LE STRADE APERTE DEL CELESTE IMPERO
Posted on agosto 29th, 2009 by Angelo
Posted on Dicembre 27th, 2008 di Angelo
Il REPORTAGE DALLA CINA a confronto con il nostro cristianesimo facile.
Una riflessione che a Natale deve aprire gli0rizzonti della COMPAGNIA. E’ il sogno di Dio che va realizzandosi con noi o senza di noi. |
LE STRADE APERTE
DEL CELESTE IMPERO
Viaggio nelle chiese di Pechino e Shanghai. Dove anche i cristiani vivono alle prese coi nuovi scenari di un Paese lanciato verso il futuro e che deve fare i conti con la recessione globale. Tra incertezze, occasioni nuove e inattese prossimità |
di Gianni Valente
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È già sera da un pezzo, quando un po’ alla chetichella le strade e gli incroci intorno a Zhengyi Road si riempiono di guardie, vigili urbani, macchine della polizia con le luci intermittenti blu, accigliati figuri in borghese provvisti di ricetrasmittenti. Alle otto scatta l’ora X, il traffico viene bloccato per qualche minuto. Una piccola folla di curiosi assiste al veloce rito quotidiano del ritorno a casa di Wen Jiabao, che è il premier della Repubblica Popolare Cinese, e quindi è per statuto uno degli uomini più potenti della terra. Lì vicino, la Pechino più glamour di Wang Fu Jing Avenue continua indisturbata a celebrare i suoi fasti postolimpici. All’ombra del Beijing Hotel, l’albergo storico della nomenklatura maoista, rilanciato dal restyling come albergo extraluxe, va a spasso tra megastore sempre aperti e ristoranti affollati di un’umanità allegra e appagata, che non appare affatto disperata.
Vicino al primo ministro abita anche padre Giovanni. La chiesa di San Michele, dove è parroco, è a pochi numeri civici dal compound che ospita l’importante vicino di casa. Capita anche a lui di dribblare biciclette e vigilantes, quando torna a casa trascinato come gli altri nel viavai anonimo della sera, uno dei tanti. Eppure un giorno, qualche mese fa, tutti gli occhi della Cina, per qualche istante, sono stati idealmente puntati su di lui. La fiaccola olimpica era arrivata nella capitale dell’Impero, e lui era uno degli ultimi tedofori, quelli incaricati di portare il fuoco olimpico per poche decine di metri per le strade di Pechino. Quando è toccato a lui, senza starci a pensare, ha colto al volo l’occasione. Ha alzato la fiaccola davanti alla città in festa, e con quell’arnese-simbolo della nuova grandeur cinese, senza enfasi, ha tracciato veloce nell’aria il segno della Croce. Il gesto più semplice che gli è venuto in mente, per dire tutta la sua simpatia al pezzo immenso di mondo che si assiepava ai lati della sua breve corsa.
Quattrocento anni fa, già il grande gesuita Matteo Ricci era rimasto impressionato dalla grandezza umana del disegno politico che sorreggeva il Celeste Impero. Anche lui, guardando alla Cina del suo tempo, cercava un punto d’incastro, un’affinità minimale, una risonanza familiare anche lontana da cui partire affinché il seme cristiano fosse sparso in quella terra, senza venire subito respinto come un corpo estraneo.
Come allora, anche oggi, nella grande mutazione che la Cina sta vivendo, l’avventura dei cristiani sparsi nel grande Paese passa anche attraverso prossimità occasionali. Spiragli di simpatia gratuita che il buon Dio può destare tra i contadini del Sichuan e i manager di Shanghai, gli studenti universitari coi vestiti griffati e i pescatori di Fuzhou. E anche tra quelli che hanno il potere.
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Dopo la Lettera
Al Seminario nazionale di Pechino, la pergamena con la benedizione di Benedetto XVI è appesa al muro in posizione defilata ma strategica. La vedi solo se scendi le scale che dalla chiesa portano alla cripta. Ma di lì, almeno una volta al giorno, ci passano tutti. I quasi ottanta seminaristi, la quarantina di sacerdoti e le quindici suore fanno una vita scandita con orari e disciplina da seminario modello: sveglia alle cinque e mezza, un’ora di preghiera, messa, colazione, mattinata di studio, ginnastica, letture spirituali durante i pasti, fino alla meditazione serale sul Vangelo e sui Padri fatta in silenzio, tutti insieme, nella chiesa. La vita che scorre nel seminario è un concentrato di tutti i paradossi che segnano le vicende anomale della cattolicità cinese. Nei dépliant informativi si ripete che il seminario è finanziato dal governo ed è sotto l’egida dell’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, lo strumento con cui il regime vuole assicurarsi il pieno allineamento della Chiesa alla propria leadership politica, interferendo anche nella selezione dei vescovi. Ma poi, i preti e i seminaristi studiano senza censure il Codice di Diritto canonico, compresi i canoni dove è scritto che solo il Papa «nomina liberamente i vescovi, oppure conferma quelli che sono stati legittimamente eletti». E se viene portato in visita al seminario qualcuno dei pochi vescovi cinesi consacrati senza mandato pontificio, gli fanno il vuoto intorno e nessuno dei preti scende in cappella a dir messa insieme a lui.
A più di un anno dalla sua pubblicazione, anche la Lettera del Papa ai cattolici cinesi fa registrare reazioni ambivalenti e paradossali. «Per tutti noi», dice padre Giuseppe Jinde Lin, uno degli assistenti spirituali del seminario, «il Papa ha detto la parola definitiva su tante questioni che da decenni erano controverse. La Lettera ci dice che non è necessario contrapporsi a quelli che ci governano: adesso nessuno può più dire che chi dialoga con il governo non è per questo motivo un buon cristiano». Sono già una decina – e le richieste di questo tipo sono in continuo aumento – i seminaristi provenienti da comunità non registrate presso gli organismi governativi che hanno chiesto di proseguire la propria formazione presso il Seminario nazionale di Pechino, uscendo dalla condizione di clandestinità più o meno tollerata in cui era maturata la loro vocazione sacerdotale: uno dei tanti segnali della silenziosa riconciliazione che dentro la cattolicità cinese sta lentamente sanando le ferite e dissipando i rancori tra quelli che avevano già accettato di collaborare con la politica religiosa del regime e quanti rifiutavano il suo controllo sulla vita della Chiesa.
Le reazioni meno entusiaste davanti alle indicazioni e ai suggerimenti contenuti nella Lettera del Papa si registrano – ennesimo paradosso – alcuni isolati elementi dell’area clandestina, che magari per decenni avevano fatto dell’obbedienza al Papa la bandiera della propria fedeltà senza compromessi alla Sede apostolica. Un irrigidimento non sempre motivato da ragioni ideali. Qualcuno dei preti cosiddetti “clandestini” vive una condizione di paradossale privilegio: gestisce senza controllo le offerte per le messe che riceve dai fedeli, fruisce delle donazioni delle organizzazioni americane che sono contro il governo cinese, si muove di diocesi in diocesi, senza troppi vincoli da parte dei superiori.
Ma si tratta – ribadiscono anche al Seminario di Pechino – di poche eccezioni, singoli elementi che fanno molto rumore coi loro interventi scomposti affidati ai blog dei siti internet, dove scrivono anche che il Papa ha sbagliato o è stato ingannato. «La riconciliazione dei cuori, quella che conta, è già cominciata», assicura padre Giovanni Tian della chiesa di San Pietro a Shanghai.
«Anche i clandestini ora riconoscono che c’è piena comunione di fede coi cattolici che frequentano le chiese “aperte”. Sono spesso persone anziane, che certo non vanno a chattare su internet per criticare il Papa, a cui sono così devoti. Anche con loro va usata comprensione e misericordia. Le cose si risolveranno col tempo e con la pazienza.
Se non c’è il perdono, gli altri non possono accorgersi che tra di noi c’è Gesù». Intanto, la parrocchia di don Giovanni è tutta in subbuglio per i lavori di restauro. Ma nella piccola sala adibita a cappella c’è sempre il Santissimo esposto, e c’è sempre qualcuno che prega in silenzio, senza scarpe, davanti alla statuetta di Maria Rosa Mistica, quella con le tre rose sul petto. Lì fuori, anche il cuore indaffarato di Shanghai non si ferma mai, coi suoi ritmi tachicardici.
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Un sogno a rischio
I guru del Fondo monetario internazionale vanno a Hong Kong e dicono di star tranquilli, ché la Cina, con le sue robuste riserve monetarie, sarà una un’ancora di stabilità per il mondo intero, nell’uragano della recessione globale che spazzerà i prossimi due anni.
Ma a Pechino non si fidano troppo degli alchimisti finanziari d’Oltreoceano. Nel Guangdong, già a fine ottobre, è cominciata la morìa delle fabbriche di giocattoli. Chiuse a decine, una dopo l’altra, e i lavoratori mandati a casa. «Aumenteranno i fattori contro la stabilità sociale», pronosticava proprio Wen Jiabao, già a inizio novembre.
La Cina è una locomotiva lanciata a bomba verso il futuro. Negli ultimi anni i tassi globali di crescita economica del Paese erano costantemente a due cifre. Se adesso deragliasse in piena corsa – lo sanno tutti – le conseguenze sarebbero devastanti in ogni angolo del pianeta. La leadership cinese ha davanti a sé problemi dalle dimensioni ciclopiche, ed è meglio tenerne conto, anche quando si guarda alle vicende del piccolo gregge dei cattolici cinesi – tra i dieci e i dodici milioni, una goccia nebulizzata nel mare di un miliardo e trecentomila anime.
Negli ultimi due anni, con il gradualismo rituale che la contraddistingue, la dirigenza cinese aveva realizzato passaggi teorici interessanti riguardo alla questione religiosa. Nel 2007, all’ultimo congresso del Partito comunista cinese, la parola “religione” era stata inserita nella costituzione del Pcc. Per la prima volta, nella storia della Cina comunista, anche nella pianificazione teorica delle strategie politiche i soggetti religiosi praticanti venivano riconosciuti come componente sociale compatibile col modello di sviluppo del Paese, alla stregua delle minoranze etniche. Poi, a fine 2007, lo stesso Hu Jintao aveva sdoganato ai massimi livelli l’idea che le religioni possono tornare utili per costruire la società armoniosa, formula-chiave nel lessico recente del potere cinese: «Noi dobbiamo unire bene i credenti e le figure religiose presenti tra le masse intorno al partito e al governo, e lottare insieme con loro per costruire tutt’intorno una società prospera, mentre si affretta il passo verso la modernizzazione del socialismo», aveva detto il presidente cinese a conclusione di una sessione di studio del Politburo dedicata alla questione religiosa. Per questo, prima delle Olimpiadi, sembrava che il nuovo scenario teorico elaborato ai piani alti della nomenklatura cinese potesse per effetto domino far avanzare di qualche passo importante la marcia estenuante per la normalizzazione dei complessi rapporti tra governo comunista, Chiesa cattolica cinese e Santa Sede. Poi, passata l’eccitazione olimpica, i segnali provenienti di là dalla Grande Muraglia si sono fatti di nuovo rari ed enigmatici (vedi box). Tornano al pettine i vecchi nodi ancora irrisolti, come la pretesa degli organismi governativi di pilotare le nomine dei vescovi. Ma il contesto è cambiato, e conviene a tutti tenerne conto, per cogliere davvero come stanno le cose.
Il rapporto tra la Chiesa e il Celeste Impero ha sempre avuto le sue complicazioni specifiche. Ben prima di Mao, chi comanda in Cina ha sempre trovato difficoltà a riconoscere che il vescovo di Roma non è una specie di monarca spirituale universale, e i vescovi sparsi nel mondo non sono i suoi mandarini. Adesso, come ulteriore fattore di complicazione, la “questione cattolica” è inquadrata dai funzionari cinesi nel multiforme revival religioso che attraversa il Paese: fenomeno articolato, tenuto sotto controllo dal regime, che negli ultimi anni, accanto alle tradizionali “aree critiche” – come la questione tibetana o quella degli uyguri, l’inquieta popolazione musulmana del Xinjiang –, punta la sua attenzione anche sull’impressionante escalation della fluida galassia evangelico-protestante. Le comunità evangeliche militanti, legate in maniera più o meno diretta alle Chiese libere d’impronta nordamericana, col loro miracolismo emozionale espandono la loro rete di “chiese domestiche” con ritmi e metodi di difficile monitoraggio. La loro proliferazione sottotraccia ha certo superato di schianto la cifra di 16 milioni di fedeli che le statistiche di regime attribuiscono alle comunità protestanti “storiche” (luterani, calvinisti, riformati). Una crescita esponenziale celebrata come una vittoria dalle centrali d’informazione attive negli States, come la China Aid Association, che accredita la cifra inverificabile di 130 milioni di cinesi già diventati “cristiani rinati” nelle agguerrite house churches, presentandoli tutti come potenziali attivisti di battaglie antigovernative in nome della libertà religiosa e dei diritti umani.
Per ora, il ritorno del “fattore religioso” come fenomeno sociologicamente rilevante viene scrutato dai piani alti del potere cinese con cautela. Gli organismi culturali filogovernativi, come l’Accademia delle Scienze sociali, hanno ricevuto dall’alto l’input esplicito di studiare il fenomeno. Se il criterio-guida scontato del governo è la stabilità politica e la coesione sociale, le spie d’allarme sono pronte a scattare davanti a ogni realtà religiosa che punti a un impatto sociopolitico non assimilabile alle nuove parole d’ordine sulla “società armoniosa” e che sia percepita come forza antagonista. E il livello d’allerta non può che aumentare, con la recessione globale che minaccia anche il miracolo economico cinese.
Non è un caso che negli ultimi tempi la rete sfuggente delle chiese domestiche evangelical sia entrata stabilmente nel mirino dei controlli da parte degli apparati di polizia. E, in parte, le incertezze del momento potrebbero spiegare anche il temporaneo décalage di comunicazione nelle relazioni sino-vaticane. Dove il nodo più controverso resta quello delle nomine dei vescovi, coi funzionari cinesi che prendono tempo ed evitano di confrontarsi con soluzioni di compromesso accettabili anche per la Santa Sede. «Se il governo non molla la presa», spiega a 30Giorni un giovane prete cinese, «è anche perché sono abituati a considerare il vescovo come un uomo di potere, in grado di dettare la linea politica agli altri battezzati». Così, anche in una situazione anomala e complessa come quella cinese, l’attenzione concentrata al parossismo sul problema delle nomine episcopali produce alla lunga effetti deformanti. Con giovani preti contagiati da un paradossale carrierismo, «che passano il tempo a fare cordate e cercare sponde ecclesiali e anche politiche per diventare vescovi. E perdono di vista tutto il resto».
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Quelli della soglia
Giuseppe Xing dev’essere stanco, se si addormenta come un bambino lungo il breve tragitto che lo porta a Jiading, a quaranta chilometri da Shanghai. Il cambio di fuso si fa sentire: è appena tornato dalla Terra Santa, pellegrinaggio fatto in compagnia dei funzionari dell’Ufficio Affari religiosi. Ma nella cittadina dell’hinterland shanghaiese lo aspettano: deve celebrare più di cento cresime, e lui – lo sanno tutti – non mancherebbe mai a un impegno del genere. In fila, a farsi ungere la fronte, ci sono vecchie nonne ingobbite dagli anni, cinquantenni azzimati col vestito bello, madri di famiglia con i figli in braccio. E tanti ragazzi e ragazze, che si avvicinano all’altare con l’aria lieve e il cuore giovane, come quello della Cina urbana e moderna di cui sono figli.
Nessuno qui prende sul serio le fantasiose teorie di qualche intellettuale nordamericano, che vede all’orizzonte la conversione accelerata al cristianesimo di metà del popolo cinese per via “culturale”. Ma è un fatto che a Pechino, Shanghai e in qualche altra megalopoli cinese sono migliaia i battesimi di giovani e di adulti impartiti ogni anno nelle chiese cattoliche. Alcuni tra loro, uno a uno, si affacciano alla vita cristiana per caso, attirati anche dai richiami più fortuiti e apparenti: le luminarie che addobbano le chiese a Natale, la musica dell’organo e i canti liturgici ascoltati passando per caso davanti a qualche parrocchia; o addirittura la curiosità di capire bene chi sarà mai questo san Valentino che gli innamorati di tutto il mondo festeggiano il 14 febbraio.
Non fanno discorsi, non riescono a spiegare cosa li attrae. Per molti, all’inizio, è solo l’emozione di aver sentito parole di promessa e speranza che hanno toccato il cuore, la stessa su cui fanno affidamento gli evangelicals d’importazione. «Una volta entrati in chiesa», aggiunge padre Giovanni, «ci sono altre cose che misteriosamente lavorano: la liturgia, le storie di Gesù ascoltate durante la messa, la vista della gente che prega in silenzio, con tutta calma». Non sanno nulla della grande storia di testimonianza e martirio che ha custodito in terra cinese il dono della fede, quello che potrebbe arrivare fino a loro senza sforzo e senza alcuna tensione. Anche per questo, per non scandalizzare la loro inconsapevole simpatia da principianti – ripetono tutti –, è ora di mettere da parte le scorie tossiche dei conflitti ecclesiali del passato, e i carrierismi di nuovo conio che ancora li alimentano.
Per il resto, la schiera di preti e vescovi quarantenni che stanno assumendo il carico delle responsabilità nella Chiesa di Cina non sanno troppo bene che pesci pigliare. E i perduranti condizionamenti a cui è sottoposto il legame di comunione con il Papa sono solo una parte del rebus che hanno davanti. «Prima o poi, in un modo o nell’altro», dice ancora padre Giovanni, «la normalizzazione dei rapporti tra Pechino e il Vaticano arriverà. Ma intanto, qui tutto sta cambiando troppo in fretta. I vecchi testimoni se ne stanno andando, noi abbiamo davanti un mondo in continuo movimento. Non sappiamo bene cosa fare». L’assimilazione cinese della postmodernità globale sta mutando tutti i paradigmi sociali e culturali del passato. E a loro è toccato in sorte di portare il nome di Cristo nell’immenso cantiere della Cina, proprio mentre il grande Dragone sta di nuovo cambiando pelle. Con la tentazione di essere all’altezza, elucubrare strategie che siano adeguate al momento. E con la chance di non accorgersi che anche adesso, come sempre, per cogliere l’occasione che passa, basta che la Chiesa sia sé stessa.
A modo suo, è questo che il vecchio vicario generale Ai Zuzhang vorrebbe suggerire ai giovani preti di Shanghai. Lo fa con delicatezza, accennando di nuovo alla sua storia, mentre celebra con loro una messa per ricordare i quattrocento anni della diocesi shanghaiese: «Io ero ricco», dice, «così ricco che la mia famiglia pagava i domestici che mi accudivano anche quando ero già diventato prete. Avevo problemi di salute, non sapevo fare niente, non sapevo cosa fosse il lavoro. Quando sono finito nei campi di rieducazione, mi chiedevo: come farò a resistere? E invece, poi, è stato il dono di Dio che ha fatto tutto per me. Pure la salute è migliorata… La stessa cosa potrebbe capitare adesso a voi, davanti al compito che vi aspetta. Sul futuro che avete davanti, ci metterà le mani il Signore».
DA 30 GIORNI DICembre 2008
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