Per noi donne solo sei sacramenti – Cettina Militello

CETTINA MILITELLO (nella foto), laureata in filosofia e teologia, è TEOLOGA a tutti gli effetti. Di lei sto leggendo IL GIUBILEO E L’INIZIAZIONE CRISTIANA. Dunque un libro del 2000, solo apparentemente vecchio. Ma non scaduto. Perché, se il Giubileo è riscoperta del senso profondo dell’essere cristiano, del pellegrinaggio della vita che è itinerario verso Dio,  una tappa nell’ oasi,  il deserto è sempre lì che mi aspetta e la terra promessa, ancora molto lontana.

Io come voi, appartengo a un popolo unto dallo Spirito. Ogni tanto ce lo sentiamo ripetere. Ma cosa significa? Il rimando è alla prima lettera di Giovanni (cfr. 1Gv 2, 20). In senso immediatamente teologico vuol dire mettere a profitto i lunghi discorsi di congedo nei quali, nel vangelo di Giovanni, Gesù assicura idiscepoli che non li lascerà soli, ma darà ad essi un altro “consolatore” che li condurrà alla verità tutta intera (cfr. Gv 15, 26; 16, 5-15).

Non mi dilungo perché ci sarebbe tanto altro…e, come si vede, questo libro non è uno yogurt che ha una data di scadenza. Ma poi, se sono in ritardo con l’editoria, è perché investo in borsa. Mi spiego: la tentazione di accedere alle ultime novità librarie è fortissima. Ma, la mole che il vulcano mensilmente emette,  è un lusso che pochi posono permettersi. So che gli editori con i tipi come me non faranno mai fortuna. Gli è che noi sappiamo attendere…Così il libro in oggetto, nuovo di zecca, è finito nella mia libreria – non dico da dove – per la ragionevole somma di 1 Euro. E così tanti altri. Meglio che investire in borsa, no?

Cettina mi ha fatto venire in mente che in archivio doveva esserci il file di una sua intervista che mi era piaciuta. Così, dopo Madre Teresa di Calcutta che riprenderò, ho deciso di rimetterla in circolazione, perché anch’essa ancora di attualità. Mi sbaglierò, ma col tempo mi sono fatto la convinzione che IL FUTURO E’ DONNA. Nella Società, nella Chiesa, nella Vita Consacrata, nella Famiglia

Un buon motivo per non arrivarci senza essersene accorti. Uomini di tutto il pianeta, siete avvisati. E’ uno dei segni dei tempi. Dunque, con la Militello, un’occasione per scoprire un’altra teologa, sorella di teologi famosi ma notevolmente diversa da loro. Già il titolo suona polemico. Perciò, niente paura, ascoltare tutte le voci e discernere. Buon Spirito Santo!

INTERVISTA ALLA TEOLOGA BRASILIANA LINA BOFF

Per noi donne solo sei sacramenti

di CETTINA MILITELLO

Suor Lina Boff, delle Serve di Maria. La religiosa, di origine italiana, non risparmia le critiche alle istituzioni. In un Paese tormentato da povertà e violenza, lei divide la passione per la teologia con quella per i diritti civili. L’amore per la giustizia, insegnatole dal padre, e il rapporto con i fratelli Leonardo e Clodovis.

Il nome dei Boff è noto nel mondo della teologia. Ho letto con ammirata attenzione Il volto materno di Dio (Queriniana, Brescia 1981) di Leonardo, che ha avuto più volte gli onori (indesiderati) della cronaca ecclesiale. Nella storia di questo francescano, fedele al suo ordine anche nel massimalismo mariano, ha costituito la pietra d’inciampo non tanto la mariologia quanto l’ecclesiologia.

La questione ecclesiologica ha toccato anche il fratello Clodovis, frate tra i Servi di Maria. La parabola di Leonardo si è avviata alle conclusioni che sappiamo dopo una vicenda lunga e sofferta. Più mite e defilato, Clodovis insegna teologia e mi è collega alla Pontificia facoltà teologica “Marianum”.

Dei tre fratelli teologi, ho conosciuto Lina per ultima. Ed è toccato a me, così lontana, dare un parere sul suo passaggio a docente stabile. Da ultimo è stata in Italia in occasione del Congresso mariologico-mariano internazionale del settembre 2000 il cui tema era “Maria e la Trinità”. Lina ha studiato presso le Serve di Maria Riparatrice; delle quali posso testimoniare lo sforzo nella ricerca di modelli innovativi sulle questioni attinenti il “genere”. I Servi di Maria onorano “nostra Donna” senza eluderne la femminilità. Per questa ragione al Marianum è stata di recente istituita la cattedra “Donna e cristianesimo“. Per vie proprie, e per contagio, anche le Serve si sono fatte attente all’identità femminile.

Lina Boff divide la passione per la teologia con quella dei diritti civili ed ecclesiali degli individui. Alle mie domande ha risposto in un italo-brasiliano asciutto e aspro che nei limiti del possibile ho lasciato intatto. Traspare un mondo assai diverso dal nostro, una situazione di lacerazione e di frontiera che è difficile percepire non avendone fatto esperienza. Le espressioni forti della Boff vanno ricondotte ai contesti sociali, di cui parlo a parte. Lina, prossima e lontana insieme ai suoi due fratelli, fa la teologa in una zona di frontiera. A me pare che assecondi e alimenti la speranza e che da lei, come da altre donne coraggiose, passi il futuro della fede.

  • Lina, che cosa ti ha spinta a studiare teologia?

«Un dono interiore, che ho interpretato come chiamata speciale di Dio. Ma anche la mia insoddisfazione per le modalità in cui si traduce la vita religiosa. Trovo in essa un eccesso di istituzionalità, che fa perdere di vista il nocciolo. Non ho trovato risposta alle mie domande insegnando lettere e nemmeno impegnandomi nella scienza pedagogica».

  • Sembra che non tutto sia stato conforme alle tue aspettative…

«L’essere religiosa mi ha consentito di fare molteplici esperienze e di arrivare nel profondo di me stessa. Questo è il positivo. Ma per spingermi sino in fondo ho dovuto oltrepassare l’orizzonte proposto dall’assetto istituzionale. Il progetto della vita religiosa è molto più ampio di quello che si vive e si fa. Per me qualsiasi vocazione dev’essere dinamica; deve implicare un cammino in avanti. Questo mi sono riproposta in ogni mia scelta e da suora non ho cambiato idea. Ma scegliere di camminare in avanti, per chi vive in un’istituzione, è scomodo. Non solo non la si considera una scelta profetica, ma addirittura la si avverte come un disturbo. La teologia mi ha aiutata a non fermarmi, anche se devo pagare sulla pelle quello che ho scelto di fare come adeguamento al progetto di Dio. Non vedo che senso possa avere l’appartenere a una congregazione senza il coraggio di andare sempre avanti».

  • Alle spalle c’è la storia personale. La tua famiglia è di origine italiana…

«Sì, italiani emigrati dall’Austria (Rech, Boff) i parenti di mio padre e dal Veneto (Fontana, Poletto) quelli di mia madre. Il veneto è stata la nostra prima lingua. Eravamo in 11: 6 sorelle e 5 fratelli! I miei fratelli Clodovis e Leonardo si sono fatti frati, io Serva di Maria. Allora l’unica possibilità, per far studiare tanti figli, era il seminario o l’internato presso le suore. Eravamo nati in campagna. Mio padre, ex-allievo dei Gesuiti, era insegnante a San Leopoldo nello Stato di Rio Grande del Sud. Lo definirei un filosofo. Ha fondato una biblioteca popolare per la gente del villaggio. Mio padre si chiamava Planalto, era un intellettuale, sempre pronto a pensare; però attento ai problemi sociali. Prendeva le difese della gente di colore che abitava vicino a un fiume. Era considerato una sorta di difensore pubblico. Veniva da lui la povera gente. Papà li riceveva in casa e li difendeva dai commercianti. Si impegnava a loro favore. La mamma temeva di perdere il marito».

  • Aveva ragione ad aver paura?

«Sì. Una notte papà tardava a tornare a casa e la mamma piangeva perché temeva che lo avessero ammazzato. Proprio quella notte lui corse questo rischio. Essendosi accorto della complicità di un amico, suo “compare”, gli disse: “Ma anche tu, compare Argenton, sei contro di me?”».

  • Parlami di tua madre…

«Mamma coltivava un campo per il nostro fabbisogno. Noi figli, nelle vacanze, lavoravamo con lei per vivere. Avevamo una mucca, due o tre porcellini, le galline, un cavallo per trasportare ciò che serviva a mantenerci e che ci portava avanti e indietro dalla campagna (roça, in portoghese). Salivamo anche in 6 su questo cavallo che si chiamava Báio. Alla sera, al chiaro di luna, la mamma ci insegnava a cantare a due e tre voci. Ci raccontava il suo fidanzamento con papà, le lettere appassionate e romantiche che riceveva senza saperle leggere. Ma aveva un fratello che leggeva per lei, il nostro caro zio Aurelio Fontana, morto da poco. La mamma era indipendente da papà per tutto quello che si riferiva all’amministrazione della casa, il sostentamento di tutta la famiglia, la salute di ognuno, e anche per le scelte che si dovevano fare per il nostro futuro. Il posto per studiare e i libri erano compito di nostro padre».

  • E voi figli?

«Eravamo tutti dalla parte della mamma quando discutevano. Mettere insieme due teste così diverse era una battaglia che coinvolgeva anche tutti noi. Ognuno, poi, aveva il suo lavoro in casa e in campagna, e, oltre a ciò, dovevamo studiare le declinazioni latine, l’alfabeto greco, il francese con un ex-seminarista amico di papà. Leggevamo i romanzi dell’epoca, le favole di La Fontaine. Noi tre religiosi siamo stati aiutati dalla mamma che ci lasciava molto liberi. Quando due frati Servi di Maria sono venuti a prendere Clodovis per portarlo al Seminario di Turvo-Santa Catarina, lui piangeva per la paura di non poter più ritornare a casa. È andato così a consigliarsi con la mamma pochi minuti prima di partire (con poca roba in un sacco di cotone). E lei gli ha detto: “Caro Nene, se non riesci ad abituarti a stare con i frati, torna a casa da me che ti voglio tanto, ma tanto, bene!”. Clodovis si è sentito libero e si è risolto a partire. Leonardo, invece, preoccupava papà che diceva di lui: “Pensa troppo e vuole che l’umanità cammini come la pensa lui e non come può… Va troppo avanti, cammina da solo!”. Papà era orgoglioso di questo suo figlio. Il suo sogno era vederlo salire all’altare. L’emozione dell’ordinazione fu la più forte della sua vita. Ci ha lasciati appena pochi mesi dopo».

  • Come donna qual è stata la tua esperienza?

«La mia vocazione è stata a un tempo un incontrare me stessa e un entrare nell’intimità di un Dio solidale e attento alla realtà concreta della mia persona. È stata, lo dico a tutte maiuscole, un’esperienza di “rivelazione”. Le difficoltà si sono manifestate a livello dell’istituzione. Innanzitutto di quella religiosa che vede la suora impegnata a lavorare soltanto all’interno della sua comunità, della sua congregazione e non fuori, in mezzo alla gente. A livello più ampio, di istituzione ecclesiale, ho poi trovato un’estrema povertà circa la coscienza del regno di Dio e circa la Chiesa come popolo di Dio. Ma anche a livello accademico i problemi non sono mancati e non mancano a causa della discriminazione clericale. Come donne si è escluse da tante cose perché senza l’ordine. Per noi donne ci sono 6 sacramenti e non 7! Invece è stata assai positiva l’esperienza con gli allievi – posso proprio dirtelo! –, soprattutto con i laici e con le religiose che riescono a uscire dal nido delle loro comunità».

  • Ci dici il tuo percorso ecclesiale?

«Da Serva di Maria, sono stata impegnata, per i primi dieci anni, come missionaria nell’Acre-Amazonia. Lì, non c’era spazio per la teoria. Bisognava darsi da fare e c’era una grande possibilità di contatto con la gente. Poi ho lavorato in una istituzione statale di Rio de Janeiro con i minori abbandonati. Erano ragazzi dagli undici ai diciotto anni. Anche in questo periodo il mio impegno era soprattutto pratico. Dovevo portarlo avanti con gli strumenti delle scienze umane, della sociologia innanzitutto».

  • Quando hai ripreso la teologia?

«Ho ripreso gli studi quando, eletta consigliera generale, ho dovuto abitare a Roma. Ho cominciato a frequentare la Gregoriana. In quel periodo sono riuscita a finire la teologia cominciata a Petropolis. Avevo tempo per lo studio e per la ricerca. In precedenza, a più riprese e durante le mie vacanze dal lavoro, avevo frequentato vari corsi teologici. Era una necessità, visto il tipo di attività che svolgevo. Ero obbligata a studiare le questioni sociali. Le affrontavo soprattutto con i laici, per i quali ero una religiosa informata ma che non ha approfondito bene le cause… Mi riferisco ai problemi della gioventù abbandonata, in età difficile».

  • Cosa ha rappresentato per te questo ritorno alla teologia?

«Mi sono trovata a un bivio. Ho dovuto assumere una posizione di resistenza dinanzi alle persone che in prima linea rappresentavano l’istituzione. Il bivio era proprio l’istituzione, la stessa vita religiosa. Non era possibile immaginare una suora teologa. Spiegare le ragioni della propria fede è istanza recente, di pochi anni. Sentiamo ancora le conseguenze della resistenza opposta a tutto ciò dalla vita religiosa. Occorre lasciare spazio alla riflessione; far luce su certe situazioni che devono cambiare, a tutti i livelli… Non solo nella religione, ma nel mondo, nella società, nelle istituzioni in genere, nei movimenti popolari ecc. Tutto questo fa paura, rappresenta una minaccia per chi deve esercitarsi nel servizio di stimolare e motivare una scelta che crea una cultura della vita alla luce della fede. Non mi riferisco a nomi o a specifici servizi, ma a tutta intera una situazione che è ancora nelle doglie del parto. Personalmente cerco di rispettare lo spazio del sapere, ma non so se il potere-servizio si rende conto di questo problema! Sia il sapere della fede, sia il servizio del potere camminano assieme!».

  • Ma non può esserci comunque la tentazione del potere?

«Le suore teologhe sono le serve e non le padrone… Vivono, nella loro limitatezza, la chiamata del Signore in un progetto che deve essere rispettato e stimolato ad andare avanti. Mi considero felice per il fatto che nella mia congregazione non c’è un modello di governo autoritario, ma un modo d’essere, uno stile di animazione che include tutte e tutti. Le questioni che sollevo valgono però anche per noi, per l’istituzione a cui appartengo. Chi fa teologia fa luce sulle cose di questa vita e la luce fa paura, non è accettata».

  • Torniamo al tuo percorso…

«Ritornata in Brasile, ho elaborato la tesi di laurea e subito dopo ho avuto un anno sabbatico che mi ha consentito un post-dottorato alla Gregoriana. Ho presentato un più approfondito lavoro di ricerca sulla prima parte della tesi di laurea. Di nuovo in Brasile, sono stata invitata ad assumere un servizio amministrativo a livello di licenza e dottorato nella facoltà dove lavoro ora. Sono coordinatrice di tutta la teologia e assegno corsi a livello di licenza, di master e di dottorato. In questo momento sono concentrata come ricercatrice in escatologia e mariologia. Ciò non impedisce che mi dedichi ad altri corsi e pubblicazioni».

  • I laici in Brasile frequentano le facoltà di teologia? Che possibilità di impegno hanno nella ricerca e nella pastorale?

«Questo non è un tempo propizio per i laici. Comunque, vedo che qui in università la teologia è un ambito di studi cui accedono persone che hanno già frequentato altre facoltà, che lavorano e trovano il tempo per approfondire la loro fede, sia a livello accademico che ad altri livelli. Abbiamo corsi, quasi accademici, alla sera, due o una volta alla settimana, per una durata di circa 3 anni. Li frequentano coppie, donne che esercitano professioni liberali in tutti i campi della scienza. Parlo soprattutto di persone che lavorano nelle favelas, nelle periferie, nei movimenti popolari, nelle organizzazioni non-governative, nelle parrocchie, nelle piccole comunità sparse all’interno del Brasile rurale, di militanti nei partiti. Nei corsi di master e dottorato un terzo sono cattolici e due terzi evangelici».

  • Qual è la presenza delle donne, sia come allieve che come docenti?

«Purtroppo nella facoltà di teologia le donne sono molto diminuite. C’è poco spazio di lavoro. Come corpo docente siamo metà e metà. La preferenza, però, è data sempre più ai chierici, agli uomini. Una donna non potrà mai essere preside della facoltà teologica di Rio. Una mia collega, che insegna alla facoltà di teologia e ha già conseguito il dottorato, per avere una possibilità più ampia di lavoro sta conseguendo la laurea (6 anni) in psicologia per estendere la sua ricerca fuori degli ambiti strettamente teologici. Per noi donne è un problema serio vedersi restringere l’ambito della teologia. Come si può lavorare da teologhe senza aprirsi alle altre scienze anche per riscattare le conquiste già fatte, in passato, dalle donne? Davvero non ci sembra roseo il nostro futuro come teologhe!».

  • Eppure, la Chiesa brasiliana in passato ha prestato attenzione alla questione femminile. Che cosa è rimasto di quei documenti?

«Non voglio parlare in generale della Chiesa ma piuttosto delle donne. Il loro impegno più forte, quello che in questo momento vedo come tale, soprattutto da parte di coloro che in passato dimostravano più grinta, è – mi pare – quello del dialogo interreligioso e un po’ meno dell’ecumenismo. Nel campo del dialogo interreligioso le donne si sentono libere. Ne sono venute fuori esperienze bellissime. Il sacro ha preso forza nella donna latino-americana e caraibica del nostro tempo. Ci sono degli studi e delle ricerche nel campo esoterico, della cura, del sacro, visti come un tutt’uno; c’è il riscatto della “strega”, soprattutto con l’obiettivo di ricercare il lato buono di cose considerate per tanti secoli “demoniache”… Cosa è rimasto dei nostri impegni e documenti, non saprei dirti ora, ma certamente ci hanno aperto altri campi del vivere in comunità come donne e uomini, dato che non siamo accettate con facilità, né nel “sacro” né nel “profano”. Non a caso, le tesi elaborate dalle donne sono soprattutto dirette alle tematiche del “genere”. Vanno dall’elaborazione di strategie a favore delle donne stuprate dentro casa dal maschio alla riflessione su chi è Dio per la donna, su quale sia per le donne l’immagine di Dio. Siamo sempre più coscienti che dobbiamo lavorare con le donne e, insieme, fare un cammino con gli uomini. Diciamo sempre più a noi stesse che non siamo ancora diventate persone, non lo siamo noi donne, né lo sono ancora gli stessi uomini. Quando saremo persone potremo camminare insieme. La complessità di questo cammino spiega perché le donne preferiscono lavorare nelle scienze religiose, nella cultura religiosa, più che nella teologia, in senso stretto, accademica. Sul piano ecclesiale, poi, i vescovi non possono contare pubblicamente su di noi, perché restiamo escluse anche dal diaconato. Sono però sempre più coscienti che senza di noi la Chiesa in America del Sud non funziona, neanche come istituzione. Abbiamo dunque speranza per il futuro».

  • Quale contributo teologico possono o debbono offrire le donne?

«Sono innanzitutto persuasa che devono avere gli stessi strumenti dei chierici e dei vescovi. Bisogna possedere come loro la teologia e sapere anche quali conseguenze se ne traggono sotto il profilo teologico e sotto quello pastorale. Solo sulla base di questa consapevolezza si può provare a fare una teologia nell’ottica nostra di donne, a partire dalla nostra esperienza. Ovviamente si deve tener conto del linguaggio, del contesto sociale, dello spazio che sempre più si restringe, e di una nuova ermeneutica che tenga conto di tutta la vita umana, senza lacerazioni, in fedeltà al piano di Dio che ci ha creati donna-uomo. Quello delle teologhe è un lavoro doppio. Occorre fare teologia insieme: donne-uomini-chierici-vescovi. Bisogna anche avere più coraggio nel dialogo con le altre confessioni e nel dialogo interreligioso».

  • Mi pare di sentire un’eco di quanto scrivono i tuoi fratelli teologi. Ne condividi le posizioni?

«Per Leonardo e Clodovis sono prima di tutto una sorella, a volte cara e a volte no. Loro sono loro, io sono io. Per me, tanto l’uno come l’altro, vedono le cose da lontano, alla maniera dei profeti, ma nella pratica vedono le cose da poca distanza. Ti porto un esempio: quando ho conosciuto meglio il socialismo dell’Africa, dove si mischiavano Cuba, la Russia, la Francia e così via, ho posto a entrambi grossissime questioni tornando in Brasile. Nessuno dei due ha voluto discuterne con me. Ero convintissima che quel socialismo non portava da nessuna parte. E loro erano già stati in Russia. Ti ricordi quanta pubblicità sui teologi della liberazione che invadevano la Russia, che sperimentavano il socialismo a tutte maiuscole? Con questo non escludo che si possa approfittare di quanto di buono viene dall’esperienza socialista! Condivido con loro tante cose in linea di principio, ma non sempre, poi, nella pratica. Mi sembra che l’orizzonte della teologia che nasce dalla pratica, dall’esperienza, deve venir fuori dalla collaborazione tra uomini e donne, e non solo dagli uni o dalle altre. Ancora oggi penso che ho provato in Africa quello che mai, fino a quel momento, avrei pensato di provare. E quest’esperienza ha comportato un mio diverso modo di pensare… Poco dopo, è caduto il muro di Berlino… Clodovis e Leonardo sono due fratelli che amo con tutto il cuore. Ma tante volte sono tentata di ignorare l’amore che nutro per ognuno dei due».

Leonardo Boff, teologo della liberazione (foto Giuliani).

  • Hai accennato alla teologia della liberazione. Cosa è stata e cos’è per voi, in America Latina?

«Si è trattato di un momento profetico e assolutamente necessario, senza di cui non saremmo arrivati dove siamo. Se ne parla poco adesso, ma la si vive di più, nel senso che abbiamo assimilato in tale forma questo modo di pensare la fede a partire dalle nostre esperienze e dalla povertà, che non c’è più bisogno di parlarne. Non si parla di ciò che si vive già. A livello di stampa la teologia della liberazione non è una novità. Per noi continua a esserlo e non cesserà mai di esserlo».

  • E in rapporto alle donne?

«Anche per noi donne resta la novità del fare la nostra teologia della liberazione senza escludere quella elaborata dagli uomini, i quali hanno l’appoggio di tutto il mondo, teologico e non. La teologia della liberazione nasce continuamente, a suo modo, da un’esperienza di fede del Risorto. Io, personalmente, trovo difficoltà nel parlare delle apparizioni del Risorto agli apostoli e alle donne nel mattino del primo giorno. Sarà facile per il nostro corpo mortale captare la gloria di un corpo risuscitato? A Dio niente è impossibile. Ma dobbiamo pensare come interpretare questi testi come donne! Le scienze umane potranno aiutarci tanto, ma l’esperienza di fede ancor di più! Abbiamo tanto da fare come donne e in ogni campo della teologia, dell’antropologia e della cristologia».

  • Quale contributo intendi dare?

«Quello di operare in futuro per una teologia fatta da uomini e donne, insieme, non divisi. Personalmente, poi, penso di dovermi costruire sempre più come persona, senza perdere la mia identità di donna credente nel Signore risuscitato. Questo il mio contributo».

  • A cosa stai lavorando, che libri hai in programma?

«Sul piano della ricerca vorrei approfondire la prospettiva dell’escatologia attingendo a fonti diverse. Mi piacerebbe anche avviare un archivio storico relativo alle province diverse della mia congregazione qui in Brasile. Quanto ai libri ne ho più di uno in cantiere. Vorrei scrivere sulla mariologia in un’ottica latino-americana; vorrei poi portare a termine il volume che ho già iniziato sulla vita consacrata a partire dall’esperienza di vita e un altro, sempre, sulla vita religiosa nel ritmo del terzo millennio, il cui sottotitolo è: “Una proposta di rifondazione?”».

  • Quali strategie ti sembrano possibili per il futuro della Chiesa?

«Sarò brutale: innanzitutto occorre alimentare la speranza che questa istituzione, così come si presenta e come agisce, nei suoi aspetti di connivenza e di complicità con ciò che è estraneo al disegno di Dio, muoia quanto prima. La morte porterà la risurrezione certamente, come ha portato la risurrezione la morte per amore, la morte di Cristo».

  • Trovo queste parole pesanti. Ovviamente non parli della Chiesa nel senso forte, misterico. Ti limiti a quegli aspetti che sfigurano il volto della sposa di Cristo!

«Sì, certo! Lasciami però dire che sogno una Chiesa laicale, solidale, semplice, “sposata” non solo con le donne ma anche con il popolo. Una Chiesa “una” nella carne e nello spirito tramite i diversi carismi: povera e umile; dove le donne, a cui è impedito di occupare gli spazi riservati agli uomini ordinati, possano e sappiano creare altri spazi che il potere clericale non possa condizionare. Sogno di spostare il baricentro da una Chiesa fissa e immobile a una itinerante; che vada dove il popolo cammina; che cammini seguendo il popolo e da esso impari a vivere, a livello umano e cristiano».

  • Cosa pensi della situazione politica internazionale e del possibile contributo delle donne?

«Credo occorra rendersi conto che muore più gente nel Sud del mondo che non in Afghanistan o in Palestina o in altri Paesi dilaniati dalla guerra civile, come in Africa. I mass media sono lontani da noi. E noi facciamo poco per far arrivare il nostro messaggio attraverso di essi. La potenza dei media scende a compromessi contro l’umanità. Come donne, il nostro contributo più immediato e fattibile è di stare vicino al popolo che soffre; di ascoltarlo e avvertire quello che sente e pensa. Spetta al popolo organizzato cambiare il corso della Storia (della salvezza). Ma, mi chiedo, noi donne, come ci collochiamo in mezzo a questo popolo? Credo che occorra andare avanti, mettendo a frutto la riflessione e la ricerca secondo quanto ci è segnalato dalla gente e dalle Chiese più impegnate con le masse escluse e derelitte. Questo significa dare il proprio sangue. In questo periodo, in Brasile, abbiamo vissuto tre attentati contro leader del PT, il Partito dei lavoratori (per inciso, le Chiese più aperte di questo Paese appoggiano il progetto del PT). Due di loro sono stati torturati e sono morti: il governatore di due prefetture di San Paolo e il coordinatore del Movimento dei senza terra (MST). Credimi, a San Paolo si vive in questo momento peggio che in Afghanistan. Questa situazione disperata e tragica mi costringe a riflettere e a cambiare il modo di fare teologia».

Cettina Militello

Tra la Gregoriana e la Católica SERVA DI MARIA AL SERVIZIO DELLA TEOLOGIA

Lina Boff, da religiosa Irmã Maria Lina, al battesimo Jenura Clotilde, è nata a Concordia (SC – Brasile) nel 1936. Licenziata in teologia presso la Pontificia università Gregoriana e la Pontifícia universidade Católica do Rio de Janeiro (Puc) (1986), ha conseguito il dottorato in teologia presso la Católica (1994), e il diploma di perfezionamento post-dottorato presso la Gregoriana (1995) con una dissertazione guidata dal professor Félix Alexandre Pastor.

Come religiosa ha diretto il Colgio Estadual/SC (1960-1970); è stata orientadora educacional nella Fundação do Bem-estar do Menor (1972-1978). Già consigliera generale delle Serve di Maria Riparatrice (1978-1984), dal 1987 è consigliera della Conferenza dei religiosi del Brasile (Crb), membro permanente dell’Equipe di riflessione teologica della Crb (Ert-Crb) e membro collaboratore dell’Unione internazionale della famiglia servitana (Unifas) (Roma). Dal 1990 al 1992 è stata professore collaboratore dell’Istituto brasiliano di sviluppo (Ibrades). Attualmente è professore di escatologia e mariologia per l’attualizzazione del Progetto “Arte e Espiritualidade” della Casa Centro Loyola de Cultura e Fé, legato alla Puc-Rio de Janeiro e membro collaboratore dell’Organizzazione internazionale “Religious Freedom Report”, per il dialogo interreligioso, con sede a Washington (Usa).

La sua attività di docente di cultura religiosa e di teologia, biblica, sistematica e pratica, data sin dal 1986. Attualmente dirige un’area di concentrazione relativa all’escatologia e alla mariologia per il conseguimento dei gradi accademici e dei diplomi post-gradi presso la Puc di Rio de Janeiro.

Collabora a diversi periodici ed è impegnata in iniziative di promozione teologica e pastorale. Tra i suoi volumi: Espírito e Missão na obra de Lucas-Atos. Para uma teologia do Espírito (Dissertação de Pósdoutoramento), Edições Paulinas, São Paulo 1996, 220 p. (tradotto in lingua spagnola); Espírito e Missão na prática pastoral. Acre: 1920 a 1930, Edições Paulinas, São Paulo 1997, 245 p.; Maria e o Feminino de Deus. Para uma espiritualidade mariana, Ed. Paulus, S. Paulo 1997, 60 p. (tradotto in lingua spagnola); Espírito e Missão na teologia. Um enfoque histórico teológico 1850-1930, Edições Paulinas, São Paulo 1998, 262 p.

Tra i contributi a volumi di Autori Vari: Quegli occhi tuoi misericordiosi: Riparazione nel duemila. Ed. Centro Mariano Beata Vergine Addolorata, Rovigo 1996, 21 p.; “Às portas do Terceiro Milênio”, in Horizontes de uma Caminhada, Crb/Edições Loyola, São Paulo 1996, pp. 137-140.; “O lugar da Mulher”, in Uma interpretação feminina da “Mulíeris dígnítatem”, Edições Loyola, São Paulo 1990, pp. 39-47.

c.m.

Riflessioni sul Brasile GIOCO AL MASSACRO PER SOPRAVVIVERE

Nel ’94, se non sbaglio, sono stata quasi un mese in Brasile, ospite a Rio de Janeiro anche dei Servi e delle Serve di Maria. Se rimasi colpita della generosità dei tanti operatori italiani che ebbi il dono di incontrare (e aggiornare), mi turbò profondamente vedere condannate a una condizione “subumana” tantissime persone. Non pensavo, ad esempio, che fosse possibile per un bambino di pochi anni uscire per strada e restarci a vita, morendo comunque prima di diventare adulto. Né pensavo che per una bambina fosse possibile restare incinta prima del menarca, violentata dal padre o dal patrigno, e che, per di più, la madre la buttasse fuori di casa, sempre che una casa l’avesse avuta.

Ho visto le favelas di Rio, piaghe purulente nel tessuto di una città splendida e affascinante come poche altre. Ricordo i colpi d’arma da fuoco e le suore che rispondevano: «Forse è un samba». Sì, era difficile dire se sulle colline si stessero scontrando gruppi rivali o se si stesse facendo festa. E tutto ciò in mezzo a una straripante voglia di vivere, a un ottimismo che, a me europea, sembrava un non senso. Del Brasile ricordo l’odore acre, intollerabile.

Le suore che mi hanno ospitato – e ciò fa loro onore – vivevano per lo più ai margini delle favelas, se non dentro. Rivedo i bambini giocare allegramente nei liquami e mi chiedo, oggi come allora, se si possono tollerare queste e altre cose, e se si può dire civile un Paese incapace di far fronte ai più elementari problemi della gente. In Brasile, come nei Paesi vicini, la ricchezza è concentrata nelle mani del 2-3% della popolazione. È dura per l’esigua classe media, forse più ancora che per i disperati, i quali non hanno un tenore di vita da salvaguardare. Ma oltre una certa soglia, si è fuori dall’esistenza umana, dalla coscienza, dai diritti e dai doveri. Resta il gioco al massacro del sopravvivere quotidiano, non importa a spese di chi o come.

Quando ci si domanda irritati di che cosa o perché avevamo da chiedere perdono nell’anno giubilare, non posso fare a meno di pensare all’America Latina, all’Africa, a tutti quei Paesi che siamo riusciti a violare, erodendone la cultura, impadronendoci delle loro risorse. Non abbiamo di che essere fieri come cristiani. Siamo stati complici e continuiamo a esserlo tutte le volte che il ricorso all’esprit de géometrie o all’esprit de finesse (lusso tutto nostro) ci rende incapaci di accogliere non sentimenti di rivolta, ma più semplicemente invocazioni, domande elementari di umanità.

Eppure la teologia e la riflessione di fede possono ancora offrire percorsi di umanizzazione. Ho visitato a Manaus una scuola di teologia per laici. La frequentavano soprattutto indios, che avevano fatto giorni di navigazione sul Rio delle Amazzoni e sui suoi affluenti per parteciparvi. In una delle poche sere di questo mio soggiorno si apriva un convegno catechistico. I partecipanti erano ospitati in un piccolo palazzetto dello sport. La prima azione rituale fu accogliere l’Evangeliario. Non riesco a reprimere ancor oggi la commozione provata nel vedere uomini e donne accogliere il Vangelo con un tifo da stadio. Non ne ho esperienza, ma credo avvenga così ai concerti rock. Quella sera mi dissi che forse stava lì il futuro della Chiesa. Mi chiesi anche se un’esperienza del genere avrebbe avuto senso altrove e se, nelle condanne, certo non comminate a cuor leggero, si avvertisse la posta in gioco, quella di una speranza, grande e flebile a un tempo, che occorreva con ogni cura assecondare…

c.m.

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