03 – CONFESSIONI DI PAOLO…- LE TENEBRE DELL’UOMO PAOL – C.M.Martini

Le tenebre dell’uomo Paolo

Ci proponiamo in questa meditazione di approfondire un aspetto dell’evento di Damasco: «la cecità» che segue immediatamente la conversione. Le tenebre non soltanto del Paolo storico, ma di Paolo come uomo che vive questo momento di tenebra.
Il tema è difficile perché tocca le tenebre che sono in noi e che non vorremmo mai affrontare. È un tema penitenziale. Chiediamo la grazia dello Spirito Santo per entrarvi con verità e con apertura di cuore:

O Signore, tu ci scruti e ci conosci, sai quanto siamo incapaci di comprendere il tuo e il nostro mistero. Conosci la nostra incapacità a parlare di queste cose con verità. Ti chiediamo, o Padre, nel nome di Gesù: manda a noi il tuo Spirito che scruta le profondità dell’uomo, che sa ciò che c’è dentro di noi, perché ci renda capaci di conoscerci come siamo conosciuti da te nelle profondità del nostro male, con amore e con misericordia. Fa’ che noi guardiamo con occhio vero ciò che c’è in noi di peso, opacità e opposizione a te; fa’ che sappiamo guardarlo nella luce misericordiosa che viene dalla morte e risurrezione del tuo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore, che con lo Spirito vive e regna con te per tutti i secoli. Amen.

È stato importante definire la conversione di Paolo come « rivelazione e illuminazione ». Ora ci domandiamo come mai dopo la conversione Paolo è cieco.
Questo fatto è sottolineato, con una certa enfasi, dal racconto degli Atti: «Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Cosi, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda» (At 9, 8-9). Si direbbe che l’illuminazione di Cristo, invece di riempirlo di gioia, di luce, di chiarezza, lo abbatte, quasi gli fosse caduta addosso una grave malattia; è incapace a vedere, a nutrirsi, è bisognoso di essere condotto.
La stessa cosa viene ripresa più avanti: «E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni, giunsi a Damasco» (At 22, Il). E acquistò la vista quando Anania gli si accostò dicendogli: «Saulo, fratello, torna a vedere! E in quell’istante io guardai verso di lui e riebbi la vista» (At 22, 13).

Perché Paolo è colpito da cecità dopo che gli è stato rivelato il mistero luminoso di Cristo?
La cecità nella Scrittura è chiaramente collegata col peccato, col disorientamento dell’uomo, con il suo barcollare incapace di trovare una direzione. È un castigo: Elimas a Cipro viene colpito da cecità per castigo: « Saulo, detto anche Paolo, pieno di Spirito Santo, fissò gli occhi su di lui e disse: “O uomo pieno di ogni frode e di ogni malizia, figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia, quando cesserai di sconvolgere le vie diritte del Signore? Ecco, la mano del Signore è sopra di te: sarai cieco e per un certo tempo non vedrai il sole” » (At 13, 9-11). Nel caso di Elimas però il significato simbolico della cecità è molto ben spiegato: egli deve smettere di sconvolgere le vie diritte del Signore, di opporsi, con il suo modo di agire, alla vera immagine di Dio. Quindi è il simbolo dell’uomo incapace di trovare la via giusta, dell’uomo prigioniero delle forze di Satana, «figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia », « pieno di frode e di ogni malizia ». È chiaramente l’immagine del peccato, di ciò che nel peccato parte dall’interno: «frode e malizia »; di ciò che parte dall’esterno: «figlio del diavolo »; e nelle conseguenze: «nemico di ogni giustizia ».
Per la cecità di Paolo non è facile invece rispondere, perché gli Atti degli Apostoli non ce la spiegano, ma si limitano a descrivere il fatto a cui l’Apostolo non sembra mai accennare nelle sue lettere.
Cercando di riflettere e di entrare nel suo animo, possono emergere due motivi.

La cecità come riflesso dello splendore di Dio

C’è anzitutto un motivo biblico ricorrente: «L’uomo non può vedere Dio senza morire ». La visione di Dio è luce ma per la carnalità dell’uomo è motivo di spavento e fa percepire all’uomo tutta l’oscurità in cui si trova. A contatto con Dio che è luce, l’uomo si riconosce tenebra. Paolo vive cosi il cammino penitenziale che non era mai stato capace di vivere prima. La conoscenza della gloria di Cristo si riflette nella conoscenza della propria oscurità, vissuta da Paolo simbolicamente, con un simbolo reale, finché la parola della Chiesa, la parola di Anania, non interverrà a dargli il senso della sua accettazione nella Chiesa e della sicurezza di camminare nella via di Dio.
La cecità è il riflesso negativo della gloria di Dio che gli è stata manifestata. È tipico della conversione cristiana il fatto che l’uomo venga a conoscere molto di più se stesso e a spaventarsi delle proprie tenebre quando conosce la luce di Dio, che non attraverso un esame rigoroso, quasi una psicanalisi delle proprie profondità. È al contatto col volto di Cristo che l’uomo si scopre tenebra!

La cecità come cammino penitenziale

Il secondo motivo che può spiegare la cecità è la partecipazione di Paolo al peccato del mondo, la sua inserzione nell’umanità peccatrice.
Ci chiediamo come l’ha vissuta e come gli si è presentata.
Non è necessario lavorare di fantasia, perché Paolo ha avuto modo di esprimere in diverse occasioni la propria visuale della peccaminosità di ogni uomo, dell’abisso di tenebre che è in agguato, sempre, in ciascuno di noi. Esso è vinto soltanto dalla forza di Dio, ma potrebbe riemergere ad ogni momento se Dio non fosse continuamente vincente. E quando la forza di Dio è da noi rifiutata o trascurata, allora torna a galla ciò che Paolo chiamerà il peccato personificato.

Riflettere sulle tenebre che sono nel cuore dell’uomo non è semplicemente fare una meditazione descrittiva di qualcosa che è lontano da noi, ma è realtà che è in noi, anzi è in agguato dentro di noi. La dolorosa esperienza storica di ciascuno di noi sa che questo essere in agguato può trasformarsi, certe volte, rapidamente ed in maniera imprevista, in realtà. È questo un discorso impopolare e difficile da tradurre in linguaggio quotidiano.
Noi oscilliamo sempre fra due posizioni. Da una parte talora deploriamo la malizia dell’uomo, quando vediamo fatti sconcertanti. Intendo accennare alle violenze, a forme di crudeltà tipiche del terrorismo, la crudeltà stessa delle prigioni, con le uccisioni tra detenuti, dove si raggiunge una situazione da inferno e le persone si odiano, pur essendo sottoposte alla stessa pena. Noi stessi rimaniamo attoniti di fronte a certi omicidi barbari che succedono vicino a noi, nel tempo e nello spazio. Dall’altra parte ci culliamo nell’idea degli uomini di buona volontà: tutti hanno buona volontà, tutti sono abbastanza buoni.
Non riusciamo mai a cogliere veramente il fondo di queste due posizioni e ad accordarle tra loro: ci muoviamo un po’ in senso moralistico-deplorativo e un po’ in senso di bonaria comprensione per tutto. Spesso ci manca lo sguardo che sappia vedere il male dell’uomo, ma con misericordia, e non soltanto in maniera deplorativa e pessimistica.

Quali sono dunque le dimensioni delle tenebre e dell’oscurità di cui Paolo ci parla nelle sue lettere, riflettendo su quanto gli è accaduto nel momento della conversione?
Possiamo esprimerle secondo tre livelli diversi:
a) il livello del peccato personale;

b) il livello del peccato fondamentale;
c) il livello del peccato strutturale.

Il peccato personale

A tal proposito i testi da segnalare sono due: «Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio» (Gal 5, 19-21). Siamo al livello dei peccati singoli, personali: è un elenco impressionante dei quattordici atteggiamenti negativi dell’uomo, che Paolo trae dalla esperienza sua e del suo tempo. Una visuale molto realistica ed insieme pessimistica dell’uomo che si muove nell’ambito dei propri interessi.
Sono le opere della carne. Sono le opere che nascono nell’uomo che vive nell’ambito del proprio puro tornaconto. L’uomo si rivela allora come un essere pieno di «fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia… ». È uno sguardo drammatico sulla società e la gente del suo tempo.
L’altro testo riprende questo quadro con nuove pennellate, facendo una lista di ventuno atteggiamenti negativi: «Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, d’omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia» (Rm 1, 2831). È una descrizione che sembra persino retorica tanto è gonfiata nelle parole, ma reale, dei fatti e della società del suo tempo.

Rileggendo queste due liste ci domandiamo che tipo di descrizione è. Sono peccati sociali, cioè peccati nel comportamento verso il prossimo: tutto il modo distorto dell’uomo di agire verso il fratello, frutto di una errata cognizione di Dio, e in ultima analisi di una sbagliata concezione della vita fondata sull’egoismo.
L’Apostolo vuole dimostrare alla gente del suo tempo – che era orgogliosa tanto quanto la nostra, che pensava di avere cultura, civiltà, diritto, leggi, di essere infinitamente superiore ai barbari – che sono dei poveri uomini in preda ad ogni forma di depravazione perché cercano il proprio tornaconto personale.
Paolo fa una descrizione delle cose così come le vive e le vede, ma sa benissimo che ciò che descrive ha radice anche in lui. Secondo la parola fondamentale di Gesù nel cap. 7 di Marco ai vv. 21-22: «Dal cuore dell’uomo nascono queste cose ». E non soltanto dal cuore di un uomo che per caso è nato in situazione disgraziata, ma dal cuore di ogni uomo.
Confrontando la lista paolina con quella di Gesù, cogliamo l’insegnamento fondamentale: tutte queste cose sono dentro di noi.
Sapere che sono dentro di noi ci spinge a prenderle molto più sul serio e a riflettere con attenzione. Pensiamo per esempio a un tema che ricorre in tutte e due le liste: l’invidia. Oppure ai dissensi, divisioni, fazioni. Com’è vero che sono sentimenti che albergano nel nostro cuore! Clemente Romano scrive che Paolo è stato ucciso per invidia: non è stata la persecuzione, la cattiveria dei pagani, ma l’invidia di alcuni che, essendo suoi rivali, lo hanno denunciato. Ciò vuol dire che la comunità cristiana era soggetta a dissensi, rivalità, divisioni, fazioni che ad un certo punto si avvalevano dei pagani per le proprie manovre e le proprie vendette. C’era certamente l’autorità pagana che portava avanti la persecuzione ma non sarebbe arrivata a tanto, nei riguardi di Paolo, se i cristiani fossero stati più uniti.
La stessa morte di Pietro viene attribuita ad invidia, a delazioni e a spinte venute dall’interno del gruppo dei credenti giudeo-cristiani, o di gruppi rivali.
Pensiamo ad altre parole di quella lista: diffamatori e maldicenti, e ci accorgiamo che spesso lo siamo anche noi nel modo di parlare degli altri.

Se continuiamo a rileggere l’elenco, scopriamo come esso è vicino all’esperienza nostra di ogni giorno e che talora questi atteggiamenti emergono in maniera clamorosa, proprio perché è mancata la vigilanza e l’attenzione a cogliere il male dentro di noi e a sottoporlo continuamente alla luce di Dio. Non c’è niente di più dannoso come il venir meno alla vigilanza evangelica che è una delle virtù fondamentali.
Anche il prete che non vigila o che comincia a non vigilare più su di sé, che pensa con la forza dell’abitudine di aver trovato un certo modo di vivere, può soccombere sotto il peso di qualcuna di quelle forze negative descritta da Paolo, che emergono e si affermano in lui.
Queste opere della carne che troviamo nelle lettere dell’ Apostolo servivano da liste penitenziali sulle quali si esaminavano i catecumeni e su cui si confrontavano i cristiani nella loro esperienza di penitenza.
Questo livello del peccato personale ci tocca tutti, perché sono cose immediatamente percepibili nei loro effetti di ingiustizia e sono in noi con le loro radici, nelle propensioni negative che abbiamo.

Il peccato fondamentale

Paolo va ancora in profondità e, seguendo l’insegnamento di Gesù, denuncia il peccato fondamentale che sta alla radice di tutti gli altri: «E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno» (Rm 1, 28).
È questo uno degli aspetti del peccato radicale a cui l’uomo è inclinato e a cui ciascuno di noi è profondamente proteso e inevitabilmente attratto, se la forza di Dio non venisse in nostro soccorso.

Qual è questo peccato fondamentale?

Si può esprimerlo in tanti modi e ciascuno a partire dalla propria esperienza. È «il peccato» di cui Giovanni parla nel quarto vangelo usando quasi sempre il singolare. È, sostanzialmente, il non voler riconoscere Dio come Dio, è il peccato che sta alla radice della rivolta di Satana: non riconoscere che la nostra vita è determinata solo dall’ascolto di Dio.
La radice nascosta, e quindi non facilmente esplicitabile, di tutto ciò che è chiamato laicismo sta proprio qui. Non si tratta di una propensione cattiva, come ad esempio nella scelta del furto, dell’ingiustizia, della menzogna. Il peccato sta nel dire che non c’è bisogno dell’ascolto di Dio, che non è la Parola di Dio a determinare la vita ma, ultimamente, la nostra sola scelta.
Ecco il peccato fondamentale da cui tutto il resto deriva, al quale sono sottese tutte le mancanze personali. Per Paolo la distorsione fondamentale è quella di non riconoscere il Dio del Vangelo; . è la tendenza a negare che l’uomo è fatto per l’ascolto di Dio, a vivere della sua Parola; è il rifiuto istintivo e diabolico in sé, perché irragionevole, di lasciarsi amare e salvare da Dio e di vivere del suo amore. Questo rifiuto può assumere, come in Paolo, persino il colore dello zelo: vantandosi della sua tradizione, della sua onorabilità, egli di fatto rifiutava la misericordia di Dio come determinante per la sua vita.
È il peccato che veramente ha bisogno di essere curato nell’uomo, perché sia curata la radice delle opere della carne. Ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia, invidia non sono semplici fragilità e debolezze ma derivano da un’origine più profonda.

L’uomo è maledettamente scontento di sé e la sua scontentezza è venuta fuori in forme paradossali, abnormi. Questa scontentezza di sé è, in radice, il rifiuto di essere amato, di lasciarsi amare; il fissarsi talmente nella propria autonomia da farsene un idolo, con tutte le reazioni di tristezza o di disperazione che ne seguono e con tutte le conseguenze di crudeltà, di ingiustizia che sono l’apice della malvagità umana. Solo così possiamo spiegare i grandi massacri, anche recenti, della storia, le uccisioni spietate che sono avvenute e che avvengono in momenti di rivolgimenti politici, sociali, in cui si sfoga un’interiore disperazione dell’uomo. Chi è scontento di sé infierisce sugli altri.
Grazie a Dio solo raramente noi incontriamo nella vita questi casi limite: però li incontriamo, ci sono e fanno la storia. Ciò che è avvenuto infatti nei campi di concentramento al tempo di Hitler non si può spiegare se non con questo sorgere del demoniaco rifiuto di Dio.

Paolo parlando di questo peccato ci sconcerta perché, riferendolo a se stesso e ad ogni uomo, sottolinea che è invincibile.
« Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato.
Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. lo so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7, 14-19).
È una impotenza umana storica, misteriosa, paradossale fino a sfiorare l’assurdo. L’uomo desidera il bene ma si accorge che non lo realizza. Condizionato dalle vicende, dalle tensioni, dalle difficoltà, dalle opposizioni che deve superare, si indurisce e, indurendosi, si rinchiude in sé, si arriccia contro le difficoltà, si rinchiude nel possesso e nell’autodifesa e così rifiuta la dipendenza da Dio, dalla sua Parola e dalla sua misericordia.
Nei casi peggiori resta travolto e nega la trascendenza di Dio. Nei casi migliori, l’uomo arriva a vivere il dualismo per cui nei momenti buoni gli sembra di essere teso all’ascolto della Parola, e poi, nell’incalzare delle circostanze, specialmente avverse – amarezze, delusioni, odii, contrasti, ingiustizie che subisce e che ha voglia di ritorcere – si difende ad ogni costo, si oppone agli altri e soprattutto non fa più riferimento alla Parola di Dio.
Paolo ha toccato con quel « peccato che abita in me » la profonda miseria dell’uomo, difficile a capirsi, però sperimentabile negli effetti, nelle conseguenze, nelle situazioni storiche.

Il peccato strutturale

È la condizione dell’uomo storico per cui, di fatto, nelle durezze della vita si restringe in se stesso e, senza volerlo, diventa avido, ingiusto, difensore del proprio bene ad ogni costo. Non è evidentemente soltanto il frutto della malizia individuale ma è la condizione culturale nel senso vasto della parola, sociale, dell’uomo storico. È il peccato inserito nei sistemi di vita, nella mentalità, nelle idee ricevute; è un modo di essere e di vivere che la Scrittura chiama « mondo », in senso negativo, in cui, aldilà delle belle parole, prevale il tornaconto, il bisogno di sopraffare gli altri, di contrattaccare, di polemizzare per primo per non essere sottomesso. Questa realtà conflittuale noi non l’abbiamo scelta e potremmo, come don Abbondio, pensare di esserne a lato. Resta però il fatto che ci accorgiamo di non poterla sfuggire.
La condizione umana che lo stesso Paolo analizza in modo molto drammatico, non possiamo dire che non sia vera; se riflettiamo con attenzione vediamo che noi stessi ne siamo condizionati. Non poche delle idee ricevute come ovvie sono frutto di questa mentalità, non poche delle nostre scelte istintive sono dovute a questa mentalità. Quando esaminiamo la storia del passato e ci meravigliamo che si siano compiute alcune scelte, anche nella storia della Chiesa – come la tortura o la guerra – dovremmo capire che quella gente viveva secondo le idee ricevute. Era praticamente impossibile per loro sottrarsi ad una certa mentalità, che poteva portare a commettere ingiustizie. Fa parte del cammino storico dell’uomo il vivere sottomessi alla mentalità del proprio tempo e compiere delle scelte inavvertite che forse fra uno o due secoli appariranno sbagliate ma che oggi, istintivamente, compiamo.
Questo peccato strutturale, inserito nella vita sociale, economica e nella mentalità, Paolo lo denuncia, ed è un aspetto della realtà perché, mentre lo denuncia, afferma che nel più profondo del cuore dell’uomo c’è una mentalità opposta: l’apertura a Dio.

L’uomo è prima aperto a Dio che chiuso; però storicamente la chiusura a Dio è quella che scoppia e si manifesta in determinate circostanze.
La salvezza che Dio offre all’uomo è il ritrovare, il rivivere per grazia e per misericordia, nella pienezza dell’incontro con Cristo, la potenzialità di quell’apertura originaria che crea la mentalità del bene, la cultura positiva.
L’uomo non può riconoscere tutto questo se prima non ha la percezione del male. Tale conoscenza del male non dev’essere fonte di pessimismo sistematico; essa è un fatto che ci permette un giudizio vero sulla realtà.

Può spiegare meglio ciò che ho detto sul peccato strutturale e sul modo con cui ci avvolge, un esempio della vita di Gesù. È l’episodio che prelude alla passione: «Gesù si trovava a Betania nella casa di Simone il lebbroso. Mentre stava a mensa, giunse una donna con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato di nardo genuino di gran valore; ruppe il vasetto di alabastro e versò l’unguento sul suo capo. Ci furono alcuni che si sdegnarono fra di loro: “Perché tutto questo spreco di olio profumato? Si poteva benissimo vendere quest’olio a più di trecento denari e darli ai poveri! “. Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: “Lascia tela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona” » (Mc 14, 3-6).
Si tratta di un giudizio su un’azione particolare. Gesù e la donna si trovano soli e coloro che li circondano, agendo per motivi istintivi, condannano quel gesto, non lo sanno capire. È un caso tipico della forza della mentalità che si comunica dall’uno all’altro e non permette l’apertura alla verità di un gesto che ha un significato profetico. Agendo con le convinzioni ordinarie, con quello che sembra il comune buon senso, tutti si mettono contro Gesù che rimane solo.

Paolo vive in sé, e con il mondo con cui si sente solidale, tutta la realtà di questa mentalità comune quando dice: «lo sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? » (Rm 7, 24). In altri termini: non c’è scampo per me di fronte alla realtà di questa situazione. E subito aggiunge: «Sia-. no rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! » (Rm 7, 25).
Nella sua cecità l’Apostolo è penetrato, fino in fondo – al di là di quello che è dato all’uomo normale nel mistero delle tenebre dell’uomo e ha così potuto comprendere la potenza della luce di Cristo e delle sue capacità di rifare un mondo nuovo.
Nell’esperienza delle tenebre ha percepito la potenza dell’illuminazione battesimale a cui, allora, si è sottoposto volentieri per mano di Anania, ricevendo nella Chiesa e dalla Chiesa la potenza di salvezza.

L’enciclica «Dives in misericordia », parlando della inquietudine e delle fonti di inquietudine, dice:
«Evidentemente un fondamentale difetto o piuttosto un complesso di difetti, anzi un meccanismo difettoso, sta alla base dell’economia contemporanea e della civiltà materialistica, la quale non consente alla famiglia umana di staccarsi da situazioni così radicalmente ingiuste» (n. Il). Il Papa applica alla realtà della famiglia umana quella incapacità che Paolo applicava all’uomo: vedo, voglio e non posso. Viene estesa ad una situazione di struttura la realtà che l’uomo sperimenta già nel fondo di sé, nel peccato strutturale che sta in lui.

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