01 – RIFLESSIONI SUL SALMO MISERIRE – Il punto di partenza – C.M. Martini

LA SCUOLA DELLA PAROLA


RIFLESSIONI SUL SALMO “MISERERE”

OSCAR MONDADORI – 1985

Una riflessione parallela

Devo confessare che ho letto queste pagine del Cardinale Martini con una sottile invidia, quella di non sapere e potere parlare ai giovani che passano per il mio Tribunale con le parole, i concetti, il fascino dell’emozione, che egli ha usato nei suoi incontri di preghiera in Duomo.
Ma me ne son fatto subito una ragione, visto che facciamo due mestieri diversi, ognuno con le proprie parole, concetti, emozioni; ed il mio, di mestiere, è di quelli in cui occorre sempre pensare « alle cose del mondo », per usare una frase ignaziana citata dal Cardinale, anche quando son cose che lasciano vuoti e delusi, perché in esse ci sono poca profondità e poco spirito.

Pur però nella diversità dei mestieri, la lettura di queste pagine mi ha molto «intrigato », quasi provocato. Certo non si può confondere l’itinerario penitenziale di un’anima religiosa con il faticoso itinerario – di controllo, di rieducazione, di reinserimento sociale – dei tanti giovani ,devianti che affollano le nostre anonime, ma violente città. Tuttavia alcuni spazi di riflessione sono simili, o almeno spingono a considerazioni convergenti.

Parto dal concetto di base: il « peccato », per la morale religiosa; il « reato », o il comportamento deviante minorile, per il lavoro di noi giudici. Sembrano due cose lontane, regolate da leggi diverse. Ma poi leggo che il Cardinale, rifacendosi al testo originale ebraico del Salmista, usa per esprimere il concetto di base tre parole diverse («cancella la mia ribellione, lavami da ogni disarmonia; tirami fuori da ogni smarrimento»); ed allora io mi ritrovo davanti quasi spontaneamente, con emozione, le facce di tanti giovani che arrivano in tribunale. Non ritrovo infatti in esse coscienza del reato (e certo neppure senso del peccato), ma certo ritrovo ribellione o disarmonia o smarrimento o tutte le tre cose insieme. E mi colpisce sempre questa dimensione molto umana, di umana fragilità e spesso di umana inconsistenza, che sta dietro il comportamento deviante.

È naturale di conseguenza che noi giudici minorili (come su altri versanti la pastorale religiosa) si abbia consapevolezza della « personalizzazione della colpa », di comprendere cioè che dietro il comportamento deviante c’è sempre una persona, la ribellione o lo smarrimento di una persona; e che nostro compito di fondo è di ridare forza alla persona che abbiamo di fronte, sottraendola alla ribellione, allo smarrimento, alla disarmonia interiore in cui è per tanti oscuri motivi imprigionata.

Naturalmente per far questo noi giudici abbiamo strumenti diversi da quelli della Chiesa, pur nella tendenziale omogeneità degli obiettivi. Lavoriamo in parte sulle leggi, in gran parte sullo sforzo di far crescere nei giovani la maturazione umana e morale. Il Cardinale, dal suo punto di vista religioso, vede tale maturazione come un « presupposto» essenziale (un « segno di libertà in cammino») dell’itinerario penitenziale e di purificazione cristiana; per noi giudici il presupposto basta, è il punto di arrivo. Dobbiamo cioè concentrare tutti gli sforzi (nostri e dei nostri collaboratori, specie degli operatori sociali e psicopedagogici che lavorano con noi) sulla maturazione psichica e morale dei giovani, in modo che la loro vita non abbia disarmonie, smarrimenti, ribellioni. Siamo, come spesso amiamo dire, dei «promotori di diritti »; ed il primo fondamentale diritto che dobbiamo promuovere nei giovani che arrivano a noi è proprio quello della maturazione della loro personalità, della loro « persona ».

E dobbiamo farlo, si badi bene, senza il passaggio del pentimento reale, ma spesso perdonando come si trattasse di «perdono di un peccato originale », perdono donato senza subordinarlo ad un dialogo di vera riconversione. È questo un punto che ritengo importante in questa riflessione parallela che sto qui brevemente conducendo. Mentre noi giudici, in specie minorili, tendiamo ad affrontare le devianze non stigmatizzando, quasi passando oltre, il Cardinale, in una delle sue riflessioni, dice cose molto belle sul pentimento cristiano ed esclama: «Come è diversa questa realtà da quella dei cosiddetti “pentiti ” giudiziari! Il pentimento giudiziario può certamente produrre vantaggi umani per la collaborazione a cui induce, ma non ha la forza di purificare la coscienza dal sangue versato. Il “pentito” dovrà ancora dire: Il mio peccato mi sta sempre dinanzi. A meno che non entri in quel misterioso processo di trasformazione del cuore umano che fa l’uomo totalmente diverso ».

Ho voluto trascrivere questo lungo brano non solo perché ha avuto echi giornalistici, ma perché si presta ad un approfondimento serio sul rapporto fra pentimento, rieducazione e reinserimento sociale. In esso infatti c’è la consapevolezza che il reinserimento è legato all’esser diversi e trasformati rispetto al momento del peccato o del reato; e che la trasformazione in uomo diverso passa attraverso un pentimento profondo, non superficiale o addirittura finto. Per la giustizia umana questa duplice consapevolezza è stata volontariamente messa nel cassetto, e non solo per i « pentiti » del terrorismo che collaborano, ma per tutti i giovani che passano nei nostri tribunali; non vogliamo stigmatizzarli, non calchiamo quindi la mano sul valore deviante del loro comportamento, non facciamo entrare nessuna « pena» (dolore, pentimento, penitenza, sanzione) nell’azione giudiziaria, concediamo loro il perdono (giudiziale) cercando quasi di non lasciar traccia del nostro intervento, se non di quello di monitoraggio educativo e sociale.

Come ho detto sembriamo più regalare il perdono di un peccato senza colpe volontarie (e quindi senza esigenze di cambiamento ed interiore trasformazione) che amministrare giustizia; siamo forse più misericordiosi dell’Eterno Padre.

Devo dire che questa traslazione laica della misericordia divina mi ha sempre dato un po’ di vertigine. L’onnipotenza è una grande tentazione e non credo che i giudici siano i suoi migliori sacerdoti, anche quando la traslazione laica della misericordia (il perdono senza cambiamento interiore) è fatta a fin di bene, di non stigmatizzazione. Non credo, in altre parole, anche se posso apparire un po’ controcorrente rispetto a molti miei colleghi, che noi giudici si possa sorvolare su due elementi fondamentali: la specificità del comportamento deviante e del suo riconoscimento; l’inizio di un cambiamento psicologico ed umano del giovane che mandiamo assolto o perdonato.

Non possiamo sorvolare sulla specificità del comportamento deviante e del suo riconoscimento non perché, come dice il Cardinale, occorre sempre una «confessione specifica» per un buon esame di coscienza e per un vero itinerario penitenziale, ma perché il giovane va educato a mettere a fuoco le motivazioni e le caratteristiche dei propri comportamenti, senza la pericolosa sensazione di poter restare in continua ambiguità non solo sul giudizio di valore sui propri comportamenti, ma addirittura sulla concreta specifica configurazione di essi.

 E non possiamo al tempo stesso sorvolare sull’esigenza di un inizio di cambiamento del giovane che mandiamo assolto o perdonato giacché noi non elargiamo una grazia o uno « spirito» che si poggia dove il vento vuole; ma cerchiamo di non stigmatizzare il giovane deviante perché possa vivere meglio una vita che speriamo diversa dall’attuale. Ma perché il giovane voglia effettivamente una vita diversa, dobbiamo cercare di capire se e in quale misura si è formata al suo interno una diversa logica di valutazione, un cambiamento dei suoi pensieri, una più alta capacità di padroneggiamento delle cose. In termini conclusivi, anche se in parole diverse, anche il nostro rapporto di giudici minorili con i giovani deve avere carattere di specificità e motivazioni di cambiamento; altrimenti anche al nostro lavoro rischia di mancare anima.

Come si vede, la lettura di un testo squisitamente religioso quale quello del Cardinale Martini riesce a provocare riflessioni, se non convergenti, almeno parallele, in una testa e in un mestiere molto diversi. Certo tanti atteggiamenti e tante prospettive culturali rimangono diversi, ma i punti di riferimento sono più comuni di quanto si creda. E ciò probabilmente è dovuto al fatto che chi lavora sui giovani si trova in fondo in una posizione uguale per tutti i mestieri: la posizione di ricercare « la verità nell’oscuro» (per usare una bella frase di Martini); e la posizione di chi più o meno consapevolmente è di fronte ad un impegno di «creazione» (anche la rieducazione di un giovane deviante è in parte creazione).

Il Cardinale, commentando un passo del Salmo 50, mette insieme le parole «crea in me» con quelle parallele « rendimi la gioia »; credo che ogni giudice minorile di fronte ai suoi «casi» vorrebbe essere capace di creare cambiamento nei singoli giovani e di ridare loro il sorriso, di eliminare cioè lo smarrimento, la disarmonia, la ribellione che l’hanno portato alla devianza.

Adolfo Beria di Argentine
Presidente del Tribunale dei Minori – Milano

Milano, giugno 1984

 

LA SCUOLA DELLA PAROLA

Il volume contiene le meditazioni della «Scuola della Parola» tenuta in Duomo dal Cardinale Carlo M. Martìni, Arcivescovo di Milano, nell’anno 1983-84. Le meditazioni, trascritte dal registratore, non sono state rivedute dall’Autore.

I « Giovedì in Duomo », organizzati dalla Gioventù di Azione Cattolica ambrosiana, costituiscono ormai uno dei momenti più forti e significativi dell’esperienza del Cardinale Martini insieme ai giovani.

Salmo 50

Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nel tuo grande amore cancella il mio peccato.

Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.
Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.

Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ ho fatto;
perciò sei giusto quando parli,
retto nel tuo giudizio.

Ecco, nella colpa sono stato generato,
nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e nell’intimo m’insegni la sapienza.

Purificami con issòpo e sarò mondato;
lavami e sarò più bianco della neve.
Fammi sentire gioia e letizia,
esulteranno le ossa che hai spezzato.

Distogli lo sguardo dai miei peccati,
cancella tutte le mie colpe.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.

Non respingermi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia di essere salvato;
sostieni in me un animo generoso.

Insegnerò agli erranti le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.
Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza,
la mia lingua esalterà la tua giustizia.

Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode;
poiché non gradisci il sacrificio
e se offro olocausti, non li accetti.

Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore affranto e umiliato
tu, o Dio, non disprezzi.

Nel tuo amore fa’ grazia a Sion,
rialza le mura di Gerusalemme.

Allora gradirai i sacrifici prescritti,
l’olocausto e l’intera oblazione,
allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.

 

1

Il punto di partenza

Dal Vangelo secondo Luca: 15, 1-10

Si avvicinarono a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro ». Allora Gesù disse loro questa parabola: « Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.

O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduto. Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte ».

 

Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nel tuo grande amore cancella il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.

Desidero ringraziare tutti voi perché avete, ancora una volta, accettato l’invito a questo appuntamento per pregare, ascoltare e meditare insieme la Parola di Dio.
Il tema su cui ci proponiamo di riflettere quest’anno, facendoci aiutare dalla lettura del Salmo « Miserere », si può intitolare: cammino di riconciliazione.

La scelta del tema

Alla scelta del tema mi hanno guidato diversi motivi.
Siamo nell’Anno Santo promulgato da Giovanni Paolo II nel marzo scorso e che si concluderà nella Pasqua del 1984. L’Anno Santo è propriamente un appello a compiere l’itinerario della riconciliazione.
Si è concluso, pochi giorni fa, il Sinodo mondiale dei Vescovi su: «Riconciliazione e penitenza nella missione della Chiesa». Ho potuto vivere da vicino i lavori del Sinodo e mi hanno colpito soprattutto tre sottolineature che vi sono emerse:

1. C’è un nesso inscindibile tra la riconciliazione sociale e politica e la conversione del cuore. Questa persuasione è venuta crescendo in noi e l’abbiamo approfondita con particolare attenzione. Non ci può essere una vera, duratura, stabile riconciliazione sociale e politica tra gli uomini, i popoli, le nazioni, senza conversione del cuore. Come pure non c’è conversione del cuore – e quindi anche cammino di penitenza cristiana – senza che ci sia un irradiamento, una risonanza nella riconciliazione sociale e politica.

2. Esiste un itinerario penitenziale. La conversione del cuore non è una realtà semplice, puntuale: comprende delle tappe che non si possono disattendere o saltare a piacere. C’è un itinerario che è fatto secondo il cuore dell’uomo e che noi siamo invitati ad imparare, per ripercorrerlo.

3. C’è una missione ecclesiale verso il mondo. Essa grava su di noi e si precisa, prendendo contorni via via più chiari, mentre percorriamo il cammino penitenziale. Attraverso questo cammino chiediamo a Dio di renderci maggiormente attenti e responsabili circa i problemi della riconciliazione umana e cosmica.

Per tutti questi motivi mi è sembrato importante riflettere quest’anno, insieme con voi, sul cammino di riconciliazione.

Il Miserere

Il Salmo 50 (o 51 secondo l’enumerazione ebraica) è di una ricchezza inesauribile.
Esso attraversa tutta la storia della Chiesa e della spiritualità: costituisce lo schema interiore delle Confessioni di Agostino; è stato amato, meditato, commentato da Gregorio Magno; è divenuto segnale di ardente difesa dell’immagine di Dio nelle infuocate prediche del Savonarola e motto di speranza dei soldati di Giovanna d’Arco; è stato studiato intensamente da Martin Lutero che vi ha dedicato pagine indimenticabili; è lo specchio della coscienza segreta dei personaggi di Dostoevskij e una chiave di lettura dei suoi romanzi.
Esso è quindi il Salmo dei grandi uomini di Dio. Musicisti come Bach, Donizetti e altri più vicini al nostro tempo l’hanno ripensato in musica. Celebri pittori l’hanno descritto con meravigliose incisioni.
È soprattutto il salmo che ha accompagnato le preghiere, le lacrime, le sofferenze di tanti uomini e di tante donne che vi hanno trovato conforto e chiarezza nei momenti oscuri e pesanti della loro vita.
Il Miserere è la preghiera dell’uomo di sempre, appartiene alla storia dell’umanità, non solo alla storia dell’Oriente ebraico e della civiltà occidentale cristiana. Meditandolo noi entriamo nel cuore dell’uomo e nel cuore della storia dell’umanità.

Possiamo ripetere, facendola nostra, la preghiera di Charles de Foucauld:

Grazie, mio Dio, per averci dato questa divina preghiera del Miserere. Questo Miserere che è la nostra preghiera quotidiana. Diciamo spesso questo salmo, facciamone spesso la: nostra preghiera; esso racchiude il compendio di ogni nostra preghiera: adorazione, amore, offerta, ringraziamento, pentimento, domanda. Esso parte dalla considerazione di noi stessi e della vista dei nostri peccati e sale fino alla contemplazione di Dio, passando attraverso il prossimo e pregando per la conversione di tutti gli uomini.

L’iniziativa divina

I primi versetti del Salmo 50 ci introducono con que ste parole: .

Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nel tuo grande amore cancella. il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.

Il punto di partenza del cammino di conversione del cuore è l’iniziativa divina di misericordia: Dio è sempre il primo a dare la mano, il piatto della bilancia pende sempre dalla parte della sua bontà.
I vocaboli che la versione italiana usa per indicare ciò che l’uomo ha fatto – il peccato, le colpe – non rendono adeguatamente la lingua originale. Infatti, nel testo ebraico sono tre parole diverse che andrebbero lette così: «…cancella la mia ribellione, lavami da ogni mia disarmonia, mondami, “tirami fuori” da ogni mio smarrimento ». Il peccato è uno sbaglio fondamentale dell’uomo, una distorsione, una disarmonia, una ribellione, una volontà di progetto alternativo e contrastante il progetto di Dio.


Alle parole che indicano lo sbandamento dell’uomo fanno riscontro tre appellativi divini: « Pietà… misericordia… amore ». C’è il peccato dell’uomo, pur se declinato con termini diversi, e ci sono tre attributi di Dio. Questa sproporzione indica che l’insistenza non è sull’uomo peccatore, sulla povertà di ciò che noi siamo, ma è sull’infinità di Dio.
Cerchiamo di riflettere brevemente sui vocaboli che definiscono il Dio della misericordia e della bontà.

Chi è Dio

La prima parola è racchiusa in un verbo ma, in realtà, è la radice. di un sostantivo. Quello che in italiano traduciamo con: « Pietà di me, o Dio », in ebraico è semplicemente: «Grazia, fammi grazia, riempimi della tua grazia».
Si chiede dunque a Dio che sia per noi grazia, che prenda interesse a chi sta male, a chi si trova in difficoltà, che ci dia una mano. È l’esperienza di Maria che canta: « Signore, tu hai guardato alla povertà della tua serva e mi hai fatto grazia, mi hai riempito della tua grazia».
Dio è dono gratuito, è l’essenza della gratuità. Quando noi diciamo che Dio non può aver alcun interesse a pensare a noi, ad occuparsi di noi, riveliamo di avere un’idea falsa di Dio. Abbiamo di Lui, per dirlo con una parola tecnica, un’idea farisaica, che cerca cioè di capire Dio partendo dalle categorie del calcolo.
Dio gode nel poter donare qualcosa a chi ha bisogno di essere sostenuto, a chi non si sente nessuno, a chi si sente in basso. Egli vuole versare il suo valore in noi e non giudica il nostro.

La seconda parola è « misericordia ». È interessante notare che l’espressione è: « secondo la tua misericordia » e non « nella tua misericordia» o « perché sei misericordioso ». Il salmista sottolinea la proporzione infinita, che l’uomo intuisce senza comprenderla, della misericordia divina. .
In ebraico il termine è hésed ed ha una lunga storia ricca di significato. Indica, infatti, l’atteggiamento tipico di Dio verso il suo popolo, che comporta lealtà, affidabilità, fedeltà, bontà, tenerezza, costanza nell’attenzione e nell’amore.
Si potrebbe anche tradurre con « gentilezza», nel senso di tenerezza, che non si smentisce, che non svanisce mai.
Dio è colui che io non conosco, ma per il quale sono importante, per il quale è importante – secondo la parola di Gesù – ogni capello del mio capo. Nulla avviene in me senza un’attenzione della tenerezza di Dio.
Noi traduciamo hésed con « misericordia» perché la gentilezza di Dio si fa più tenera quando noi siamo deboli, fragili, peccatori, incostanti, strani, poco attraenti e forse pensiamo che Dio fa bene a non ricordarsi di noi, farebbe bene a castigarci.

La terza parola è « nel tuo grande amore ». In ebraico si dice «rahammìm» e significa «il cuore, le viscere». È un vocabolo profondamente materno e indica la capacità di portare qualcuno dentro, di immedesimarsi in una situazione così da viverla nella propria carne, da soffrirne o goderne come di cosa propria.
Questo attributo di Dio è qualcosa che può capire chi ha amato un’altra creatura con un amore totale, viscerale, coinvolgente, appassionato. Potremmo quasi tradurre: « secondo la tua grande passione per l’uomo, abbi misericordia, o Dio ».

Questi tre attributi di Dio ci danno il tono del Salmo 50, che è un inno a incontrare Dio così com’è. Partendo dalla contemplazione dell’iniziativa divina per l’uomo, ci invita prima di tutto ad avere una grande e giusta idea di Dio.

Domande per noi

Nascono per noi alcune domande.

Ho una giusta idea di Dio?

Nel cap. 15 del Vangelo secondo Luca, leggiamo che « i farisei e gli scribi mormoravano» di Gesù perché riceveva e mangiava con i peccatori (cfr. Lc. 15, 1.10). È questo il tipico atteggiamento di chi non ha una giusta idea di Dio, di chi considera Dio vendicativo, permaloso, irritabile. E spesso, non accettando noi stessi, finiamo col credere che Dio non ci accetta fino in fondo. È vero che a volte ostentiamo una grande sicurezza, quasi una spavalderia, asserendo che non abbiamo alcun bisogno di Dio. Tuttavia in altri momenti sorge in noi quella profonda insicurezza che è alla radice di ogni uomo e che è il segno della sua creaturalità. Nell’ambito religioso essa si esprime appunto con il senso di un Dio un po’ cattivo, di un Dio che non mi dà giustizia, che richiede troppo da me, che mi ha messo in circostanze troppo difficili oppure che è troppo difficile Lui stesso e non si lascia raggiungere.
Al fondo di tutti questi sentimenti c’è, probabilmente, la persuasione che Dio non mi ama così come sono, che non è contento di me.
La grande rivelazione del Salmo 50 è, invece, che Dio mi ama come sono, che mi accetta fino in fondo, che è adesso gentile con me, cortese, attento, premuroso e tenero.
Tutto questo l’ha compreso bene il pastore della parabola lucana là dove si legge: «Ritrovata (la pecora perduta), se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta» (15, 5-6). L ‘ha compreso la donna che, ritrovata la dramma smarrita, invita le amiche e dice: « Rallegratevi con me» (15, 9).
Gesù conclude la parabola: « Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte» (15, 10).
Ciascuno di noi dovrebbe poter dire: Dio ha gioia in me, ha gioia per me, io rappresento qualcosa di molto importante per lui.
Ecco che cosa significa avere un’idea giusta di Dio, partire col piede giusto nel cammino della riconciliazione.
Seconda domanda:

Abbiamo già detto che i farisei e gli scribi che mormoravano di Gesù avevano un’idea sbagliata di Dio.
Emerge in noi, con frequenza, qualche lamentela profonda, che magari non osiamo dire a nessuno e di cui ci vergogniamo?
Ci ribelliamo contro Dio, abbiamo dentro di noi qualche conto aperto con Lui?

Terza domanda: che cosa posso fare per correggere l’idea sbagliata che ho di Dio? Per correggere quei sentimenti deformati della mia coscienza a suo riguardo?

Uno dei modi è certamente l’ascolto della sua Parola, la lettura meditata della Scrittura che riporta a verità i sentimenti spesso rattrappiti nell’espressione spirituale della lode a Dio. Cercherò allora di tradurre le parole del Salmo: «Fammi grazia, o Dio, secondo la tua grande passione per l’uomo. Nella tua tenerezza cancella le idee sbagliate che ho su di te! Mi dispiace, o Padre, di averle coltivate: Tu solo puoi darmi l’idea giusta perché come posso conoscerTi se non Ti riveli e se il Tuo Figlio non apre in me la conoscenza di Te? ».

Infine, l’ultima domanda: ho qualche idea sbagliata sul prossimo? Come posso fare per correggerla?

L’idea sbagliata che possiamo avere su Dio si ripercuote in idea sbagliata sul prossimo. Questo avviene non quando lo critichiamo, perché qualche volta il prossimo è criticabile (lo siamo un po’ tutti!), ma quando ci lamentiamo all’infinito di qualcuno, quando non ci va mai bene una persona o una situazione. Allora vuol dire che non abbiamo assunto l’atteggiamento giusto, quello che Dio ha verso di noi e che è comprensivo, creativo, capace di guardare con occhio nuovo, tenero, positivo, la situazione.


Spesso si creano tra le persone dei blocchi emotivi per cui tutto ciò che un altro fa è sbagliato: talora le nostre stesse confessioni sono lamentele su altri. Se avessimo un’idea giusta di Dio, essa opererebbe in noi in modo di farei guardare i difetti degli altri con occhio diverso, capace di abbracciarli positivamente in una visuale creativa, come Dio fa con noi.
Perché non imitare Dio mettendoci alla sua scuola? Invece di domandarci all’infinito perché l’altro mi ha trattato casi, perché mi ha fatto quella tal cosa, proviamo a chiederei: che cosa posso fare per lui, come posso cambiare il cuore, l’animo, la vita, il sorriso di questa persona?

Ho qualche idea sbagliata su Dio? Lo incontro così com’è? È importante questa prima domanda perché chi non ha una giusta idea di Dio non ha neanche una giusta idea di sé, né degli altri.

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