LE DONNE DELLA PASSIONE DI GESÙ – Elena Bosetti
LE DONNE DELLA PASSIONE DI GESÙ
di Elena Bosetti
Le donne, diversamente dai discepoli, non abbandonano Gesù nella sua passione. A partire da colei che a Betania versa tutto il suo profumo su di lui, gesto che il Maestro interpreta in diretto collegamento con la propria sepoltura; alle figlie di Gerusalemme che lo accompagnano sulla via dolorosa e ne fanno il lamento, alle donne sotto la croce con sua madre, le medesime che osservano attentamente il luogo della sepoltura.
Anche altre donne, non appartenenti alla cerchia del Maestro, giocano un ruolo nella storia della passione. Penso alla serva del sommo sacerdote, portinaia dallo sguardo indagatore che interpella Pietro; alla moglie di Pilato, coscienza critica che invita a riflettere e astenersi dall’iniqua sentenza. Se lasciamo parlare i Vangeli anche nei piccoli dettagli, queste figure appaiono tutt’altro che irrilevanti.
Oserei dire che l’animo di Gesù è capito piuttosto dalle donne. A loro il Maestro non ha bisogno di rivelare il come e il quando della sua passione. Esse intuiscono e gli stanno vicino come possono, al di là di ogni pretesa, con vero coraggio, amore e compassione.
“LASCIATELA STARE”: IL PROFUMO, LA MORTE E L’AMORE
Nel vangelo di Matteo Gesù dice apertamente ai suoi discepoli: “Tra due giorni è Pasqua e il Figlio dell’uomo viene consegnato per essere crocifisso” (26, 2). Nessuna parola da parte dei discepoli, come se nessuno avesse udito. Pronta rimozione della notizia dolorosa. E mentre nel palazzo del sommo sacerdote i capi del popolo si incontrano per decretare la sua morte, Gesù si ritira a Betania in casa di amici. E qui ha luogo una scena straordinaria. Ne è protagonista una donna (anonima in Marco e Matteo) che senza dire parola compie un gesto estremamente eloquente: versa sul capo di Gesù tutto il suo preziosissimo profumo “di nardo genuino” e infrange perfino il vasetto d’alabastro che lo conteneva (Mc 14, 7). Si comporta come il buon Pastore che nel contesto del banchetto versa unguento profumato sulla testa del suo fedele: “cospargi di olio il mio capo” (Sal 23, 5).
Nel quarto vangelo quella donna è Maria, la sorella di Marta e di Lazzaro. Giovanni ne fa la figura agapica per eccellenza, contrapposta a quella di Giuda. Maria versa il profumo sui piedi del Maestro (come la peccatrice di Lc 7) e, senza curarsi di ciò che dicono i presenti, accarezza quei piedi, li bacia e li asciuga coi suoi lunghi capelli. E Giuda grida allo spreco: quel profumo poteva essere venduto per “trecento denari”! Paradossale. Per trenta denari lui vende il Maestro.
Il contrasto non poteva essere più stridente: se Maria è figura amante, Giuda è decisamente il suo contrario. Ma non fanno migliore figura gli altri discepoli, lasciati dal quarto evangelista volutamente nella penombra. Matteo invece non fa mistero, erano tutti indignati e dicevano: “Perché questo spreco? Quest’olio si sarebbe potuto vendere caro e dare il denaro ai poveri” (26, 8-9). Così la sala del convito diventa sala del conflitto, e proprio a causa di un gesto d’amore. Impressionante grettezza.
Ai discepoli Gesù aveva appena confidato l’imminenza della sua fine; la donna di Betania invece, cui nulla fu detto, intuì: e “fece ciò che poteva” (Mc 14, 8). Non si cura delle indignazioni maschili. Ma Gesù si espone in sua difesa. Egli apprezza tutto quel profumo e i sentimenti che esprime. Non solo, ne interpreta il senso richiamando alla memoria ciò che i discepoli avevano rimosso: “Gettando questo profumo sul mio corpo, l’ha fatto per seppellirmi” (Mt 26, 12).
L’evangelista Marco ha un’espressione meno cruda: “ha fatto ciò che poteva; ha anticipato l’unzione del mio corpo per la sepoltura” (Mc 14, 8). Profumo, amore, morte. Il collegamento con la sepoltura è presente anche nel quarto vangelo dove il Maestro prende le difese di Maria e dice a Giuda: “Lasciala stare; lo ha conservato per il giorno della mia sepoltura. Poiché i poveri li avete sempre con voi; me, invece, non mi avete sempre” (Gv 12,7-8). Gesù smaschera l’ipocrisia che vorrebbe contrapporlo ai poveri e conclude: “Dovunque il vangelo sarà predicato, in tutto il mondo, anche ciò che questa donna ha fatto sarà raccontato, in memoria di lei” (Mc 14, 9). Non si tratta solo di ricordare un gesto d’amore, ma il senso di quel profumo “sprecato” per il Signore. Senza nulla sottrarre ai poveri.
L’ASTUTA PORTINAIA E LA MOGLIE DI PILATO
Indubbiamente non erano tra le discepole di Gesù. Eppure queste due donne, giudea la prima, probabilmente romana e pagana la seconda, giocano egregiamente la loro parte nella storia della passione di Gesù.
Tipo sveglio la serva del sommo sacerdote. Non a caso faceva la “portinaia” (Gv 18, 16). È con lei che Giovanni prende accordi per far entrare anche Pietro nel cortile del palazzo di Anna, suocero di Caifa. Richiesta prontamente esaudita, il che evidenzia la notorietà e la stima di cui quel discepolo godeva nell’ambiente sacerdotale. La cosa ha insospettito gli esegeti. Come mai una donna, per di più “giovane” (Gv 18, 17) a fare da guardia alla porta del palazzo del sommo sacerdote? Non mancano insinuazioni: un uomo non avrebbe acconsentito alla richiesta di Giovanni, non avrebbe lasciato entrare nel cortile il suo amico… In altre parole, Giovanni ottiene il suo scopo perché alla porta c’era una donna! Alcuni privano la notizia di fondamento storico: impossibile che alla porta fosse di guardia una donna, tanto più se “giovane” ! Ma impossibile non è. Sappiamo infatti di altri casi, attestati da una fonte non sospetta, lo storico Giuseppe Flavio. Anche in At 12, 13 è una ragazza a far da portinaia nella casa dove si reca Pietro quando viene liberato dal carcere, e di lei ci viene detto anche il nome, Rode.
Una cosa appare chiara dai Vangeli: la giovane donna che presta servizio nel palazzo del sommo sacerdote ha uno spiccato spirito di osservazione. Se ha fatto entrare Pietro per “raccomandazione” ciò non le impedisce di essere critica. Le basta un colpo d’occhio e qualche battuta per inchiodare Pietro con una domanda bruciante: “Non sei anche tu dei discepoli di quest’uomo?” (Gv 18, 17). All’evangelista non interessa come reagì la giovane portinaia, se rimase persuasa o meno della risposta di Pietro. Ma immagino che il volto interrogante di lei rimase indelebile nella memoria dell’Apostolo che, preso da paura, non seppe dire la verità a una donna. E così rinnegò il Maestro.
Stando ai Vangeli, nessuna donna è complice della condanna del Giusto. Anzi, a sorpresa Matteo introduce nella scena del processo la nobile figura della moglie di Pilato. Mentre il procuratore sedeva in tribunale, lei gli mandò a dire: “Non aver nulla a che fare con quel giusto, perché oggi ho sofferto molto in sogno per causa sua” (Mt 27, 19).
Il “sogno” è un aspetto caro all’evangelista, basti pensare ai “sogni” di Giuseppe e dei Magi nei primi due capitoli di Matteo. Egli condivide con il mondo della Bibbia l’idea che il sogno può essere portatore di un messaggio divino, come avvenne per il patriarca Giacobbe e il figlio suo Giuseppe, il sognatore.
La moglie di Pilato rivela di aver “sofferto” a causa di Gesù, ma non dice come e perché. La sua comunicazione non è rivolta a soddisfare la curiosità, ma il discernimento. “Stai attento, dice in altre parole al marito, prendi le distanze, non ti immischiare nel complotto”.
Di più. Gli dice espressamente che quell’uomo è “giusto”. Perché Pilato non ascoltò sua moglie? Perché invece ascoltò la folla? Difficile entrare nel mistero della coscienza. Ma è comunque prezioso sapere, grazie a Matteo, che nel palazzo del potere romano ci siano, come già al tempo del Faraone in Egitto, donne che si dissociano dall’operato del padre o del marito. Donne che vanno contro corrente e danno a pensare.
“NON PIANGETE SU DI ME”: IL LAMENTO DELLE FIGLIE DI GERUSALEMME
Siamo sulla Via Dolorosa e qui è l’evangelista Luca che ci informa di un gruppo di donne che fanno il lamento sul condannato: “Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso le donne, disse: “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato. Allora cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! e ai colli: Copriteci! Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?” (Lc 23, 27-32).
Il lamento sul condannato fa parte del costume del tempo. Ma qui c’è di più. Si percepisce la risonanza della Scrittura e in particolare il lamento sul Figlio unico di cui parla il profeta Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito.
In quel giorno grande sarà il lamento in Gerusalemme” (Zac 12, 10-11). Gesù, benché in preda a sofferenze atroci, ha orecchi, occhi e cuore per queste donne. Egli ha sentito tra tante voci brutali quel coro femminile e si “volta”, le cerca con lo sguardo annebbiato dal sangue e rivolge loro parole di conforto. Ahimé, non sono parole come ameremo udire. Dio non consola con parole prese in prestito dal nostro cuore. Consola con la Parola sua, la sua promessa. Gesù infatti cita la Scrittura indirizzandosi a queste pie donne.
L’espressione “Figlie di Gerusalemme” ricorre soltanto qui nel Nuovo Testamento e sembra evocare il Cantico dei Cantici dove ricorre più volte. Lo Sposo, il Messia, è ora in cammino verso la prova suprema e il suo popolo lo rinnega. Ma queste donne si dissociano dalla folla accusante: il loro lamento è anche un grido di protesta e un implicito riconoscimento della regalità di Gesù, secondo il passo profetico di Zaccaria sopra citato.
Le parole che Gesù rivolge a queste donne sono generalmente interpretate come vaticinio della distruzione di Gerusalemme e suonano come un pressante invito alla conversione. Egli annuncia alle Figlie di Gerusalemme che se la città da loro rappresentata non accoglierà il suo appello alla conversione, altre e più amare lacrime dovranno versare. In tal senso il loro pianto richiama il suo stesso pianto per Gerusalemme (cfr. Lc 19, 41-44).
STAVANO PRESSO LA CROCE: LE FEDELISSIME E LA MADRE
L’ultimo quadro ci ambienta sotto la croce dove, al di là dei dettagli, i Vangeli, concordano su un dato fondamentale: la presenza di alcune donne salite con Gesù dalla Galilea. Loro non abbandonano il Maestro nel suo tragico destino. Lo seguono fin sotto la croce. Non possono certo cambiare gli eventi, ma stanno lì, non scappano. E quello starci è quanto mai eloquente. Matteo ricorda in primo piano Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe e la madre dei figli di Zebedeo (Mt 27, 56). Marco fa anche il nome
di Salome (15, 40). Sono loro le testimoni della pagina più sublime e drammatica della vita del Cristo. Sono loro che ne raccolgono le ultime parole.
Presenza silente e straziante, come quella della madre che vede il figlio torturato e non può fare alcunché in suo favore. Si compiono le parole di Simeone: “A te stessa una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2, 35). C’è forse un dolore più grande per una madre? Come sostenere senza morire un tale martirio? E la sua stessa presenza non aumenta forse la tortura del Figlio? Lui che ha rivolto attenzione alle pie donne non avrà parole per la Madre?
Nel racconto di Giovanni le sue ultime parole sono proprio per lei: “Donna, ecco tuo figlio”, e al discepolo amato: “Ecco tua madre” (Gv 19, 26-27). Una duplice consegna, del discepolo alla madre, della madre al discepolo amato. Nessuna parola da parte di Maria. Lei che a Gabriele aveva posto obiezione, ora semplicemente tace. L’ora del Figlio è giunta e con essa l’ora della Donna. Egli associa la Madre nel parto di una nuova umanità.
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