SUL BENEDICTUS [Terapia contro il sordomutismo] Pino Stancari s.j.
Posted on agosto 28th, 2009 by Angelo
Posted on Dicembre 15th, 2008 di Angelo |
SUL BENEDICTUS
di Pino Stancari
Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo, e profetò dicendo:
-
“Benedetto il Signore Dio d’Israele,
perché ha visitato e redento il suo popolo, -
e ha suscitato per noi una salvezza potente
nella casa di Davide, suo servo, -
come aveva promesso
per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo: -
salvezza dai nostri nemici,
e dalle mani di quanti ci odiano. -
Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri
e si è ricordato della sua santa alleanza, -
del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre,
di concederci, liberati dalle mani dei nemici,
di servirlo senza timore, 75in santità e giustizia
al suo cospetto, per tutti i nostri giorni. -
E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo
perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, -
per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza
nella remissione dei suoi peccati, -
grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio,
per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge -
per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre
e nell’ombra della morte -
e dirigere i nostri passi sulla via della pace”.
Il fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele. (Luca1,67 -80)
La profezia per eccellenza
Il Benedictus (Lc 1,67-79) è sempre presente nella preghiera quotidiana della chiesa: il popolo cristiano tutti i giorni, all’alba di un giorno nuovo, saluta il sole che sorge cantando come Zaccaria. Il Testo evangelico afferma che «Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo, e profetò dicendo..» Non dice: cantò, dice: profetò. Non è un verbo usato a caso da Luca. Profetò dicendo… Nella tradizione benedettina, che è poi la tradizione ispiratrice di tutta la storia della preghiera e della ricerca spirituale nella vita cristiana del mondo occidentale, quando si dice “profezia”, si intende il cantico di Zaccaria, Il Benedictus, dalla prima parola che in latino apre il canto. Il Benedictus, è la profezia per antonomasia, è la profezia per eccellenza.
la crisi del sacerdozio
E’ importante ricordare il contesto dell’episodio in cui si colloca il cantico: siamo giunti all’ottavo giorno della nascita del bambino e si tratta di circonciderlo e di imporgli il nome. C’è un problema per quanto riguarda il nome da assegnare al bambino, i parenti vorrebbero chiamarlo Zaccaria, il nome della famiglia, mentre la madre insiste: si deve chiamare Giovanni. Nessuno si capacita di questa sua determinazione. Interrogano Zaccaria, il padre, e lo interrogano passando attraverso quella distanza segnata dallo stato di mutismo e di sordità in cui Zaccaria si trova. Zaccaria è muto, e deve essere anche sordo, se è vero che gli domandavano con cenni come voleva che si chiamasse il figlio. Zaccaria per rispondere scrive: Giovanni è il suo nome. Tutti furono meravigliati: «In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio».
Il cantico riportato successivamente è l’ingrandimento di questo versetto, esso affiora sulla bocca di Zaccaria nel momento in cui lo stato di mutismo e di sordità, di cui è prigioniero, viene rimosso. Non è più muto e non è più nemmeno sordo. Non è più distante dagli altri e dall’ambiente che lo circonda. Non è più prigioniero di quell’ incomunicabilità in cui si è trovato relegato. Zaccaria canta, o meglio, Zaccaria sta profetando.
Il cantico segna il passaggio dal silenzio profondo in cui Zaccaria si trovava ad una nuova capacità di relazioni con gli altri, con l’ambiente, con il mondo, con la storia umana. Questa nuova relazione che rimuove lo stato antecedente di mutismo e sordità, dipende certamente dalla relazione con il Signore. Che cosa è successo? Ma chiediamoci prima ancora: come mai Zaccaria è muto?
Dopo il prologo del suo vangelo Luca ci informa che «al tempo di Erode, re della Giudea, c’era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abìa, e aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Elisabetta. Erano giusti davanti a Dio, osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. Ma non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni».
Questa è la situazione: Zaccaria è sacerdote, sposato con Elisabetta, non ci sono figli. Sterilità di ordine biologico. Altri casi del genere sono segnalati nella storia della salvezza, non è una novità. Ma questa sterilità ha delle caratteristiche del tutto singolari: Zaccaria viene messo in scena nel racconto evangelico nel momento in cui svolge una funzione pubblica. Zaccaria è sacerdote, Zaccaria svolge un ministero che ha un significato strutturale nella vita e nella storia del popolo, nella relazione tra Dio e il suo popolo, relazione sintetizzata nella dinamica dell’alleanza. E’ per un motivo di amore che Dio ha scelto il suo popolo e ha donato la legge, per ottenere dal suo popolo la risposta secondo il suo gradimento: da Dio al popolo il dono della legge, dal popolo a Dio la risposta del culto, la risposta con cui le creature umane possono accostarsi a colui che è il Santo. Ed è in questo incontro con il Santo che è possibile prendere contatto con la sorgente della vita, dall’incontro con il Santo scaturiscono, infatti, tutte le benedizioni.
Il sacerdozio è quella struttura di mediazione che garantisce il buon funzionamento del culto. Il popolo è in grado di presentare a Dio l’offerta che Dio gradisce, attraverso il ministero sacerdotale; è attraverso la presenza, il gesto, la parola, il servizio del sacerdote che dal Santo viene riversata sul popolo la benedizione di cui tutti hanno bisogno per vivere.
Sono due movimenti fondamentali che caratterizzano il funzionamento del sacerdozio. Il primo è un movimento ascensionale: il sacerdote avanza, sale, porge l’offerta. Se non ci fosse il sacerdote non sapremmo come procedere, non sapremmo quale itinerario seguire, come presentarci. E’ necessaria la presenza del sacerdote che svolge un ruolo imprescindibile nel contesto dell’alleanza: attraverso di lui l’offerta viene presentata fino a prendere contatto con il Santo.
Il secondo movimento è discendente. C’è un movimento ascensionale, o offertoriale e c’è un movimento benedicente. Il sacerdote ritorna al popolo e impartisce la benedizione. E’ in quanto esiste questa struttura di mediazione, che consente il contatto tra il popolo e il Dio vivente, che l’alleanza realizza i frutti che erano stati programmati fin dall’inizio. Per questo Dio ha fatto alleanza con il suo popolo, per coinvolgerlo in una relazione di vita. Questo dinamismo è realizzato in pienezza tramite la funzione del sacerdote, che avanza e ritorna, che offre e benedice, che ascende e discende. Se il sacerdozio non funziona, tutto il meccanismo salta per aria, o comunque è inutile: è sterile. Qui è in questione non semplicemente la sterilità biologica di una coppia, una storia privata, qui è in questione la sterilità dell’alleanza che è sintesi di tutta la storia della salvezza, per come Dio si è rivelato al suo popolo.
Zaccaria viene colto nel momento in cui sta compiendo un atto ufficiale, l’atto più prestigioso che possa mai possa essere compiuto da un sacerdote.
Quel giorno «Zaccaria officiava davanti al Signore nel turno della sua classe». I sacerdoti non sono sempre in funzione. Entrano in funzione due volte in una settimana, nel corso dell’anno. Sono 24 classi, composte da alcune centinaia di sacerdoti, che si avvicendano di settimana in settimana. E’ un lavoro piuttosto massacrante quello che svolgono, oltre alle altre cose da fare, come la famiglia, i loro interessi ecc. Ogni classe entra in funzione per una settimana. Sono 24 classi, 48 settimane in un anno lunare, nel corso dell’anno 2 settimane, e ogni giorno viene sorteggiato il sacerdote che entrerà nel Santo, ne varcherà la soglia, il primo velo, e offrirà l’incenso alla sera di quel giorno. Un unico sacerdote compie questo gesto. Viene sorteggiato appositamente. Può darsi che ci siano sacerdoti che nel corso della loro vita una volta hanno compiuto questo gesto.
E’ un momento solennissimo, di forte commozione, il popolo è in attesa, poi vengono i momenti di partecipazione corale.. Ecco: il sacerdote entra nel santuario, varca il primo velo. Questo avviene ogni giorno. Il sommo sacerdote, lui solo, una volta all’anno entra nel Santo dei Santi, varca il secondo velo per la festa della grande espiazione, il Kippur, ma quotidianamente un sacerdote varca il primo velo ed entra nel santuario. Lì c’è la lampada a 7 braccia, la Menerà, lì c’è l’altare dei profumi, là il tavolo su cui vengono esposti i pani e sull’altare dei profumi viene bruciato l’incenso. Questo è il gesto che Zaccaria sta compiendo. Non è casuale che sia messo in scena all’inizio del vangelo secondo Luca proprio in questo in questo frangente, nell’atto di compiere un gesto così solenne dal punto di vista liturgico, che fa del sacerdote il centro della relazione tra il popolo e Dio.
Quando il sacerdote esce dal santuario, proclama la grande benedizione. Il testo della benedizione sacerdotale è nel libro dei Numeri al cap. 6, il Signore ha spiegato queste cose a Mosè, e Mosè le ha insegnate a sua volta ad Aronne, che è il capostipite di tutti i sacerdoti:
«Voi benedirete così gli Israeliti; direte loro:
Ti benedica il Signore e ti protegga.
Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.
Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace».
Questa è la formula della benedizione. Per 3 volte viene proclamato il nome del Signore sul popolo. Non si sa bene se in epoca antica il nome del Signore fosse pronunciato. Certo dall’epoca rabbinica in poi il nome del Signore non viene più pronunciato. «Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò». La benedizione è descritta in questa maniera: è il nome del Signore che cala, che si posa, che prende contatto con la presenza del popolo:
«Ti benedica il Signore e ti protegga.
Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.
Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace».
Questo testo torna nella nostra preghiera liturgica, e ritorna anche nella devozione cristiana nel corso dei secoli, basti pensare a san Francesco di Assisi.
Il sacerdote esce. Quando Zaccaria esce dopo avere compiuto il gesto della offerta del profumo d’incenso bruciato sull’altare, è muto. Questo vuol dire che non può benedire. Il mutismo e la sordità di Zaccaria mettono in evidenza una situazione sconvolgente: se la benedizione non viene pronunciata sul popolo, l’alleanza non funziona più, la relazione fra Dio e il suo popolo deve arrestarsi dinanzi a una contraddizione, c’è un ostacolo, c’è una barriera invalicabile, c’è una distanza incolmabile: sterilità.
In questione non è semplicemente la sterilità di Zaccaria o di sua moglie; è una coppia di gran brava gente, credenti impegnati nelle cose di Dio, che invecchiano senza figli. Il punto è che sterile è il funzionamento del sacerdozio nell’ambito di una storia che è stata predisposta proprio per rendere fluente e intenso un rapporto di amore, di vita tra Dio e il suo popolo. Ebbene il sacerdozio non funziona…. E perché non funziona? Perché Zaccaria è muto. Appena Zaccaria ritrova l’uso della parola benedice Dio, gli è rimasta la benedizione bloccata in bocca. E non è un guaio semplicemente suo, è un problema del popolo in quanto tale, di una storia che sembra sfumare nella intimità più tragica; una storia inutile, una fatica inconcludente.
Zaccaria è muto. Mentre si trova nel santuario per offrire il profumo, incontra l’angelo Gabriele che gli annuncia la nascita del figlio. Non si tratta semplicemente dell’annuncio che deve dare consolazione ad un povero anziano che oramai si era messo l’animo in pace, e forse stava scivolando sempre più tristemente nella disperazione.. L’annuncio dell’angelo a Zaccaria riguarda il senso della relazione tra Dio e il suo popolo, riguarda l’impostazione di tutta la storia della salvezza, riguarda il funzionamento dell’alleanza. A questo riguardo Zaccaria è in ritardo; in un certo senso, il fatto che l’angelo gli annunci che nascerà a lui e a sua moglie un figlio, non sembra scomporlo più di tanto. E l’angelo insiste: vedi che io ti parlo di queste cose non per manifestare un segno di benevolenza a tuo riguardo, ma proprio perché è in questione il tuo sacerdozio. Tu ora sei muto. Zaccaria è muto, è il sacerdozio che non si può più esprimere come strumento di benedizione. Zaccaria esce fuori dal santuario, il popolo sta in attesa, si meraviglia, è sconcertato per il suo indugiare nel tempio. Uscito, il sacerdote non può parlare loro. Nel racconto è messo in risalto questo particolare: non poteva benedire, allora capirono che era successo qualcosa di strano. Se ne vanno quatti quatti, con la coda tra le gambe, perché non c’è la benedizione.
l’annuncio della salvezza
Zaccaria torna a casa con tutti i giorni del suo servizio e dopo quei giorni Elisabetta concepì. Anche qui una stranezza. Noi diremmo: dovrebbe fare salti di gioia, dovrebbe telefonare a tutte le amiche e le parenti, anche più lontane, tutto il mondo dovrebbe conoscere questa novità straordinaria che ha consolato la sua vita. E invece non è così: concepì e si tenne nascosta per cinque mesi. Elisabetta dice: qui è in questione la mia vergogna tra gli uomini. Strano. Noi sappiamo che la situazione si sblocca nel momento in cui l’angelo Gabriele si presenta a Maria nella casa di Nazaret e le dice: vedi, tu sei madre e tua cugina ha concepito ed è giunta al sesto mese. Maria fa la visita a sua cugina. La situazione si sblocca così, ma per 5 mesi, siamo giunti al sesto, Elisabetta si è tenuta nascosta, perché deve fare i conti con la sua vergogna. Fosse soltanto la soddisfazione di mettere al mondo un uomo, dovrebbe gongolare, lei e, accanto a lei, suo marito, il quale è addirittura muto e sordo, quasi una specie di larva umana, accantonata in un angolo della casa, che non serve più niente e non solo come sacerdote. Il fatto è che ha senso mettere al mondo un uomo solo nella prospettiva dell’alleanza; ha senso mettere al mondo un uomo solo nella storia della salvezza, una storia di amore. Al di fuori da questa prospettiva, mettere al mondo un uomo è una vergogna prolungata, diffusa, di vergogna in vergogna. Perché mettere al mondo un uomo quando la vergogna domina la scena della storia umana?
La situazione si sblocca quando Elisabetta riceve la visita di Maria, e il bambino che Elisabetta porta in grembo sussulta, si agita, le trasmette un impulso di gioia che subito Elisabetta sa interpretare. Da parte sua si rende conto che Maria è madre, nessuno l’ha informata: tu sei madre. Tra madri si intendono nella prospettiva di una maternità che non è semplicemente la soddisfazione di mettere al mondo una creatura, ma è generata per quella storia di amore che Dio ha voluto e realizzato. Siamo madri in obbedienza ad un bisogno di fecondità che è per la vita, non per la vergogna; che è per la salvezza, e non per il fallimento. Tu sei madre del Signore, dice Elisabetta, il bambino che porto in grembo ha esultato di gioia, benedetta tu fra le donne. Maria, che è stata visitata dall’angelo, da Dio, porta in grembo il figlio che ha concepito, visita sua cugina Elisabetta.
La scena evangelica è icona rappresentativa di quel disegno che si compie nel corso di tutta la storia della salvezza fina alla pienezza dei tempi: è la visita di Dio che entra nella storia umana per portare a compimento la sua intenzione di amore. E’ questa visita di Dio che diventa evangelo, che diventa quel particolare modo di entrare nella casa di Elisabetta, quel particolare modo di salutare, di cantare con cui lei stessa, Maria, madre del Signore, si esprimerà nel Magnificat.
L’evangelo rompe la sterilità. Fosse semplicemente un problema di ordine fisiologico, si potrebbe ancora affrontare e risolvere, ma non è così. L’evangelo rompe, apre, l’evangelo interviene con l’urgenza della visita che porta in sé la misteriosa potenza, tutta la travolgente dolcezza del Dio vivente. Maria nella casa di Elisabetta e di Zaccaria, è giunta nella montagna di Giuda, saluta.
Arriviamo così al Benedictus, Elisabetta esce dallo stato di vergogna in cui era nascosta. Ancora 3 mesi di gravidanza, poi il parto: nasce. E nasce non semplicemente il figlio, nasce il figlio redento, nasce il figlio che appartiene a quella novità che Dio ha introdotto nella storia umana, visitando le sue creature per la salvezza. Questo figlio che nasce è profeta, cioè colui che prende posizione in rapporto alla visita, si accorge del fatto che Dio è presente, che Dio è operante, e si atteggia di conseguenza. Sarà col suo vissuto, sarà con le parole i gesti di cui è capace, sarà anche assumendosi delle responsabilità, ma queste sono tutte specificazioni ulteriori. Profeta nella sua forma primigenia è ogni uomo che scopre di essere chiamato da Dio, di essere coinvolto in una relazione, di essere destinatario di una visita e spettatore di una visita che riguarda la storia umana. Magari il profeta queste cose non le sa dire, non sa come spiegarle, ma ci è calato dentro con tutta la sua vita.
la visitazione
Nella nostra tradizione devozionale il mistero cui siamo dinanzi si intitola: visitazione. E’ una visita. E’ un latinismo usato non casualmente, proprio perché si vuole dare al significato di quella visita un’intensità teologica: non è una visita qualunque, non è un segno di benevolenza, non è la disponibilità di una donna servizievole, come Maria, che, informata della gravidanza della cugina, la soccorre. Tutte queste sono considerazioni di contorno, ammennicoli dolciastri che servono alla predicazione più onesta. Non è una visita, è una “visitazione”, proprio perché quella visita ha un significato più cogente, più intenso, ha un significato teologico: è la visita di Dio che rende benedetta la fecondità della donna che genera un uomo, perché genera un profeta. Non genera più un uomo, ma un profeta. Genera un uomo coinvolto in quella novità di cui Dio è l’autore, un uomo salvato, un uomo redento, un uomo messo in grado di reagire, di corrispondere, di accogliere la visita e di adeguarsi ad essa.
Elisabetta già lo dice nel momento in cui accoglie il saluto di Maria: il bambino che porto in grembo si è agitato. Fino a quel momento sembra che il bambino sia rimasto tranquillo e pacifico, avvolto nel suo nascondimento e nella sua invisibilità nel grembo di sua madre, madre assai problematica, come si è visto. Adesso il bambino si è scatenato. Ed è questo scatenarsi della gioia nel grembo di Elisabetta che le dà motivo di reinterpretare totalmente la sua maternità, e, di riflesso, la maternità di Maria: a che debbo che la Madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo.
Facciamo un passo indietro: l’angelo aveva detto a Zaccaria: sarà profeta fin dal grembo di sua madre. Già eravamo orientati in questa direzione. Il testo rievoca quanto già si diceva nell’AT a proposito di altre grandi figure profetiche, come Geremia o il deutero Isaia: profeta fin dal grembo di sua madre.
Il bambino è nato, la circoncisione 8 giorni dopo, e Zaccaria è interpellato: si chiama Giovanni. Così l’angelo lo aveva presentato al padre: nascerà il figlio, si chiamerà Giovanni, si chiamerà profeta fin dal grembo di sua madre. Zaccaria non si rendeva conto, scalpitava, sprofondato in quello stato di mutismo che lo aveva isolato in maniera sempre più amara. Adesso il figlio è nato: si chiama Giovanni. Zaccaria ritrova l’uso della parola. E’ finito il tempo del grande silenzio, è finita la notte, il tempo del buio. La tradizione orante della chiesa, come si è detto, colloca il Benedictus ogni mattina, all’alba.
Siamo veramente usciti fuori dal tunnel, innanzi a noi la luce che sorge, alla quale non ci si può più sottrarre. Ormai il tempo del silenzio, della vergogna, della solitudine, il tempo della storia umana come successione di fallimenti senza risultati è finito.
L’evangelo fa di ogni bambino che nasce da grembo di donna un profeta, un uomo chiamato ad accogliere la visita di Dio. Zaccaria, ritrovato l’uso della parola, pieno di Spirito Santo profetò dicendo… Non è tornato indietro, non è semplicemente tornato nei suoi panni prima di quel disastro, di quella malattia, di quell’ictus che gli ha tolto l’uso della parola in modo così inopinato e sconveniente, tra l’altro impedendogli di esercitare il ministero sacerdotale.
Adesso ha trovato l’uso della parola, ha acquisito dignità di profeta. Questa profezia che adesso contrassegna Zaccaria viene messa in risalto in rapporto a quella che sarà la profezia di Giovanni. Un bambino, per ora, appena nato. E’ una novità profetica quella che segna la vita di Zaccaria, da cui dipende il suo stesso sacerdozio e da cui dipende ogni altra vocazione nel popolo di Dio, e nella storia dell’umanità. Non c’è vocazione che non sia segnata da questa stretta profetica.
Ogni chiamata degna di Dio fa di un uomo nella sua particolare condizione, nella sua particolare situazione, nel suo momento, nel suo luogo, nelle sue responsabilità, un profeta.
il cantico: passato e futuro
Il cantico si può dividere in due parti: la prima parte (vv. 68-75) è caratterizzata dall’uso di verbi al passato; la seconda parte (vv. 76-79) è caratterizzata dall’uso di verbi al futuro. C’è un perno tra la prima e la seconda parte:
«E tu bambino sarai chiamato profeta dell’Altissimo».
Il cantico è incorniciato all’interno di un doppio uso del verbo episkeptomai, che vuol dire visitare: “Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato..”, al passato, all’inizio; “verrà a visitarci”, al futuro. E’ la cornice che inquadra tutto il cantico: è la visita. Ci ha visitati, ci visiterà. E’ il senso della storia umana, dal passato all’avvenire, ogni memoria e ogni aspettativa. Tutto prende senso in quanto diventa interpretazione di una storia ormai visitata da Dio, che recupera, visitandolo, il nostro passato e già imposta il nostro avvenire. La memoria ci riconduce a Lui, visitatore nostro, episkopos; la nostra spinta verso l’avvenire ci conduce fino ad incontrarlo come colui che viene a visitarci. Non c’è altra storia. L’evangelo fa di noi dei profeti e Zaccaria sta profetando.
Ritorniamo indietro. Prima parte del cantico, tre brevi strofe. Prima strofa: vv. 68-69:
«Benedetto il Signore Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi una salvezza potente nella casa di Davide, suo servo».
Questo è il motivo per cui benediciamo il Signore, perché ha visitato. E’ una visita operosa, efficace: ha redento il suo popolo, ha suscitato per noi una salvezza potente. Il termine soterìa, salvezza, ritorna altre 2 volte nel cantico nel v. 71 e nel v. 77. La visita di Dio determina questo effetto nella storia degli uomini: si chiama salvezza. Quando Dio ci ha visitati, questo è stato il risultato che abbiamo potuto cogliere e di cui siamo stati destinatari. Salvezza è un termine che qualche volta per noi diventa un poco vago, astratto. Salvezza è il termine che serve ad indicare la situazione in cui si trova qualcuno che era stretto in un angolo, in uno spazio circoscritto, in un ambiente un po’ soffocante, ed ecco gli si fa largo d’intorno, gli si aprono delle strade, si spalanca l’orizzonte..; una barca e un bastimento in secca e poi ecco di nuovo galleggia e può intraprendere le rotte più impegnative. Salvezza. Per coloro che erano intrappolati dentro situazioni di ristrettezza, di avvilimento, di schiacciamento, di soffocamento, adesso uno spazio nuovo.
il cantico: i nostri nemici
Seconda strofa: vv. 70-71. Questa seconda strofa precisa che l’effetto dalla visita di Dio, ossia la salvezza, è quanto già era stato promesso fin dall’epoca più antica; promesse che adesso siamo in grado di ricordare, rievocare, di ricostruire, promesse di cui forse ci eravamo dimenticati, che forse avevamo addirittura trascurato, forse addirittura considerato come degli imbrogli, per cui le avevamo messe da parte. Ed invece quelle promesse vanno rievocate perché si sono compiute.
«Come aveva promesso per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo: salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano».
Tutti quanti ci odiano: questa è una citazione del Salmo 106, il cantico è un intarsio di citazioni anticotestamentarie. La salvezza è criterio che ci consente di reinterpretare tutta la storia del passato, è la storia impostata a partire da delle promesse che adesso si sono compiute: salvezza dai nostri nemici.
I “nemici” compaiono qui nel cantico. I “nemici” compaiono in lungo e in largo nel libro dei Salmi. Li incontriamo tanto spesso e qualche volta ci sentiamo un po’ imbarazzati. Possibile che ci siano tanti nemici e che sbucano in tutti gli angoli e ce li troviamo sempre tra i piedi? Vorremmo insomma affrontare il cammino della vita cristiana, almeno il cammino della preghiera in modo un po’ più pacifico, un po’ più disinvolto, un po’ più amichevole e senza inimicizie. E lì, invece, nemici da tutte le parti. Per “nemici” bisogna intendere situazioni di fatto dalle quali noi comunque non possiamo prescindere, ossia i limiti della nostra condizione umana che comunque ci contengono, ci stringono: limiti di ordine fisico, psichico, emotivo; limiti nel tempo e nello spazio; limiti nelle relazioni, in cui certamente sono implicati anche gli altri, relazioni di tipo familiare, sociale, politiche. Limiti, insufficienze, slittamenti, regressioni, contraddizioni: i nostri “nemici”. Io sussisto nel tempo e nello spazio, ma il tempo e lo spazio che mi definiscono e mi delimitano. La storia a cui appartengo, la lingua che parlo, la cultura di cui sono impregnato: tutti limiti. Ebbene, quando si parla della salvezza dai nostri “nemici”, vuol dire che non sono più i miei limiti che mi definiscono. I limiti ci sono, certo, ma io non sono più prigioniero dei miei limiti: salvezza.
Terza strofa: vv. 72-75.
«Egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre».
Tutto questo già lo sappiamo, è la storia della salvezza già impostata fin dall’inizio, mediante il dono delle promesse: Abramo, i Patriarchi, e poi ecco lui si è ricordato, lui ha portato a compimento. Il giuramento, la promessa «di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni».
il cantico: liberàti dalla paura della morte
Qui Zaccaria sta considerando il nemico per eccellenza: quel limite che contiene tutti i limiti, che li sintetizza tutti, che li attrae a sé, li sottolinea, li esalta, in modo definitivo, quel limite è la morte. Non soltanto la morte come scadenza ultima che sta dinanzi a noi, ma la morte in quanto anticipata dalla nostra paura di morire. La nostra paura di morire fa di noi dei prigionieri, degli ambulanti che sono preda dei nemici e del nemico che incalza e domina la scena della nostra cosiddetta vita: abbiamo paura di morire. Lo dice san Paolo in 1Cor 15: è l’ultima nemica, la morte. E’ la nemica estrema, è la nemica che ricapitola tutte le altre forme di inimicizia, è il limite per eccellenza: la mia morte. Ed è un limite anticipato nella paura di morire che diventa condizionamento intrinseco di quelle che pure sono le manifestazioni vitali della mia esistenza. Ma già è come se l’ombra della morte mi intrappolasse.
Ecco qui esplicitato il contenuto di quella salvezza che è effetto della visita: la liberazione dalla morte, liberazione dalla paura di morire, il giuramento «di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza paura (aphobos, è un avverbio), in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni». Noi non siamo più trattenuti dalla paura, siamo ormai sottratti alle grinfie della morte, che sta dinanzi a noi, ma già incalza dall’interno il procedere dei nostri giorni. Noi siamo liberati dalla paura per servirlo, e qui il verbo ha un significato liturgico nella traduzione in greco dell’AT.
E’ interessante che questo verbo compaia adesso sulla bocca di Zaccaria, che è un esperto a riguardo di queste cose. Noi siamo messi in grado di avvicinarci a Lui, di superare le distanze: in santità e giustizia, al suo cospetto per tutti i nostri giorni. Siccome siamo liberati dalla paura, possiamo farci avanti. Questo è il gesto che è prerogativa del sacerdote: si fa avanti.
Questo gesto viene prospettato da Zaccaria a tutti coloro che sono stati salvati in seguito alla visita di Dio. Siamo stati liberati dalla paura di morire e siamo messi nella condizione di comparire dinanzi alla presenza del Santo e del Vivente per servirlo. Questa nostra esistenza umana, limitatissima con tutte le contraddizioni che porta in se stessa, con tutti i compromessi da cui non veniamo mai fuori interamente, questa nostra esistenza umana è liberata e noi ne possiamo fare un’offerta gradita al vivente, al Santo, per servirlo senza più paura, in santità e giustizia, al suo cospetto per tutti i nostri giorni. Questo è il tema tipico della teologia sacerdotale: comparire davanti alla sua presenza, al suo cospetto, varcare il velo per comparire là dove il Santo ci attende. Ed è Lui stesso che ci viene incontro, ed è lui stesso che irrompe con tutta la ricchezza gratuita della sua benedizione.
E qui il perno centrale:
«E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo».
Zaccaria si sofferma a considerare il bambino che è nato da otto giorni. E’ Giovanni Battista, sarà il profeta per antonomasia. E’ interessante questa identificazione tra il bambino e il profeta: i bambini sono profeti, sono i primi a reagire, a percepire le cose nuove, a intuire che una visita è in corso. Ed è anche vero che se non ci sono tanti bambini in circolazione, questo inevitabilmente vuol dire che ci sono pochi profeti. Viceversa il profeta è sempre bambino. E’ nella sua apertura di cuore pronto ad accogliere la visita. Giovanni Battista viene descritto in questo modo.
vv.76-77: «E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati».
Adesso i verbi sono al futuro. Chi è il profeta? Profeta è colui che va incontro al Signore. Non è precursore nel senso che lo precede, che gli fa strada, ma nel senso che gli va incontro. Il profeta è colui che trascina dietro di sé un popolo di peccatori, in questo senso è veramente consolatore per antonomasia; è colui che spinge, che si prende cura di testimoniare a tutto un popolo come la strada sia aperta per andare incontro al Signore. Non c’è motivo per restare a distanza, per temere l’incontro. Il suo compito è “dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati». Il profeta è nel popolo per testimoniare che la strada è aperta in vista di quell’incontro che realizza la remissione dei peccati.
La Santa famiglia con Santa Elisabetta e San Zaccaria
il cantico: per viscera misericordiae
Seconda strofa: vv. 78-79: «grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace».
L’ultima parola del cantico è il termine pace, che è anche l’ultima parola della benedizione sacerdotale in Numeri 6. E’ come se Zaccaria, avendo ritrovato l’uso della parola, avesse veramente ritrovato il gusto della sapienza e della benedizione sacerdotale: cantando così e profetando così, sta realizzando in pienezza il suo ministero sacerdotale.
La prima strofa ci presentava il profeta come colui che trascina dietro a sé un popolo di peccatori, perché la remissione dei peccati è già realizzata e nessuno può tenersi in disparte, tenersi indietro, rifiutare l’incontro. E adesso dice: per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre. Espressione interessante. In greco dice: dia splankna eleous, la traduzione in latino alla lettera diceva: per viscera misericordiae, attraverso viscere di misericordia. Per cui egli verrà a visitarci dall’alto come un sole che sorge. Attenzione a questo “dall’alto”: è dall’alto, ma anche dal profondo, dal di fuori, ma anche dal di dentro. Che vuol dire dall’alto? Da destra, da sinistra? Dal passato, e dall’avvenire, viene a visitarci, come sole che sorge. Perché? Perché il profeta sta spiegando al popolo che il cammino nel quale siamo impegnati è l’attraversamento di un grembo, il grembo della misericordia di Dio. Non è soltanto un incontro che si prospetta dinanzi a noi peccatori che possiamo farci avanti perché c’è colui che viene e che ci ha rimessi i peccati.
Noi ci guardiamo attorno, guardiamo al passato e guardiamo all’avvenire, guardiamo fuori e guardiamo dentro di noi, guardiamo ai lontani e guardiamo ai vicini, guardiamo a quelli che fanno parte di noi, guardiamo a noi stessi e in tutte le direzioni, dovunque guardiamo il nostro sguardo, comunque ci muoviamo, in qualunque direzione ci smarriamo e precipitiamo, noi cadiamo nel grembo della misericordia. Noi stiamo attraversando il grembo. Anzi, se abbiamo l’impressione di essere ancora la buio è perché non siamo ancora nati; se urtiamo contro una barriera, è la parete del grembo; e se stiamo inciampando, è perché stiamo ruzzolando come il piccolo Giovanni nel grembo di sua madre. E la madre non ha alcun dubbio: quel razzolamento del bambino nel suo grembo è espressione di una gioia profetica.
Noi stiamo attraversando le viscere della misericordia, ci stiamo dentro: terreno sotto i miei piedi, soffitto sopra di me. Il cielo, l’abisso più profondo. Da dove venga e dove va, fuori e dentro, noi stiamo percorrendo l’itinerario della creatura che viene alla luce e il grembo che già ci avvolge, ci contiene, che già ci fa vivere e che già preme su di noi per farci nascere, è il grembo della misericordia, il mistero del Dio vivente. Così verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre. In questo sta il significato della uscita dalle tenebre, dall’ombra della morte per dirigere i nostri passi sulla via della pace. E’ la luce del giorno che sorge per non tramontare mai più ed è quella luce che sorge per spiegarci come le tenebre erano già in modo straordinariamente fecondo e pacificante rivelazione della misericordia eterna del Dio vivente.
Santuario della Visitazione
Sul muro posto di fronte a questa facciata sono esposte due versioni del Magnificat
in lingua ebraica
e in lingua italiana
Monastero francescano di S. Giovanni Battista.
Sul muro posto di fronte a questa facciata sono collocate le versioni
nelle varie lingue del Cantico di Zaccaria, il Benedictus (Luca 1,57-80).
IMMAGINI di Claudio Elidoro
http://digilander.libero.it/elidoro/terrasanta/ainkarem_2.html
E’ autorizzato il libero uso di queste immagini per fini non commerciali.
Nel caso di utilizzo è comunque gradita la segnalazione della provenienza.
Filed under: Sordomutismo- terapia