02 – SAMARITANI O ALBERGATORI ? – Quale ospedale – Angelo Nocent

Il primo ospedale di San Giovanni di Dio a Granada

QUALE OSPEDALE ?


Nell’ospitalità che l’Ordine Ospedaliero di san Giovanni di Dio è chiamato dalla Chiesa a praticare nella società, addirittura con un voto solenne e pubblico che ogni membro emette, nulla di quanto previsto nella Regula Benedicti è andato perduto. Ciò che contraddistinguerà i suoi membri non sarà più l’aprire e ospitare esclusivamente a chi bussa alla porta del monastero.

Al contrario, coloro che si sono donati a Dio saranno spinti in direzione dei bisognosi. Non solo accoglienza dell’ospite, del pellegrino, ma appassionata e indefessa ricerca del povero e del bisognoso, dell’appestato, del ferito in guerra, di vecchi, vedove e bambini, di donne in difficoltà, di coloro che se ne stanno rintanati nei luoghi angusti e di emarginazione, senza il coraggio di ostentare la necessità dell’aiuto.

Insomma, Madre Teresa di Calcutta non ha inventato niente, ha semplicemente riscoperto ciò che nella Chiesa andava estinguendosi. E’ una riflessione che bisognerebbe avere il coraggio di fare ad alta voce per scoprire i ritardi e le opportunità mancate. Come mai tante giovani subiscono il suo fascino e vanno a rinforzare le file della Congregazione, proprio quando la crisi di vocazioni e generale?

I Fratelli Ospedalieri hanno portato lo spirito della tradizione monastica fuori dai chiostri. Nella lettura evangelica non si sono soffermati solo sul “Sono stato ospite e mi avete accolto, malato e mi avete visitato…”. Essi hanno preso coscienza che la vita quotidiana della gente assomiglia molto a quel tratto di strada che da GERUSALEMME porta a GERICO, così ben descritto nei particolari dall’evangelista Luca in 10,25-37. D’incappare nella disavventura può accadere a ogni viandante.

Infatti, la realtà della vita sembra molto simile all’esodo del popolo d’Israele sulla rotta della terra promessa. Anche il nostro peregrinare nel deserto sembra proprio non avere mai fine ed in questo percorso lunghissimo chiesto dal Signore Dio prima di realizzare il suo Regno, non si contano coloro che vengono meno per strada e necessitano di amore viscerale.

Epperò, i quarant’anni biblici del nuovo esodo del mondo, sono ora contrassegnati da un Evento che ha definitivamente chiuso un capitolo. La Nuova Era é visitata e segnata dalla presenza del Signore Gesù, il Figlio di Dio, morto e risorto, Samaritano sulle strade dell’esistenza.

Sull’esempio del Maestro, anche i Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio hanno assunto il ruolo di samaritano e albergatore. Essi hanno utilizzato i mezzi e gli strumenti terapeutici rappresentati dall’olio e dal vino, si sono fatti schiene a disposizione di Dio, cavalcatura da soma per farsi carico di tutte le istanze del malato, locanda per le più svariate esigenze.

Se i monasteri benedettini hanno fornito ispirazione sull’esercizio dell’ospitalità anche ai Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, dagli stessi monasteri, per quanto in trasformazione, essi possono ancora umilmente attingere capacità creativa da coloro che della lectio divina hanno fatto una ragione di vita:

  1. Se la foresteria poggia sulla interiorità dei monaci, l’ospedale evangelico deve poggiare sull’interiorità dei suoi operatori sanitari, consacrati e laici.

  2. Una foresteria monastica non può essere tale se dietro di essa non c’è la presenza silenziosa e irradiante di una comunità riunita nel nome di Cristo.

  3. Un ospedale evangelico non può dirsi tale se non si fonda su una comunità che sappia, in uno spirito di fede, essere disponibile, accogliere tutti come Cristo in persona (cf.v.1 RB), offrire in semplicità e umiltà a coloro che vengono nel luogo di cura non solo prestazioni terapeutiche ma anche un’esperienza umana e spirituale riscontrabile e vivibile nella Fraternità.

  4. La Fraternità-Comunità terapeutica non mette a disposizione solo professionalità personale e istituzionale ma si fa mediatrice della propria vita di fede, di preghiera, di meditazione, di lavoro, di cultura, di ben-essere, con la Chiesa locale.

Molti si chiedono, e per primi gli Ospedalieri e le Congregazioni che si occupano di assistenza, se c’è differenza tra un ospedale pubblico e quello tenuto dai religiosi.

Se il criterio di comparazione è posto in termini di efficienza organizzativa, di qualità dei servizi, si potrebbe concludere che nel servizio pubblico esistono ritardi ed inefficienze, compensate talvolta da alta tecnologia. Ciò vuol dire che il divario può essere progressivamente ridotto o annullato. Dunque, non è questo il punto che fa la differenza. Anzi, a lungo andare la competizione potrebbe logorare e mettere a dura prova proprio coloro che oggi sono avvantaggiati. Le spese di gestione tendono al rialzo mentre le sovvenzioni, attraverso accorte strategie politiche e DRG non corrispondenti ai costi reali, mirano al ribasso. In questa situazione potrebbe verificarsi perfino un felpato ostracismo degli istituti religiosi dalla sanità senza la necessità di leggi infami e infamanti di soppressione e incameramento dei beni, come si è verificato in altre epoche. Essi potrebbero essere portati a scomparire da soli, strangolati da debiti e fallimenti. A qualcuno (Evangelici del Piemonte) la sorte è già toccata. Non un’espropriazione da parte dello Stato quindi, ma una volontaria cessione dei beni che, oltre ai danni, si trascinerebbe dietro anche una beffa: quella di apparire all’opinione pubblica, se non proprio amministratori truffaldini e sospetti speculatori, certamente uomini di Chiesa poco avveduti.

Dalle Fraternità FBF in questi anni sono partiti messaggi che hanno colpito nel segno: umanizzare l’ospedale, mettere l’uomo malato al centro della politica sanitaria, unità d’intenti degli operatori sanitari…, questi sono gli argomenti forti sostenuti in un momento di grande debolezza delle istituzioni.

Oggi la parola “umanizzazione”, così inflazionata fino a ieri, è finita in disuso, se non proprio avversata con argomenti non sempre condivisibili. Ricordo un medico che diceva: “Questo è un ospedale. Per umanizzarlo volete mettere il gioco delle bocce in reparto? Bene, fatelo! Cosa cambierà?”.

Quando noi usiamo la parola umanizzazione dovremmo essere tutti concordi che la intendiamo in senso evangelico, ossia che non vuol dire semplicemente passare da corsie a tre stelle a luoghi di cura a cinque stelle. Umanizzare vuol dire che la sanità è la risposta alla visione che si ha dell’uomo. Così scriveva il Dr. Pierluigi Micheli, già Primario all’Ospedale FBF San Giuseppe di Milano e associato all’Ordine Ospedaliero:

“La medicina deve occuparsi dell’uomo nella sua totalità: l’avvenire della medicina è condizionato dal concetto che si ha dell’uomo. Il colloquio del medico ricorda la confessione. Ippocrate insegnava che deve mortificare l’insolente, il prepotente; stabilire l’ordine l’isonomia; è ministro di giustizia, deve essere messaggero di speranza, di ottimismo, di certezza nell’avvenire. Sua deve essere una sacralità caritativa e poetica: litteratissimus et humanus (Flavio Biondo). Deve essere come il samaritano che reca l’olio per ottenere attraverso la guarigione del corpo la salute, la ripresa delle ordinarie occupazioni, degli affari domestici, della socialità” (f.108)

In un altro passo  ha scritto:

“La medicina moderna ha raggiunto un grado di tecnologia avanzatissimo, estremamente elevato, ma ha dimenticato in gran parte che possiedono virtù terapeutiche le energie che risiedono nella parola, nell’immagine, nelle arti, nella persona del medico e in noi stessi, in quella forza naturale che gli antichi chiamavano virtus” (f.149)

Come si vede, egli ha intuito e praticato una medicina che non è meccanicistica e non solo umanistica in senso riduttivo. La virtus del Dr. Micheli è curare in stretto rapporto con lo Spirito Santo.

Colgo l’occasione per infliggere contro ignoti una punzecchiatura: sta bene averlo aggregato all’Ordine prima del pensionamento; non è tollerabile che venga dimenticata una vita di esemplare dedizione al malato.

Il Micheli può ancora parlare alle nuove generazioni sia attraverso l’esempio lasciato che attraverso i suoi scritti dai quali emergono lucide intuizioni e saggi ammonimenti per operatori sanitari di ogni grado. A tale proposito rimando alla lettura del volume di Andrea Martano, Federico Motta Editore, prefazione di Gianfranco Ravasi, “PIERLUIGI MICHELI MEDICO UMANISTA” e, volendo, alla  modesta mia testimonianza in “PIERLUIGI MICHELI – UN’ESISTENZA RIUSCITA”, pro manu scripto.

Personalmente, leggendo gliscritti pubblicati fin’ora, sono rimasto così affascinato che, avendolo anche conosciuto, ho provato grandi emozioni a raccogliere elementi della sua spiritualità, una ricchezza nota a pochi e che non dovrebbe andare trascurata e dispersa. Per darne un saggio della sua elevatezza spirituale, riporto il capitoletto di pag. 41,titolato “LA SINTESI” , perché si addice al tema. Vi si legge:

“Il Vescovo, [C.M.Martini] mentre istruisce ed ampia i nostri ristretti orizzonti, indirettamente ci suggerisce la metodologia orientativa per osservare il cristiano Micheli.

Bisognerebbe domandarsi se possediamo elementi significativi per affermare che Pierluigi ha percorso le quattro tappe evangeliche e, se sì, quali sono. A queste domande il tempo risponderà con più precisione. Io mi sento già di rispondere un bel sì, in quanto:

Marco – La scoperta di un nuovo mondo di relazioni e di suoni, metànoia,   conversione di fronte alla persona di Cristo si è verificato;Matteo – Il luogo autentico di socializzazione della fede e della vita,la rete   di relazioni fraterne si sono verificate sia nel mondo ospedaliero che nella vita;

Luca – La scoperta della vita come missione per gl’altri è sotto gl’occhi di         tutti ed è ammessa proprio da lui: “Eccomi, io sono pronto alla chiamata”;

Giovanni – Esperienza, scienza, cultura, umanità hanno fatto sintesi      secondo l’indicazione dell’Apostolo : “ Se uno non ama il prossimo che si           vede, certo non può amare Dio che non si vede” (Gv 1, 4,20).

Ho detto che vedo affondare le sue radici nella spiritualità di san Giovanni di Dio. Scrive infatti il Micheli:

“ La malattia deve essere anche un momento di riassetto esistenziale: nell’ospedale religioso si deve vivere questo momento come un momento evangelico. La malattia pone all’individuo una riflessione sul suo iter esistenziale, sul suo passato, sul presente e su quello che sarà: la malattia è un evento che colpisce l’uomo nella sua interezza, nella sua unitarietà di anima e corpo e non solo un evento biologico.

Così intesa la comunità ospedaliera diventa Chiesa e il personale religioso forza trainante, il sale della comunità. A questa chiesa è dovuta la pastorale della sofferenza, a lei tocca lo spirito di San Giovanni di Dio: prendere sulle spalle il malato.

L’ospedale religioso, questa chiesa , deve essere sale, lievito e luce per tutta la società in cui il cristiano vive e soprattutto il luogo dove il cristiano può confortare la sua malattia e dove compiere la sua buona morte, Il vero hospitium pietatis “.(pag.73)

Ed ancora: “ Preferirei dire che l’ospedale religioso è un luogo di evangelizzazione. Evangelizzare vuol dire vedere i problemi quotidiani con la lampada del Vangelo, vuol dire vedere nel malato l’uomo, condividendo con lui le sue sofferenze, le sue preoccupazioni, i suoi rimpianti, le sue esperienze “ (pag.75).

Non si leggono qui riassunti i percorsi dei quattro Evangeli?

1. Marco

  • Apertura degli occhi e degli orecchi,

  • mondo di relazioni,

  • accorgersi delle voci imploranti,

  • relazionarsi con esse;

  1. Matteo

  • L’ospedale come luogo della fede e della vita;

2.  Luca

  • La condivisione,

  • il progetto di ospedale, luogo di pace biblica, shalòm nella totalità dei significati;

3. Giovanni

  • Sintesi: la carità ardente, a tutto tondo.

  • “O ignite caritatis exemplar insigne, Joannes, pater inclite !”, canta la  Liturgia di San Giovanni di Dio.

Il Micheli, da sempre sostenitore che “L’ospedale religioso deve mantenere questa sua identità, questa sua libertà (la comunità ospedaliera come Chiesa) anche se inserito nella struttura pubblica”, riconferma i suoi ideali proprio nell’ora del distacco da una famiglia ospedaliera tanto amata:

per gl’altri, con una gran fretta in corpo perché le invocazioni del dolore sono infinite e le mani soltanto due.

Se Anton Martin, Pedro Velasco, Simòn de Avila, Domenico Piola e Juan Garcìa, attorno a Giovanni di Dio, rappresentano la continuità, l’affiliazione di Pierluigi Marchesi al suo Ordine, è la congiunzione di un altro anello a questa successione ininterrotta di votati al sacrificio, con una croce in mano, senz’altra risorsa che la speranza, travolti dall’esempio prodigioso del Santo di Granata, arruolati nella sua grande avventura, uomini d’azione, mandatari della sua idea: carità.

  • Carità-amore,

  • Carità-dedizione di se stesso,

  • Carità-ultima volontà del Signore nelle sue parole estreme,

  • Carità-pienezza della Legge,

  • Carità-sintesi di tutte le norme,

  • Carità-dimenticanza di pensare a se stessi,

  • Carità-dignità del malato, di ogni persona,

  • Carità-fino alla morte.

L’idea non può essere più semplice. Né più grandiosa. “

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