L’UOMO DI FRONTE AL MALE – Bruno Forte

L’uomo di fronte al male (di Bruno Forte)

La ricerca di una speranza dalla filosofia  alla letteratura


Nella serata di giovedì 29 gennaio al Teatro Argentina di Roma si svolge un colloquio  organizzato dall’Ufficio di pastorale universitaria del Vicariato. Al tavolo dei relatori Pierluigi Celli, direttore generale dell’università Luiss Guido Carli, e l’arcivescovo di Chieti-Vasto. Dell’intervento di quest’ultimo anticipiamo ampi stralci.

di Bruno Forte

Di fronte al male si misura l’impotenza dell’uomo, la condizione tragica del suo esistere. Tragico è il non poter fare il bene che vorremmo e il non riuscire a impedire il male. L’apostolo Paolo ha descritto con incisività la condizione tragica dell’essere umano sfidato dal male nel capitolo settimo della Lettera ai Romani:  è la condizione dell’”io”, impotente di fronte al bene che non fa e al male che fa.

Per Paolo è questa impotenza che il Figlio di Dio ha fatto propria, per la forza di un amore senza misura, grazie al quale il tragico viene a essere accolto negli abissi della divinità. È l’inquietante rivelazione di Romani:  Dio “non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi” (8, 32), costruita sul modello del sacrificio che Abramo si dispone a fare del suo figlio amato, Isacco (Genesi, 22).

Abissalmente proiettato in Dio, il tragico è abitato dal suo Spirito, i cui gemiti – descritti in Romani – segnalano la distanza fra il male presente e il promesso bene, fra l’esperienza e l’attesa. Il tragico in Dio diventa così la vera rivelazione di ciò che siamo:  solo grazie a questa rivelazione è possibile percepire in tutta la sua tragicità la contingenza del mondo.

Proprio così, però, la redenzione è possibile:  se Dio abita l’impotenza, questa è redenta. Solo l’infinita compassione riscatta la scena di questo mondo che passa, senza indebolirne la contingenza, esaltandola anzi nella sua dignità perché fatta propria dal Redentore.

Un’attenta lettura della Lettera ai Romani dimostra che il messaggio cristiano è tutt’altro che la distruzione del tragico attraverso un moralismo a buon mercato, bensì l’evoluzione del tragico nella condizione stessa di quanti sperimentano la debolezza e la sofferenza, pur essendo stati giustificati per la loro adesione a Cristo.

Il tragico cristiano coinvolge non soltanto il Figlio, ma anche Dio che non lo ha risparmiato per noi, e lo Spirito che condivide il nostro gemito e quello di tutta la creazione. Solo un Dio che abita la tragicità porta in essa la buona novella della grazia:  solo il Dio umano, che si carica del peso del male che devasta la terra, può liberarci e liberare il mondo.

Il male è stato assunto in Dio, l’unico che così poteva vincerlo. Questo dice la Lettera ai Romani, di così bruciante attualità di fronte al nostro presente e alla sua condizione di naufragio, che non cerca salvatori a buon mercato, ma una prossimità altra e profonda capace di restituire il senso del cammino comune. È Paolo a dirci che in Cristo Dio si è fatto compagno del dolore umano, e proprio così fondamento della speranza possibile:  in questa “follia” il suo messaggio.

Nel paradosso di questo “vangelo tragico” sta tutta la sua provocatoria attualità:  è qui che la speranza cristiana si mostra per quello che è, non evasione consolatoria, ma anticipazione militante dell’avvenire entrato in questo mondo nel Figlio, che ha abitato il nostro dolore, il male che ci ferisce e la morte.

Alla condizione “tragica” dell’esistere umano ha dedicato la sua attenzione più alta Fëdor Dostoevskij:  scavando nelle profondità del cuore umano, da vero “psicologo del sottosuolo”, egli ne scopre le ambiguità strutturali, l’abisso dei “doppi pensieri”. “Chiunque sia passato per Dostoevskij e abbia sofferto con lui – afferma Nikolaj Berdjaev – ha conosciuto il mistero dello sdoppiamento, ha ottenuto la conoscenza degli opposti, si è armato nella lotta contro il male di una nuova potentissima arma, la conoscenza del male”.

E proprio in questo Dostoevskij è cristiano, in quanto unisce in maniera inseparabile, e al tempo stesso carica di eccezionale tensione, il problema di Dio e il problema dell’uomo, che solo nel cristianesimo si sono incontrati fino all’abissale esperienza del Dio crocifisso nelle tenebre del Venerdì Santo:  “Dostoevskij è lo scrittore più cristiano in quanto al centro della sua opera c’è sempre l’uomo, l’amore umano e la rivelazione dell’anima umana. Egli stesso è la rivelazione del cuore dell’essere umano, del cuore di Gesù”.

Pellegrino nei meandri dello spirito, Dostoevskij ne esprime la radicale e costitutiva ambiguità. Attraverso paradossi spinti fino all’estremo, in cui esercita tutta la sua potenza di negazione, egli scopre la tragicità dell’esistenza nel suo essere permanentemente assediata dal nichilismo:  il nulla fascia lo spirito nella sua conoscenza del vero, nella sua volontà del bene, nel suo sentimento del bello.

Lungo le vie della conoscenza del vero, la questione del male si presenta come la sfida alla fede in un Dio, che sia la verità eterna e assoluta del mondo. Il ragionamento è stringente, terribile:  se Dio esiste, l’orrore del male che devasta la terra è senza fine. Ma questo orrore è infinito:  dunque, Dio esiste.

Al tempo stesso però l’argomento si rovescia nel suo contrario:  se Dio esiste, non può essere ammesso l’orrore di un male infinito. Ma questo orrore c’è:  dunque, Dio non esiste. Dal paradosso non si esce che per una radicale conversione del concetto di Dio:  solo se Dio fa sua la sofferenza infinita del mondo abbandonato al male, solo se egli entra nelle tenebre più fitte della miseria umana, il dolore è redento ed è vinta la morte.

Questo è avvenuto sulla Croce del Figlio:  perciò Cristo è la verità, alternativa alle presunte verità che la ragione è capace di costruirsi con le sue dimostrazioni. La “singolarità del Vero”, la verità incarnata in un Singolo, identificata con la sua persona, è quanto di più lontano possa esserci rispetto a un pensiero euclideo.

È quanto Dostoevskij sceglie, precisamente in alternativa all’esito nichilista della metafisica occidentale:  “Se mi si dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo, anziché con la verità”.

La verità che dà ragione di tutto e tutto organizza in un’armonia universale, l’”apoteosi della conoscenza” di cui parla Ivan Karamazov, non vale il suo prezzo:  al Dio di questa verità lo stesso Ivan non esita a restituire il biglietto d’ingresso nel suo regno. Solo la verità che è passata attraverso il fuoco della negazione e si è lasciata lambire dal nulla, solo quella verità salverà il mondo:  è la risposta di Alësa a Ivan. “Fratello (…) tu mi hai chiesto dianzi se esiste in tutto il mondo un essere che possa perdonare e abbia il diritto di farlo. Ma questo essere c’è, e lui può perdonare tutto, tutti, e per tutti, perché lui stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto”.

Solo dal suo interno, insomma, il nichilismo si lascia confutare:  dalle tenebre del Venerdì Santo, dove Dio soffre e muore per amore del mondo, è possibile proclamare la vittoria della vita, perché quella morte è la morte della morte. Il Dio che è morto non è che la verità concepita metafisicamente come ragione e fondamento del mondo, garante di questa totalità, tutta pervasa dall’orrore dell’infinita sofferenza umana.

Sta qui appunto la tragicità ineliminabile dalla conoscenza del vero:  non si arriva alla luce che attraverso la croce; non si entra nella vita che conoscendo la morte. Perciò la fede deve passare nel travaglio del dubbio, l’affermazione nella notte della negazione, e la verità farsi strada nello scandalo e nelle tenebre più fitte, dove ci aspetta il Dio vivo. Anche per questo “è terribile cadere nelle mani del Dio vivente” (Ebrei, 10, 31).

La tragicità dell’esistenza umana si affaccia non di meno sul piano etico:  la dignità del patire – che pure appare fra le forme più alte di purificazione e di accesso al bene – si rivela anch’essa ambigua all’uomo del sottosuolo! Egli non esita a smascherare le torbide delizie e l’equivocità della volontà, che si accompagnano tanto spesso alla sofferenza:  “Il godimento proveniva dalla troppo chiara coscienza che avevo della mia bassezza (…) non c’era scampo, non potevo diventare un altro uomo:  che se anche fossero rimasti ancora tempo e fede per trasformarmi in qualche cosa di diverso, io non avrei potuto mutarmi”.

Ma è appunto in questa affermazione tragica di sé, nutrita dei godimenti più ardenti della disperazione, che il nulla s’affaccia:  “Noi siamo nati morti, e già da molto nasciamo da padri che non sono vivi; e ciò ci piace sempre di più. Ci prendiamo gusto”.

Ed è qui che la volontà di vivere impone un rovesciamento morale, un atto coraggioso, che si esprime in un’etica della decisione. L’alternativa è fra l’abbandonarsi al nulla e il reagire. Ma essa può porsi soltanto a chi ha toccato il fondo disperante del nichilismo:  è lì che l’espiazione diventa possibile, precisamente per chi si pone davanti al Dio entrato nell’abisso, come compagno del dolore umano e insieme supremo e misericordioso giudice del peccato del mondo. Solo chi accetta di fare compagnia alla sofferenza di Dio di fronte al male per amore del mondo, può sperare di vincere il male.

È infine sulla via del sentimento, che anela alla gioia e alla bellezza, che si sperimenta la tragicità dell’esistenza umana e possibilità di una via di uscita:  pochi, come Dostoevskij, hanno percepito la rilevanza del piano estetico in ordine alla redenzione del mondo. È al principe Myskin – il protagonista de L’idiota, enigmatica figura dell’innocente che soffre per amore del mondo – che il giovane nichilista Ippolit pone la domanda:

“È vero, principe, che una volta diceste che il mondo sarà salvato dalla bellezza?”. E il giovane – condannato a morte dalla tisi – si sente in diritto di aggiungere: “Quale bellezza salverà il mondo?”.

Lo spettacolo della sofferenza è tale che nessuna redenzione può essere cercata nella direzione di un’armonica conciliazione, che salti sullo scandalo del dolore del mondo. Ecco perché la bellezza deve essere altra rispetto a tutti i sogni e i desideri possibili di armonia:  senza passare attraverso la sua negazione – che è lo scandaloso spettacolo del male che copre la terra – nessuna bellezza potrà salvarsi e salvare.

Ed ecco che è proprio l’avvicinarsi della fine che rivela la bellezza nascosta:  il tempo rimanda all’eternità proprio perché passa con tanta, inesorabile fugacità. Solo la morte conferisce all’attimo la profondità di una totalità e di un’eternità raggiunte:  solo se ci si approssima al nulla del morire si percepisce la meraviglia del tempo, la gioia della vita.

Anche la bellezza si offre allora nel segno dell’ambiguità, sulla frontiera fra l’essere e il nulla, carica di un’aura tragica:  “La bellezza – dice Dmitrij Karamazov – è una cosa terribile e paurosa, perché è indefinibile, e definirla non si può, perché Dio non ci ha dato che enigmi. Qui le due rive si uniscono, qui tutte le contraddizioni coesistono (…)

La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini”. Solo alla fine la bellezza si manifesterà vittoriosa:  “Quando sarà passato il presente e sarà venuto il futuro, allora il futuro artista troverà forme bellissime anche per la rappresentazione del trascorso disordine e caos”.

Nel presente resta aperto verso la bellezza l’approccio della conversione del cuore, del “dono delle lacrime”, di cui parla lo starec Zosima:  “La natura è bella e innocente, solo noi siamo empi e sciocchi, e non vediamo che la vita è un paradiso! Perché basterebbe che noi volessimo capire, e subito avremmo il paradiso in tutta la sua bellezza, e allora ci abbracceremmo piangendo”.

Il piano del vero si congiunge così a quello del bene, e questo alla ricerca della bellezza. Se è la decisione di fede che apre alla singolarità del vero, rivelata nel Dio crocifisso, la via della verità si incontra con quella della decisione morale; e se è la conversione del cuore che apre al riconoscimento della bellezza che salva, la via estetica si congiunge a quella etica.

La rilevanza della dimensione morale emerge in primo piano:  in realtà è proprio in essa che si gioca più intensamente il conflitto fra nichilismo e redenzione. Ed è qui che si rivela il livello più profondo della tragicità dell’esistenza umana, quello che maggiormente è in gioco nell’eticità dell’atto:  il livello della libertà.

In questo senso, la Leggenda del grande inquisitore è il grande apologo dell’eterno conflitto che rende tragica la vita umana:  il conflitto fra l’audacia della libertà e la tentazione rassicurante della rinuncia a essa. Il cardinale inquisitore di cui narra la Leggenda è la figura di chi ha sacrificato la libertà alla felicità; il Cristo, che gli sta davanti come imputato, è invece il paladino della libertà a prezzo anche della felicità.

Il conflitto fra i due è insanabile:  essi rappresentano l’alternativa radicale che si annida nel cuore di ogni uomo. Fra le due opzioni non c’è via di mezzo, soluzione conciliatoria:  l’aut aut è senza remissione, totale. Ecco perché è in ultima analisi nel mistero del Dio crocifisso che la profonda tragicità dell’esistenza umana è rivelata e redenta:  se Dio ha fatto sua la morte, pagando fino in fondo il prezzo della libertà, la via della croce resterà per sempre su questa terra la via della libertà. E, proprio perché l’amaro calice è stato bevuto fino all’ultima goccia dal Figlio eterno, sarà questa anche la via che porterà alla vita.

Della tragicità dell’esistenza sfidata dal male è consapevole anche un genio speculativo come Immanuel Kant. Nel rigore della sua onestà intellettuale egli non esita a riconoscere le aporie della ragione:  idee, ad esempio, come quelle di Dio e della vita futura, non suscettibili di dimostrazione per via speculativa, costituiscono per lui presupposti inseparabili degli obblighi morali che la ragione ci impone.

Ciò che viene a mostrarsi nell’opera sulla religione entro i limiti della semplice ragione è però tutt’altro che la constatazione pacifica del limite della ragione, quanto piuttosto il quadro di una lotta, il disegno di quelle che potrebbero definirsi le “agonie della ragione” lungo il cammino della libertà:  “La lotta che in questa vita ogni uomo moralmente predisposto al bene deve sostenere, sotto la guida del principio buono, contro gli assalti del principio cattivo, non può procurargli, per quanto si sforzi, un vantaggio maggiore della liberazione dal dominio del principio cattivo. Il guadagno più alto che egli può raggiungere è quello di diventare libero, “di essere liberato dalla schiavitù del peccato per vivere nella giustizia” (Romani, 6, 17).

Nondimeno, l’uomo resta pur sempre esposto agli attacchi del principio cattivo, e per conservare la propria libertà, costantemente minacciata, è necessario che egli resti sempre armato e pronto alla lotta”.

In questo quadro, “quello che meraviglia non è che il filosofo prenda in generale in seria considerazione il male (…) bensì il fatto che egli parli di un principio malvagio, e dunque di una origine del male nella ragione e in questo senso di un male radicale”. “Radicale” è tale male “perché corrompe il fondamento di tutte le massime e a un tempo perché, essendo una tendenza naturale, non può essere sradicato da forze umane”.

Il fondamento del male radicale è presentato da Kant come in qualche modo intrecciato con l’umanità stessa e, per così dire, radicato in essa. Al tempo stesso Kant muove dalla considerazione che non può darsi male morale senza libertà:  il fondamento del male, allora, “dev’essere necessariamente un atto di libertà”.

Ciò che emerge è una vera e propria aporia:  come può la libertà essere al tempo stesso la fonte della moralità e il luogo e principio della sua negazione? È giocoforza cercare la causa altrove, fuori del soggetto. Lo ammette lo stesso Kant:  “Risulta facile capire come dei filosofi, poco inclini ad ammettere un principio esplicativo eternamente avvolto nell’oscurità (ma indispensabile), abbiano potuto misconoscere il vero avversario del bene, pur credendo di combatterlo”.

Quest’avversario  il  pensatore  di Königsberg non esita a chiamarlo Spirito maligno (böser Geist), ricorrendo per descriverlo alle parole dell’apostolo Paolo lì dove egli presenta la condizione umana come lotta contro i principati e le potestà. A presentare il principe di questo mondo, il Satana, quale coprotagonista del dramma del male, è dunque il razionalissimo Kant.

Lontano da ogni spirito illuministico accecato, il filosofo descrive con rara efficacia la tragicità della condizione umana facendo ricorso a Paolo:  “La fragilità della natura umana ha trovato espressione anche nel lamento dell’apostolo:  “Io ho senz’altro la volontà, ma mi manca l’esecuzione” (cfr. Romani,in thesi), è un movente invincibile – soggettivamente (in hypothesi), quando la massima dev’essere applicata, è invece il movente più debole (nei confronti dell’inclinazione)”. 7, 18); vale a dire:  io accolgo il bene (la legge) nella massima del mio arbitrio, ma questo bene – che oggettivamente, nell’idea (

Le sorprese, però, non finiscono qui:  l’alterità irriducibile e inspiegabile che si affaccia nel volto conturbante del male radicale, proprio a partire da questa esperienza si affaccia anche in un altro volto, quello della grazia del Dio onnipotente e misericordioso. La domanda che porta Kant a riconoscere quest’altra forma dell’esperienza dell’Altro è l’antica domanda della salvezza, che nasce dalla conoscenza del male:  come essere liberati dal principio maligno?

La risposta del filosofo si muove all’interno della tradizione teologica cristiana:  “Se in virtù di quel bene che è nella fede siamo esonerati da ogni responsabilità, ciò avviene sempre e soltanto per un decreto di grazia pienamente conforme alla giustizia eterna”. La formulazione che Kant dà all’idea della giustificazione per fede giunge a identificarsi alla lettera con quella della più pura ortodossia luterana:  “Certo, si tratterà pur sempre di una giustizia che non è la nostra”.

Non mancano, però, passi in cui la sintonia con la teologia cattolica della giustificazione sembra evidente:  “La ragione non ci lascia del tutto senza consolazione. Essa ci dice infatti che l’uomo che, animato da una sincera intenzione verso il dovere, fa tutto il possibile per adempiere ai propri obblighi (…) può lecitamente sperare che quanto non è in suo potere verrà in qualche modo completato dalla saggezza suprema”. Lo stesso Barth, riscontrando l’ambivalenza delle posizioni, conclude che Kant risulta più vicino all’anima cattolica, che a quella protestante del cristianesimo.

Al di là dell’interesse teologico che queste tesi comportano, ciò che le rende significative è che esse fanno proprio dell’etica senza trascendenza di Kant la testimonianza dell’impossibilità di una simile etica:  mai si affronterà il male e lo si potrà superare senza la presenza dell’Altro, trascendente e sovrano! Negli abissi della stessa forma “a priori” della moralità – il mondo dell’arbitrio libero e della legge morale – è innegabile la presenza conturbante di un’alterità negativa, cui Kant riconosce la dignità di “princi”.

Proprio l’esperienza e il riconoscimento di questo “male radicale” appellano a un più grande bene, che non può esser frutto solo della carne e del sangue, ma viene da altrove. Le kantiane “agonie della ragione” sono così una sorta di prova sub contraria specie della necessità ineliminabile della trascendenza per la vittoria sul male in questo mondo. Il “razionalista puro” in campo etico-religioso riconosce nelle “agonie della ragione” le sorprendenti, ineliminabili e inquietanti “tracce dell’Altro”. Dal male solo Dio ci può salvare:  non un qualunque Dio, ma quello che ha abitato nella nostra condizione tragica, e l’ha fatta sua, per vincerla al posto nostro e per noi. Il Dio della carità infinita:  il Dio di Gesù Cristo.

(©L’Osservatore Romano – 29 gennaio 2009)

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