Sofferenza – Giovanni Lonardi

  

 

LA SOFFERENZA

COME SACRIFICIO CULTUALE

 

Di Giovanni Lonardi

 

 Premessa

 

 In una visione olistica del mondo tutte le cose sono colte nel loro insieme, tra loro interagenti e strettamente concatenate le une alle altre. Tutte sono simbolo e metafora delle altre, tutte si richiamano tra loro e nel loro insieme si trova il loro significato e il senso del loro esserci. Ognuna si riflette nel tutto e il tutto si rivela in ognuna. Vi è dunque una forte e solida compenetrazione degli esseri, quali riflesso, espressione e testimonianza dell’Unico Essere che rende Uno tutte le cose. L’avere una visione parcellizzata, frammentata della realtà non solo non ci aiuta a comprenderne il significato più vero e profondo, coglibile soltanto se collocato nel Tutto, ma ci spinge verso una visione schizofrenica della stessa con gravi conseguenze nel rapportarsi alla realtà stessa.

 

Nella stessa prospettiva va colta la sofferenza, che si esprime in una creazione che soffre per la sua caducità, subita contro la sua volontà (Rm 8,20). Ed anche l’uomo, per un principio di solidarietà che lo lega inscindibilmente con la creazione stessa[1], soffre per la fragilità del suo essere. L’uomo e ancor prima l’intero cosmo non sono stati creati difettosi da parte di Dio e caduchi per loro natura, ma essi rilucevano dello stesso splendore divino (Sal 8,5-7). Il primo atto creativo di Dio, infatti, è la luce[2] (Gen 1,3), emanazione della sua stessa vita divina, al cui interno Egli colloca le sue creature, che assimila a sé; per questo “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31), proprio perché nelle sue creature vede riflesso se stesso. La creazione dunque era incandescente di Dio, specchio della sua onnipotenza e della sua bontà[3].

 

Anche l’uomo, per decreto divino fu creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-27), beneficiando in tal modo della perfezione della vita divina. Dio infatti soffiò[4] sull’uomo che divenne essere vivente (Gen 2,7), cioè lo ricoprì e lo permeò del suo Spirito divino, rendendolo partecipe della sua stessa vita, divenendo collaboratore di Dio (Gen 2,15). L’uomo, dunque, apparteneva alla stessa dimensione di Dio[5]. E Dio creando l’uomo creò, sia pur a livello creaturale, un altro se stesso, capace di volontà e autonomia proprie, capace anche di opporglisi. E l’uomo mangiò dell’albero (Gen 3,6), cioè aggredì il potere di Dio, lo volle scalzare, gli si oppose (Gen 3,5); ed ecco che all’improvviso gli si aprirono gli occhi e si accorse di essere nudo (Gen 3,7): gli apparve tutta la fragilità del suo essere creature e si ritrovò “nudo”, cioè spoglio e privo dello Spirito divino che lo aveva assimilato alla vita stessa di Dio, così che, persa la sua configurazione divina, venne rivestito da Dio stesso non più di Spirito Santo, ma di pelli di animali (Gen 3,21) per indicare il suo nuovo stato e la sua nuova condizione esistenziali. Dolore, sofferenza, tribolazioni, difficoltà avrebbero scandito il suo penoso vivere “finché tornerai alla terra, perchè da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!” (Gen 3,19b). Egli pertanto fu cacciato dall’Eden, dalla dimensione divina a cui apparteneva ed ebbe inizio per lui la sua triste disavventura fatta di dolore e di morte[6] (Gen 3,16-19), che si propagherà sempre più fino a travolgere la creazione stessa: “Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. Allora Dio disse a Noè: <<è venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra.” (Gen 6,12-13).

 

Ma proprio là dove la fine di ogni speranza sembrava definitivamente sancita, ecco che Dio non abbandona l’uomo al suo triste destino, ma ne tenta il recupero alla sua primitiva condizione di vita. Ha inizio in tal modo la storia della salvezza, cioè il tentativo di Dio di recuperare l’uomo alla vita divina stessa in cui era stato collocato fin dal suo inizio (Gen 2,8). Ecco, dunque, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosé, il popolo, i Profeti … fino a Gesù, che con la sua nascita rinunciò a tutte le sue prerogative divine e assunse su di sè la carne decaduta del vecchio Adamo, la visse fino in fondo, condividendo solidalmente la triste storia di sofferenza e di morte dell’uomo decaduto (Fil 2,6-8), la portò sulla croce e con la sua morte pose fine alla vecchia creazione adamitica (Rm 6,6), mentre con la sua risurrezione dette inizio ad una nuova creazione, vaticinata da Isaia (Is 65,17; 66,22) e contemplata da Giovanni nell’Apocalisse (Ap 21,1). Nella passione-morte-risurrezione di Gesù la passione e morte dell’uomo hanno perso il loro senso di condanna e di disperazione divenendo invece promessa di riscatto e di risurrezione; promessa e premessa di vita nuova in Cristo e per Cristo in Dio (1Pt 1,3). Nella risurrezione di Gesù, infatti, il Padre con la potenza del suo Spirito rigenerò quella vecchia umanità adamitica, di cui si rivestì il proprio Figlio distruggendola sulla croce e ricollocandola nuovamente nella vita stessa di Dio, così come lo fu nei primordi della prima creazione.

 

Se da un lato, dunque, la sofferenza e la morte dell’uomo dicono tutta la sua drammatica caducità, conseguente alla sua colpa primordiale, dall’altro, in Cristo esse cambiano completamente di significato e di orientamento, diventando non più espressione di condanna, ma passaggio necessario verso la nuova vita, motivo quindi di riscatto e di redenzione, poiché “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Grazie a Cristo morto-risorto nella sofferenza e nella morte dell’uomo è stato seminato un germe di vita eterna, aprendo l’uomo ad una nuova prospettiva di speranza. Paolo infatti ricorda che “Se siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione.” (Rm 6,5).

 

Collocate in questo ampio quadro storico-salvifico, di cui fanno parte integrante, la sofferenza e la morte dell’uomo divengono redentive poiché il credente viene associato al Cristo sofferente, il cui sangue è posto a redenzione dell’intera umanità (Ef 1,7). Non è dunque più lui che vive, ma Cristo stesso vive in lui (Gal 2,20a), lo vive nella sua passione e morte, completando in tal modo nella carne del suo discepolo ciò che manca alla sua passione e morte (Col 1,24), cioè l’assimilazione e la compartecipazione di ogni singolo uomo alla sua passione (Gv 12,32). In tal modo la sofferenza e la morte del credente non sono più espressione di condanna, ma manifestazione e testimonianza di quelle di Cristo.

 

Inquadrate in questo contesto cristologico la sofferenza e la morte dell’uomo e ancor più quella del credente acquisiscono una profonda valenza sacrale, divenendo una sorta di celebrazione cultuale che si radica in Cristo stesso e da lui trae il suo significato più vero e profondo; egli è il nuovo tempio di Dio (Gv 2,20-21) e nel contempo vittima sacrificale (1Gv 2,2; 4,10) e sacerdote offerente di se stesso (Ef 5,2; Eb 10,12) posto sull’altare della croce. In tal modo la sofferenza e la morte non sono più un qualche cosa di strettamente personale che si consuma nell’intimità o nell’abbandono e nell’oblio del sofferente, ma proprio per la loro sacralità e il loro radicarsi in Cristo, hanno i loro simboli e i loro luoghi in cui si celebrano cultualmente: il Tempio, l’Altare, la Materia del Sacrificio, l’Annuncio, la Diaconia, il Sacerdote celebrante attorno ai quali si raccoglie la Comunità credente e concelebrante. Questi sono i luoghi e i segni del compiersi del sacrificio. Ma per una visione olistica della realtà, questi luoghi e questi segni sacri della Tradizione, nei quali si celebra e si consuma il sacrificio di Cristo, ne richiamano altri a cui si associano e si agganciano in modo simbolico e metaforico, ma per questo non meno reale, altri luoghi e altri segni entro i quali Cristo continua a vivere e a celebrare il proprio sacrificio nel silenzioso dolore del proprio discepolo.

Ecco, dunque, che il Tempio si fa Casa e Ospedale; il letto intriso di dolore e di sudore diventa l’Altare su cui è posto l’Ammalato, Vittima sacrificale, unita al suo Cristo, e si fa Annuncio delle sofferenze del suo Signore, che vive e vivono in lui; mentre le cure profuse dai parenti e dagli infermieri e medici diventano un’inconsapevole diaconia liturgica posta a servizio del Sofferente, Sacerdote offerente di se stesso. Questi apparati di sacralità sono posti in mezzo alla comunità umana e a quella credente, spesso distratte e insensibili al sacrificio cultuale e alla liturgia della sofferenza che si sta celebrando in mezzo ad esse.

 

Per comprendere la realtà profonda di questo simbolismo e di queste metafore che legano intimamente tra loro tutte queste realtà in un Tutto Unico, ci soffermeremo su alcuni aspetti fondamentali di questa celebrazione liturgica: il Tempio, l’Altare, la Vittima, la Diaconia, il Sacerdozio, la Comunità credente, che trovano la sua eco nel soffrire quotidiano.

 

Il Tempio

 

Da sempre il culto delle varie divinità, a cui gli uomini sono abituati a rivolgersi con le loro liturgie, si svolgono in luoghi appositi a questo riservati e per questo sono considerati luoghi sacri: i templi. Ma per Israele, a cui la fede cristiana è strettamente e intimamente legata e profondamente debitrice, il Tempio non è semplicemente un luogo di culto, ma assume in sè significati e valenze via via sempre nuovi, più profondi e complementari tra loro. Un tempio attorno al quale cresce e si sviluppa nel tempo una specifica teologia, che dice le sempre nuove comprensioni che gli israeliti hanno avuto di esso fino a farne una metafora, un simbolo preannunciante in se stesso realtà nuove ed escatologiche, verso le quali il pio israelita è esistenzialmente rivolto. Il Tempio dunque non è soltanto un luogo fisico, topograficamente collocato e riservato al culto, ma è un’immagine delle realtà future, che accompagnano e stimolano ogni credente nel suo cammino quotidiano verso l’Eternità e che ad esso si lega in virtù della sua configurazione spirituale e ontologica.

 

Il Tempio ebraico non nasce dal nulla, ma si radica in una elezione, che andrà nel tempo sempre più definendosi.

 

Già ad Abramo Dio aveva promesso una discendenza numerosa con la quale Egli avrebbe stabilito un’alleanza (Gen 17,4-7). Questa promessa trova la sua prima attuazione proprio in terra d’Egitto, la terra dell’oppressione e della schiavitù (Es 1,8-16). E sarà proprio il sangue dell’agnello asperso sugli stipiti delle porte che individuerà il vero Israele (Es 12,22-23), che Dio condurrà ai piedi del Sinai dove darà una nuova identità a colui che era il non popolo: “<< … Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti>>” (Es 19,4-6). Israele diviene “proprietà di Dio”, gli appartiene in modo esclusivo e i destini del popolo sono uniti con quelli di Dio. Israele quindi diviene popolo consacrato, cioè riservato al Signore, per questo il popolo è “nazione santa”, partecipe in un certo qual modo della vita di Dio. Questa profonda unione comunionale tra Dio e il suo popolo fa sì che Israele diventi il sacramento vivente di Dio in mezzo agli altri popoli, attraverso il quale Dio testimonia la sua presenza in mezzo agli uomini e grazie ad Israele Egli si comunica ad essi (Ez 20,41; 39,7). Israele diventa pertanto un “popolo di sacerdoti”, cioè un popolo capace di “sacrum donare”, di trasmettere e di testimoniare quella Santità di Dio (Sal 95,3) a cui egli è legato per vocazione ed elezione, che viene sancita attraverso un’Alleanza (Es 20-24). Israele infatti sarà tutto questo soltanto “se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza”.

 

Ed è proprio in questo contesto di elezione ed Alleanza che Dio dà le sue disposizioni circa la sua “Dimora” in mezzo al popolo: “Il Signore disse a Mosè: <<Ordina agli Israeliti che raccolgano per me un’offerta. La raccoglierete da chiunque sia generoso di cuore[7]. Ed ecco che cosa raccoglierete da loro come contributo: oro, argento e rame, tessuti di porpora viola e rossa, di scarlatto, di bisso e di pelo di capra, pelle di montone tinta di rosso, pelle di tasso e legno di acacia, olio per il candelabro, balsami per unguenti e per l’incenso aromatico, pietre di onice e pietre da incastonare nell’efod e nel pettorale. Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro.” (Es 25,1-8). Innanzitutto i materiali per la costruzione della Dimora non devono essere comperati, ma dati in offerta e devono radicarsi in un cuore generoso. Non si tratta dunque di dare un qualcosa, ma di compiere in questo dono un vero e proprio sacrificio cultuale in cui l’israelita è coinvolto non soltanto per i beni materiali di cui si priva per offrirli al Signore, ma viene anche coinvolto esistenzialmente (”… da chiunque sia di cuore generoso”). La Dimora divina pertanto nasce da un atto cultuale che si fa liturgia esistenziale. La condizione dunque perché Dio abiti in mezzo agli uomini è che questi si rendano esistenzialmente disponibili ad accoglierlo in mezzo a loro e in loro. Dimora divina e uomo colto nel suo esistere quotidiano pertanto sono strettamente connessi.

 

Il progetto di questa Dimora non nasce tuttavia da calcoli ingegnosi dell’uomo, ma è dettato direttamente da Dio (Es 25,9; 26,30). Tale Dimora pertanto diventa simbolo e metafora di realtà celesti e future che si stanno lentamente incarnando nel tempo in mezzo agli uomini[8]. E al compiersi di tale opera Dio ne prende possesso (Es 40,33b-34) e si fa pellegrino in mezzo al suo popolo e con il suo popolo (2Sam 7,6-7a). Questa Dimora, infatti, non è un tempio stabile, ma una tenda divina che si colloca in mezzo al popolo (Lv 15,31; 26,11; Ez 37,27) in cammino verso la Terra Promessa, verso il realizzarsi delle Promesse. Da questo momento la Dimora scandirà i tempi del cammino e il popolo incomincerà a muoversi secondo i ritmi dettati dal Dio in mezzo a loro e con loro (Es 40,36; Nm 1,51; 9,18-20.22). In tal modo il popolo imparava a muoversi e a camminare secondo i ritmi di Dio e a comprendere il cammino del suo volere.

 

E giunti nella Terra Promessa il popolo vi si stabilì definitivamente. E quando Davide[9] volle costruire una casa per il Signore (2Sam 7,2), Dio gli si oppose e gli dirà che sarà proprio Lui, Jhwh, ha costruire invece una dimora stabile a Davide e alla sua discendenza e sarà proprio questa discendenza che costruirà il tempio che Dio si attende: “<< … Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno. Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio. Se farà il male, lo castigherò con verga d’uomo e con i colpi che danno i figli d’uomo, ma non ritirerò da lui il mio favore, come l’ho ritirato da Saul, che ho rimosso dal trono dinanzi a te. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso stabile per sempre>>” (2Sam 7,12-16). C’è quindi qui una svolta radicale nella storia del Tempio: nel momento in cui l’uomo sembra prendere in mano le proprie sorti e stabilire lui i tempi e i luoghi di Dio, Jhwh gli fa capire che è Lui che conduce la storia e che stabilisce la discendenza che gli dovrà costruire il Tempio dove abiterà il suo nome[10] e la sua gloria. Si pone dunque un vincolo stretto tra “Discendenza” e “Tempio”. La costruzione del Tempio è affidata alla “Discendenza”. Sarà infatti Salomone a costruire il Tempio, “discendenza uscita dalle viscere di Davide”. La profezia di Natan (2Sam 7,8-17) tuttavia non si esaurisce in Salomone, ma viene rilanciata in una continua attesa del Messia davidico, che doveva rendere stabile il regno di Israele e rinnovare il culto a Jhwh, dando in tal modo un nuovo significato e un nuovo senso al Tempio. Ancora una volta le figure della storia (Discendenza-Tempio) assumono significati simbolici e metaforici, che rilanciano di continuo i credenti verso un futuro di pieno e definitivo compimento delle promesse. È un cammino inarrestabile che troverà la sua meta nell’Eternità. Dio dunque, con continui rilanci, sta conducendo lentamente l’umanità verso di Sè, passando dalla storia alla Metastoria, dove ogni promessa troverà il suo pieno e definitivo appagamento e avrà la sua caparra nel Risorto.

 

Anche il Tempio di Salomone e lo splendore della sua gloria non erano le realtà definitive pensate e volute da Dio, ma solo un passaggio intermedio verso altre realtà contenute implicitamente nelle precedenti … e così in un continuo cammino di rilancio verso il loro compimento definitivo. Il tempio e la gloria di Salomone, infatti, trovarono la loro fine nella distruzione del Regno di Giuda ad opera di Tiglat Pialzar III e di Salmanassar II (597-582 a.C.) e il conseguente esilio babilonese di Israele (597-538 a.C.). Tutto sembrava perduto e ogni promessa di Jhwh caduta nel nulla. Ma la storia della Salvezza, che è il cammino del compiersi della Promessa, riprende nella grandiosa visione che Ezechiele ha circa il Nuovo Tempio, la cui descrizione occuperà ben nove capitoli del suo Libro (Ez 40-48): “Al principio dell’anno venticinquesimo della nostra deportazione, il dieci del mese, quattordici anni da quando era stata presa la città, in quel medesimo giorno, la mano del Signore fu sopra di me ed egli mi condusse là. In visione divina mi condusse nella terra d’Israele e mi pose sopra un monte altissimo sul quale sembrava costruita una città, dal lato di mezzogiorno. Quell’uomo mi disse: “Figlio dell’uomo: osserva e ascolta attentamente e fa attenzione a quanto io sto per mostrarti, perché tu sei stato condotto qui perché io te lo mostri e tu manifesti alla casa d’Israele quello che avrai visto”. Ed ecco il tempio … ” (Ez 40, 1-5a). è una visione dal forte sapore escatologico in cui vengono rianimate e proiettate in avanti le attese e le speranze di un popolo in esilio. È la visione di una città nuova dove viene collocato un Tempio nuovo in cui Dio farà abitare nuovamente la sua Gloria (Ez 43, 4-5). In esso viene posto un altare per il quale vengono dettate delle nuove regole per i sacrifici (Ez 43, 18-27) e nuove disposizioni per accostarsi ed entrare nel Tempio (Ez 44, 6-31), riempito della Gloria di Dio (Ez 44,4). A questa visione del Nuovo Tempio viene associata un’altra grandiosa visione dai forti toni escatologici: quella delle ossa aride, metafora di un popolo distrutto dal peccato, ma rigenerato dalla Parola potente di Jhwh[11] (Ez 37,1-14).

Questa grandiosa visione di Ezechiele non trovò pieno riscontro storico, ma avrà il suo compimento nei nuovi eventi che si produrranno con la venuta di Cristo, venuto non per abolire la Legge e i Profeti, ma per darne compimento (Mt 5,17). Tutta la storia parla per simboli e metafore e ogni realtà ne richiama altre ancora e così di seguito fino al loro pieno svelarsi e al loro pieno compiersi di tempo in tempo fino alla pienezza dei tempi, quando la storia confluirà nell’oceano dell’Eternità. Questo modo di procedere delle cose e la loro parziale e imperfetta comprensione nel loro quotidiano accadere vengono ricordati anche da Paolo nella sua prima lettera ai Corinti: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (1Cor 13,12). Soltanto lo srotolarsi della storia e il suo lento compiersi rivela il vero senso delle cose e ci chiede una nuova e una continua rinnovata capacità di lettura delle stesse. La questione si impose alle prime comunità credenti, le quali in una ricerca attenta rivisitarono le Scritture alla luce del Cristo risorto[12] e la storia di Israele e le sue vicende acquistarono pienezza di significato e di senso.

 

In questa prospettiva si colloca anche la rilettura del significato teologico del tempio e vedremo come la sua storia fu di fatto un annuncio di un altro Tempio, di un altro sacrificio, di un’altra vittima, di un altro sacerdozio, di un diverso culto, che trova il suo svelamento e il suo compimento in Cristo.

 

Riepilogando quanto fin qui detto, abbiamo visto come il primo tempio fu una realtà strettamente legata ad una elezione e ad un’alleanza; il progetto di questo tempio fu pensato da Dio e affidato per la sua realizzazione agli uomini, instaurando in tal modo una fattiva collaborazione divino-umana nel compiersi della storia della salvezza; fu il luogo in cui dimorava la gloria di Dio, la gloria della sua presenza, la Shekinah; fu dapprima una tenda posta in mezzo al popolo e si muoveva con lui, scandendone i ritmi e i tempi del suo peregrinare verso la terra promessa; esso fu legato ad una “discendenza” e con Ezechiele divenne il segno primario di un radicale rinnovamento dell’uomo e del culto a Dio.

Questi tratti essenziali trovano il loro compimento nella persona stessa di Cristo così che il Tempio ebraico divenne figura e preannuncio di un altro Tempio[13], nel quale trova il suo senso e il suo significato compiuti. Ma anche il Tempio-Cristo si dilata e si estende nella comunità e in ogni singolo credente, così che la comunità credente e ogni suo singolo componente, ognuno a modo proprio, sono tempio di Dio. La storia della salvezza infatti si muove attraverso un processo evolutivo e selettivo[14] che va dal meno verso il più, dal singolo verso il collettivo e dal collettivo all’universale fino ad un suo compiersi pieno e definitivo[15]. Soltanto allora il progetto pensato dal Padre e attuato nel Figlio per mezzo della potenza dello Spirito si svelerà pienamente e definitivamente in tutta la sua compiutezza.

 

Ed ecco che l’autore della Lettera agli Ebrei vede nel Cristo risorto non solo il vero ministro di un unico e nuovo culto irrepetibile[16], ma anche la vera tenda, più grande e più perfetta, costruita dal Signore e non per mezzo di un uomo (Eb 8,2; 9,11), di cui figura fu la prima tenda mosaica (Eb 8,5). Gesù stesso interpreterà il suo corpo come il vero tempio: “Rispose loro Gesù: <<Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere>>. Gli dissero allora i Giudei: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Ma egli parlava del tempio del suo corpo.” (Gv 2,19-21).

In questo nuovo Tempio, concepito per opera dello Spirito Santo (Mt 1,18.20; Lc 1,35), dimora la Shekinah, la gloria stessa di Dio che Giovanni contempla nel suo vangelo: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio … E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.” (Gv 1,1-2.14).

 

Ma se Cristo è il nuovo Tempio del Padre, dove abita la sua presenza gloriosa, anche il credente, in quanto tale, per stessa definizione di Gesù, diventa Tempio di Dio e sua dimora in mezzo agli uomini: “Gli rispose Gesù: <<Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. …>> (Gv 14,23). Non si tratta tuttavia di una semplice abitazione, ma di una vera e propria sacramentalizzazione del credente, assimilato a Cristo-Tempio: “Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.” (Mt 25,40.45). Gesù non dice “è come se l’aveste fatta a me”, ma “l’avete fatta a me”, stabilendo in tal modo un profondo legame diretto tra il credente e se stesso, così che il credente e con lui ogni uomo diventano sacramenti viventi di Cristo. Paolo ricorderà questa dimora-identità tra credente e Cristo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me …” (Gal 2,20a), una identità che lo lega intimamente e profondamente al mistero della sua morte e risurrezione e ne fa una nuova creatura (Rm 6, 3-6; 2Cor 5,17) e un sol corpo con lui e in lui (Rm 12,5; 1Cor 12,27).

 

Il credente pertanto, intimamente e profondamente unito a Cristo-Tempio e dimora vivente della gloria di Dio, è egli stesso con il suo corpo Tempio e luogo della dimora gloriosa di Dio: “O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!” (1Cor 6,19-20). Il corpo pertanto non è più nostro, ma appartiene al Signore e a lui è consacrato nel battesimo, così Paolo può dire che “il corpo poi non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo.” (1Cor 6,13b). Per questo Paolo esorta la comunità di Roma affinché “Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri; non offrite le vostre membra come strumenti di ingiustizia al peccato, ma offrite voi stessi a Dio come vivi, tornati dai morti e le vostre membra come strumenti di giustizia per Dio.” (Rm 6,12-13).

Vi è dunque una profonda e intima compenetrazione tra Cristo e il credente, così che i due sono una cosa sola e si appartengono vicendevolmente.

 

Questa corporeità che lega il credente a Cristo è la stessa corporeità che lega tutti i credenti tra di loro così da formare una sola cosa in Cristo: “Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.” (Gal 3,28). Una unità profonda e comunionale che ha la sua origine nella stessa comunione che ogni credente ha con il corpo e il sangue di Cristo: “Parlo come a persone intelligenti; giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane.” (1Cor 10,15-17), così che Paolo non esita a concludere: “Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.” (1Cor 12,27). E questo nuovo corpo, che è la comunità credente stessa radicata in Cristo, qualificata dall’unico pane, dall’unica Parola e dall’unica fede nell’unico Cristo, è il nuovo tempio in cui Dio abita in mezzo agli uomini e cammina in mezzo ad essi: “Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente, come Dio stesso ha detto: Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò e sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo” (2Cor 6,16b) e ogni membro è pietra viva chiamato ad edificare questo Tempio vivente, che è Cristo stesso, nel quale ogni credente esercita un sacerdozio santo, partecipe di quello unico di Cristo: ” … anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 2,5), un edificio spirituale, una dimora per Dio, un tempio che cresce ben ordinato in Cristo e che ha come pietra angolare Cristo stesso: ” … edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,20-22).

 

I credenti, pertanto, sono costituiti in Cristo pietre viventi, il cui compito è edificare e far crescere in Cristo quell’edificio spirituale che è la Chiesa, in conformità al compito che la vita ha loro assegnato; ma nel contempo essi si qualificano come membra viventi di Cristo e in lui e con lui formano un solo corpo: “Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri” (Rm 12,4-5). Ma non tutte le membra sono uguali, vi sono anche quelle che abbisognano di una maggiore attenzione, così che Dio “ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.” (1Cor 12,24b-26).

 

Questa profonda unità comunionale che ci lega tutti nell’unico Cristo, facendoci uno in lui (Gal 3,28), ci spinge dunque ad aver cura gli uni degli altri soprattutto di quelle membra che soffrono e che sono chiamate a vivere e a completare in se stesse la passione di Cristo sofferente: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa.” (Col 1,24). Una sofferenza pertanto che non è vana o punitiva, ma vissuta in Cristo diventa fonte di redenzione e salvezza per l’intera Chiesa e occasione di umile e servizievole condivisione per le altre membra: “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi.” (Rm 12,15-16).

 

Ed è proprio in questo nuovo Tempio spirituale, che è lo stesso corpo di Cristo, di cui noi siamo membra viventi e a nostra volta tempio e dimora di Dio, che si celebra sull’altare della vita il sacrificio santo e gradito a Dio del nostro vivere, gioire e soffrire quotidiani, trasformando in tal modo la nostra vita in un atto di culto e in una perenne liturgia di lode e di ringraziamento.

 

L’Altare

 

Se il tempio è il luogo in cui Dio colloca la sua presenza in mezzo agli uomini, cammina con loro verso il compimento delle sue Promesse, che trovano il loro punto culminante, ma non definitivo, nell’incarnazione, passione, morte e risurrezione del Figlio; se il tempio è il luogo d’incontro tra Dio e gli uomini e figura di un altro tempio più perfetto (Eb 9,11), il Cristo, spazio d’incontro e di riconciliazione definitiva tra il Padre e i suoi figli (Ef 1,4-5), l’altare è il cuore stesso del tempio.

 

Benché l’altare sia strettamente connesso al tempio, diventandone il punto focale verso cui tutto converge, tuttavia esso nell’A.T. ha avuto un’origine completamente indipendente. La prima volta che il termine appare è in Gen. 8,20 allorché “Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali mondi e di uccelli mondi e offrì olocausti sull’altare”. Ma altrove nell’A.T. vediamo come l’altare è soltanto una sorta di piccolo monumento costruito con terra o con roccia grezza non lavorata, un grosso sasso o più semplicemente una sorta di stele la cui funzione era prevalentemente commemorativa dell’incontro tra Dio e Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè[17]. L’altare e il luogo in cui veniva eretto portavano il nome che qualificava l’incontro tra il Patriarca e Jhwh (Gen 33,20; 35,7; Es 17,15). Gli altari in epoca patriarcale dunque erano la testimonianza di relazioni privilegiate che Dio teneva con i suoi eletti, attraverso i quali stavano compiendosi le Promesse. Proprio lì Dio si è rivelato e si è fatto conoscere. Questi luoghi divennero successivamente luoghi di culto e vi si costruirono dei santuari. Anzi l’altare in sé, in epoca patriarcale, era sufficiente per stabilire la fondazione di un santuario[18]. L’altare pertanto è un elemento fondativo del tempio che ne giustifica l’esistenza. Il tempio c’è perché c’è l’altare che attesta l’incontro di Dio con l’uomo.

 

Già da questi brevi accenni si può intuire come l’altare non fosse una semplice costruzione di arredo del tempio o un mero luogo dove compiere dei sacrifici e quindi strumentale e funzionale ad essi, anche se ciò non deve essere escluso, ma esso in sé e per sé è giustificativo della costruzione di un tempio e ne è il punto fondamentale. L’altare inoltre è il segno dell’incontro dell’uomo con il mondo del divino, è una sorta di punto di contatto tra cielo e terra, in cui cielo e terra convergono e si ritrovano. L’altare pertanto assume anche una valenza cosmica[19] e crea attorno a sé un’alea di sacralità e di santificazione che attrae l’uomo nella dimensione divina: “Per sette giorni farai il sacrificio espiatorio per l’altare e lo consacrerai. Diverrà allora una cosa santissima e quanto toccherà l’altare sarà santo” (Es 29,37). Proprio questo particolare aspetto consacratorio dell’altare sarà ricordato anche da Gesù nella sua dura requisitoria contro gli Scribi e i Farisei: “E dite ancora: Se si giura per l’altare non vale, ma se si giura per l’offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. Ciechi! Che cosa è più grande, l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta?” (Mt 23,18-19).

 

L’altare in Israele era caratterizzato da quattro corni posti ai quattro angoli dello stesso, la cui origine era fatta risalire a Jhwh stesso, che ne dettò le regole e le misure (Es 27,1-8). Presso i popoli antichi il corno era simbolo di potenza ed esprimeva talvolta il terrore che circondava il mondo soprannaturale. Esso veniva spesso legato alla divinità ed era espressione della sua onnipotenza. Parimenti anche nell’A.T. il corno era simbolo della potenza, della forza e del potere[20]. L’altare così avvolto da quattro corni posti alle quattro estremità indicavano come questo altare fosse un luogo privilegiato dove dimora la pienezza[21] della potenza divina. Da essi infatti, spalmati di sangue della vittima, promanava il perdono dei peccati (Es 30,10; Lv 16,18). A chi inoltre, perseguitato, afferrava uno dei quattro corni dell’altare veniva garantito il diritto d’asilo poiché egli si poneva sotto la diretta tutela di Dio, escluso il caso di omicidio volontario,[22]. Contro i misfatti d’Israele Dio spezzerà i corni dell’altare di Betel (Am 3,14) per indicare come non ci sia più perdono e salvezza per il popolo, in quanto Jhwh toglierà la sua presenza in mezzo ad esso.

L’altare pertanto, rivestito dei quattro corni, era la porta per poter raggiungere Dio e attraverso il quale promanava un flusso salvifico che investiva l’uomo e lo avvolgeva della sacralità stessa di Dio. L’altare pertanto potremmo definirlo come la porta di entrata del cielo che Dio ha aperto all’uomo, perché proprio attraverso di essa egli potesse accedere alla stessa dimensione divina. Di conseguenza esso diventa il luogo della mediazione tra Dio e gli uomini, il luogo del passaggio, della comunicazione e ancor più della comunione con il divino. Infatti chi mangia dell’altare entra in comunione con questo e con quanto esso rappresenta: “… il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane. Guardate

 Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare?” (1Cor 10,16-18). In tal modo l’altare diventa elemento di unificazione comunionale, che già nell’antichità fu prefigurato in qualche modo: “Elia disse a tutto il popolo: “Avvicinatevi!”. Tutti si avvicinarono. Si sistemò di nuovo l’altare del Signore che era stato demolito. Elia prese dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei discendenti di Giacobbe, al quale il Signore aveva detto: “Israele sarà il tuo nome”. Con le pietre eresse un altare al Signore; …” (1Re 18,30-32a).

Su questo spazio sacro, su questo punto di contatto tra cielo e terra, l’uomo ha imparato a deporre le primizie del suo lavoro, che consumate dal fuoco venivano sottratte al suo potere e in tal modo donate a Dio, che risponde con le sue benedizioni e il suo perdono (Es 20,24).

 

In una comprensione più ampia e più vicina al nostro quotidiano vivere e soffrire viene spontanea la domanda su quanti altari è posta la nostra vita sui quali essa è chiamata a spendersi quale sacrificio di soave odore a Dio. Certo il duro impegno della famiglia e del lavoro, che spesso si fa sofferenza e dolore, gioia e speranza; ma tra tutti un posto privilegiato va riservato al letto della sofferenza sul quale l’ammalato viene consumato, quale olocausto, dalla malattia che non gli lascia speranza o che lo accompagna per lunghi tratti della sua vita, associandolo in tal modo alle sofferenze di Cristo, completando con le proprie quello che manca al suo patire redentivo (Col 1,24). Ecco che allora la malattia diventa motivo di comunione con Dio per mezzo del suo Cristo, mentre il letto della sofferenza diventa, come l’altare, il luogo della privilegiata presenza di Dio in mezzo ai suoi, nuovo punto di contatto e di mediazione tra il cielo e la terra. In questa prospettiva il letto del dolore, così come la croce lo fu per Cristo, diventa il luogo sacro in cui si compie il sacrificio del proprio vivere sofferente ma redentivo, il luogo in cui si celebra l’olocausto della propria malattia, così che l’ammalato diviene vittima e sacerdote offerente di se stesso a Dio.

 

Il Sacrificio e la Vittima

 

Il termine altare in ebraico è reso con l’espressione mizbeah che corrisponde al luogo dove viene uccisa la vittima sacrificale (zabah = uccidere a scopo sacrificale)[23] e trova il suo corrispondente nella traduzione greca dei LXX in qusiast»rion (tzisiatérion) strettamente legato al verbo corrispondente qusiazw (tzisiazo) che significa “offrire in sacrificio”. L’altare pertanto è posto in una stretta correlazione con l’azione del sacrificare; quindi “vi è un rapporto necessario fra il sacrificio e l’altare, il quale è segno o ricordo di una presenza di Dio e strumento di mediazione tra Dio e l’uomo”, come afferma il De Vaux[24]. Non si può dunque parlare di altare eludendo la vittima che su di esso si pone e il sacrificio che vi si compie.

Vediamo pertanto da vicino la dinamica intrinseca del sacrificio, al cui base ci si stanno due elementi fondamentali: a) il riconoscimento da parte dell’uomo del proprio limite e, come contropartita, b) il riconoscimento dell’onnipotenza e della trascendenza di un Essere che si sente superiore a se stessi e verso il quale ci si rivolge attraverso il rituale del sacrificio stesso.

 

Tale riconoscimento per mezzo dell’azione sacrificale si esprimeva ponendo sull’altare le primizie dei frutti della terra e del proprio lavoro[25] e quelle della vita, sia i primogeniti maschi degli animali che degli uomini, che poi venivano riscattati, poiché ogni primizia appartiene al Signore[26].

La finalità primaria del sacrificio era quella di ingraziarsi in qualche modo la divinità sottomettendosi ad essa, compensando in tal modo le proprie fragilità e invocando la sua benedizione, che si esprimeva nella fecondità del lavoro e della vita. C’è dunque in ogni sacrificio una sorta di “do ut des”, una sorta di scambio di doni. Il sacrificio pertanto diviene l’espressione di un riconoscimento che ogni bene proviene da Dio e a Lui va restituito attraverso il sacrificio. La distruzione della vittima non è mai fine a se stessa, ma garantisce la totale consacrazione dell’oggetto o animale sacrificato a Dio, sottraendolo in tal modo alla disponibilità e all’uso profano che l’uomo può farne. In tal modo l’uomo riconosce che tutto appartiene a Dio, la terra e tutto ciò che essa produce, e a Lui si riconosce appartenente, sua proprietà[27]. Il sacrificio pertanto è anche una sorta di atto consacratorio. In esso pertanto l’uomo perde qualcosa di sé, ma guadagna molto di più in benevolenza divina, che è salvifica. Ogni sacrificio quindi riveste il carattere di dono ed è nel contempo un atto di consacrazione sia della terra che dell’uomo. Il termine sacrificio (sacrum facere) infatti esprime in se stesso il compiersi di un’azione sacra e consacratoria, poiché essa ha attinenza con il mondo divino. Non a caso la consacrazione di un oggetto o di una persona a Dio è considerata come una forma di sacrificio sublimato, poiché essi vengono in qualche modo sottratti alla disponibilità umana e con ciò stesso entrano a far parte dell’alea divina e sono resi santi[28].

 

Il sacrificio contiene in se stesso anche una valenza espiatoria sostitutiva dell’uomo (Lv 4,1-35). La vittima destinata al sacrificio veniva caricata del peccato attraverso l’imposizione delle mani (Lv 4,4.15.24.29); in tal modo il peccato veniva distrutto e la redenzione del peccatore avveniva attraverso l’aspersione del sangue[29] “Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite; perché il sangue espia, in quanto è la vita.” (Lv 17,11). Ed è proprio attraverso questo sangue-vita offerto al Signore che l’uomo ritornava ad essere proprietà del suo Dio, a Lui consacrato e riservato, e la vita divina tornava a fluire in lui. Vi era nel sangue una sorta di rigenerazione dell’uomo peccatore. In tal modo l’uomo peccatore-redento rientrava in comunione con Jhwh. La religione infatti non è un vago sentimento, ma coinvolge l’uomo nel profondo della sua vita, ad ogni livello del suo vivere. Tale comunione con il mondo divino viene sancita in Israele attraverso l’Alleanza (Es 19,5-6) che lo compenetra in ogni sua espressione esistenziale, mentre ritualmente essa si esprime attraverso il sacrificio di comunione. Esso si compiva con il sacrificare un animale di cui una parte veniva offerta a Jhwh, una parte era riservata al sacerdote e una terza parte era consumata dall’offerente con la sua famiglia o amici. Questa condivisione tra Jhwh, il sacerdote e l’offerente dell’unica vittima esprimeva la comunione sacra con Dio. Paolo nella sua prima lettera ai Corinti ricorderà proprio questo particolare: ” … il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane. Guardate Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare?” (1Cor 10,16-18). In tal modo questo sacro pasto comune rafforzava la comunione non solo all’interno dei membri della comunità dell’Alleanza, ma anche tra questi e Jhwh.

 

Ma già nell’A.T. vediamo come si faccia strada un nuovo concetto di sacrificio che supera gli stretti e comodi spazi della vittima animale sacrificata sull’altare. Certo l’animale sacrificato a Jhwh e la sua funzione vicaria rimangono centrali in tutto l’A.T. , ma sono insufficienti per riscattare l’uomo che in tale sacrificio deve essere coinvolto esistenzialmente. Contro il sacrificio facile che proviene da una vita vissuta in dissonanza dalla Torah intervengono duramente i profeti: “Udite la parola del Signore, voi capi di Sòdoma; ascoltate la dottrina del nostro Dio, popolo di Gomorra! <<Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero?>> dice il Signore. <<Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue” (Is 1,10-15). In tal modo ogni oblazione e ogni sacrificio diventa insufficiente per riscattare l’iniquità dell’uomo: “Per questo io giuro contro la casa di Eli: non sarà mai espiata l’iniquità della casa di Eli né con i sacrifici né con le offerte!” (1Sam 3,14). Il primo atto di culto e di redenzione parte e si compie nel cuore stesso dell’uomo, da qui nasce il vero sacrificio di perdono e di redenzione, soltanto allora anche il sacrificio comandato dalla Torah acquista il suo più vero significato: “Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode; poiché non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi. Nel tuo amore fa grazia a Sion, rialza le mura di Gerusalemme. Allora gradirai i sacrifici prescritti, l’olocausto e l’intera oblazione, allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.” (Sal 50, 17-21). Anche la preghiera diventa allora una nuova forma di sacrificio a Dio: “Come incenso salga a te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera” (Sal 140,2)

 

Ma sarà soltanto nel N.T. che il concetto di sacrificio subirà una svolta radicale e acquisirà il suo significato più vero. Esso cambia di prospettiva e si spiritualizza coinvolgendo direttamente il vivere dell’uomo. Benché ancora ai tempi di Gesù si compissero i sacrifici come nell’A.T. e nel rispetto delle regole della Torah[30], tuttavia già si faceva strada una diversa concezione del sacrificio aprendo nuove prospettive al culto divino. Sarà proprio l’avvento del cristianesimo e la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. e definitivamente nel 135 d.C. che orienteranno sia i giudeo-cristiani che gli stessi giudei verso un concetto nuovo di sacrificio. Per i rabbini di Jamnia[31] con la perdita del Tempio lo studio della Torah diventerà il vero e unico sacrificio gradito a Dio, mentre il cristianesimo cambierà radicalmente il modo di intendere il sacrificio: l’unica vera vittima sacrificata in modo cruento, da cui è sgorgato il perdono dei peccati e la purificazione redentiva dell’uomo riconciliato nuovamente e definitivamente con Dio, è Cristo, nel quale non vi è più nessuna condanna per il credente (Rm 8,1). Cristo pertanto diventa l’unica vera vittima che sostituisce tutti sacrifici del passato (Eb 9,11-14), che altro non erano che una figura della nuova realtà e del nuovo culto (Col 2,16-17; Eb 8,4-5; 10,1) che nella morte di Gesù è stato inaugurato e si è costituito. Da questo momento ogni credente per mezzo della fede e del battesimo diventa partecipe della morte di Gesù in cui è racchiusa la promessa di risurrezione (Rm 6,3-6). Paolo nella sua Lettera ai Galati sintetizza la centralità del sacrificio donativo di Cristo che si compie nella sua vita e a cui egli è stato associato per mezzo della fede in lui: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), così che anche la sua vita diventa un atto di culto in cui si celebra l’immolazione di se stesso per il Vangelo: “E anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento, e ne godo con tutti voi.” (Fil 2,17)[32]. Non solo, ma anche gli stessi doni offerti a Paolo, prigioniero probabilmente ad Efeso, dai Filippesi diventano un atto cultuale dal soave odore e un sacrificio gradito a Dio: “Adesso ho il necessario e anche il superfluo; sono ricolmo dei vostri doni ricevuti da Epafrodìto, che sono un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio” (Fil 4,18). Tutta la vita del credente pertanto nel suo poliedrico esprimersi quotidiano è atto di culto, azione sacrificale, celebrazione liturgica in Cristo, per Cristo e con Cristo, da cui sgorga la lode perenne a Dio che è Padre di tutti.

 

Tutto ciò è reso possibile perché una è la vittima e unico è il sacrificio compiuto una volta per tutte[33] a cui tutti i credenti attingono e al quale sono assimilati e conformati in virtù della loro fede e del loro battesimo, così che il loro stesso vivere diventa un celebrare tale sacrificio con azione sacerdotale: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Ogni credente quindi consociato e compartecipe di Cristo-vittima-sacrificale, che si è offerto al Padre in sacrificio di soave odore (Ef 5,2), diviene per la sua stessa natura di credente in Cristo anch’egli vittima offerta al Padre in un sacrificio di lode e di ringraziamento, trasformando il suo vivere quotidiano in un vero e proprio atto di culto a Dio.

 

Ma se è vero che ogni credente per sua natura è associato e assimilato al Cristo morto-risorto[34] ed è chiamato a vivere nella propria vita, con fedeltà alla Parola, la passione e morte del suo Signore, a maggior ragione il sofferente, il quale è visibilmente chiamato a vivere in modo tangibile nella propria carne il sacrificio redentivo di Gesù. Egli sull’altare del proprio letto con-vive lo stesso sacrificio del suo Maestro sull’altare della croce e completa nella sua carne i patimenti redentivi di Cristo (Col 1,24). Posto in questa prospettiva il sofferente non è più lui che vive, ma Cristo vive in lui la sua passione e morte, lo vive nella sua passione e nella sua morte. In tal modo l’ammalato non è più soltanto vittima di un destino crudele e di una sorte ingiusta che gli si accanisce contro, ma diventa con-vittima assieme a Cristo, collaborando con lui alla redenzione dell’umanità e del creato perpetuando nella sua carne e nel tempo gli effetti rigenerativi della passione e morte di Cristo. In questa prospettiva la vittima-sofferente non è più espressione di un inutile patire e morire, ma diventa promessa di riscatto e preludio di rigenerazione a nuova vita, che proprio attraverso di lui si sta concretamente compiendo: “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8,22-23). La sofferenza quindi diventa una sorta di passaggio obbligato verso la nuova creazione: “Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26) di conseguenza Paolo ricorda che “se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm 8,17b). La sofferenza pertanto se da un lato esprime tutta la caducità di una natura sconfitta dal peccato, dall’altro essa è il preludio di una nuova vita, così che Paolo ritiene “che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,17a).

La sofferenza pertanto caratterizza la vittima come momento di passaggio verso la nuova creazione ed è proprio con il consumarsi della vittima attraverso la sofferenza che viene generata una nuova dimensione dove avrà stabile dimora l’uomo redento nel Cristo morto-risorto. La vittima pertanto diviene un punto di congiunzione tra la terra e il cielo e si configura come una forte spinta evolutiva verso quei cieli nuovi e terra nuova contemplati da Giovanni nell’Apocalisse (21,1). In tal modo la vittima consumata sull’altare del suo letto attraverso il fuoco della sofferenza diventa preparatoria e annunciatrice di una nuova realtà dove Dio “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate>>. E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>; e soggiunse: <<Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci” (Ap 21,4-5).

 

Il Sacerdozio

 

Strettamente uniti al concetto di Tempio, Altare e Vittima sono quelli di Sacerdozio e Diaconia. Due aspetti delle realtà spirituali questi ultimi che sono inscindibilmente legati tra loro. Non si può concepire un sacerdozio che non si fa diaconia, ne una diaconia che non si esprima nel sacerdozio. Entrambi appartengono alla medesima realtà divina del sacrificio. Lo stesso Gesù giovanneo nella lavanda dei piedi (Gv 13,4-16), che si pone a poche ore dalla sua passione e morte, fornisce in questa la chiave di lettura e il significato più vero e profondo del suo sacrificio: esso si pone in mezzo agli uomini non soltanto come la divina azione purificatrice del peccato (Gv 1,29), ma anche come un servizio di redenzione e di riscatto che il Padre offre all’uomo per mezzo di suo Figlio. Ed è proprio in quell’umile azione del lavare i piedi che Gesù mostra tutta l’immagine dell’amore del Padre, di quel Dio che si china e si inginocchia davanti alla sua creatura per purificarla dalla colpa e attrarla definitivamente nella sua dimensione. Gesù stesso in proposito ricorderà il senso della sua missione: “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20,28; Mc 10,45), mentre Paolo in Fil 2,6-8 delinea lo svuotamento[35] della gloria di Dio nel Figlio fino a toccare gli estremi più bassi dell’esistenza umana, assumendo la condizione di servo. Al di sotto dell’intera azione redentrice di Gesù ci sta dunque un atteggiamento di servizio speso a favore dell’uomo e sotteso da un comportamento totalmente donativo che ha fatto della vita di Gesù una pro-esistenza. Su questi fondamenti la Lettera agli Ebrei elaborerà il Sacerdozio di Cristo, punto culminante e definitivo di un cammino che prende le sue origini da lontano.

 

Il sacerdozio[36] in epoca patriarcale non era ancora conosciuto. Gli atti di culto erano compiuti dal capofamiglia e quando la Genesi parla di sacerdoti, questi si riferiscono a quelli egiziani o a Melchisedek, re di Salem[37]. Il sacerdozio compare soltanto in uno stadio più avanzato dell’organizzazione della società, quando le comunità destinano alcuni loro membri alla custodia dei santuari e alla celebrazione dei riti.

 

Il termine con cui in Israele vengono definiti i sacerdoti è quello di kohen, espressione generica con cui si indicavano anche i sacerdoti di altre religioni. L’etimologia del termine è sconosciuta; alcuni la fanno derivare dal verbo accadico kànu, che significa inchinarsi o rendere omaggio; altri lo ritengono derivante dall’ebraico kùn , stare dritto in piedi, per cui il sacerdote è colui che sta diritto davanti a Dio. Nella LXX il termine kohen è stato tradotto con hiereùs, espressione questa che ha la sua radice in hieròs, che significa sacro, per cui il sacerdote è colui che è addetto al sacro e che entra in contatto e in comunione con la sacralità del mondo divino. Da qui il nostro termine italiano di sacerdote, da sacrum donare, per cui il sacerdote è colui che dona il sacro.

Gia da questa breve carrellata di termini si rileva come fin dall’antichità il sacerdote, per sua stessa natura, è colui che ha una stretta attinenza con il mondo divino e a questo egli è dedicato e riservato.

 

Il sacerdozio in Israele non ha un’origine vocazionale, come poteva essere quella del re o del profeta, ma di semplice appartenenza tribale. Il sacerdozio infatti nei suoi inizi è una funzione prevalentemente di servizio, una sorta di incarico che Jhwh aveva riservato alla tribù di Levi (Dt 10,8-9; 21,5). Ciò tuttavia non comporta alcun carisma o consacrazione e tanto meno comportava una sorta di ordinazione particolare, ma era sufficiente appartenere alla stirpe sacerdotale. La nomina del sacerdote avveniva attraverso il rito del millu’im o rito del riempimento delle mani, così definito perché al prescelto venivano poste nelle mani le materie proprie dell’offerta e del sacrificio[38]. I sacerdoti quindi esercitavano senza che venisse loro conferito un potere speciale o una qualche grazia particolare; tuttavia il sacerdote, proprio in virtù del suo incarico, che lo poneva in diretto contatto con il mondo divino, era considerato santificato. Significativo in tal senso era quanto il sommo sacerdote portava sul suo turbante: una lamina d’oro con inciso sopra l’espressione “Consacrato del Signore” (Es 28,36), che qualificava il sacerdote come colui che è stato “messo a parte” all’interno della comunità per essere riservato esclusivamente a Jhwh. In tal modo il sacerdote può muoversi liberamente all’interno del mondo del divino senza incorrere in castighi od essere punito con la morte. Proprio per questo egli è stato separato dal resto del popolo e dal mondo per evitare ogni contaminazione e potersi così accostare a Dio; ma doveva per questo osservare tutta una particolare ritualità di purificazione ed era soggetto a determinate limitazioni e a certe regole di purità (Lv 21,1-24).

 

Il sacerdote è scelto per il servizio al Santuario, per cui vi è un forte legame tra Sacerdozio e Tempio. Nella peregrinazione nel deserto i sacerdoti erano addetti al trasporto delle cose sacre e della Tenda e giunti nella Terra Promessa il loro territorio si estendeva tutto intorno al Tempio (Ez 45,3-5). Il sacerdozio in Israele era pertanto in funzione del Tempio e del culto che in esso vi si compiva, per questo dopo la sua distruzione nel 70 d.C. il sacerdozio decadrà definitivamente.

 

I compiti del sacerdozio israelitico sono designati sinteticamente nel Libro del Deuteronomio, là dove prima di morire Mosè benedice il popolo (Dt 33,1): “Per Levi disse: <<Dá a Levi i tuoi Tummim e i tuoi Urim all’uomo a te fedele, che hai messo alla prova a Massa, per cui hai litigato presso le acque di Mèriba; a lui che dice del padre e della madre: Io non li ho visti; che non riconosce i suoi fratelli e ignora i suoi figli. Essi osservarono la tua parola e custodiscono la tua alleanza; insegnano i tuoi decreti a Giacobbe e la tua legge a Israele; pongono l’incenso sotto le tue narici e un sacrificio sul tuo altare.” (Dt 33,8-10). Tre dunque erano nell’antico sacerdozio i compiti: la divinazione attraverso i Tummim e gli Urim[39], oggetti che venivano consegnati al sacerdote al momento della sua investitura. Con questi il sacerdote tirava la sorte su una questione o su di una domanda poste dal fedele, il risultato costituiva la risposta divina al problema[40]. Questa funzione divinatoria tuttavia non era esclusiva del sacerdozio israelitico, ma era diffusa nell’antichità.

Il secondo compito menzionato è l’insegnamento. Il compito dei sacerdoti era quello di insegnare i precetti del Signore, inizialmente in modo occasionale[41], poi si dedicarono alla trasmissione degli insegnamenti divini e ne furono i depositari (Dt 31,9). Significativo in tal senso è quanto afferma Malachia: “Infatti le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l’istruzione, perché egli è messaggero del Signore degli Eserciti.” (Ml 2,7). Proprio per la loro conoscenza della legge, i sacerdoti svolgevano anche una sorta di funzione giudiziaria o forse è meglio definirla sentenziaria (Dt 21,5). Ma la funzione dell’insegnamento sacerdotale cadde ben presto in disuso e i sacerdoti furono sostituiti dagli scribi o dottori della legge.

Il terzo elemento riguarda il culto sacrificale. Il Libro del Levitico nei capp. 1-7 fornisce istruzioni particolari circa i sacrifici che vedono sempre il sacerdote in primo piano, quale attore principale del culto.

Delle tre funzioni assegnate da Mosè alla tribù di Levi ben presto non rimase che quella riguardante il culto; questa divenne la funzione sacra per eccellenza che contraddistingueva e caratterizzava il sacerdote. Accanto a queste funzioni ne venivano riconosciute altre ancora come quella della purità rituale e del saper discernere tra il puro e l’impuro. La partecipazione al culto richiedeva la purità rituale prevista dalla legge (Lv 11-16) e tutta una serie di regole definiva il percorso per evitare la contaminazione e se questa accadeva vi erano le norme per la purificazione. Il sacerdote aveva la responsabilità del corretto svolgimento del culto e pertanto a lui era demandato il controllo della purità rituale dei partecipanti, per garantire il buon esito del culto stesso. Tra tutte le impurità la più terribile e temibile era la lebbra, che decretava di fatto e di diritto la morte civile e religiosa dell’appestato. Era pertanto compito del sacerdozio decretare, in base a precise norme di legge (Lv 13-14) chi era o non era colpito dal male e chi ne fosse guarito e tutte le modalità di purificazione e di riammissione nella comunità.

Altro compito proprio del sacerdote era la benedizione che egli era chiamato ad imporre sulle persone e sul popolo nel nome di Jhwh. Tuttavia va detto che la benedizione non era un’esclusiva del sacerdote, ma altre persone potevano imporre le mani benedicenti come il capofamiglia e il re sul popolo[42]. Il Libro dei Numeri prevedeva una formula di benedizione: “Il Signore aggiunse a Mosè: “Parla ad Aronne e ai suoi figli e riferisci loro: Voi benedirete così gli Israeliti; direte loro: Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò” (Nm 6, 22-27). Imporre il nome sul popolo significava costituire una sorta di relazione viva con Jhwh. Il nome infatti nell’antichità esprimeva l’essenza stessa della persona creando tra il popolo e Jhwh un flusso benefico di fecondità[43].

Un ulteriore compito affidato ai sacerdoti era la custodia del santuario. Il sacerdote infatti era l’uomo del santuario; in esso vi poteva entrare e frequentare anche i luoghi più sacri senza incorrere in condanne. Ogni santuario aveva il suo sacerdote, che veniva incaricato appositamente per accudire a quel santuario e officiarne il culto[44]. Il sacerdote era quindi l’uomo del culto, affiliato in modo talmente stretto al Tempio, che alla sua caduta (70 d.C.) l’intera classe sacerdotale decadde totalmente.

 

La figura del sacerdozio che la Tradizione ci ha passato è legata prevalentemente all’altare e al sacrificio (Lv 21,6). Tuttavia nell’A.T. la figura del sacerdote non fu mai legata all’atto del sacrificare la vittima, anche se egli se ne poteva far carico. A ciò era preposto l’offerente stesso o nel caso di sua impurità rituale egli era sostituito dal clero inferiore, fatto salvo per gli uccelli che dovevano essere sacrificati direttamente sull’altare[45]. Compito del sacerdote era quello di porre l’animale sacrificato sull’altare e offrirlo direttamente al Signore (Lv 1,7.15). La funzione propria del sacerdote incominciava con la manipolazione del sangue, la parte più sacra della vittima (Lv 17,11.14) e con il deporre la stessa sull’altare. In tal senso il sacerdote diviene il ministro privilegiato dell’altare, espressione questa che troverà i suoi aspetti più elevati nel cristianesimo. Questo ruolo sacerdotale si andò via via sempre più affermando nel tempo nella misura in cui venivano dismesse le sue funzioni divinatorie e di predicazione.

 

Dalla sintetica analisi delle varie e diverse funzioni sacerdotali risalta in particolare il ruolo di mediazione del sacerdote, che si interponeva tra Dio e il popolo, ruolo che già in qualche modo era stato prefigurato in Mosè ai piedi del Sinai: “Mosè disse al Signore: <<Il popolo non può salire al monte Sinai, perché tu stesso ci hai avvertiti dicendo: Fissa un limite verso il monte e dichiaralo sacro>>. Il Signore gli disse: <<Và, scendi, poi salirai tu e Aronne con te. Ma i sacerdoti e il popolo non si precipitino per salire verso il Signore, altrimenti egli si avventerà contro di loro!>>. Mosè scese verso il popolo e parlò” (Es 19,23-25). Il sacerdote, per la sacralità della sua funzione, per la santità della sua figura e in quanto riservato esclusivamente a Dio (Es 28,36; 39,30), era colui che elevava a Dio le preghiere e le offerte del popolo e ritornava da Dio portando le benedizioni e le volontà divine al popolo e se ne faceva interprete. Egli pertanto si costituiva come il trait-d’union tra Jhwh e il suo popolo, una sorte di ponte sacro che collegava Dio all’umanità, che in lui trovavano il loro punto d’incontro. Significativo in tal senso è il passo della Lettera agli Ebrei che si riferisce proprio a questo ruolo di mediazione del sacerdozio antico: “Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza; proprio a causa di questa anche per se stesso deve offrire sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo. Nessuno può attribuire a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne” (Eb 5,1-4)[46], ruolo di mediazione che poi l’autore della Lettera riferirà Cristo stesso[47].

 

Nel corso della storia il sacerdozio si qualificò in mezzo al popolo per tre aspetti: a) il senso della sua santità per la quale furono decisivi i profeti e la riforma di Giosia; da questi uscì una nuova organizzazione del culto che metteva in rilievo la centralità di Jhwh[48]; b) l’accentramento del potere nei sacerdoti, che forti del loro ruolo esclusivo di mediazione con il mondo divino acquisirono posizioni sociali preminenti in particolar modo dopo l’esilio babilonese. Il sommo sacerdote divenne un’autorità non soltanto religiosa, ma anche politica e di guida del popolo. Sarà infatti proprio la famiglia sacerdotale degli Asmonei che guiderà la lotta contro il seleucida Antioco IV Epifane (167-164 a.C.). Gli Asmonei dopo la vittoria conservarono il potere sul popolo e il sommo sacerdozio divenne una carica politicamente appetibile e fonte di rivalità e di lotte intestine; c) l’inquinamento della sacralità del sacerdozio portò la parte più religiosa del popolo ad una sua disaffezione e ad orientarsi verso l’avvento di un nuovo sacerdozio rinnovatore. Sarà proprio questo il periodo del distacco degli esseni dal Tempio e la fondazione di una nuova comunità messianica, che alimentava le speranze nella venuta di un nuovo messia Re e Sacerdote che avrebbe ricostituito lo splendore del Regno di Israele tra i popoli e rinnovato il culto a Dio. Si apre l’era delle attese escatologiche verso la venuta di una nuova realtà in cui Dio avrebbe affermato per mezzo del suo Messia il suo Regno[49].

 

Ci si affaccia in tal modo alle soglie del N.T. carichi di attese e di speranze[50]. La venuta di Gesù non cambierà nulla del rito antico durante la sua missione terrena e neppure immediatamente dopo la sua dipartita (At 2,42; 3,1). Egli non si dichiarò mai sacerdote, né compì atti che in qualche modo vi si potesse riferire, anzi fu proprio la classe dei sacerdoti e degli anziani a rendergli la vita difficile ed essi furono i principali fautori della sua morte[51]. La missione di Gesù fu prevalentemente profetica e come tale venne recepito dalla gente[52]. Sarà soltanto la successiva riflessione cristiana che incomincerà leggere la persona di Gesù dapprima come il messia che doveva venire[53], poi come il Signore[54]. Il tema inoltre della distruzione e della ricostruzione del Tempio e la sua identificazione con il corpo stesso di Gesù[55] occuperà una particolare attenzione, legando strettamente Gesù al Tempio, dove egli fin da subito viene offerto a Dio (Lc 2,22-24) e dove egli ritornerà ancora giovinetto tra i maestri d’Israele per ammaestrare (Lc 2,46-47). I racconti dell’ultima cena[56] sono inquadrati nell’ambito della pasqua ebraica in cui il capofamiglia celebrava la liberazione di Israele attraverso tutto un rituale particolare, che trovava il suo vertice nel sacrificio dell’agnello privo di difetti e nella sua totale consumazione (Es 12,1-6). Giovanni sensibile a questo aspetto sacrificale porrà la morte di Gesù il giorno della Parasceve, nell’ora in cui si soleva sacrificare gli agnelli pasquali (Gv 19,30-31). Lo stesso linguaggio dei vangeli, che parlano di immolare la pasqua, porta a comprendere la festività come un atto sacrificale (Mc 14,12; Lc 22,7). Va ricordato, infine, come la stessa pasqua ebraica trae le sue origini da antichi riti apotropaici legati alla vita dei nomadi, che nel momento della transumanza, tra marzo e aprile, sacrificavano gli agnelli primi nati e con il sangue dipingevano gli stipiti delle tende per ottenere protezione, fecondità e prosperità. Un rito che poi fu legato all’epopea della liberazione di Israele dalla schiavitù dell’Egitto (Es 12,1-14).

L’ultima cena dunque si pone in una cornice squisitamente sacrificale e le stesse parole e gli stessi gesti di Gesù vanno compresi e letti entro tale cornice. Essa si pone a poche ore dalla passione e morte di Gesù, mentre Gesù prende il pane e lo spezza e versa il vino nel calice e distribuisce a tutti. Questo spezzare il pane e versare il vino richiamano da vicino il sacrificio del suo corpo spezzato e del suo sangue versato per tutti. In quest’ultima cena Gesù in qualche modo misterioso, ma reale anticipa quel sacrificio che da lì a poche ore si compirà in modo concretamente visibile a tutti. L’associazione del suo sangue all’alleanza[57] richiama Es 24,6-8: “Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: <<Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!>>. Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: <<Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!>>”. Viene ripreso dunque nell’ultima cena il rito antico dell’Alleanza tra Jhwh e il suo popolo che qui trova la sua eterna e definitiva definizione, così che ” … Gesù è diventato garante di un’alleanza migliore” (Eb 7,22).

 

Ma tutto questo non è ancora sufficiente per stabilire il sacerdozio di Gesù. Sarà soltanto l’autore della Lettera agli Ebrei che riuscirà a stabilire uno stretto nesso tra Cristo e il sacerdozio.

 

L’autore parte considerando che Gesù appartiene alla tribù di Giuda per la quale non fu riconosciuto nessun sacerdozio, attribuito invece a quella di Levi (Eb 7,14). Gesù pertanto non fu mai sacerdote secondo il culto antico, tuttavia egli lo fu per la sua funzione di mediazione tra Dio e gli uomini. L’autore infatti afferma che “Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati” (Eb 5,1). Con tale passaggio viene messo in rilievo la funzione mediatrice del sacerdozio, qui colto nel suo duplice aspetto fondamentale: a) il sacerdote è un chiamato; b) a svolgere una funzione di mediazione, la quale si esprime attraverso un’offerta di doni e di sacrifici. In tal modo l’autore supera i ristretti vincoli tribali ed ereditari del sacerdozio ebraico per accedere invece alla sua pura funzione primaria. Partendo da queste due semplici considerazioni (chiamata e mediazione) l’autore passa ad applicare, con prova scritturistica, tale funzione a Cristo stesso: “Nessuno può attribuire a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli disse: Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato. Come in un altro passo dice: Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchìsedek. Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek” (Eb 5,4-10). Il sacerdozio di Cristo è qui assimilato a quello di Melchisedek che viene presentato come rivestito di un sacerdozio eterno, proprio perché “Egli (Melchisedek) è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote in eterno” (Eb 7,3).

L’azione mediatrice del Cristo nasce proprio dal suo farsi del tutto simile agli uomini (Eb 2,16-17), rimanendo nel contempo Figlio di Dio (Eb 1,1-3). è proprio per questa sua duplice natura umano-divina che Dio e l’uomo si incontrano in lui. In tal modo Cristo diventa il luogo di mediazione privilegiato. E proprio perché rivestito di un sacerdozio eterno alla maniera di Melchisedek, il sacerdozio di Cristo è anch’esso eterno (Eb 7,15-17.23-24).

 

Ma il sacerdozio di Cristo consoce anche una fase discendente che investe ogni credente rendendolo capace di presentarsi a Dio entrando nel santuario del cielo per offrire sacrifici di lode a Dio graditi, attraverso una nuova via aperta dal sangue di Cristo: “Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne; avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura.” (Eb 10,19-22); in tal la modo noi “Per mezzo di lui dunque offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome.” (Eb 13,15).

 

Essendo stati pertanto associati a Cristo sacerdote siamo stati resi anche noi partecipi del suo sacerdozio santo e resi capaci di compiere un sacrificio a Dio gradito. Paolo ricorderà questo aspetto sacerdotale che investe ogni credente e che fa della sua vita un atto di culto che si celebra nella liturgia esistenziale della quotidianità: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.” (Rm 12,1).

 

Tale sacerdozio comune a tutti i credenti trova la sua origine già in Es 19,5-6 dove Dio, ai piedi del Sinai e in virtù dell’Alleanza, fornisce al suo popolo una nuova identità e lo investe di una nuova missione in mezzo alle genti.: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti>>”.

Pietro, memore di ciò, riprenderà proprio questo concetto che applicherà alla comunità dei credenti: ” …voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce” (1Pt 2,9) così che “anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 2,5).

 

Posto in questa prospettiva ogni credente, assimilato a Cristo, vittima[58] e sacerdote offerente di stesso[59] sull’altare della propria vita e della croce, in virtù del proprio battesimo, diviene capace di compiere sacrifici di soave odore a Dio graditi[60] per mezzo di Cristo stesso. La sua vita, in qualsiasi condizione essa venga vissuta, diviene un atto di culto e una celebrazione liturgica, che possiede in se stessa un dinamismo di consacrazione delle realtà che il credente nel suo esistere quotidiano è chiamato a vivere (Rm 12,1). A maggior ragione la sofferenza, che associa e assimila in particolar modo, quasi tangibile, l’ammalato alla passione di Cristo, diviene espressione della passione e morte di Gesù, diviene di fatto una sua sacramentalizzazione salvifica e redentiva, che definisce il sofferente stesso quale vittima e sacerdote di se stesso, che nella malattia accettata, seppur doverosamente combattuta, offre se stesso al Padre per Cristo con Cristo e in Cristo, compiendo in ciò un servizio di redenzione per se stesso e per l’umanità intera. La sua malattia, infatti, associando l’ammalato a Cristo, dà un tono di universalità al suo soffrire e alla sua offerta al Padre (1Cor 12,26).

 

 

La Comunità credente e la Diaconia

 

 

Nella sua metafora del corpo e delle membra Paolo pone un principio di solidarietà, che sta alla base dell’intera comunità credente e che di molti fa un corpo solo in Cristo: “Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. [...] Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.” (1Cor 12,12.27). Proprio per questa profonda solidarietà che lega tutti in Cristo, ogni membro diviene compartecipe delle gioie e delle sofferenze dell’altro, ognuno è posto quale responsabile del proprio fratello, soprattutto di quelli che maggiormente versano nelle difficoltà, così che “quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.” (1Cor 12,22-26).

Questo principio di corresponsabilità degli uni verso gli altri viene sottolineato da Gesù stesso nella stupenda parabola lucana del buon samaritano (Lc 10,29-37), in cui si racconta in modo metaforico l’azione salvifica e redentiva di Gesù. Il buon samaritano, dopo aver soccorso quell’uomo disgraziato incappato nei briganti, lo affida alle cure dell’albergatore: “Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno” (Lc 10,35b). In tal modo Gesù lascia intendere che ogni uomo redento è affidato alle cure del proprio fratello e che di ciò gli sarà chiesto conto, così come fu chiesto conto a Caino della sorte di suo fratello (Gen 4,9a). E questa corresponsabilità, fondata sulla solidarietà, trova la sua giustificazione nella natura stessa del credente: “Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,26-28).

 

All’interno della comunità poi vi sono vari e diversi carismi e ministeri, tutti doni provenienti dall’unico Spirito e tutti finalizzati a costruire nell’amore l’intera comunità, collocandola fin d’ora nella dimensione divina verso cui è in cammino: “Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune …” (1Cor 12,4-7). Paolo parla di carismi, ministeri e operazioni e pone molto abilmente all’origine di ognuno di questi una fonte diversa che ne qualifica la natura stessa: all’origine dei carismi, doni di grazia, vi è l’azione dello Spirito, la cui funzione primaria è quella di vivificare e arricchire spiritualmente la comunità credente; fonte dei ministeri, cioè dei servizi da rendere alla comunità, è Cristo che, mosso dallo Spirito, è per sua natura azione e sacramentalizzazione del Padre. Ogni ministero infatti nasce da un carisma e presuppone quale suo fondamento un carisma che si fa servizio concreto a favore della comunità, così che il ministero lo potremmo definire come il carisma in atto o come sacramentalizzazione stessa del carisma; da ultimo, Paolo considera il dinamismo che muove l’intera comunità e la fa vivere rendendola operosa per Dio; tale dinamismo viene definito con l’espressione greca energhemàta, cioè azioni, attività. Qui il nome Dio va inteso come Padre, che si pone come l’azione prima da cui tutto il resto prende vita e movimento.

L’agire e il vivere della comunità cristiana viene posta in tal modo sotto l’azione diretta del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo così che la comunità stessa diviene espressione e riflesso, una sorta di sacramento vivente della vita trinitaria stessa, in cui nessuno prevale sull’altro, ma tutti si muovono ordinatamente l’uno in funzione dell’altro in una sorta di dinamismo diaconale. Il denominatore comune che congloba tutto il multiforme agire della comunità e dei suoi singoli membri, qualificandolo, è la carità. È molto significativo infatti come Paolo dopo il lungo discorso sui carismi e ministeri, che occupa l’intero cap. 12, lo concluda indicando la via maestra al servizio: “Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte” (1Cor 12,31); un versetto questo di transizione, che conclude il cap. 12 e introduce il 13, l’inno alla carità, creando un legame inscindibile tra i due, quasi a dire che sono si importanti sia carismi che ministeri, ma essi devono radicarsi profondamente e muoversi nell’ambito della carità, senza la quale essi non valgono nulla, poiché il tutto diverrebbe un semplice agire umano che si pone fuori dalla dimensione divina, che per sua natura è Amore: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova” (1Cor 13,1-3).

La diaconia, cioè il servizio compiuto nell’amore di Dio e speso a favore dei fratelli, trova la sua radice più profonda e più vera nello stesso dinamismo che ha mosso tutta la vita di Gesù e ha animato la sua missione: ” … ma Gesù, chiamatili a sé, disse: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,25-28), una diaconia quella di Gesù che ha qualificato la sua vita come una pro-esistenza, cioè una vita spesa interamente a favore degli uomini, e si è posta come parametro di confronto del servire cristiano. La diaconia nelle chiesa primitiva era oggetto di particolari attenzioni da parte degli autori cristiani del primo secolo[61] e considerata un carisma fondamentale all’interno della comunità credente, in cui ognuno doveva farsi servo degli altri, al punto tale che essa diventerà un vero e proprio ministero istituzionalizzato all’interno della Chiesa primitiva (At 6,1-7; ). La stessa suocera di Pietro, guarita da una febbre maligna, alzatasi si pone a servizio del gruppo dei discepoli e di Gesù[62]. Il racconto possiede in sé una forte carica simbolica e metaforica; si tratta infatti della narrazione di una conversione (guarigione) che comporta la sequela di Gesù e che si esprime proprio nel servire. Il cristiano, in quanto seguace di Cristo e a lui assimilato, è chiamato ad esprimere la propria fede nel servizio agli altri nella carità (Gal 5,13b).

Il tema del servizio, praticato all’interno delle comunità credenti diventa non solo espressione concreta della nuova fede vissuta nell’amore vicendevole, che qualifica e caratterizza la nuova vita abbracciata dal credente (Gv 13,35; 1Cor 16,14; ), ma anche il parametro su cui egli sarà misurato. Proprio in tal senso Matteo presenta nel suo cap. 25 le linee di fondo su cui si muove il vivere cristiano, colto nel suo impegno relazionale, che vede il nuovo credente esistenzialmente in cammino verso i più deboli e i più bisognosi, portatore di un messaggio di speranza e di un concreto sollievo. Non si tratta di un amore eroico, fatto di grandi ed estreme gesta, ma quello silenzioso e concreto della quotidianità e che ha come denominatore comune proprio l’attenzione all’altro che si fa servizio (Gal 5,13b): “Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.” (Mt 25,34-40). Ma ecco la novità aggiunta da Matteo: l’altro, meta del nostro servizio di amore, non è un volto anonimo ed estraneo, ma assume le fattezze morali e spirituali di Cristo stesso: “l’avete fatto a me”. Si noti come il Gesù matteano non dice “è come se l’aveste fatto a me”, ma “l’avete fatto a me” stabilendo in tal modo un rapporto diretto tra lui e il credente. A tal punto appare evidente come questo amore, che si spende nel servizio per l’altro, diventa in realtà un dono, un’offerta di se stessi al Padre per mezzo di Cristo, mentre la nostra vita acquisisce i tratti propri di una pro-esistenza come quella vissuta da Gesù in offerta di se stesso al Padre, una vita spesa in favore dell’altro. Un tratto fondamentale questo proprio della diaconia che ha trovato in Cristo la sua espressione più elevata e che l’autore della lettera agli Efesini ricorda: ” … e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore.” (Ef 5,2). Amore che si fa servizio, servizio che si fa dono di se stessi all’altro, in cui è sacramentato Cristo, dono che diventa sacrificio di soave odore al Padre evidenziano la natura propria della diaconia, che è strettamente connaturata con l’eucaristia: “prendete e mangiate, questo è il mio corpo; bevete, questo è il mio sangue”. Espressione e vertice sublime della diaconia: Cristo, pane che si spezza per tutti; sangue versato per tutti e a cui tutti noi intimamente partecipiamo: “il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,16-17). Proprio per questa intima e profonda partecipazione al mistero diaconale e sacrificale di Cristo anche le nostre vite e la vita dell’intera comunità credente vengono assimilate al servizio di amore sacrificale di Cristo stesso e trasformate in pane che si spezza per gli altri, quale sacrificio di soave odore a Dio, così che il credente e comunità si trasformano a loro volta in un uomini-eucaristia e in comunità eucaristica e il loro vivere in un vivere eucaristico, dono di amore al Padre che passa attraverso il servizio dei fratelli (1Gv 4,20).

 

Conclusione

 

Tempio, altare, sacrificio, sacerdozio, diaconia, comunità credente sono i luoghi propri di una nuova comunità messianica collocata in mezzo agli uomini dalla morte e risurrezione di Cristo; segni distintivi di una nuova dimensione che si sta installando in seno all’umanità e che se da un lato trovano delle espressioni storiche concrete sotto forma di architettura e organizzazione sacre, dall’altra questi segni si espandono nella sacralità del vivere concreto della quotidianità di ogni credente e annunciano l’avvento di cieli nuovi e terra nuova dove Dio avrà stabile dimora in mezzo agli uomini (2Pt 3,13; Ap 21,1-3). Ogni credente e ogni comunità credente possiedono in se stessi la capacità di trasformare i luoghi del loro vivere quotidiano in tempio e altare, nei quali e sul quale essi, sacerdoti e vittime nel contempo, celebrano e continuano a celebrare il sacrificio di Cristo a cui sono associati per loro natura, in quanto battezzati nello Spirito. Ma questa nuova incarnazione del mistero di Cristo nelle vite proprie dei credenti e della loro comunità, diventa anche annuncio di speranza all’intera umanità, che viene proclamato dall’ambone della propria vita. In tal modo il credente e la nuova comunità messianica diventano Parola di Dio, che proclama le meraviglie di Dio poiché non sono più loro che vivono, ma Cristo morto-risorto vive in loro. A Lui la lode, la benedizione, l’onore e la gloria nei secoli eterni, Amen. 

 

Verona, 1 maggio 2007                              

              Giovanni Lonardi

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