RELIGIOSI E LAICI nella gioia della fede e nella prospettiva della missione – A. Nocent

 

RELIGIOSI E LAICI

 

nella gioia della fede 

e nella prospettiva della missione

 

Angelo Nocent

Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura dei Tumori – MIlano

 

20 Gennaio 2007, ricorrenza della “Conversione di san Giovanni di Dio”.

Incontro all’Università Cattolica di Milano il Direttore di questa rivista. E’ così buono che mi rinnova la collaborazione e mi  propone di spingere la riflessione sul carisma dell’ hospitalitas in direzione del binomio “Religiosi/Laici collaboratori”. E’ un tema emblematico perché, dopo gli approcci tentati in questi ultimi anni, sembra esservi in atto un timido fidanzamento che fatica ad essere coronato con le nozze. Spero che mai e poi mai assuma il significato di un matrimonio “riparatore”, dovuto alla carenza di vocazioni. Oggi si tratta di passare dagli “ammiccamenti” ad un rapporto non tanto di collaborazione quanto di    ”corresponsabilità”  che è poi la lezione che ci viene dalla Chiesa italiana convocata a Verona proprio in concomitanza del LXVI Capitolo Generale.

Tra identità e nuove sfide


Gratificato dall’attestazione di fiducia, ho prontamente accettato, senza tuttavia rendermi conto della gravosità del tema. Infatti, da subito mi sono accorto che sarei andato fuori strada se al centro non avessi messo i “sofferenti” che non solo sono i nostri padroni, come amavano sottolineare i santi della carità, ma anche i nostri  “docenti”, come ci insegnano i Vescovi Italiani nei recenti indirizzi pastorali che avremo modo di considerare. Naturalmente il Rettore Magnifico di questa Università non potrà essere che il Sofferente numero uno: Gesù di Nazareth, il Crocifisso-Risorto. Di conseguenza,  la fonte bibliografica più accreditata non potrà essere che il Paràclito. Eglici parlerà  sia attraverso le Scritture che attraverso il Maestro interiore. Da Lui invoco i lumi e la sapienza per dire cose sensate e proporre scelte lungimiranti. Guardando ai testimoni del passato, chiedo a Dio acutezza di sguardo nel cogliere l’autenticità attingibile dalla profondità della Rivelazione: “Tutto ciò che è Mio è tuo”. (Lc 15, 31)

Nel confermare gli altri nella fede, testimoniando le ragioni “della speranza che è in me” (cfr. 1Pt 3,15), più che di essere arguto e brillante scrittore, qui mi viene primariamente chiesto di essere “credente”. Ciò che ha animato l’apostolo Paolo nella lettera ai Galati, deve ispirare ogni cresimato che si metta al servizio della Parola: “Dinanzi ai vostri occhi non ho presentato se non Cristo e Cristo crocifisso” (1Cor 2,1). Giustifica il fatto di essere qui a mostrare Cristo con la penna, l’aver visto personalmente Gesù, l’averne avvertito esattamente il Suo sguardo personale d’amore, così ospitale, accogliente, nonostante una vita insulsa e ingrata.

Se scrivo di hospitalitas è perché credo, e con me i Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, che anche questo è un servizio che rientra nel carisma del Fondatore. Egli infatti che fu pure venditore di libri, dapprima ambulante e poi stabile in Granada fino alla conversione, ha questuato, organizzato, assistito, curato…e perfino scritto e dettato lettere. Le poche rimaste, se sono rivelatrici del temperamento, evidenziano il variegato carisma: anche “la carità della verità” rientra nel suo piano di attenzione all’uomo, nell’ottica delle opere di misericordia spirituali. Naturalmente, trattandosi di carisma, Giovanni di Dio non inventa nulla ma riceve in dote i Sette Santi Doni. Con tale ricchezza, reso partecipe della fantasia di Dio, si ritrova a tempo pieno tra i  ” collaboratori della verità ” (3 Gv, 8). Ed è su questo tema  che vorrei soffermarmi.

 

Collaboratori della verità

I laici che si mettessero in mente di camminare sulle orme di San Giovanni di Dio, prima o poi saranno colti di sorpresa dalla stessa domanda che un giorno si sentirono rivolgere due fratelli, Andrea e Simone:

“Gesù si voltò e vide che lo seguivano. Allora disse:- Che cosa volete? Essi gli dissero:- Dove abiti, rabbì? (rabbì vuol dire: maestro). Gesù rispose:- Venite e vedrete. Quei due andarono, videro dove Gesù abitava e rimasero con lui il resto della giornata. Erano circa le quattro del pomeriggio” (Gv 1, 38-39)

Con l’invito a rileggere il testo evangelico parola per parola, perché fondamentale per chi intende mettersi in viaggio, mi auguro che la reazione personale sia identica. Ma vorrei portare velocemente ad un’ ulteriore fondamentale considerazione. “L’altra grande immagine della Chiesa in Giovanni – che assomiglia molto a quella di Paolo – è al Cap. XV, quello della vite e dei tralci: “Chi è in me porta molto frutto, altrimenti viene tagliato e viene gettato via”. Paolo dirà che il l cuore della Chiesa è Cristo, che è il capo, mentre noi siamo le membra, e tutti facciamo un corpo solo. Giovanni riporta questa poderosa immagine della vite e Gesù che dice: “Chi è in me porta frutto”. Noi possiamo veramente vivere la nostra fede, la speranza e la carità nella Chiesa nella misura in cui siamo in Cristo. E guardate che tutte le grandi crisi che la Chiesa vive nei secoli, è perché forse viene meno qualche volta questa centralità di Cristo: magari un papa può pensare di essere lui il grande, ma è Gesù il Pastore e questo guardate dà una grande libertà, nella misura in cui noi siamo comunità in Cristo e da lui abbiamo l’acqua della vita eterna” (Ghezzi).

Le applicazioni nel nostro campo più ristretto sono identiche: tutto funziona “nella misura in cui siamo in Cristo”. Nella foga del dibattito di questi anni, forse è sfuggito un particolare che, se recepito, potrebbe ribaltare il rapporto non ancora ben definito religiosi/laici. L’apostolo Giovanni in una sua lettera, facendo riferimento agli evangelizzatori, non solo apostoli, li definisce “collaboratori della verità” (3 Gv, 8). E ne spiega le ragioni. E’ importante osservare che questa formula esprime la partecipazione di tutti i credenti all’opera di evangelizzazione e, insieme la dimensione “cattolica” della fede. Lui, che si definisce l’anziano, esorta all’ospitalità verso chi annuncia la fede. A tal proposito ho trovato sapienti e preziose considerazioni dell’ allora Card.  Ratzingher nella prefazione di un suo libro. Esse ci permettono di estendere gli orizzonti del nostro intendere l’ hospitalitas, quasi sempre esclusivamente legata al malato.

” Egli [l'Apostolo] mette così in guardia dal ripiegamento in sé e dall’isolamento di quelle comunità che si concepiscono come ambiti chiusi.

  • Negare ospitalità a  coloro che recano la buona novella del Vangelo è per lui espressione di un rinnegamento dell’autenticità cattolica e in questo modo è’ anche un atto di chiusura nei confronti della verità.

  • All’opposto, l’amore, la premura con cui i credenti offrono cibo e ricovero agli apostoli e missionari, nelle loro peregrinazioni, è già di per sé servizio alla verità.

  • Mediante la carità, essi rendono possibile la predicazione e in questo modo divengono a pieno titolo collaboratori del Vangelo.

  • Dunque, in questa breve formula ["collaboratori della verità "] già traluce l’intimo legame tra verità e amore, tra fede personale e cattolicità che e’ tipico della Chiesa, ma anche la correlazione vicendevole tra chi esercita un ministero e i semplici fedeli: essi, pur nella diversità del loro servizio all’unità, raggiungono insieme l’onere e la grazia della proclamazione del Vangelo”.

Queste indicazioni magisteriali cadono a proposito: esse illuminano quella difficoltà che si fa ormai sempre più evidente: sincronizzare il rapporto tra religiosi e laici collaboratori. Se il concetto venisse recepito, l’orizzonte si amplificherebbe fino a coinvolgere ospedale e Chiesa locale. Dove ognuno si trova collocato nelle 24 ore della sua giornata, lì è presente un “collaboratore della verità”, lì salta fuori il profeta-servo di Dio inviato a portare la buona notizia ai poveri, a predicare l’anno della misericordia, a sanare ogni infermità. Volendo stilare un elenco, si rischierebbe di tralasciare qualche umile figura che ne farebbe parte a pieno titolo. Ma si può benissimo schematizzare:  il vescovo, i presbiteri e i diaconi, i religiosi, i laici nella molteplice espressione dei movimenti…Ed in posizione privilegiata: i sofferenti. Tutti nella Chiesa di Dio ed in modo davvero personale, siamo dei cooperatori.

Più che una curiosa divagazione, ritengo che quella della cooperazione sia una premessa necessaria e fondante l’ hospitalitas. Ciò  significa che nella fortezza apparentemente inespugnabile della sanità,  bisogna starci con le mani sul malato, gl’occhi sulla Parola e questa consapevolezza:

  • nessun cristiano parla e agisce a titolo proprio, bensì nell’ “appartenenza” e nella “comunione” con un Altro da sé.

  • Io faccio quello che devo fare, solo quando opero “con” Cristo e “con” l’intera tradizione vivente della Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo.

  • Il mio compito non e’ di costruire un ambiente che fa per me, ma di edificare a Cristo la sua Chiesa.

  • ll votato all’ospitalità e’ paragonabile a una guida di montagna che aiuta nella scalata a raggiungere la vetta. Ma Cristo è la via perché è la verità (Gv 13,34).

  • La profondità dell’annuncio recato dai “collaboratori della verità ” sta proprio nell’intima correlazione tra verità e amore.

  • Il “Comandamento nuovo” (Gv 13,34) lasciatoci dal Maestro richiede accoglienza ed ospitalità vicendevoli, riflessione e fede, apertura e sguardo fisso e penetrante sulla verità del Vangelo.

Epperò, “… la verità della vita cristianaè come la manna nel deserto: non la si può mettere da parte e conservare; oggi è fresca, domani è marcia. Una verità che continui solo ad essere trasmessa, senza essere ripensata a fondo, ha perso la sua forza vitale. Il vaso che la contiene – per esempio la lingua, il mondo delle immagini e dei concetti – s’ impolvera, si arrugginisce, si sbriciola. Ciò che è vecchio resta giovane solo se, con il più giovanile vigore, viene riferito a ciò che è ancora più antico, e sempre attuale, la Rivelazione di Dio”. (Hans Urs von Balthasar, Abbattere i bastioni, 1962)

Poiché ad essere cristiani s’impara giorno dopo giorno, – così Giovanni di Dio, così Riccardo Pampuri e tutti gl’altri -, religiosi o laici, non resta che rimboccare le maniche e procedere con l’ardore del santo Papa Giovanni Paolo II: “E’ l’ora della fantasia della carità ”  (Novo millennio ineunte). Senza dimenticare però che “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme” (1 Cor 12,26).

Contributo al discernimento da parte dei collaboratori laici

Devo confessare che l’idea dei cosiddetti collaboratori laici, almeno quella emersa nel dibattito di questi anni, non mi ha mai convinto più di tanto. Men che meno, dopo aver letto la petizione che la rappresentanza internazionale ha espresso al 66° Capitolo Generale. Ho appena finito di sfogliare il Documento Finale elaborato dalla Provincia Lombardo Veneta nel 1994 per il Sinodo dei Vescovi ed il Capitolo. Trovo che gli Autori

(Quattrocchi, Faustini o.h., Merlo, Inzoli, Pulici, Ferrara, Santini o.h.,  Fiume, Bresciani, Giuliani) abbiano avuto valide intuizioni ed elaborato utili proposte. Un solo torto: un’eccessiva dose di ottimismo. Infatti, l’ “Allenaza” stipulata allora con i Collaboratori, ha subìto negl’anni successivi forti sbalzi di tensione, forse legata all’instabilità dell’animazione locale. Ma non solo. Segno evidente, dunque, che le buone intenzioni non bastano.

Il termine “collaboratori” è stato frettolosamente coniato dagli Istituti Religiosi per definire i laici presenti nelle rispettive attività ospedaliere, scolastiche, assistenziali, ecc. Sarebbe stato necessario guardare più scrupolosamente alle origini semantiche del termine perchè il rischio di moltiplicare la confusione, secondo me esiste, eccome!  Ciò emerge proprio quando si va a rileggere la “Christifideles laici” che parla appunto di laici discepoli di Cristo. Laico è un termine funzionale; teologicamente non significa nulla. E’ come il generico impiegato o il generico esaurimento nervoso: se non si precisa, si specifica, si qualifica, se ne sa quanto prima. E il Papa non ha lasciato nell’incertezza: laici discepoli di Cristo.

La questione dei collaboratori andrebbe presa da lontano. Quando si parla dei laici che partecipano al carisma dei Fondatori – nel nostro caso di hospitalitas e di san Giovanni di Dio – coloro che intendono aderirvi (e l’adesione non deve essere estorta o scontata), hanno tutto il diritto di sapere il più concretamente possibile di cosa si tratta.

Comincerei col dire che per i col-laboratori che intendono aderirvi, ossia i lavoratori con…qualcuno (nel nostro caso con i religiosi FBF), dev’essere l’inizio di una scoperta che porta la firma di San Giovanni di Dio: la letizia e la libertà dell’incontro con Cristo, per seguirlo, senza stanchezze sproporzionate e faticosi programmi culturali, nel Suo cammino in mezzo agli uomini. In altre parole, farsi servitori della verità sull’uomo.

Ciò significa che io aderisco, vengo a far parte di un movimento. Ma devo sapere che l’innesto nel movimento dell’hospitalitas può attecchire e posso partecipare al carisma nella misura in cui anch’io mi pongo in movimento, ossia mi apro allo Spirito. Noi possiamo aspirare ai carismi ma è solo Lui che può donarli. Inoltre il movimento ha per definizione una sua originalità di cui devo rendermi consapevole e scoprire  le ragioni della speranza che racchiude in se’. (1 Pt 3,15).

 Allora va benissimo che si usi la terminologia di “collaboratori laici“, a patto che si viva coscientemente lo stato di un’appartenenza stabile: entro a far parte di un movimento carismatico che traduce nel linguaggio  ecclesiale e sociale del nostro tempo l’aforisma latino “Ubi caritas et amor, Desu ibi est“. Che è poi l’equivalente Juandediano: “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesu’ “. E proprio perché questo Dio, questa voce fuori campo che mi chiama e sollecita ad uscire dall’isolamento non é un Solitario ma la Trinità nell’Unità, mi raccapezzo nella misura in cui anch’io trovo ad attendermi una Fraternità nell’unità con la Trinità. Diversamente, sono un disorientato.

La tentazione dell’utopia è sempre in agguato: vi si cade quando si cede, finendo – magari involontariamente – per ridurre Gesù Cristo a puro pretesto. Come dice il termine utopia  che significa non-luogo, cedere alla tentazione dell’utopia significa non partire dalla realtà ma imporre alla realtà una teoria fabbricata a tavolino e costringerla nella gabbia della nostra limitata misura. La gabbia è l’imprigionarsi dentro l’utopia che basti lanciare ai laici che lavorano nei Centri FBF, un messaggio che li classifica d’ufficio “collaboratori”, ossia partecipi del carisma di San Giovanni di Dio. Nessuna disposizione legislativa, per quanto animata da buone intenzioni, può dichiarare sano di mente uno che non lo è.

Nella storia recente della psichiatria abbiamo assistito anche a questa forzatura e subìto poi le conseguenze. Bisogna evitare di scivolare in due fuorvianti semplificazioni:

  1. quella di non passare  dal cuore di ogni uomo e donna che lavorano nei Centri FBF;

  2. quella di ignorare totalmente la grande massa  dei laici Christifideles che operano nelle Istituzioni Pubbliche e nel sociale, quasi fossero “altro da noi”, cosa che non ci riguarda, frangia del Popolo di Dio assegnato alla Pastorale Sanitaria dei cappellani ospedalieri.

La paura porta a sacrificare il grande obiettivo di estendere e dilatare al massimo il grande carisma Giovandiano, giustificato da una considerazione ritenuta più realistica: meglio cominciare a guardare in casa propria prima di pensare alle espansioni.

Le conclusioni degli scettici sono penalizzanti; l’avvilimento li porta ad esclamare che ” sono cambiati i tempi…non c’è via d’uscita…chi vivrà, vedrà…” E’ un’ insinuazione diabolica e bisogna reagire investendo: in preghiera, adorazione, riflessione, ricerca, mobilitazione…La via esiste. Solo che è ardua perché passa per la via del cuore e non dell’ideologia né dell’utopia, che immaginano ciò che non è.

L’hospitalitas passa attraverso l’educazione alla fede, lavoro personale e di gruppo. L’hospitalitas non è carisma condivisibile se non attraverso un cammino ed un’esperienza di forte appartenenza alla “fraternita’” del Centro FBF, vitale, concretamente incontrabile. Le Fraternità o sono luogo di educazione permanente alla carità, al giudizio sulla realtà (cultura), a vivere le dimensioni del mondo (missione) o non sono.

I Laici al 66° Capitolo Generale

Presente per la prima volta una rappresentanza così numerosa di collaboratori laici, dagli stessi è stato interpretato come un segno di apertura e di speranza e sembra che il tema del rapporto tra collaboratori e religiosi sia stato forse quello più dibattuto al Capitolo. Invito a cogliere subito la sfumatura che considero preoccupante: “Su richiesta del Governo generale è stato chiesto al gruppo dei collaboratori laici invitati al Capitolo di formulare alcune indicazioni come contributo al discernimento dei Padri Capitolari nella elezione del nuovo Superiore generale e del suo Consiglio”.

Leggendo e rileggendo  il documento elaborato dagli stessi, nasce un fondato sospetto che già ci si stia muovendo, più o meno consapevolmente, nell’ottica del “potere”.  Essi vogliono contare. Perfino “in materia di dottrina”. E lo chiedono formalmente nelle seguenti dieci formulazioni che mi limito a citare per titoli. Per quanto legittime, sono rivelatrici di una sintomatica povertà propositiva che non andrebbe sottovalutata.

” Al nuovo Superiore Generale e al suo Consiglio chiediamo:

1) Riconoscimento del carisma.
2) Consultazione dei laici.
3) Messaggio di fiducia.
4) Apprezzamento dei collaboratori.
5) Condivisione e integrazione.
6) Coraggio del rischio.
7) Valorizzare l’umanizzazione.
8) Incontri internazionali.
9) Opere gestite da laici.
10) Scuola dell’Ospitalità.

Per il testo integrale dove i titoli vengono sviluppati,  invito a prendere in mano il testo integrale contenuto nell’inserto dell’ultimo numero della Rivista. Forte del punto 6, “Il rischio del coraggio”, mi permetterò alcune scottanti provocazioni:

1. Il documento precisa: “Richiesti di formulare…” Vuol dire che la ventina di rappresentanti dei 43 mila operatori laici che operano nelle strutture dell’Ordine, si sono presentati al Capitolo a mani vuote.

2. Le spiegazioni fornite non sono molto convincenti sia per ragioni di forma che di sostanza. Come si fa a collocare la “Scuola di Ospitalità” al decimo posto e poi mettere al primo “Il riconoscimento del carisma” che si dà per posseduto ?

3. Non si parla di conversione né di “disposizione a testimoniare con la fede e col sangue che c’è un Cielo”, come direbbe Teresa di Gesù Bambino;

4. Non emerge un carisma sapienziale come il “gusto di Dio”, l’ardore per il suo Regno, a Parola, la Chiesa…

5. Nonemerge la profezia: un amore che discende verso la miseria, la povertà umana, compresa quella dei “poveri ricchi”;

6. Non emerge il cuore di donne e uomini, normalmente coniugati, che sono anche genitori, educatori…

7. Non emerge l’affidamento alla Provvidenza ma alle capacità menageriali.

8. Al punto 3 si equivoca: il laicato sembra inteso, in ultima istanza, come un superamento della vita religiosa, salvandone il carisma: ”l’Ordine non si estinguerà, anche con l’attuale futura penuria dei religiosi, fino a quando ci saranno laici che responsabilmente parteciperanno al suo carisma, lo custodiranno e lo attueranno”. Io invece non ho dubbi: non si estinguerà, a prescindere dalle buone intenzioni di salvataggio dei laici.

Poi ci sono alcuni punti non facili da digerire senza bicarbonato, perché intaccano la sostanza:

· p. 5) CONDIVISIONE E INTEGRAZIONE: “Chiediamo che siano definitivamente superate le logiche proprietarie”. La motivazione non è certamente francescana. Qui affiora il vero problema: la borsa, i soldi.

Domanda: i laici vogliono diventare comproprietari, soci in affari? E cosa portano, solo il capitale lavoro? Coniugati o meno, a nessuno viene in mente di allegare una “cambiale di matrimonio” con “Madonna Povertà”, di farsi una sola carne con Lei nel senso autentico ed originale che sarebbe rivoluzionario anche per il nostro tempo: mi voto alla libertà?

Va detto per inciso che questa aspirazione moderna Francesco la chiamava povertà. Che non aveva il concetto capitalista, pauperista, economico che abbiamo noi della povertà. Per noi il povero è colui che non posiede, perchè il nostro riferimento è l’avere. Il ricco, invece, possiede molto. Per il Santo universale, povertà è la capacità di dare, dare e dare ancora una volta; dare e darsi. Quanto più ti dai, tanto più libero ti rendi e tanto più possiedi. Nella logica dell’essere, quanto più dai e ti dai, tanto più sei e ricevi, in umanità e cordialità. L’Hospitalitas è una scelta, un voto, un impegno…di povertà, ossia di libertà. Vale per laici e consacrati.

· p. 8) INCONTRI INTERNAZIONALI:“Istituzionalizzare momenti di incontro internazionale per collaboratori laici… anche al di là di questi brevi scambi capitolari, durante i quali confrontarsi e portare avanti le problematiche dell’Ordine in una prospettiva laicale, guardando da un lato alla mondialità dell’Ordine, dall’altro alla specificità regionale delle sue Province”. Si badi: non in prospettiva evangelica.

· 9) OPERE GESTITE DAI LAICI: mentre s’invoca una formazione adeguata – non si comprende perché solo di alcuni – subito si chiede “che in tutto l’Ordine si affidi l’intera gestione di alcune opere a laici preparati e partecipi del carisma in nome e per conto dell’Ordine“. Non solo si chiede ma si sollecita “fin da adesso”.

Me lo si permetta: questa è  farneticazione pura!  Sono proposte all’insegna dell’improvvisazione, non della sofferta meditazione. La piena realizzazione umana ha un nome evangelico: santità. Che non si trova nella linea del fare ma dell’essere, quell’essere che si rivela, ovviamente, nel fare. Sembra che nessuno abbia mai letto due documenti importanti: la lettera dell’uscente Generale, Fra Pasqual Piles, “Lasciatevi guidare dallo Spirito” ed il recente volume voluto dallo stesso, “Spiritualità dell’Ordine”.

Possono sembrare parole esagerate le mie e me ne scuso perché sono certo che i redattori della petizione sono meno maliziosi di me ed hanno operato in buona fede. Ma per chi legge, le parole talvolta possono tradire le intenzioni. Il guazzabuglio di idee confuse che sono emerse potrebbero essere il risultato anche di una malintesa interpretazione dell’ “umanizzazione“  che ha il suo eroico paladino nell’ uomo psichico, il cosiddetto ‘ “animalis homo“, secondo la traduzione latina della Vulgata, che ognuno si porta dentro.

Lo spazio tiranno non permette di aprire subito un capitolo chiarificatore sull’argomento, appena riproposto anche in un convegno alla Cattolica. Ciò che era chiaro nella mente propositiva del Padre Marchesi, non è detto che lo sia altrettanto in quella dei suoi nuovi  lettori e discepoli. Se personalmente m’infiammo è perché in un momento di transizione così delicato, non è permesso partire con il piede sbagliato: una solenne cantonata iniziale equivarrebbe a infilare il primo bottone nell’asola sbagliata: i successivi farebbero la stessa fine.

Mi sovviene la figura di Francesco inginocchiato davanti a Papa Innocenzo III° a chiedere l’approvazione della regola. Si noti: “Regola dei Frati Minori che è questa: osservare il Santo Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo”. Capite cosa Francesco va a chiedere a Roma? Come si avverte che le richieste dei nostri amici non sono prima state sottoposte, in ginocchio, allo Spirito Santo!

Perchè non appaia che si tratti di mie idee cervellotiche, invito a riflettere sul cap. X del Vangelo di Giovanni. Se c’e’ un testo dove appare la Chiesa è proprio quello del Buon Pastore: “Io sono il buon pastore, questo è il mio gregge“. Secondo il mio amico don Enrico Ghezzi che ha appena scritto un libro di mille pagine su questo vangelo, le cose stanno così: c’è il gregge di cui Gesù è il pastore e, attenti bene,

  • di questo gregge che è la Chiesa, è Gesù il buon pastore, non altri,

  • noi siamo tutti al servizio di questo buon pastore che è  Gesù,

  • nessuno di noi – né il papa, né i vescovi, né i sacerdoti, nessuno nella Chiesa – deve avere il potere, se non l’autorità nella carità e il servizio che provengono dal seguire Gesù e fare la Sua volontà. “(Don Enrico Ghezzi)

Se le cose stanno così, possono essere parole di scoraggiamento le mie? Vorrei sperare di no. Anzi: vorrei che fossero recepite

  • nel segno dello stupore dei primi cinque seguaci di Giovanni di Dio e della loro prima Impresa Missionaria;

  • e stimolare a quella comunione, di collegialità e di Spirito Santo che è stato possibile vivere durante il Concilio Vaticano II e che ormai non è più memoria viva se non per pochi testimoni.

Perciò:

  • Se non prendo come archetipo centrale la santa umanità di Gesù,

  • se non voglio imitare il Maestro in tutta la sua grandezza, se non passo attraverso la “stigmatizzazione” delle mani e del costato che equivale al dono del carisma dell’hospitalitas, ossia l’accettazione del dare la vita, di metterla a disposizione di Dio, identificandomi con Cristo e Cristo crocifisso, il Vivente nei crocifissi della terra…

  • se non nascono gruppi al maschile e al femminile di “folli” ossia di pazzi che sognano la regola del Vangelo prima degli Statuti giuridici e canonici, lievito e fermento sul posto di lavoro, cellule che si moltiplicano, “ponti” tra ospedale e Chiesa locale, con una travolgente forza interire che viene dalla dimensione contemplativa della vita, alla Scuola della Parola…

  • se non possiedo la libertà del mio fratello Gesù, se non abbandono i miei feticci per mettermi a Sua completa disposizione, senza interessi, senza niente che si interponga tra me e gl’altri,

sarebbe meglio lasciar perdere! Perché si va incontro ad un fallimento annunciato. E, dall’esperienza negativa, una sfiducia contagiosa nel “Cristifidelis laicus”, il laico discepolo di Cristo che invece è un segno dei tempi.

Ma come far emergere un’intesa realistica e compatibile? Ribaltando il problema: più che formulare ai laici la richiesta di offrirsi come collaboratori dei religiosi, ogni progetto dovrebbe mobilitare entrambe le parti su un terreno di parità accettato e condiviso: “collaboratori della verità” (3Gv 8). Questo concetto supera di gran lunga il concetto ristretto e asfittico di “collaboratori alle dipendenze” ed apre spazi di cooperazione che può essere anche statutaria, ai laici non solo dei Centri FBF ma della Chiesa locale, della Salute Pubblica, dell’ Università, della Politica…Tale proposta ha un pregio: quello di essere parola di Dio. Il proponente e Lui.

Vogliamo esempi di concretezza? Porto un’esperienza che vivo. Tre volte la settimana la Comunità di Sant’Egidio che è in Milano, quella che conosco io, convoca i suoi membri, donne e uomini di ogni estrazione di età e culturale, nella restaurata ma non riscaldata chiesa di San Bernardino alle Monache, in via Lanzone, a due passi dall’Ospedale San Giuseppe dei Fatebenefratelli.

Si ritrovano ogni martedì, mercoledì e sabato alle ore 20,30. Abitando io nel cremasco, quando posso, vi partecipo per ossigenarmi. L’Eucaristia non viene conservata perché, normalmente il tempio è chiuso al pubblico. Non presenzia né un presbitero né un diacono. Cantano i salmi accompagnati da un’organista, leggono la Parola di Dio, una donna preparata la commenta, si prega per la Chiesa e si chiude in bellezza. Poi si passa allo scambio dei saluti e si fa ritorno a casa.

Alcuni prendono le borse depositate all’ingresso, piene di viveri, bevande, indumenti e vanno a distribuire in tre punti diversi della Milano-notte. Più che per offrire ristoro, ben gradito, l’occasione è per “parlare” con coloro che vivono emarginati e attendono questo momento unico. Un signore sulla cinquantina mi ha detto che lo fa da tre anni. Verso mezzanotte rincasa, fa la doccia e si prepara la cena.

Cosa mi preme sottolineare? Che i carismi non cadono dagl’alberi come le foglie né possono essere assegnati d’ufficio con un attestato o una benemerenza. Necessita un processo di ri-conversione individuale maturato nel contesto di una fraternità, una compagnia… Se non sono inserito in una comunità, sono destinato a perdermi, sopraffatto dagli impegni e dalla noia. Chi vuol appartenere alla “Chiesa sanante”, partecipare all’Hospitalitas, deve lasciarsi coinvolgere in un cammino impegnativo, più che pensare ai convegni internazionali o ad amministrare istituzioni religiose. Senza basi solide, prima o poi la casa crolla. Bando alle illusioni! Se ai discepoli di Gesù tre anni di scuola ad alta specializzazione tenuta dal Maestro stesso non sono bastati a farli restare sul campo al momento della prova e sono tutti fuggiti, perché il miracolo dovrebbe compiersi ora, senza premesse?

La richiesta dei Laici Collaboratori termina con un proposito: “Saremo in comunione con voi, accompagnandovi con il nostro affetto e la nostra preghiera allo Spirito Santo”. Si riferivano all’elezione canonica del Priore Generale. Nulla di più lodevole. Mi si dice che Fra Donatus Forkan sia uomo di grande spiritualità. Ha posto nello stemma generalizio i tre amori: la croce, al centro, il melograno dell’Hospitalitas, l’icona dell’ in-yang, simbolo della Corea dove è vissuto a lungo, ossia la missionarietà. E c’è anche un motto: “Hospitality always”.

Ci uniamo in quel “sempre”, non solo da vivi e da morti. E gli auguriamo di far attraversare alla grande comitiva che lo segue, il Mar Rosso della sofferenza umana, additandoci il nome della terra promessa che é la “divinizzazione” dell’uomo. Non in contrapposizione all’ ”umanizzazione” che ha pieno diritto di cittadinanza, ma come traguardo di una via già indicata dai Padri della Chiesa delle origini.

Senza offesa per nessuno, in questo preciso momento, l’ottimismo sui laici e dei laici sa più di scaramantico che di fondato, di malcelata paura, di auspicio più che evento di spessore, utopistico dunque, nella misura in cui, mancando di “profezia”, resterà inchiodato nell’immobilismo degli slogan e delle frasi ad effetto. Auspico un “foglio” di collegamento, snello, quindicinale o mensile, per comunicare nella fede e per la circolazione delle idee. L’alternativa al movimento è la staticità di cui nessuno avverte il bisogno.

Prima del carisma viene il Fatto

Non s’è mai chiesto nessuno come abbia fatto Don Giussani ad aggregare migliaia di giovani e non in tutto il mondo?

La Chiesa riafferma con forza che i laici non sono cristiani di “serie B”, ma discepoli del Signore chiamati a testimoniare la fede nella realtà di tutti gli uomini e di tutti i giorni: famiglia, società, scuola, lavoro, economia, politica, sanità…) “Essere laici e’ dunque una chiamata, una vocazione, un dono che viene da Dio e che invia a un compito alto e difficile: incarnare la fede e darle forma nelle realtà quotidiane“.

Senza la preoccupazione formativa e di un suo cammino permanente, metodico, integrato e completo, coloro che si ripropongono di testimoniare la loro fede nel sociale, e che desiderano educare altri a questo fondamentale compito, rischiano di cadere in un pragmatismo di cui oggi soffre la nostra società . Il Papa della Centesimus annus è molto esplicito:

“51. Tutta l’attività umana ha luogo all’interno di una cultura e interagisce con essa. Per un’adeguata formazione di tale cultura si richiede il coinvolgimento di tutto l’uomo, il quale vi esplica la sua creatività, la sua intelligenza, la sua conoscenza del mondo e degli uomini.

Egli, inoltre, vi investe la sua capacità di autodominio, di sacrificio personale, di solidarietà e di disponibilità per promuovere il bene comune.

Per questo, il primo e più importante lavoro si compie nel cuore dell’uomo, ed il modo in cui questi si impegna a costruire il proprio futuro dipende dalla concezione che ha di se stesso e del suo destino“.

Il laico Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, già nel giugno del 1953 in un convegno per la pace indicava le basi ideali e i muri maestri ideali che devono sempre essere presenti:

  • “Il valore della persona umana – in Dio radicata -, vertice in qualche modo della creazione;

  • il valore della libertà umana, sigillo indistruttibile di perfezione;

  • il valore del lavoro, solida base di ogni duratura edificazione sociale;

  • il valore della preghiera e della poesia, apertura dell’uomo al cielo dell’eternità;

  • la missione ed il valore della città, dei popoli, delle nazioni, membra essenziali di quell’unico corpo sociale nel quale si articola e si sviluppa nei secoli, l’intera famiglia umana (Multi unum corpus sumus!)

Ecco, in qualche modo, le basi ideali e i  muri maestri ideali di questa civiltà che tutti ci accomuna. Sopra questa, già di per sè preziosa incomparabile ricchezza,  di valori, si è riversato come rugiada fecondatrice, il lievito redentore, santificatore e perfezionatore dell’evangelo”.Perché ho citato La Pira?  Perché è un laico che insegna a volare alto.

Ma veniamo a noi. L’ hospitalitas prima di essere un carisma è un Fatto, un Avvenimento, un’ Esperienza, una Persona: l’incontro con Gesù di Nazareth, il Figlio del Dio vivente, la folgorazione del Suo sguardo,  il “vieni e seguimi”, il “ti faro’ pescatore di uomini”, il “se vuoi…”

Sarebbe fuorviante pensare che sono parole rivolte solo ai chiamati al sacerdozio o alla vita consacrata…Si tratta delle scelte battesimali di coloro che divengono adulti e, dopo aver chiesto responsabilmente alla Chiesa la fede, ricevono con la sacra unzione crismale, il mandato di andare oltre i confini della terra, di prendere il largo.

Lui, l’Ospitante, farà di me una persona capace di ospitare, accogliere;  una casa, una porta aperta, una dimora… Se manca questa premessa, possiamo fare tutti i convegni del mondo, partecipare a tutte le Assisi Capitolari: tempo perso. Non lo dico per scoraggiare ma come stimolo per non illudersi  e illudere.

Quella che si vede nascere è una pianta selvatica che non potrà fruttificare se non innestata nell’albero buono. Già Paolo VI nella Octogesima adveniens esprimeva la sua preoccupazione: ” Ciascuno esamini se stesso per vedere quello che finora ha fatto e quello che deve fare. Non basta ricordare i principi, affermare le intenzioni, sottolineare le stridenti ingiustizie e proferire denunce profetiche: queste parole non avranno peso reale se non sono accompagnate in ciascuno da una presa di coscienza più viva della propria responsabilità e da un’azione effettiva. È troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria innanzi tutto la conversione personale”.

Predicare e curare

Sopra ho accennato alla CEI. Per il momento non si può’ che procedere schematicamente. Cosa chiedono i Vescovi col documento “Predicate il Vangelo e curate i malati” ? Una svolta storica fatta di gesti concreti, di segni credibili: essere tralci di un’unica Vite

  • per promuovere la salute (coinvolgimento di tutte le componenti del popolo di Dio nella pastorale della salute) n. 4

  • per dare voce alle chiese locali (sostenere l’integrazione della pastorale sanitaria nella pastorale d-insieme delle comunità cristiane) n. 4

  • per educare alla “speranza che non delude” (progettualità…itinerari formativi) n.4

Si tratta di mettere in evidenza le coordinate:

  • La grande tradizione, nata nella Chiesa “quale espressione del suo amore per l’uomo” (40).

  • La Chiesa “profezia della speranza”…(21).

  • Una comunità ospitale “che si prende cura”…(22) affinché la presenza delle istituzioni sanitarie cattoliche possa esercitare un influsso positivo sulla comunità ecclesiale e sulla società, occorre che vengano compiuti alcuni passi. Il primo porta le istituzioni a superare l’isolamento, rendendole sempre più visibili nella comunità ecclesiale.

  • La popolazione del territorio deve poter riconoscere in esse un punto di riferimento, uno strumento di sensibilizzazione ai problemi della salute, della morte, della vecchiaia e della disabilità.

  • Ciò costituisce il compito carismatico dei religiosi che le gestiscono: la missione loro affidata di servire i malati e di promuovere la salute appartiene a tutta la Chiesa.

  • A loro incombe il dovere di aiutare la comunità ecclesiale a diventarne maggiormente consapevole” (42)

Da dove cominciare? Il primo segnale di un cambiamento di rotta potrebbe essere la creazione di “gemellaggi”. I primi saranno timidi, poi si faranno più arditi. Se ogni ospedale o struttura sanante confessionale adottasse un ospedale, una struttura pubblica, nascerebbe un proficua sinergia d’intenti e di carismi che finiranno per stimolare e coinvolgere anche la comunità ecclesiale. Solo così sarà in grado di maturare nel suo seno la consapevolezza e l’importanza di ospitare i collaboratoti del vangelo che “predicano e curano”.

Da “Fatebenefratelli” Genn/Mar 2007

LA REAZIONE DEI LAICI: IL SASSO NELLO STAGNO/

 

Leave a Reply

You must be logged in to post a comment.