Per una spiritualità della comunione: unità nella diversità


Per una spiritualità della comunione: unità nella diversità

Scritto da Enzo Bianchi

Cari Vescovi e Padri,
fratelli e sorelle,

Bianchi Enzo 1_vi chiedo di perdonare l’insipienza con cui ho risposto affermativamente all’invito di offrirvi una riflessione sul tema della spiritualità di comunione. Sono soltanto un monaco, un semplice laico che tenta di vivere quotidianamente in una comunità ecumenica questa spiritualità di comunione: aprirò allora la bocca con molta semplicità e, spero, in obbedienza alla parola del Signore che “vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1Tm 2,4) e che i credenti siano uno, partecipi della comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito santo.

Nell’autorevole relazione conclusiva del Sinodo dei Vescovi del 1985 si è detto che “l’idea centrale e fondamentale nei documenti del Concilio Vaticano II deve essere individuata nella ecclesiologia di comunione” e questa constatazione è ormai ampiamente condivisa nella Chiesa cattolica: possiamo dire che su di essa molti sono stati i contributi teologici, tra i quali paiono decisivi quelli di Jérome Hamer, di Jean-Marie Roger Tillard, di Ioannis Zizioulas, di Walter Kasper…


Ma un’autentica teologia è capace di generare anche una spiritualità o, per meglio dire, un’autentica teologia è sempre spirituale, pneumatica, capace cioè di incidere sulla vita interiore e sull’esperienza del cristiano e della comunità. D’altronde, la parola “koinonia” nel Nuovo Testamento indica innanzitutto la vita della chiesa nata dalla discesa dello Spirito santo, quella vita “epì tò autò” (At 2,44), perseverante nella didaké apostolica, nella frazione del pane, nella preghiera. La parola “koinonia” riassume le perseveranze essenziali alla chiesa nascente e le conferisce un volto, sicché la chiesa è epiphaneia della koinonia trinitaria, una koinonia partecipata nella dynamis dello Spirito santo attraverso la comunione apostolica (cf. 1Gv 1,3.6), una koinonia che è compimento della salvezza annunciata dal Vangelo.

Quando noi cristiani diciamo comunione, designiamo il mistero eterno della comunione che è la vita stessa di Dio, ma diciamo anche – essendo noi “syn-koinonoi” (cf. Fil 1,7; Ap 1,9), compartecipi – che a questa comunione noi partecipiamo nel corpo di Cristo, nel sangue di Cristo: la koinonia è dunque “essenza”, non “nota” della chiesa. Se la vita del cristiano e della chiesa è vita secondo lo Spirito santo, originata dallo Spirito e vita in Cristo, allora la spiritualità non può che essere spiritualità di comunione. La vita del cristiano e della chiesa deve essere dunque plasmata dalla comunione, la quale non è opzionale, non è una scoperta recente della teologia, ma è forma ecclesiae. Certamente, la comunione dei cristiani tra loro e con Dio nel pellegrinaggio della chiesa verso il Regno sarà sempre fragile, continuamente messa alla prova e sovente anche contraddetta; sarà una comunione che tende a essere piena ma che tale non sarà mai, se non nel Regno eterno. La comunione che ogni cristiano e ogni chiesa deve vivere risulta ferita, offesa, già nel Nuovo Testamento (cf. 1Gv 2,18; 3Gv 9-10…), ma allora come adesso nella chiesa è custodita e perseguita la volontà di Dio che chiede la realizzazione della comunione visibile del corpo di Cristo, l’essere uno (hén einai) come il Padre e il Figlio sono uno (Gv 17,11).


I cristiani sono consapevoli di questa necessità radicale della comunione quale forma della loro vita e della vita ecclesiale? Per questo a me pare importante che nella Novo millennio ineunte papa Giovanni Paolo II sia riuscito non solo a indicare la forza della koinonia, ma abbia chiesto una spiritualità della comunione, specificandola nelle sue manifestazioni e realizzazioni e riprendendo il lessico caro ai padri medievali che parlavano della comunità cristiana come “casa di comunione”, capace di essere “scuola di comunione” (NMI 43). Sì, l’ecclesiologia di comunione deve inverarsi in strumenti e strutture, ma questo è possibile e autentico solo se si percorre un cammino spirituale, solo se si riesce a instaurare nel tessuto quotidiano delle chiese una spiritualità di comunione.


E Giovanni Paolo II delinea questa spiritualità da contemplarsi innanzitutto nel mistero della Trinità di Dio che abita in noi e fa del cristiano la sua dimora. Si tratta perciò, dice ancora Giovanni Paolo II, di far nascere e crescere una capacità di sentire il fratello nella fede (anche il fratello con il quale la comunione non è piena) come un appartenente al corpo di Cristo, un mio fratello, con cui deve esserci conoscenza reciproca e condivisione. Nello spazio cristiano, infatti, l’altro non è “l’inferno” (cf. J.-P. Sartre), ma è “dono di Dio”, è ciò che mi manca e che mi rivela la mia insufficienza.

Sì, non è possibile essere cristiani e non solo non volere l’unità, ma non fare tutto ciò che è possibile per la comunione. Chi agisce e vive per la comunione con Cristo non può simultaneamente, non agire e non vivere per la riconciliazione e la comunione con i suoi fratelli, membra del suo stesso corpo.

A queste indicazioni lasciateci dalla Novo millennio ineunte vorrei aggiungere alcune urgenze per una spiritualità della comunione che sia veramente ispirata dalla ecclesiae primitivae forma.

  

Innanzitutto, l’esigenza che la comunione sia plurale. Non si dimentichi mai che la pluralità, la diversità è attestata dagli e negli scritti fondatori della nostra fede. Dell’unico Signore Gesù Cristo – “lo stesso ieri, oggi e sempre” (Ebr 13,8) – ci sono stati dati quattro vangeli, quattro annunci diversi, perché non la fissità di un libro, di uno scritto, bensì la dinamicità dello Spirito santo è all’origine del cristianesimo. C’è fin dall’inizio pluralità di espressioni scritturistiche, di ecclesiologie, di concezioni cristologiche, di prassi liturgiche, di testimonianze e forme della missio, di accenti spirituali… Questa pluralità – che riflette la policromia, la multicolore Sophia di Dio – e l’inesauribilità del mistero di Cristo accolto in culture diverse, è ricchezza di doni, ma è anche negazione di ogni fondamentalismo e di ogni integralismo cristiano. Fin dalle origini, l’unico Gesù Cristo dà spazio a diversi cristianesimi – giudeo-cristiano, etno-cristiano… – perché il Cristo creduto è connesso a comunità diverse di credenti, che si aprono a una conoscenza diversa e a un’attuazione diversa del mistero. Nelle Scritture neotestamentarie, nelle liturgie, nella vita delle chiese le diversità non sono negate ma assunte, e così l’unica verità, che è Gesù Cristo, è detta, celebrata, pensata in modi differenti.

  

C’è un limite alla diversità, che conosciamo come ricchezza ma a volte anche come possibile tentazione che conduce alla divisione, all’opposizione reciproca? Questione delicata – riconosce il metropolita Zizioulas – che concerne soprattutto la problematica ecumenica. E con sapienza egli dichiara che “la condizione più importante della diversità è che essa non distrugga l’unità”: questa è l’applicazione ecclesiale della parenesi paolina sull’unità del corpo, sulla possibilità di scandalizzare un membro, sulla carità che deve sempre prevalere. Il rapporto “uno – molti”, “unità – diversità” è sempre da viversi nell’obbedienza dell’unico corpo e della diversità dei doni dello Spirito santo. Non c’è vita “en Christo” senza la koinonia dello Spirito santo. Nel linguaggio di san Massimo il Confessore, la “differenza” (diaphoria) è positiva, ma non deve mai diventare “divisione” (diairesis).


Oggi, grazie anche agli apporti filosofici di Martin Buber e di Emmanuel Lévinas, siamo culturalmente più preparati ad accogliere la logica della koinonia, perché l’alterità è da noi compresa come essenziale all’esistenza. Mai senza l’altro, mai senza l’altro fratello, mai senza l’altra chiesa, mai senza il riconoscimento dello statuto teologico dell’altro. L’appartenenza di un cristiano a un’altra confessione deve poter ritrovare la forma della koinonia ecclesiale, ma deve apparire anche legittima: né assolutizzata, né demonizzata, altrimenti l’altro diventerebbe un nemico e non più “un fratello per cui Cristo è morto” (cf. 1Cor 8,11). Si tratta di imparare che ciò che unisce è molto di più di ciò che divide, e che il bene grande dell’incontro e della comunione può richiedere la rinuncia a ricchezze non essenziali. Qui la spiritualità di comunione diviene anche ascesi, ovvero capacità di discernere e scegliere sempre l’essenziale.


Spiritualità di comunione significa allora esercizio dell’arte dell’ascolto: non per cercare nell’altro, nell’altra chiesa ciò che vi è di più simile, ma per accogliere l’alterità anziché cancellarla. Nell’incontro ecumenico, l’ascolto appare allora soprattutto condivisione della vita e dei beni spirituali, frequentazione reciproca per imparare i rispettivi idiomi, apprendimento di ciò che può ferire l’altro o risultargli irricevibile. Così cadono i pregiudizi, è sconfitta la paura dell’altro, la tentazione di identificare differenza e divisione: si apre la possibilità di pensare con l’altro la fede, il suo futuro, la sua trasmissione, l’evangelizzazione di quel mondo che Dio ha tanto amato da dargli il suo unico Figlio (cf. Gv 3,16).


E, certamente, questa assunzione della diversità e dell’alterità non apre lo spazio al relativismo se si accetta che in ogni incontro e confronto regni, come terzo salvifico, Gesù Cristo, il Kyrios. E’ Lui, il Kyrios, che fa stare insieme mentre distingue, che accomuna mentre personalizza, che tutti conduce verso il Regno veniente. E in questa spiritualità di comunione il riconoscimento del Kyrios ricorda e assicura che la diversità dei doni si compone anche nella preghiera: la preghiera gli uni per gli altri, la preghiera comune, vera epiclesi di un’unica eucaristia. E’ nella preghiera che noi portiamo tutto ciò che siamo e anche tutto ciò che ancora non siamo, ma che dobbiamo diventare secondo la volontà e la chiamata del Signore.

La preghiera che possiamo fare con insistenza è che il Signore ci conceda di vivere come indicava Anselmo di Havelberg:


Unum corpus Ecclesiae, quod Spiritu sancto vivificatur, regitur et gubernatur… unum corpus Ecclesiae uno Spiritu sancto vivificari… semper unum una fide sed multiformiter distinctum multiplici vivendi varietate (Dialogi I, PL 188,1144).


Nella storia noi già partecipiamo al raduno escatologico dei figli dispersi di Dio, e alla sequela di Gesù Cristo vediamo cadere i muri divisori dell’inimicizia e siamo invitati a partecipare alla sua pace (cf. Ef 2,18). Se siamo autentici discepoli di Gesù Cristo, tutto dobbiamo predisporre, sentire e operare in vista della comunione con Lui che tutto vuole reintestare a sé, perché Dio sia tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28).


Sì, ogni spiritualità cristiana può solo e sempre essere una spiritualità di comunione: lotta spirituale contro Babele, epiclesi di rinnovata Pentecoste!


 

 

 

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