IL LATO STERILE DEL CONSUMISMO – Ettore Gotti Tedeschi

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IL LATO STERILE DEL CON SUMISMO

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Il paradosso della modernità, che puntando sul “tutto subito e niente figli” ha frenato la crescita delle persone. Quindi l’economia. Parla il banchiere Ettore Gotti Tedeschi

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Di  Enzo Manes

La levità impulsiva del consumismo. La piaga tremenda della denatalità. I danni strutturali della teoria neo-malthusiana. Le baby sitter latinoamericane negli Stati Uniti. Il capitalismo innovativo dei monasteri benedettini. Si muove a tutto campo l’economista Ettore Gotti Tedeschi quando parla della crisi. Tra giudizi spiazzanti e storielle, come le chiama lui. E paradossi. È cattolico praticante («quasi fondamentalista, nel senso che ho dei fondamenti» dice a Tempi in avvio di conversazione) e ha fatto una carriera importante, spesa principalmente in quei luoghi che ora sono finiti sotto i riflettori, ma non per riprese di fiction.

Per 24 anni si è occupato di finanza, 12 dei quali come consulente strategico. Il primo gennaio 1993 fondava la filiale italiana del Banco Santander e oggi ricopre l’incarico di presidente della Banca Santander Consumer ed è consigliere di alcune società del gruppo.

Da gennaio 2009 il rettore dell’Università Cattolica di Milano Lorenzo Ornaghi gli ha conferito un incarico di docenza alla Scuola superiore (Aseri) e, sempre nel 2009, svilupperà un corso di Etica economica all’Università di Castellanza. Editorialista de L’Osservatore romano, Gotti Tedeschi ha cinque figli «ma con una sola moglie».

Dottor Gotti Tedeschi, sull’Osservatore Romano lei ha manifestato perplessità verso gli inviti a consumare quale rimedio infallibile per sconfiggere lo spettro della povertà che accompagna la crisi economica. Qual è il senso della sua preoccupazione?

Rispondo così. Uno degli aspetti più singolari e originali della dimensione dell’uomo economico nel mondo globale, vale a dire nel suo atteggiamento verso il consumo e il risparmio, è la sua spaccatura in tre parti: l’uomo lavoratore, l’uomo consumatore, l’uomo risparmiatore. Il primo lavora in un’impresa ubicata localmente e il suo stipendio, la sua liquidità, dipende esclusivamente dalla propria professione, che si svolge di norma dove risiede. Il secondo consuma i beni che desidera acquistare al prezzo più conveniente secondo una sua valutazione del rapporto qualità-prezzo. Il terzo prende il frutto del suo lavoro, cioè il reddito, sottrae le spese, e il guadagno lo investe. Ebbene, queste tre figure, che sono poi la stessa persona, nel mondo della globalizzazione confliggono fra di loro.

Perché?

Perché l’uomo lavoratore, per non perdere il posto, ha tutto l’interesse a che l’impresa dove presta l’opera continui a produrre, a crescere o che perlomeno regga su un piano competitivo. Purtroppo è difficile nel mondo globale, perché sono apparse sulla scena aziende di paesi come Cina e India che producono lo stesso bene a un costo più basso.

L’uomo lavoratore produce il suo reddito in un’impresa che magari nel globale non è più competitiva. Poi, quando veste i panni del consumatore, succede che comperi prodotti che non sono realizzati nel suo paese e paradossalmente potrebbero essere in concorrenza con quelli che realizza nella sua ditta. E quando entra nella parte del risparmiatore, di solito non investe su realtà italiane, guarda a chi dà la più alta remunerazione in funzione delle prospettive di rendimento-rischio. Può investire per esempio su un’impresa cinese, indiana, tedesca. Può investire su un’impresa che compete con quella in cui lavora. In sintesi: l’uomo consumatore e l’uomo investitore possono distruggere la parte di uomo lavoratore.

Perciò consumare non significa automaticamente tenere in piedi le produzioni.

Lo ha detto Jacques Attali, lo ha detto il nostro primo ministro Silvio Berlusconi: «Consumate, spendete». Ma così facendo si potrebbe ottenere esattamente l’effetto opposto. Infatti se noi consumiamo beni importati, a beneficiarne è l’economia di quei paesi produttori, non si rafforza certo la nostra. Semmai sorride solo il commerciante che vende in modo indifferenziato.

Comunque Natale chiama consumi, va da sé. Si prevedono ulteriori indebitamenti soprattutto delle fasce di reddito medio-basso. Insomma, se è vero quel che ha fin qui spiegato, è un gatto che si morde la coda?

Certo. Si dice: «Se consumi muovi l’economia». Ma questo modo di pensare rappresenta un passaggio drammatico perché sta ad indicare che la nostra economia si fonda totalmente sui consumi. Infatti anche i richiami autorevoli sono al consumo e non un cenno al risparmio. E questo fatto la dice lunga su quale sia stata la logica dello sviluppo economico negli ultimi trent’anni. Appunto, una logica di sviluppo centrata totalmente sui consumi. E ormai non è più possibile tornare indietro.

Perché non si può tornare indietro?

Perché se smetto di consumare genero un calo produttivo di un’impresa che, a quel punto, non investe e licenzia. Questa è la ragione vera per cui la crisi attuale si è avviata.

Quindi non è una crisi finanziaria?

No, non è crisi finanziaria e neppure crisi dell’economia reale. Si tratta di una crisi dei valori dell’uomo. Trent’anni fa si è avviata un’operazione culturale che ha fatto passare l’idea che non bisognasse più fare figli e che fosse opportuno abbandonare un’economia di sviluppo legata alla popolazione che cresceva organicamente e quindi alla natalità. Si è deciso così di dar vita a un’economia fondata su uno sviluppo egoistico focalizzato esclusivamente sui consumi. Il blocco delle nascite ha portato con sé la drastica riduzione degli investimenti. Se mancano i figli, che di norma introducono la categoria del lungo termine, del risparmio, la famiglia sarà logicamente più portata a godersi i redditi nell’immediato. Questa è la stortura. Il procedere degli ultimi trent’anni ha fatto crollare il “lungo termine” esaltando il “breve termine”. È la mentalità delle stock option, del corto respiro.

Insomma, abbandonando la natalità, il mondo ha deciso di vivere “a breve”.

Già. E questo ha prodotto un ribaltamento dell’intero sistema economico industriale. Il breve ci è sprofondato addosso, è crollato nelle nostre mani.

Ma se ne esce?

Racconto una storiella. Ho scoperto un fenomeno negli Stati Uniti che mi ha scioccato. Piacevolmente. Parlo della famiglia americana. Lui e lei lavorano. I nonni sono lontani, è come se non ci fossero. I figli sono a carico delle baby sitter. Che per la quasi totalità sono sudamericane, di lingua spagnola e portoghese. E lo sa cosa insegnano le baby sitter ai bambini delle famiglie americane? A pregare. Così i figli di questa generazione, cioè quelli che saranno impegnati con il lavoro nella prossima, avranno fatto scuola di religione domestica grazie agli insegnati delle loro baby sitter sudamericane. Magnifico. I valori abbandonati possono tornare con la provvidenza divina, che è addirittura legata a delle compensazioni che hanno a che fare col proprio egoismo. La natura vince sempre.

Per combattere la crisi, si invoca la riduzione delle tasse. Giusto?

Diciamola tutta, allora: le tasse non si possono ridurre. Perché il costo sociale imposto da uno sviluppo economico egoistico, a crescita demografica pari a zero, ha aumentato tutta la struttura dei costi fissi. Come le pensioni e la sanità. Soggetti che devono essere “spesati” da un numero sempre più basso di lavoratori attivi. Tutta colpa della teoria neo-malthusiana.

Sarebbe a dire?

La crisi demografica inizia con l’accettazione della teoria neo-malthusiana incentrata sui limiti dello sviluppo, laddove si afferma che le risorse economiche sulla terra sarebbero state distrutte in toto dalla crescita esponenziale della popolazione. L’esito di questo pensiero nefasto fu il progressivo diffondersi del concetto che fare tanti figli fosse ormai demenziale. E che, al contrario, fosse saggio avviare una politica di sviluppo legata alla maggiore produttività, all’efficienza e al consumismo. Oggi vediamo dove sta l’errore. E che errore!

La crisi dell’economia globale ha spinto alcuni a dare “letture” catastrofiche sulla fine del capitalismo. E anche da alcuni settori del mondo cattolico sono partiti affondi dello stesso tono, quasi che il capitalismo fosse male in sé, una forma radicalmente in antitesi all’esperienza cattolica.

Guardi che il capitalismo nasce sicuramente cattolico quale frutto del genio dell’uomo. Basti pensare ai monasteri benedettini, veri e propri cluster, dove tutt’intorno fioriva il benessere. Si lavorava in coscienza, perché si riconosceva un senso del fare. Si produceva ricchezza che poteva essere distribuita. C’erano idee, innovazione tecnologica. Infatti non è stato Leonardo a bonificare le paludi, ma i benedettini mille anni prima.

Poi il capitalismo si è deformato. Allontanandosi dall’uomo e introducendo una visione puramente materiale del realizzare affari. Egoistica. Un egoismo fondato sulla presunzione che lavorare per sé fa anche il bene degli altri in quanto estende a loro i vantaggi acquisiti. In cinquecento anni il capitalismo si è conquistato la sua autonomia morale. Ed è l’uomo incline a visioni così fatte che ha determinato questo percorso presuntuoso.

L’errore sarebbe quello di definire etico o non etico il capitalismo, come l’economia, come la finanza. Questi sono tutti strumenti. È come l’uomo li utilizza nella sua moralità di dominatore che li rende etici, che li fa strumenti portatori di bene o di male. La chiave di tutto è sempre l’uomo, l’uomo con le sue scelte. Di qui non si scappa. [en.ma]

Da TEMPI N.49 4 Dic.2008

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