Così, lo Spirito di Verità la rende cattolica e apostolica, mantenendola fedele alla tradizione (Parádosis) degli apostoli e alla loro missione di trasmettere a tutti gli uomini e in tutti i tempi tutta la pienezza (Plêrôma) di verità e di santità che è in Gesù Cristo. Questa prerogativa di indefettibilità è concessa alla concreta Chiesa guidata dal Papa e dai Vescovi in comunione con lui, in cui sussiste l’unica Chiesa di Cristo (cf. LG 8, 2). Ciò nonostante essa deve costantemente purificarsi e convertirsi per far risplendere sempre meglio la gloria del suo Signore, per recuperare la piena unità con i fratelli separati e per essere più credibile nella sua missione ad gentes (cf. AG 6;  EN 77; RM 50; UUS 23; 98.).

Dottrina sociale:

É l’insieme del Magistero ecclesiale circa la natura e l’ordinamento morale della società. Anche se affonda le radici nell’insegnamento sociale della sacra Scrittura e dei Padri e Dottori della Chiesa, essa nasce come tale, con l’Enciclica Rerum novarum (1891) di Papa Leone XIII. Il testo leonino diede luogo ad un notevole sviluppo con Pio XI (Quadragesimo anno), Giovanni XXIII (Pacem in terris); Paolo VI (Populorum progressio; Octogesima adveniens) e soprattutto Giovanni Paolo II (Laborem exercens, Sollicitudo rei socialis; Centesimus annus). Dovizia d’insegnamento sociale si trova anche nei discorsi e radiomessaggi di Pio XII, nella costituzione conciliare Gaudium et spes, negli interventi dei Papi Paolo VI e Giovanni Paolo II all’ONU e nei documenti della CDF (specie Libertatis conscientiae e Libertatis nuntius). Punti cardine della Dottrina sociale sono: la legittima proprietà personale nel contesto della destinazione universale dei beni della terra; il primato del bene comune (“cioè l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente”, GS 26); la fraternità universale e l’unità della famiglia umana come fondamento della promozione della pace e dell’amicizia fra i popoli, del dialogo e della solidarietà; la giustizia sociale; il rispetto della dignità umana sancita nei diritti inalienabili della persona; la sussidiarietà; la giusta autonomia nell’interdipendenza tra persone, nazioni e stati. La visione cristiana rifiuta quindi ovviamente ogni forma di totalitarismo, di collettivismo, di nazionalismo, di capitalismo selvaggio, ma anche l’idolatria della democrazia relativistica, che antepone al valore della coscienza il voto della maggioranza: “se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia” (CA 46 = VS 101).

Evangelizzazione:

É il compito primario della Chiesa, che risale al mandato del Signore (Mt 28,19; Mc 16,15ss) e alla prassi degli apostoli (cf. At 2-3; 1 Cor 9, 16…). È la comunicazione dell’annuncio, della buona notizia della vittoria di Cristo sul → peccato e sulla morte (kerygma o euanghelion). Il concilio Vaticano II (LG 17; AG); Paolo VI (Evangelii nuntiandi); Giovanni Paolo II (Redemptoris missio) hanno ribadito il ruolo prioritario dell’evangelizzazione nell’agire della Chiesa. Tramite essa la Chiesa dà la possibilità di aderire personalmente e storicamente al Mistero della Salvezza del genere umano, che Gesù Cristo ha compiuto una volta per sempre nella sua Pasqua. Dall’annuncio scaturisce infatti la → fede nello Spirito, la quale porta ad una relazione viva con Cristo, e tramite lui con il Padre (cf. Rm 10,16ss).

Fede:

É la risposta della persona umana alla rivelazione divina comunicata tramite la evangelizzazione. Essa consiste nell’accettare  Gesù Cristo crocefisso e risorto come principio di salvezza, di redenzione e di giustificazione (cf. Rm e Gal, passim). Essa suscita l’invocazione del Nome di Gesù e tutto un vivere in Cristo, che comporta una soprannaturale conoscenza di Dio: “Dio solo conosce pienamente Dio” (cf. CCC 152). “Il Mistero della Santissima Trinità è il Mistero centrale della fede e della vita cristiana. Soltanto Dio può darcene la conoscenza rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo” (CCC 261). “”Nessuno può dire ‘Gesù è Signore’ se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12, 3). “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6). Questa conoscenza di fede è possibile solo nello Spirito Santo. Per essere in contatto con Cristo, bisogna dapprima essere stati toccati dallo Spirito Santo. E’ lui che ci precede e suscita in noi la fede. In forza del nostro Battesimo, primo sacramento della fede, la Vita, che ha la sua sorgente nel Padre e ci è offerta nel Figlio, ci viene comunicata intimamente e personalmente dallo Spirito Santo nella Chiesa” (CCC 683). La fede è anche inizio della vita eterna in noi (san Tommaso), in quanto infonde la conoscenza delle realtà invisibili (cf. Eb 11, 2) e soprattutto anticipa la comunione filiale escatologica con Dio nello Spirito di Cristo.

Fratellanza/Fraternità:

É il rapporto ontologico esistente tra coloro che hanno una comune generazione (fratellanza/adelphotês) che suscita una peculiare relazione di amicizia (fraternità/philadelphia). Esiste una duplice fraternità, umana e cristiana. Cogliere il nesso esistente tra queste due realtà, distinte ma non separate, è del tutto illuminante per comprendere la relazione tra ecclesiologia e → Dottrina sociale, tra “natura” e grazia, tra Chiesa e società civile. La dottrina cristiana afferma la fratellanza universale fra tutti gli uomini, a prescindere dalla loro religione, razza, nazione, lingua ecc. in virtù della comune origine in Dio Padre creatore: la “legge di solidarietà umana e di carità, senza escludere la ricca varietà delle persone, delle culture e dei popoli, ci assicura che tutti gli uomini sono veramente fratelli” (CCC 361). “Gli sforzi intesi a realizzare la fraternità universale non sono vani” (GS 38). Tutto quello che si fa su questa terra in vista della fraternità tra gli uomini apparirà nella gloria di Cristo alla sua venuta (GS 39). La fratellanza universale tra gli uomini costituisce l’oggetto della missione dei laici nel mondo (AA 14). GS 91 propugna che i fedeli e le Chiese particolari “rendano il mondo più conforme all’eminente dignità dell’uomo, aspirino a una fratellanza universale e superiore, e possano rispondere, sotto l’impulso dell’amore, con uno sforzo generoso e congiunto, agli appelli più pressanti della nostra epoca”. Solo una coscienza di questa fratellanza può garantire la vera → pace tra le nazioni (GS 78). Ma questa fratellanza, iscritta nella natura stessa dell’essere umano è per così dire nascosta, o meglio offuscata dal peccato (e dalle strutture di peccato) esistenti nel mondo. Gli esseri umani, misconoscendo la paternità divina, mancano anche di riconoscere il legame ontologico che li lega e le loro coscienze non percepiscono appieno l’affetto solidale che dovrebbe scaturirne. L’umanità, oggi come sempre, si trova al bivio tra la fraternità e l’odio (GS 9). Usando un’immagine evangelica (cf. Mt. 5, 14ss) diciamo che la fratellanza universale e creaturale tra gli uomini è quella “casa” che esiste, ma che giace nelle tenebre. Occorre una “luce” superiore – divina – perché la bellezza della casa appaia. Questa luce è appunto la Chiesa: la fraternitas christiana. Essa consta di un ordine differente e si radica non tanto nella grazia naturale della creazione quanto nel dono dello Spirito del Figlio (GS 32); essa nasce dal libero e inaudito disegno di Dio di entrare nella storia degli uomini (AG 3). Tale fraternità attinge alla paternità divina rivelata da Cristo e comunicata nel suo Spirito Santo (UR 7). Il Vangelo della fratellanza cristiana costituisce quindi rispetto alla fratellanza umana il ruolo di fermento (AG 8); essa è un faro, un segno di ciò che dovrebbe estendersi escatologicamente a tutti (GS 92; AG 7). “La Chiesa, in forza della missione che ha di illuminare tutto il mondo con il messaggio evangelico e di radunare in un solo Spirito tutti gli uomini di qualunque nazione, stirpe e civiltà, diventa segno di quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo” (GS 92).  La fratellanza cristiana si vive nella → carità; la fratellanza universale fonda invece la → solidarietà sociale.

Giustizia:

É la virtù morale e sociale per cui si compie ciò che è retto e si rende a ciascuno ciò che gli è dovuto. Nella Bibbia la giustizia (tsedaka-dikaiosyne) in quanto attributo di Jhwh è sempre fonte di → salvezza. Il Signore manifesta la sua giustizia liberando gli oppressi e proteggendo i deboli, facendosi “l’avvocato della vedova e dell’orfano”. Gli Israeliti sono chiamati a fare altrettanto, conformandosi alla Legge del Signore (Torah) e osservando i suoi comandamenti che rappresentano il Diritto (Mishpat). Questo consta di condivisione e ospitalità, di equità salariale e di rettitudine giudiziale, e persino di assenza di rancore e di benevolenza verso il nemico (cf. Dt 6, 25; Es 23, 4-5; Lv 19,13ss). I Profeti (specie Is) ribadiranno che solo alla scuola di Jhwh si impara la giustizia: “La mia anima anela a te di notte, al mattino il mio spirito ti cerca, perché quando pronunzi i tuoi giudizi sulla terra, giustizia imparano gli abitanti del mondo” (Is 26, 9). “Chi vuol gloriarsi si vanti di questo, di avere senno e di conoscere me, perché io sono il Signore che agisce con misericordia, con diritto e con giustizia sulla terra; di queste cose mi compiaccio” (Ger 9, 23). “Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1, 16-17). E soltanto le → opere di giustizia sono il vero culto gradito a Dio (cf. Is 58, 1-8; Ez 18, 5-9). Chi accoglie l’ammaestramento del Signore, è così descritto: “cammina nella giustizia e parla con lealtà, rigetta un guadagno frutto di angherie, scuote le mani per non accettare regali, si tura gli orecchi per non udire fatti di sangue e chiude gli occhi per non vedere il male: costui abiterà in alto, fortezze sulle rocce saranno il suo rifugio, gli sarà dato il pane, avrà l’acqua assicurata” (Is 33, 15-16). La promessa però del vero compimento della giustizia, foriera di pace, riguarda un futuro messianico: quando un “Re regnerà secondo giustizia” (Is 32, 1) e “in noi sarà infuso uno Spirito dall’alto; allora il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva. Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino. Effetto della giustizia sarà la pace, frutto del diritto una perenne sicurezza” (Is 32, 1.15-19). La missione del Messia consiste infatti precipuamente nel portare il Diritto e la Giustizia: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio Spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Proclamerà il diritto con fermezza; non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra… Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre” (Is 42, 1-7).

Gesù ha la consapevolezza di inaugurare la Giustizia messianica (cf. Lc 4, 16-21). Nel sermone della montagna, egli predica una giustizia nuova (Mt 5-7) che compie e radicalizza spiritualmente la Torah. Essa si attua nella conversione del cuore umano divenuto filiale nei riguardi di Dio e pertanto liberato dal timore, dalla concupiscenza, dall’ipocrisia e dal rancore è reso capace di affidamento verso Dio e di → gratuità e carità verso il → prossimo. Nel NT la giustizia di Dio si identifica con Cristo stesso, “il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione (1 Cor 1, 30). La misericordia di Cristo lo ha portato a condannare in se stesso il peccato per salvare i peccatori (cf. 2 Cor 5, 17ss). La rinnovata condizione del peccatore giustificato mediante la fede e il dono della grazia lo abilita a vivere a servizio della giustizia (Rm 6, 13).

Gratuità:

É il carattere di ciò che scaturisce in modo incondizionato e libero da un’iniziativa sovrabbondante. É gratuito l’amore di Dio (creazione, elezione), pienamente rivelato in Cristo (redenzione) e proprio anche dei cristiani (cf. → carità). Esiste pure una possibile perversione della gratuità.

- Nella tradizione biblica e cristiana il primo atto di gratuità da parte di Dio è la creazione stessa. La creatio ex nihilo è dovuta unicamente al desiderio di comunicare generosamente la propria bontà (cf. 2 Mac 7, 28; Rm 4, 17; Concilio Laterano IV, DS 800). L’atto creatore avviene con una decisione sovranamente libera (liberrimo consilio, secondo l’espressione del Concilio Vaticano I, DS 3025). La gratuità della creazione è  l’incontro tra la pienezza di bontà del Dio onnipotente e la radicale contingenza della creatura. Altra manifestazione di totale gratuità, secondo le Scritture, è tutta la storia d’Israele: la sua elezione, la sua redenzione dalla schiavitù, il dono della Torah e l’ingresso nella Terra Promessa. Il libro del Deuteronomio non si stanca di rimarcare la sproporzione tra il dono concesso da Jhwh e il beneficiario umano (cf. Dt 7, 7; 6,11; 9, 5). Nel NT risplende ancora più fortemente la gratuità dell’iniziativa divina. Gratuita è la rivelazione di Dio e dei suoi  misteri (cf. Mt 11, 26-27; Lc 11, 32), come anche la scelta degli apostoli prima (cf. Mc 3, 13; Gv 15, 16) e dopo la Pasqua di Gesù (cf. Rm 1, 1). È Dio che ci ha amato per primo (1 Gv 4, 19), donandoci suo Figlio (Rm 8, 32), il cui amore è consistito nel morire per noi, malvagi e peccatori (Rm 5, 6-8). Tale è il → Vangelo della gratuità della → salvezza e della giustificazione (cf. Rm 3, 24; 2 Tm 1, 9). A tutti i testimoni prescelti è affidato il tesoro del Vangelo, del quale nessuno potrà mai dirsi degno (cf. 2 Cor 4, 1.7). Anzi: le due “colonne” della storia della Chiesa, Pietro e Paolo, sono entrambi personalmente segnati dall’esperienza della gratuita misericordia di Cristo (cf. p.e. Gv 21, 15ss e 1 Cor 15, 10; UUS 91). La fedele e gratuita testimonianza diviene una naturale incombenza per gli apostoli (cf. Mt 10, 8; 1 Cor 9, 18; 11, 7).

- All’esperienza dell’amore gratuito di Dio (cf. Lc 6, 35) e preferenziale per i peccatori (cf. Lc 15; 19, 1-10) deve rispondere la gratitudine umana del sapersi beneficato di un dono del tutto immeritato (cf. la peccatrice perdonata, Lc 7, 36-50). Tale riconoscenza si spinge sino alla conversione e alla riparazione del male commesso (cf. Zaccheo, Lc 19, 8). Il peccato più grave è proprio la mancata percezione del dono gratuito ricevuto (cf. il servo spietato, Mt 18, 23-35). Al contrario, se già l’AT aveva intuito la bellezza della gratuità: (cf. Sir 7, 33-34) “La tua generosità (cháris) si estenda a ogni vivente e al morto non negare la tua grazia. Non evitare coloro che piangono e con gli afflitti mostrati afflitto”, tanto più il NT propugnerà l’amore senza condizioni: “Se amate quelli che vi amano, dov’è la vostra gratuità (cháris)? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, dov’è la vostra gratuità? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, dov’è la vostra gratuità? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla (mêden apelpízontes), e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6, 32-35). Nel concreto questo si manifesta nel → perdonare come si è stati perdonati e nel beneficare tutti indistintamente, senza alcuna accezione di persona (cf. Gc 2,1ss). Fa parte della gratuità evangelica anche lo “sprecare” le cose più preziose per il Signore, come ha fatto la donna di Betania (cf. Mc 14, 4) e come nella tradizione ininterrotta della Chiesa lo fanno le persone consacrate (cf. VC 104).

- L’amor di verità esige che si menzioni anche il lato oscuro della gratuità. Corruptio optimi pessima. Così come la gratuità evoca la libertà, l’iniziativa e la sovrabbondanza nel bene, così, la gratuità del male, l’odio, la crudeltà, il sadismo sono il riscontro tragico del perverso capovolgimento del più grande amore. Si trova in questo un segno inequivocabile dell’esistenza del demonio (“mi hanno odiato senza ragione [dôrêan]“, Gv 12, 25).

Lavoro:

Nella rivelazione divina il lavoro emerge sin dalle prime pagine (Gen 1-3) come una realtà duplice. Da un lato esso è il riflesso stesso dell’operare creativo divino (Gen 2, 2), dall’altro esso comporterà fatica e sudore (Gen 3, 17-20). La prima realtà è quella essenziale, la seconda è contingente e dovuta al peccato originale. Il lavoro in sé dovrebbe manifestare la padronanza dell’uomo sul cosmo, che egli è chiamato a ridurre in suo possesso (Gen 1, 28). Per molti studiosi questa dottrina è alla base dello sviluppo tecnico industriale dell’Occidente cristiano. D’altro canto il lavoro come tutte le realtà create, dopo il peccato può essere vissuto in modo idolatrico. Se l’uomo perde la nozione di vicarietà rispetto al suo Creatore, egli dimentica il fine autentico del lavoro (la coltivazione della terra), nonché la gioia del riposo (la santificazione del creato e il rispetto per ogni lavoratore). Sotto il regime del peccato il lavoro diventa facilmente alienante. Esso può mutarsi anche in mero strumento di profitto e pertanto di devastazione della natura e di sfruttamento dell’uomo (cf. i disastri ecologici dell’era tecnicistica e capitalistica). Nella Laborem exercens Giovanni Paolo II ricorda che “l’insegnamento della Chiesa ha sempre espresso la ferma e profonda convinzione che il lavoro umano non riguarda soltanto l’economia, ma coinvolge anche, e soprattutto, i valori personali” (n.15), ribadendone la necessaria integrazione nell’ambito del rispetto della dignità della persona, al di là di ogni economismo e materialismo. Pertanto anche i rapporti di lavoro devono sottostare ad una serie di diritti-doveri regolabili anche tramite trattative sindacali (nn. 16-23). Cristianamente il lavoro può anche essere integrato in una spiritualità della sequela di Gesù lavoratore e del suo mistero pasquale: “nel lavoro umano il cristiano ritrova una piccola parte della croce di Cristo e l’accetta nello stesso spirito di redenzione, nel quale il Cristo ha accettato per noi la sua croce” (LE 27). Avviene in tal modo una redenzione dell’operosità umana che si vede congiunta alla fecondità dell’Opera (cf. l’ergon nel IV Vangelo) di Colui che è Primizia di Risurrezione: “l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì stimolare piuttosto la sollecitudine a coltivare questa terra, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo” (GS 39; LE 27). “Infatti tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità (industriae nostrae), dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando Cristo rimetterà al Padre il Regno eterno e universale. Dio allora sarà tutto in tutti (1 Cor 15, 28)” (GS 39 = CCC 1050).

Libertà/Liberazione:

Nella Bibbia, il campo semantico coperto da questo vocabolo è estremamente ampio. Esso può designare la “libertà da” (l’autonomia o indipendenza socio-economica, a  differenza della schiavitù; cf. p.e. Es 21, 2); la “libertà di” (la capacità di scelta, il libero arbitrio che riguarda soprattutto una vita più o meno consona al volere divino; cf. p.e. Dt 30, 15-20; Sir 15, 14-20); o ancora la “libertà per” (come quella del giovane sposo esentato dal servizio militare per dedicarsi alla moglie e alla casa; cf. Dt 24, 5). La libertà è in ogni modo sempre teo-centrica: è Dio il fautore e il garante della libertà. In quanto Creatore egli pone l’uomo in stato di libertà e responsabilità (Gen 2, 16-17) e in quanto Redentore (Go’el), egli libera il suo popolo dall’oppressione della schiavitù egizia o dell’esilio babilonese (cf. p.e. Es 3, 8; Is 14, 3). L’atteggiamento liberatore di Jhwh verso il suo popolo doveva suscitare da parte degli Israeliti un comportamento liberante verso gli oppressi (cf. p.e. Ger 34, 17). I profeti annunziano però una liberazione più radicale, l’eliminazione della morte (cf. Is 25, 8) e la redenzione per i cuori affranti (Is 61, 1-3). Nel NT Gesù Cristo è il portatore della vera libertà (cf. Lc 4, 1-4). Lui stesso manifesta la sua suprema libertà mediante l’autorità (exousia) e la franchezza (parrhêsia) del suo insegnamento (cf. Mc 1, 22; 8, 32), ma soprattutto, secondo il IV Vangelo, nel libero consegnarsi alla morte per amore al Padre e agli uomini (cf. Gv 10, 18). Gesù dispone del potere unico di donare la propria vita. In questo sta la sua libertà e regalità (cf. Mt 26, 53; Gv 18, 36). Tale prerogativa cristologica affonda le sue radici nell’intimità filiale di Gesù con il Padre, nell’Amore nel quale egli rimane e del quale rende testimonianza (cf. Gv 15, 9-13). I fedeli potranno partecipare anch’essi della divina libertà di amare senza condizioni, nella totale gratuità (cf. Lc 6, 32ss), dopo essere stati amati e perdonati per primi (1 Gv 4, 10), liberati dal peccato e dalla paura della morte (cf. Eb 2, 14-15), colmati dello Spirito di libertà (cf. 2 Tm 1, 7).

La Chiesa con la sua → Dottrina sociale insegna il valore e la necessità della libertà socio-politica ed economica, ma il suo messaggio non può ridursi a questo tipo di liberazione. “La libertà, portata da Cristo nello Spirito Santo, ci ha restituito la capacità, di cui il peccato ci aveva privato, di amare Dio al di sopra di tutto e di rimanere in comunione con lui. Noi siamo liberati dall’amore disordinato di noi stessi, che è la fonte del disprezzo del prossimo e dei rapporti di dominio tra gli uomini” (CDF, Libertatis Conscientiae 53).

Opere:

L’AT propone molti testi in cui sono enumerate le opere buone che Dio richiede dagli uomini. Molte delle opere di giustizia sono contenute nei codici di santità della Torah (cr. Es 19-23; Lv 17ss e Dt 12ss).

Un buon riassunto si trova nello splendido “Testamento di Tobi” (cf. Tb 4, 5-19): si esorta a ricordarsi del Signore, a praticare l’elemosina, a custodire la castità; ad amare i fratelli nell’umiltà; a dare giusta e tempestiva retribuzione; a vivere nella sobrietà e nella generosità verso gli affamati e gli ignudi; nella pietà verso i defunti; nella costante ricerca di crescere in sapienza; nella continua benedizione e invocazione del Signore. È nel cuore di questo mirabile testo che compare la regola d’oro: “Non fare a nessuno ciò che non piace a te” (Tb 4, 15).

La Dottrina ecclesiale, ispirandosi quasi alla lettera a questo insegnamento, elaborerà la dottrina delle sette opere di misericordia, spirituale e corporale. Sono opere di misericordia spirituale: istruire gli ignoranti, consigliare i dubbiosi, consolare gli afflitti, confortare i desolati, perdonare i nemici, sopportare con pazienza i molesti. Sono opere di misericordia corporale: dare da mangiare a chi ha fame, ospitare i senza tetto, vestire chi non ha indumenti, visitare ammalati e prigionieri, seppellire i morti, fare l’elemosina ai poveri (cf. CCC 2447).

Il NT offre un duplice insegnamento circa le “opere”. Da una parte esse sono volute da Dio e da lui saranno ricompensate in quanto meritevoli; dall’altra le opere della legge non sono garanzia della salvezza che dipende unicamente dalla grazia divina rivelata in Gesù Cristo e accolta mediante la → fede. Esporremo questi due capisaldi dottrinali, tentando poi una sintesi che ricerchi la loro unità.

1. Le opere buone (kala erga) sono meritevoli e volute da Dio

Gesù insegna ai suoi discepoli a compiere le opere buone perché gli uomini possano in esse riconoscere la gloria di Dio Padre (cf. Mt 5, 16). Per questo esse devono essere fatte nella più pura → gratuità, senza cercare la gloria dagli uomini (Mt 6,1), ma soltanto per piacere al Padre che vede nel segreto e ricompenserà nell’aldilà. A tal riguardo non è esclusa da parte di Gesù la prospettiva della “ricompensa” (misthós). Così la tradizione interpreterà l’invito evangelico a farsi tesori in cielo con l’elemosina (cf. Mt 6, 19-20) e ad “arrichirsi davanti a Dio” (Lc 12, 21) come un’esortazione a compiere opere buone di generosità in vista del premio celeste (1 Tm 6, 18). Gesù stesso con la sua vita ha compiuto una serie di opere buone (Gv 10, 32). Egli elogia come “opera buona” l’unzione ricevuta nella casa di Betania (Mc 14, 6) e ammonisce che il giudizio verterà sulle opere di misericordia (cf. Mt 25, 32ss). La comunità primitiva considera le opere buone – quasi identificate con l’elemosina -, come segno di retta coscienza e di orientamento alla salvezza (cf. la discepola Tabita, At 9, 36; e il centurione Cornelio, At 10, 1.4). Lo stesso epistolario paolino raccomanda di perseguire “la pace e l’edificazione vicendevole” (Rm 14, 19). “Cerchiamo anche di stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone” (Eb 10, 24). Ricorda anche che “la fede opera per mezzo della carità” (Gal 5, 6). La pratica delle opere buone attesta l’affidabilità di una persona (1 Tm 5, 10) ed è stimolata dall’insegnamento della sacra Scrittura (2 Tm 3, 16).

Il NT insegna che il Signore giudicherà ciascuno secondo le sue opere (cf. p.e. Rm 2, 6; 1 Cor 3, 13; Ap 2, 2.19) e prospetta la ricompensa eterna come un “riposo” per le opere compiute (cf. Ap 14, 3; Eb 4, 10).

2. Le opere sono incapaci di dare la salvezza

Si conosce la contrapposizione posta da san Paolo tra Fede e Opere. Innumerevoli brani enunciano con forza la sproporzione tra la → gratuità del dono di Dio in Gesù Cristo e la capacità delle opere umane, intese come sforzo di compimento della giustizia della legge. Rm  e Gal  hanno questo leit-motiv: “L’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge” (Rm 3, 28). “Questo solo io vorrei sapere da voi: è per le opere della legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione?” (Gal 3, 2). “Egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo” (Tt 3, 5). Per Paolo la Legge insegna e prescrive le opere buone volute da Dio, senza però dare la capacità al cuore umano, ferito dal peccato, di compierle. Pertanto essa “condanna” l’uomo alla consapevolezza del proprio egoismo e funge così da pedagogo: svela la verità del bene morale oggettivo e del male soggettivo intrinseco del cuore umano (cf. Rm 7; Gal 3, 19ss). Solo la grazia dello Spirito concessa mediante la fede in Cristo morto e risorto permetterà di compiere le opere della fede.

3. Le opere sono frutto e segno della grazia

Una volta accettata la dottrina paolina della priorità della grazia per la → giustificazione, occorre mantenere che la Fede e la Grazia danno compimento alle Opere e alla Legge, senza abolirle e senza essere in opposizione ad esse (DS 1559). Cosicché le opere buone divengono come il frutto di un cuore rinnovato e inabitato dalla grazia filiale dello Spirito di Cristo. La conversione cambia il cuore umano e lo rende capace di portare quei frutti di bontà che Dio si aspetta (cf. Lc 6, 44-45) e che scaturiscono dallo Spirito (cf. Gal  5, 22).

Il compendio probabilmente più pregnante della realtà della “sinergia” tra grazia e opere si trova in questi versi: “Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere (ouk ex ergôn), perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera (poiêma) sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone (epi ergois agathois) che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo” (Ef 2, 8-10).

Qui risplende ad un tempo la totale gratuità della → salvezza come dono di grazia e l’imprescindibile fedeltà dovuta a questa stessa grazia, mediante una vita feconda in opere buone. In questa prospettiva si possono conciliare Paolo e Giacomo. Gc ammoniva: “che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? …La fede, se non ha le opere, è morta in se stessa” (Gc 2, 14.17). Gli esempi di Abramo e di Raab dimostrano che già nell’AT la fede rivolta al Signore comportava in modo intrinseco l’obbedienza pratica delle opere: “la fede cooperava (synergei) con le opere” (Gc 2, 22). Le opere dimostrano esternamente l’interiore verità della fede: “io con le mie opere ti mostrerò la mia fede” (Gc 2, 18). Sicché “l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede” (Gc 2, 24). Con terminologia agostiniana possiamo dire che la “prima giustificazione/prima risurrezione” (di cui parla Rm 3, 28: il passaggio dalla morte del peccato alla vita filiale) dipende esclusivamente dalla fede fiduciale nell’iniziativa divina (gratia praeveniens), mentre la “seconda giustificazione/risurrezione” (di cui parla Gc 2, 18: che concerne la salvezza e la retribuzione escatologica) va attribuita alla fede che opera mediante la carità (gratia cooperans).

Peccato:

“Nel suo significato essenziale, il peccato è negazione di ciò che Dio è – come creatore – in relazione all’uomo e di ciò che Dio vuole, sin dall’inizio e per sempre, per l’uomo. Creando l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza, Dio vuole per loro la pienezza del bene, ossia la felicità soprannaturale, che scaturisce dalla partecipazione alla sua stessa vita. Commettendo il peccato l’uomo respinge questo dono e contemporaneamente vuol diventare egli stesso “come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3, 5), cioè decidendo del bene e del male indipendentemente da Dio, suo creatore… Il peccato opera la rottura dell’unità originaria, di cui l’uomo godeva nello stato di giustizia originale: l’unione con Dio come fonte dell’unità all’interno del proprio io, nel reciproco rapporto dell’uomo e della donna (comunione di persone) e, infine, nei confronti del mondo esterno, della natura (MD 9). Comunemente il peccato designa la trasgressione libera e volontaria dell’ordine stabilito da Dio (cf. 1 Gv 3, 4). Il peccato “originale” conduce all’ignoranza esistenziale della paternità di Dio, che conduce all’egocentrismo e alla sottomissione alla concupiscenza. Ciò ha caratteristiche esistenziali come la vulnerabilità, la paura, la solitudine, l’egoismo. Con il peccato entrano nel mondo la sofferenza, la miseria, la morte. L’uomo nel peccato vive nella “carne”, lasciato a se stesso, e costretto a difendere strenuamente la fragile vita che possiede. Ha inizio così la sudditanza alla concupiscenza (cf. Ef 2, 1-3), che raggiunge per propagazione tutti (DS 1512-1513). Il peccato ha indebolito e ferito la natura umana, ma non l’ha distrutta. La dignità umana è preservata nel libero arbitrio che tende al bene e sussiste anche dopo il peccato, sebbene esso sia attenuatum et inclinatum (cf. Trento, DS 1521,1525,1555). Il peccato però come morte dell’anima, rende incapaci di compiere il bene e impone la schiavitù del diavolo (cf. CCC 407). Con i Padri (cf. p.e. Origene, Ireneo) possiamo dire che il peccato senza eliminare l’”Immagine” (Eikôn) di Dio nell’uomo, ha però snaturato la “Somiglianza” (Homoiôsis). Grazie alla conversione e alla giustificazione è data all’uomo la possibilità di “non peccare più” (cf. 1 Gv 3, 6.9), ovvero di non soggiacere più alla tirannia delle passioni egoistiche. Lo Spirito ristabilisce così la “somiglianza” dell’uomo con Dio.

Il Magistero recente ha sottolineato che accanto al peccato personale esistono anche delle strutture di peccato. Queste “si radicano nel peccato personale e, quindi, sono sempre collegate ad atti concreti delle persone, che le introducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere. E così esse si rafforzano, si diffondono e diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini. “Peccato” e “strutture di peccato” sono categorie che non sono spesso applicate alla situazione del mondo contemporaneo. Non si arriva, però, facilmente alla comprensione profonda della realtà quale si presenta ai nostri occhi, senza dare un nome alla radice dei mali che ci affliggono” (ReP 16 = SRS 36). Se il compito sacerdotale della Chiesa consiste nel rimettere i peccati, il suo mandato profetico la porta a denunciare le strutture di peccato e la sua missione sociale la sospinge a creare nuove strutture di bene comune (FM 25).

Perdonare/Perdono:

É l’atto con cui si condona il peccato mediante la carità, giungendo così alla riconciliazione. Il perdonare dovrebbe comportare questi elementi: la comprensione, l’espiazione e l’oblio. La comprensione riconosce che il peccatore è stato ingannato e traviato. Non può darsi vero perdono senza il previo giudizio di misericordia che distingue il peccatore dal peccato (cf. Gv 8, 10ss) e compatisce la situazione di peccaminosità come una “morte” esistenziale (cf. Lc 15, 24.32). Dio perdona, perché conosce il cuore dell’uomo e la sua fallibilità. Per questo egli aspetta con indomita speranza la conversione del peccatore (cf. Sap 11, 23): così fa il Padre del figliol prodigo (Lc 15, 20b). Gesù sulla croce prega: “Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34). L’espiazione consuma la malignità nell’amore e può giungere fino a trasformare la sofferenza subìta in intercessione per il peccatore. “Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti… Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori” (Is 53, 5-6.10-12). Gesù, vero servo di Jhwh e Agnello di Dio (cf. Gv 1, 29) con la sua intercessione d’amore ha espiato tutti i nostri peccati (cf. 1 Gv 2, 2). L’oblio indica che il cuore di chi ha perdonato deve essere totalmente libero da qualsiasi risentimento, astio o rancore. Il Signore si “getta dietro le spalle” i peccati degli uomini (Is 38, 17); egli strappa definitivamente il debito che pesa sui peccatori  (cf. Mt 18, 27; Col 2, 14). Umanamente questo significa avere una disposizione abituale a dimenticare i torti subiti (cf. Mt 18, 21-22). Il perdono non è frutto d’impegno o di sforzo umano, ma è opera della → carità, che “non tiene conto del male ricevuto” (1 Cor 13, 5). Esso è pertanto possibile soltanto per opera dello Spirito Santo che conforma all’amore misericordioso di Cristo (Ef  4, 32).

La → Chiesa ha ricevuto da Cristo lo stesso suo potere divino di perdonare i peccati (cf. Mc 2, 10). Essa lo fa prima di tutto mediante il Battesimo (cf. Mt 28, 20), ma specialmente con il sacramento della penitenza  (cf. Gv 20, 23). L’Eucaristia è anche la festosa celebrazione dei redenti e il memoriale della remissione dei peccati nel sangue di Cristo (cf. Mt 26, 28).

Persona:

Anche se il termine di persona non compare come tale nella Scrittura la nozione è di matrice giudeo-cristiana e racchiude l’essenziale dell’antropologia biblica: si tratta dell’uomo come essere indivisibilmente corporeo e spirituale (corpore et anima unus, GS 14); creato ad immagine di Dio, cioè dotato di intelligenza, libero arbitrio, e capacità di relazionarsi con il prossimo e con Dio. Il carattere di persona rende l’uomo unico e irripetibile e lo colma di dignità. Egli è infatti la sola “creatura che Dio abbia voluta per se stessa” (GS 24). Essendo Dio Amore personale e addirittura tri-personale, la natura teomorfa della persona fa si che essa non possa “realizzarsi pienamente se non attraverso un sincero dono di sé” (ib.). L’unicità della persona umana ha il suo fondamento nell’unicità del Figlio unigenito di Dio, vera e perfetta Immagine di Dio (cf. Col 1, 15).

Povertà/povero:

La povertà materiale è la condizione di privazione di beni, di successo, di sicurezza. L’AT non considera ovviamente tale situazione invidiabile, giacché la → prosperità è considerata segno visibile della benedizione divina (cf. Dt 15, 4). La Legge del Signore assicurava al povero (forestiero, orfano e vedova) il diritto ad essere giudicato con imparzialità (cf. Lv 19, 10), a beneficiare dei racimoli delle mietiture (Lv 23, 22), a godere di prestiti senza interessi (Lv 25, 36), a preservare un minimo vitale (Lv 24, 12); in una parola alla generosità degli Israeliti (Dt 15, 11). I profeti ribadiscono e accentuano le esigenze di giustizia e fraternità contenute nella Torah. Così il soccorrere i miseri equivale al vero digiuno (Is 58, 6-7) e la compassione al vero culto (Os 6, 6). Gesù è in tutto erede della tradizione veterotestamentaria. Egli enfatizza che dando al povero si presta a Dio (cf. Pr 19, 17; Mt 19, 21); che la povertà spirituale è la giusta attitudine per la salvezza (cf. gli anawîm, di Sof 2, 3; Mt 5, 3). Ma entrambe queste accentuazioni sono per così dire connotate cristologicamente, nel senso che Gesù stesso è il vero e perfetto Povero; colui che non ha dove reclinare il capo (cf. Lc 9, 58); che si è fatto povero per arricchirci con la sua umiltà filiale (cf. 2 Cor 8, 9), dando tutto se stesso in misericordia (Fil 2, 6ss). Dopo Cristo – per eccellenza il Povero del Signore (cf. Mt 11, 29)- è sua madre Maria che il NT presenta come l’emblema della povertà umana beneficata dalla ricchezza divina: il Magnificat esalta il chinarsi di Dio sulla “umiltà della sua serva” e canta la sua giustizia che capovolge le sorti: “ha ricolmato di beni gli affamati,  ha rimandato a mani vuote i ricchi” (Lc 1, 48.53).

La vittoria sull’indigenza. L’ideale descrizione della prima comunità cristiana recita così: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune… Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno” (At 4, 32-35). Si vuole documentare la possibilità di vincere la povertà materiale mediante la povertà spirituale e la comunione. La vera condivisione cristiana dipende da queste condizioni: la consapevolezza di non poter servire insieme Dio e Mammona, essendo l’attaccamento al denaro “radice  di tutti mali” (Mt 6, 24; 1 Tm 6, 10); un nuovo stile di vita segnato dalla sobrietà (nêpsis) che sa che tutto è dono di Dio (cf. 1 Cor 4, 7), e che “non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via. Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo” (1 Tm 6, 7-8); la coscienza di essere “membra gli uni degli altri” (Rm 12, 5), e di aver quindi un reciproco debito di carità e di condivisione fraterna (cf. Rm 13, 8); la certezza escatologica che quello che si fa al povero lo si fa a Cristo stesso (cf. Mt 25, 32ss).

Il voto di Povertà. La povertà è anche, insieme all’obbedienza e alla castità, uno dei tre voti professati da coloro che abbracciano la vita consacrata. Essa testimonia prima di tutto “Dio come vera ricchezza del cuore umano” e contesta profeticamente la società del consumo e dell’opulenza che stride atrocemente con la miseria di tante popolazioni. La vita dei religiosi tenderà quindi “all’amore preferenziale per i poveri e si manifesterà in modo speciale nella condivisione delle condizioni di vita dei più diseredati” (VC 90).

Progresso:

Si tratta dell’evolversi e accrescersi delle conoscenze, delle tecniche e delle capacità dell’uomo. Criterio del vero progresso è lo → sviluppo integrale della → persona. Il progresso della scienza e della tecnica che non tenesse conto del primato della persona umana e della sua dignità contraddirebbe il vero sviluppo: “La ricerca scientifica di base come la ricerca applicata costituiscono una espressione significativa della signoria dell’uomo sulla creazione. La scienza e la tecnica sono preziose risorse quando vengono messe al servizio dell’uomo e ne promuovono lo sviluppo integrale a beneficio di tutti; non possono tuttavia, da sole, indicare il senso dell’esistenza e del progresso umano. La scienza e la tecnica sono ordinate all’uomo, dal quale traggono origine e sviluppo; esse, quindi, trovano nella persona e nei suoi valori morali l’indicazione del loro fine e la coscienza dei loro limiti” (CCC 2293). Al riguardo si rileverà che occorre guardarsi tanto da un ingenuo ottimismo sul progresso umano, quanto da un pessimismo circa le capacità distruttrici che la moderna tecnica ha messo a disposizione del genere umano (armamenti, manipolazioni genetiche, diagnostica prenatale…) più che mai si impone una sana critica del progresso che riconduca l’uomo alla sua giusta collocazione di “dominatore vicario di Dio” sulla terra (cf. Gen 1, 26-28; 2, 25). La signoria goduta dall’uomo ne legittima l’operosità e l’inventiva tecnico-scientifica; la sua vicarietà nei riguardi di Dio lo salvaguarda dalla tentazione idolatrica di onnipotenza. La terra e la natura sono state affidate dal Creatore all’uomo perché le domini, le coltivi e ne tragga beneficio, ma non sono un serbatoio di potenzialità da sfruttare in modo scriteriato. Il sano progresso tiene il giusto mezzo tra il tecnicismo (che assolutizza il potere umano e riduce a materia bruta il mondo subumano) e l’ecologismo (che assolutizza la natura e contesta la superiorità dell’uomo).

Notiamo infine che l’idea stessa di progresso deve molto alla concezione teleologica del tempo portata dalla nozione biblica di Storia della salvezza. Il progresso però è una realtà immanente, allorchè la speranza escatologica è di ordine trascendente e meta-storico. “Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce a offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del Regno di Cristo, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, tale progresso è di grande importanza” (GS 39 = CCC 1049).

Prossimo:

Nella Bibbia, è il connazionale, il vicino, colui che concretamente condivide l’esistenza. Nel precetto di Lv 19, 17 esso equivale a un membro del popolo ebraico. Eppure, già nell’AT si profila una dilatazione dell’amore del prossimo. Vi sono dei doveri di giustizia e di solidarietà umana anche verso il forestiero (cf. Es 22, 10) e persino verso il nemico (cf. Es 23, 4). La letteratura profetica e sapienziale sviluppa la coscienza di appartenere ad un unico genere umano (cf. Sap 11, 23; Mal 2, 10). Ma è con il NT che avviene la piena universalizzazione dell’amore del prossimo. Gesù non solo fa suo il comando antico, ma lo collega direttamente con il più grande precetto dell’amore di Dio (cf. Mc 12, 28-31). Egli non solo ratifica la regola d’oro di non fare agli altri ciò che non si vorrebbe subire (cf. Tb 4, 15; Rm 13, 8-10), ma la volge al positivo, chiedendo di fare agli altri ciò che si vorrebbe per sé (cf. Mt 7, 12). I destinatari di questo comando non sono più soltanto i connazionali, ma tutti gli uomini indistintamente (anthrôpoi). La parabola del Buon Samaritano  è il brano più emblematico di questo universalismo (Lc 10, 29-37). Il vero amore del prossimo consiste nell’accostarsi e nel soccorrere il bisognoso tralasciando qualsiasi altra considerazione di tipo religioso o etnico. In verità, lo Straniero che si è fatto prossimo all’umanità morente non è altri che il Signore Gesù stesso. Lui per primo ha dimostrato che non si può amare il Dio invisibile senza amare il fratello (cf. 1 Gv 4, 20).

Prosperità:

Nell’AT la prosperità materiale rappresenta una benedizione divina (cf. p.e. Dt 28, 12). Vi è la consapevolezza che tutto, ricchezza e povertà, viene dal Signore (Sir 11, 14). La ricchezza è buona quando è frutto del timor di Dio (Sal 25, 12-13) e destinata alle elargizioni di beneficenza (Sal 112, 5). Altrimenti l’abbondanza intorpidisce il cuore, rendendo stolto e orgoglioso (Sal 49, 13; Ez 28, 5). La sapienza biblica porterà a chiedere a Dio di possedere il giusto: quel che basta per esser grati al Signore e per non ricorrere al furto (Pr 30, 8-9). Ma la vera prosperità sta nella sapienza, nell’amore di Dio e nell’osservanza della sua Torah, che vale più di “mille pezzi d’oro e d’argento” (cf. p.e. Sal 119, 72; Sap 7, 11). L’insegnamento cristiano si situa in continuità con il Primo Testamento. Gesù stigmatizza spesso il pericolo delle ricchezze che impediscono di entrare nel Regno (cf. Mt 19, 23), che istupidiscono il cuore, lo chiudono all’esperienza della Provvidenza, lo accecano sulla vera ricchezza da procurarsi con l’elemosina e la carità e lo rendono insensibile alla → sofferenza del → prossimo (cf. Lc 12, 15-34; 16, 19ss). Nel Terzo Vangelo si trova una teologia della redenzione delle ricchezze materiali mediante la carità: il fedele è chiamato ad “arricchire davanti a Dio” (Lc 12, 21); a farsi amici con il denaro usato con spregiudicata liberalità (Lc 16, 9). La prospettiva è sempre quella della “vita eterna nel mondo che verrà” (Lc 18, 30). Si capisce così che nel cristianesimo la prosperità non è demonizzata, ma deve essere integrata nella ricerca della Ricchezza vera ed eterna, quella che l’Agnello ha ereditato (cf. 1 Tm 6, 17-19; Ap 5, 12). Quanto più si crede nella ricompensa eterna, tanto più si vive con sobrietà, giustizia e vera pace su questa terra.

Riconciliazione:

Si tratta del recupero di un legame di amicizia o di alleanza che era stato perduto a causa del peccato o del tradimento di una delle parti. In concreto il ristabilire una relazione infranta avviene generalmente chiedendo e dando il perdono. Nel NT (soprattutto nella teologia paolina) la riconciliazione comporta tre piani: con Dio, con se stessi, con gli altri e con il mondo. La prima riconciliazione concerne il rapporto tra l’umanità e Dio. Questi prende l’iniziativa della rappacificazione e la realizza mediante Gesù Cristo, nel quale, Dio condanna il peccato e giustifica i peccatori (2 Cor 5, 18-21). Riconciliazione equivale pertanto a giustificazione e pacificazione con Dio (cf. Rm 5, 1s). Dal momento in cui Cristo muore in Croce, Dio non vede più l’umanità peccatrice e disobbediente, ma soltanto l’uomo Gesù, che in nome di tutto il genere umano, compie l’atto di obbedienza e di amore perfetto. Il suo Sì ha coperto e ingoiato tutti i No dei peccatori (cf. 1 Cor 15, 54; 2 Cor 1, 20). La dimensione personale della riconciliazione consiste nel fatto di aver ricevuto, dopo il perdono dei peccati, “non uno spirito da schiavi per ricadere nella paura”, ma “uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: ‘Abbà, Padre!’. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8, 15-16); uno “spirito non di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza” (2 Tm 1, 7). La vera riconciliazione dell’uomo con se stesso si dà nella scoperta della propria identità filiale nei riguardi di Dio. Adozione, salvezza e riconciliazione combaciano. Ma la riconciliazione ha anche  una dimensione “orizzontale” e cosmica. Per mezzo di Gesù è finito l’ordine antico che stabiliva l’inimicizia tra Ebrei e Gentili. Il sacrificio di Cristo abbatte ogni “muro di separazione”; l’amore disteso sulla croce annulla qualsiasi divisione tra gli esseri umani (cf. Ef 2, 14; Gal 3, 28). La pace ottenuta dal “sangue della sua croce” (Col 1, 20) si estende a tutto l’Universo. In questo nuovo “eone”, che la Chiesa anticipa in quanto mundus reconciliatus (Agostino), si può entrare “lasciandosi riconciliare con Dio”, accogliendo il Vangelo che è la “parola della riconciliazione” (2 Cor 5, 20, → evangelizzazione). Gesù indica la riconciliazione con il proprio avversario come prioritaria condizione per presentarsi all’altare di Dio (Mt 5, 24). Essa suggella il recupero della comunione mediante il perdono ed è pertanto già in quanto tale sacrificio bene accetto al Padre (cf. Mt 9, 13; Os 6, 6).

Salvezza:

É il termine con cui si designa l’azione e il frutto dell’opera di liberazione e di riconciliazione compiuta da Dio per mezzo di Gesù Cristo e comunicata mediante lo Spirito Santo. “La salvezza in Cristo, testimoniata e annunziata dalla Chiesa, è autocomunicazione di Dio: ‘È l’amore che non soltanto crea il bene, ma fa partecipare alla vita stessa di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo. Infatti, colui che ama, desidera donare se stesso’” (RM 7). Cristo stesso in quanto è personalmente l’alleanza tra Dio e l’umanità può essere denominato “la Salvezza” (cf. Lc 2, 30; 1 Cor 1, 30). Con il Concilio Vaticano II possiamo definire la salvezza come “l’intima unione con Dio e l’unità di tutto il genere umano” (LG 1). La salvezza nell’AT era legata alla → giustizia divina che liberava gli oppressi e li introduceva nella sua alleanza. Nel NT Gesù si presenta come il Salvatore escatologico, venuto a liberare l’umanità da ogni forma di male (cf. Lc 4, 18-21; At 10, 38). I numerosi miracoli e guarigioni fisiche che egli compie sono segni del suo potere salvifico che coinvolge tanto lo spirito quanto il corpo (cf. Mc 2, 1-12). La salvezza consisterà infatti nella  liberazione dal peccato e dalla morte. Gesù Cristo ha vinto il primo con la sua Croce e la seconda con la sua Risurrezione. Si ottiene la salvezza mediante la conversione, suscitata dalla → evangelizzazione. La salvezza è nel contempo immanente ed escatologica. Come realtà presente essa indica la vita di comunione filiale con Dio e fraterna con il prossimo, nella pace, gioia e amore: è il Regno che inizia sulla terra (cf. Rm 14, 17). Come dimensione ultraterrena, essa indica la pienezza del Regno: la comunione nella gloria, l’eredità eterna, la gioia del paradiso, la risurrezione gloriosa del corpo (cf. p.e. Mt 19, 29; 25, 34; Rm 8, 23-24). La → Chiesa cattolica dispone di tutti i mezzi di salvezza (cf. LG 8, UR 3): tutta la Rivelazione mediante la Parola di Dio (la Scrittura letta con la Tradizione vivente); i Sacramenti; i concreti vincoli di comunione della vita ecclesiale.

Sofferenza:

La sofferenza e il dolore sono una dimensione dell’esistenza terrena che interroga radicalmente il cuore dell’uomo. Quale senso ha il soffrire? Da questo quesito si sono determinate le più varie risposte. Il modo più tradizionale di parlare del dolore è di riportarlo alla sua causa: il peccato (cf. Gen 3, 16-19). Ma l’AT stesso percepisce che non si può porre sic et simpliciter un legame causale e tra peccato e sofferenza della persona. Esiste il dramma della sofferenza innocente. La figura di Giobbe rappresenta la più audace contestazione delle classiche e benpensanti teodicee, per cui il dolore è il giusto castigo della colpa. Il libro dell’AT si arresta con l’affermazione del necessario silenzio di fronte ad un mistero insolubile (cf. Gb 38-42). Il NT rispetta questo riserbo: “Gesù non spiega la sofferenza ma la riempie con la sua presenza” (Claudel). Cristo ha passato tutta la sua vita beneficando e risanando tutti i sofferenti (cf. At 10, 38), nel corpo e nello spirito. Di fronte alla sofferenza egli si pone come colui che la vuole sollevare (cf. Lc 4, 1-4). Anch’egli, come Giobbe rifiuta di ascrivere il dolore fisico ad una colpa personale. L’unico valore positivo della sofferenza è quello di dare occasione all’uomo di convertirsi (cf. Lc 13, 1-5) e a Dio di compiere le sue opere (cf. Gv 9, 3).  Nella lettera apostolica Salvifici doloris, Giovanni Paolo II ha indagato il significato cristiano del dolore umano. Egli vede in Gesù Cristo la vittoria dell’amore sulla sofferenza: “nella sua sofferenza i peccati vengono cancellati proprio perché egli solo come Figlio unigenito poté prenderli su di sé, assumerli con quell’amore verso il Padre che supera il male di ogni peccato; in un certo senso annienta questo male nello spazio spirituale dei rapporti tra Dio e l’umanità, e riempie questo spazio col bene” (SD 17). I cristiani possono divenire partecipi delle sofferenze di Cristo (19-24), giacché “nella croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta.”. (SD 19). Al Calvario, il Figlio di Dio si è fatto “uomo dei dolori” (cf. Is 53) e nel grido dell’abbandono estremo (Mt 27, 46) è stato messo alla prova in tutto per poter condividere la sorte dell’ultimo degli uomini sofferenti (cf. Eb 2, 18). Gesù ha talmente preso l’ultimo posto che nessuno potrà mai toglierglielo (Charles de Foucauld). Da quel momento la sofferenza è stata per così dire santificata, glorificata, perché è divenuta espressione dell’amore divino. Unendo le proprie sofferenze a quelle di Cristo, i cristiani possono dare un senso pieno ad ogni loro dolore (cf. Col 1, 24). Sapendo inoltre che in ogni sofferente è presente Cristo, essi faranno di tutto per servire il loro Signore nei fratelli doloranti (cf. Mt 25, 32ss). “Cristo allo stesso tempo ha insegnato all’uomo a far del bene con la sofferenza e a far del bene a chi soffre. In questo duplice aspetto egli ha svelato fino in fondo il senso della sofferenza” (SD 30).

Solidarietà:

É la virtù morale e sociale che, nata dalla consapevolezza dell’interdipendenza e corresponsabilità tra gli uomini e le nazioni, si attua nella “determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno” (SRS 38). La solidarietà comporta in se stessa l’esigenza della → giustizia. Fondamento naturale della solidarietà è la → fraternità universale e la comune origine del genere umano in Dio creatore; i cristiani vedono nella vocazione divina di ogni uomo e nella redenzione operata da Cristo il motivo di esercitare la solidarietà come forma di carità: “Il principio di solidarietà, designato pure con il nome di ‘amicizia’ o di ‘carità sociale’, è  una esigenza diretta della fraternità umana e cristiana”. “La legge della solidarietà umana e della carità” ha un fondamento naturale “nella comunità di origine e nell’uguaglianza della natura ragionevole, propria di tutti gli uomini” e uno soprannaturale, nel “sacrificio offerto da Gesù  Cristo sull’altare della croce… per l’umanità peccatrice” (CCC 1939). Deve esistere anche una solidarietà tra le nazioni  che miri a “bloccare ‘i meccanismi perversi’ che ostacolano → lo sviluppo dei paesi meno progrediti” (CCC 2437-2438).

Speranza:

É la seconda “virtù teologale” insieme alla →  fede e alla →  carità. Essa non è soltanto una fiducia e un’attesa dell’intervento salvifico di Dio come la si riscontra spesso nell’AT (cf. p.e. Sal 40, 2), ma un dono dello Spirito Santo che con la sua grazia orienta in modo divino la facoltà intenzionale dello spirito umano. Si tratta della certa, beata, energica e desiderosa attesa della gloria futura. La certezza della speranza deriva dalla fede che fornisce come l’anticipo delle realtà sperate (cf. Eb 11, 1); la gioia deriva dal fatto che la speranza è un’estasi dello spirito verso la pienezza della salvezza di cui si possiedono già le primizie (cf. p.e. 2 Cor 5, 4-10); l’energia o operosità della speranza dipende dal suo nesso con la carità; la speranza è una tensione attiva, che vuole anticipare e affrettare l’avvento del Regno definitivo, mediante il “seminare nello Spirito Santo” con un’esistenza di amore (cf. Gal 6, 7-8). L’essenza stessa della speranza è un perseverante protendersi in avanti del desiderio (cf. Rm 8, 25). Le tre virtù sono come tre sorelle: le due maggiori Fede e Carità tengono per mano la sorellina, Speranza, ma questa trascina le altre due dove vuole lei (Péguy).

Sviluppo (integrale):

Si tratta di tutta l’attività umana tesa a migliorare la condizione dell’uomo, in ogni sua dimensione: fisica, sociale, morale, culturale e spirituale. Il vero sviluppo, cui gli Stati devono tendere, implica quindi una serie di misure sociali miranti ad assicurare un degno tenore di vita, la pace civile, la giustizia sociale, il diritto all’istruzione e soprattutto la libertà di pensiero e di religione. Norma del vero →  progresso, lo sviluppo integrale ha pertanto come criterio il bene della →  persona. “L’uomo vale più per quello che è che per quello che ha. Parimenti tutto ciò che gli uomini compiono allo scopo di conseguire una maggiore giustizia, una più estesa fraternità e un ordine più umano nei rapporti sociali, ha più valore dei progressi in campo tecnico. Questi, infatti, possono formare, per così dire, la materia alla promozione umana, ma da soli non valgono in nessun modo ad effettuarla” (GS 35). Nella Populorum progressio, Paolo VI, descrivendo lo sviluppo integrale come un processo di maggiore umanizzazione elencava così i passi da fare: “l’ascesa dalla miseria verso il possesso del necessario, la vittoria sui flagelli sociali, l’ampliamento delle conoscenze, l’acquisizione della cultura… L’accresciuta considerazione della dignità degli altri, l’orientarsi verso lo spirito di povertà, la cooperazione al bene comune, la volontà di pace… Ancora, il riconoscimento da parte dell’uomo dei valori supremi, e di Dio che ne è la sorgente e il termine… Infine e soprattutto: la fede, dono di Dio accolto dalla buona volontà dell’uomo, e l’unità nella carità del Cristo che ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini” (PP 21). Questo equivale alla promozione di un “umanesimo plenario” cioè “lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini” (PP 42). “Un umanesimo chiuso, insensibile ai valori dello spirito e a Dio che ne è la fonte, potrebbe apparentemente avere maggiori possibilità di trionfare. Senza dubbio l’uomo può organizzare la terra senza Dio, ma ‘senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano’. Non v’è dunque umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento d’una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana. Lungi dall’essere la norma ultima dei valori, l’uomo non realizza se stesso che trascendendosi. Secondo l’espressione così giusta di Pascal: ‘L’uomo supera infinitamente l’uomo’” (PP 42). Il vero sviluppo solidale dell’umanità conduce quindi al rinvenimento della fraternità dei popoli (PP 43-75) e si potrà allora dire che esso è il nuovo nome della pace (PP 76-80).

Volontariato:

Per la fede cristiana ogni forma di debolezza e sofferenza umana può divenire luogo privilegiato della presenza del Cristo. A partire dal secondo dopoguerra, il volontariato, cioè l’impegno diretto accanto alle persone in difficoltà, entra in relazione con i nascenti sistemi di welfare state che istituzionalizzano una solidarietà tra “sconosciuti”, mediata dal prelievo fiscale e regolata politicamente. Dagli anni ’60, la persistenza dei fenomeni di povertà pone la questione di un rinnovato slancio del volontariato. Esso assume connotazioni nuove e motivazioni più forti. Così ora il volontariato consiste nel mettere in modo continuativo, spontaneo e gratuito – preferenzialmente associato -  una parte del proprio tempo libero e delle personali capacità e competenze al servizio della comunità, soprattutto delle persone più deboli.  Esso si esprime attraverso un’attività concreta, spesso creativa e anticipatrice di idee per una migliore risposta ai bisogni con servizi adeguati; tende a coniugare l’intervento diretto con la sensibilizzazione della società e con l’azione politica per cambiare le strutture che producono disagio e ingiustizia; vuole operare in collaborazione con chiunque si muova in sintonia coi valori di solidarietà, giustizia, pace. Nel suo evolvere, il volontariato organizzato ha assunto forme e caratteristiche diverse. Vi sono, infatti, le Organizzazioni dell’area ecclesiale, canonicamente riconosciute dalla gerarchia, spesso promosse dalle Caritas o ad esse collegate; c’è un volontariato di base, individuale od organizzato, che fa capo alle parrocchie;  persiste un volontariato strutturato di stampo tradizionale, che rivendica la propria autonomia laicale pur ispirandosi ai principi cristiani, mentre è sorto un volontariato innovativo e più attento alla dimensione politica della società umana. Infine, e non per ultimo, si realizzano programmi tesi a promuovere l’impegno volontario di condivisione con i poveri come percorso formativo proposto soprattutto ai giovani.

Sigle e abbreviazioni:

AA = Vaticano II, Apostolicam actuositatem (1965)

AG = Vaticano II, Ad Gentes (1965)

CA = Giovanni Paolo II, Centesimus annus (1991)

CCC = Catechismo della Chiesa cattolica (1992);

CDF = Congregazione per la Dottrina della Fede;

CFL = Giovanni Paolo II, Christifideles laici (1987);

DeV = Giovanni Paolo II, Dominum et vivificantem (1986);

DS = Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum;

EN = Paolo VI, Evangeli nuntiandi (1975)

FM = Pontificio Consiglio “Cor Unum”, La fame nel mondo (1996);

GS = Vaticano II, Gaudium et spes (1965);

LE = Giovanni Paolo II, Laborem exercens (1981);

LG = Vaticano II, Lumen Gentium (1964)

MD = Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem (1987);

PP = Paolo VI, Populorum progressio (1967);

ReP = Giovanni Paolo II, Reconciliatio et paenitentia (1987);

RH = Giovanni Paolo II, Redemptor hominis (1979);

RM = Giovanni Paolo II, Redemptoris missio (1990);

SD = Giovanni Paolo II, Salvifici doloris (1984);

SRS = Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis (1987);

TMA = Giovanni Paolo II, Tertio millenio adveniente (1994);

UR = Vaticano II, Unitatis redintegratio (1964);

UUS = Giovanni Paolo II, Ut unum sint (1995);

VC = Giovanni Paolo II, Vita consecrata (1995);

VS = Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor (1993).

A cura di C.L. Rossetti

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